Luci e ombre de “La regina degli scacchi”: è davvero la serie rivelazione dell’anno?

Voto UVM: 3/5

Miniserie in 7 episodi uscita il 23 ottobre, scritta e diretta da Scott Frank e ispirata al romanzo “The Queen’s Gambit” di Walter Tevis, La regina degli scacchi è la produzione Netflix più chiacchierata ed esaltata da un mese a questa parte. Ma è davvero la rivelazione di cui tutti parlano?

La trama

Tra gli anni ’50 e ’60, Beth Harmon (Anya Taylor-Joy), rimasta orfana di entrambi i genitori, riuscirà a riscattarsi puntando tutto sulla passione per gli scacchi, hobby insolito per una donna dell’epoca. La serie ripercorre la sua storia partendo dalla infanzia tra luci e ombre nell’orfanotrofio: qui inizierà ad assumere tranquillanti, ma farà anche l’incontro decisivo della sua vita con il custode Shaibel (Bill Camp). Sarà lui a farle scoprire il “mondo racchiuso nelle 64 case” della scacchiera.

La piccola Beth assieme al custode Sheibel, figura centrale nella sua formazione. Fonte: AdHoc News Quotidiano.it

Il personaggio

Beth, bambina prodigio e poi affascinante regina degli scacchi, è un personaggio enigmatico e spigoloso, con cui lo spettatore fa fatica a simpatizzare: la sua è un’esistenza al di là del comune, sempre in bilico sugli estremi del successo e della tragedia, proprio come il bianco e il nero che si alternano sulla sua amata scacchiera. E poi c’è anche la personalità: determinata quasi sino alla presunzione, distaccata e composta, caparbia e restia ad accettare la sconfitta; Beth sembra crollare solo assieme alla torre nei rari casi in cui perde una partita e scomporsi poco invece di fronte agli altri drammi della vita.

Ma l’apparenza inganna: la rabbia che si porta dentro, come la avverte il suo mentore Shaibel, è invece tanta ed è proprio questa che la spinge ad avanzare verso la vittoria e a imporsi ai nostri occhi come un’icona di femminilità anche in un mondo prevalentemente maschile come quello degli scacchi.

Beth di fronte al campione internazionale Borgov (Marcin Dorociński). Fonte: telefilm-central.org

Da goffo anatroccolo bullizzato alla High School, Beth si trasforma in un elegante e seducente cigno. Questo tuttavia non porrà fine alla sua solitudine: la Harmon, come qualsiasi eroe, resta in un mondo a parte ed è per questo che immedesimarsi nel suo punto di vista è difficile. Desta forse più simpatia (per quanto personaggio meno centrale) la madre adottiva Alma, con la sue crisi quotidiane tra alcool e Chesterfield e la smania di vivere il qui e ora, in quanto è «l’unica cosa che conta».

Tuttavia la determinazione di Beth nel perseguire l’obiettivo di diventare Gran Maestro degli Scacchi può essere di grande esempio in un’epoca come la nostra, in cui gli stimoli più disparati distraggono facilmente i giovani dalle loro vocazioni più profonde. Insomma un invito a premere sull’acceleratore del nostro talento, rivolto a noi ragazze (e non solo).

Mosse vincenti

Ci sbagliamo però se vediamo nell’emancipazione femminile la chiave per cogliere l’originalità della serie.

Dal grande cinema alle fiction Rai, le sceneggiature abbondano da tempo di storie di riscatto che hanno per protagonista una donna. L’originalità di The queen’s gambit (questo il titolo originale della miniserie che è anche il nome di una celebre mossa scacchistica: il gambetto di donna ) sta però nel calare questo racconto verosimile di rivalsa femminile in un mondo sconosciuto ai più: gli scacchi, gioco spesso considerato noioso e d’élite e rare volte oggetto di romanzi, film e tantomeno serie di successo.

Il montaggio racconta gli scacchi come un gioco di magiche armonie: i pezzi si muovono guidati dalle mani di Beth come se danzassero e l’ombra della scacchiera appare alla piccola protagonista sul soffitto quasi come in un incantesimo. Ma la mossa sicuramente più riuscita e che sicuramente ha fatto più gola agli spettatori è l’ambientazione d’epoca: il meglio degli anni ’50 e ’60 rivive nella colonna sonora che vanta nomi del calibro di Peggy Lee, The Monkees, Donovan, nei colori pastello della scenografia, ma soprattutto nell’eleganza dei vestiti creati su misura dalla costumista Garbiele Binder.

Beth Harmon in look total white. L’outfit è un chiaro rifermento alla Regina Bianca degli scacchi. Fonte: vogue.it

Altra gioia per gli occhi: la fotografia. Soprattutto nel primo episodio i colori fanno da contraltare al vissuto della protagonista: gli ambienti dell’orfanotrofio sono opachi e freddi; fa eccezione la camera del custode illuminata da una più confortante luce calda: è lì che Beth sarà folgorata dalla scacchiera.

Forzature

Sapevate che il compianto Heath Ledger voleva girare un film basato su “The queen’s gambit”? Un vero peccato che il progetto non sia andato in porto: i tempi più concisi del cinema avrebbero permesso di concentrare una trama che, distribuita invece su 7 episodi, stenta a decollare, rivelandosi a tratti lenta e poco avvincente. Anche l’intreccio è piuttosto monotono: la vita di Beth prosegue tra una vittoria e l’altra mentre alcuni eventi più personali spesso rimangono solo sullo sfondo o vengono narrati con poco coinvolgimento. Altro scoglio che può scoraggiare lo spettatore sono i dialoghi che indugiano troppo sul lessico scacchistico e rischiano di annoiare i più profani del gioco.

Scacco matto

Anya Taylor-Joy (Beth Harmon) davanti alla scacchiera. Fonte: nospoiler.it

La vera rivelazione della serie è invece Anya Taylor Joy nei panni della protagonista: è lei a reggere il gioco comunicando con lo sguardo e la mimica per creare un personaggio intrigante, ma anche impenetrabile e sui generis. Ci auguriamo di rivederla presto anche sul grande schermo: la sua performance posata e allo stesso tempo decisa è perfetta per trame gangster e thriller di tutto rispetto.

 

Angelica Rocca

 

In Francia proteste contro la nuova legge sulla sicurezza. Si riaccende la questione del razzismo della polizia

Negli ultimi giorni la Francia è stata sotto i riflettori. Manifestazioni e proteste contro la nuova proposta di legge sulla sicurezza, presentata dal partito di Macron, hanno messo a soqquadro strade e piazze riaprendo vecchie ferite, quelle causate dalla violenza e dal razzismo della polizia.

Che cosa prevede la legge contestata

Ad essere messo in questione in particolare l’articolo 24 che considera reato, punibile con 45.000 euro di ammenda e un anno di carcere, la diffusione di immagini di poliziotti in servizio che possano danneggiare la loro integrità fisica e psicologica. L’ intento del governo sarebbe quello di proteggere la polizia, divenuta spesso vittima di odio e di minacce sui social network.

Si tratta di una norma assolutamente non innocua che, secondo molti critici, rischia di ostacolare la libertà di stampa. Il sindacato nazionale dei giornalisti ha dichiarato con un post su Twitter:

Affermiamo che la violazione del diritto di informazione dei cittadini e della stampa è sproporzionata e che la legislazione esistente è ampiamente sufficiente per proteggere le forze dell’ordine da possibili attacchi a seguito della diffusione di immagini”.

Il timore più grande è che questa legge possa impedire la denuncia degli atti violenti e prevaricatori perpetrati spesso dagli organi della polizia. Fortemente sentito è dunque il rischio che queste azioni illegali, passando sotto silenzio, dilaghino sempre di più.

Contestati sono anche l’articolo 20, che aumenta la videosorveglianza e l’articolo 21, che legalizza l’uso dei droni per il controllo dell’ordine pubblico. Tutte le norme sembrano rientrare in una politica repressiva, giustificata, a detta di Macron, dalla necessità di tutelare la polizia contro il pericolo di insorgenza sociale, particolarmente elevato a causa della crisi pandemica.

Lo sgombro dei migranti e il pestaggio di Michel Zecler

La tensione, già tangibile, è stata portata all’esasperazione da due avvenimenti: lo sgombro dei migranti e il pestaggio di Michel Zecler.

Il 23 novembre dei profughi, circa un centinaio, accampatisi a Place de la Republique, a Parigi, per chiedere un alloggio, sono stati mandati via violentemente. Ad attestarlo vi è un video che, tra le tante cose, mostra un poliziotto fare lo sgambetto ad un migrante in fuga. Accusato il prefetto Didier Lallement, già criticato per alcuni eccessi durante le proteste dei gilet gialli.

Michel zecler – Fonte: ma7.sk

Il 21 novembre, il produttore discografico proprietario della società Black Gold Studios, Michel Zecler, è stato arrestato. Gli agenti della polizia hanno dichiarato di essere stati aggrediti e insultati dopo averlo fermato perché non indossava la mascherina. Un video, registrato dalle telecamere di videosorveglianza e diffuso qualche giorno dopo dal sito di informazione Loopsider, ha smentito le parole dei poliziotti: Michel Zecler è stato vittima di azioni brutali. Come mostrato dal filmato, l’uomo è stato picchiato con calci, botte e manganellate per 15 minuti nel suo studio di registrazione e poi portato in carcere. Ma non è tutto. Si tratta non solo di un caso di violenza ma anche di razzismo. Gli agenti della polizia si sono lasciati andare a pesanti insulti:

Sporco negro”.

Le proteste e gli scontri

 Di fronte a questi avvenimenti, il malcontento dell’opinione pubblica, già forte a causa della legge sulla sicurezza, non poteva non esplodere in manifestazioni e proteste.

A Parigi, come riportato dal Ministero degli Interni, 46000 persone hanno partecipato alla Marcia per la libertà, il corteo che ha avuto come centro Piazza della Bastiglia.  Secondo il giornale Le Monde la manifestazione è stata in gran parte pacifica, fatta eccezione per qualche episodio: alcuni dimostranti hanno dato fuoco a un chiosco, ad una caffetteria e alla facciata della Banque de France. In molti casi la polizia è stata costretta a ricorrere all’uso dei lacrimogeni.

Le proteste hanno avuto luogo anche a Strasburgo, Marsiglia, Lione e Bordeaux. In particolare, a Bordeaux sono stati incendiati diversi arredi urbani, mentre a Lione è stato segnalato il ferimento di un poliziotto e di alcuni manifestanti.

Il ministro degli Interni Gérald Darmanin ha condannato le violenze contro la polizia definendole inaccettabili. Duro anche il commento di Marine Le Pen, leader di Rassemblement national: “I francesi ne hanno abbastanza di queste immagini di saccheggi permanenti”.

La risposta del governo

Il governo ha tentato di correre ai ripari compiendo un passo indietro. Christophe Castaner, capogruppo all’Assemblea Nazionale di En Marche, il partito del presidente Emmanuel Macron, ha dichiarato che l’articolo 24, sebbene non venga eliminato, così come richiesto dai manifestanti, verrà tuttavia riscritto. L’ obiettivo da seguire, a detta di Castaner, è quello di coniugare il rafforzamento della sicurezza delle forze dell’ordine e la difesa del diritto fondamentale alla libera informazione.

Cristophe Castaner – Fonte: www.lejdd.fr

Più radicale la proposta dell’ex presidente Hollande: “Se oggi c’è una cosa da fare per salvare l’onore non è mantenere questo testo, ma ritirarlo”.

Il razzismo della polizia

La manovra del governo, sebbene temporaneamente possa allentare la tensione, tuttavia non risolve la grave questione sulla quale gli avvenimenti degli ultimi giorni fanno riflettere: il razzismo della polizia.

Proteste contro la morte di George Floyd – Fonte: www.ibtimes.co.uk

Qualche mese fa le piazze gremite urlavano a gran voce: “Black Lives Matter” in occasione dell’uccisione di George Floyd, afroamericano morto soffocato per mano dell’agente Derek Chauvin. Oggi anche la Francia ha il suo George. Il caso di Michel Zecler prova che il razzismo della polizia non è un fenomeno diffuso soltanto negli Stati Uniti, ma anche in Europa.

Tra l’altro, in Francia non è la prima volta che accade un caso del genere: risale al 2016 la morte di Adama Traorè, giovane che aveva tentato di fuggire ad un controllo di identità. Purtroppo, la Francia non è la sola. Nel 2015, Mitch Henriquez, un turista proveniente da Aruba, durante una rissa nata a un concerto a L’Aia, Paesi Bassi, venne immobilizzato a terra da un poliziotto e morì per asfissia. Ad Anderlecht durante il lockdown, Adil, diciannovenne di origini marocchine, è stato travolto da un’auto della polizia dopo aver tentato di sfuggire a un controllo di routine. Si indaga per omicidio colposo.

Molti gli avvenimenti che provano l’esistenza di un fenomeno di vasta portata, definito con il termine racial profiling, con cui si indicano tutte quelle azioni della polizia basate, non sul comportamento criminale, piuttosto sull’etnia o sulla nazionalità della persona. Uno studio del 2009 del Centre National de la Recherche Scientifique e Open Society Justice Initiative ha riportato che nelle stazioni di Parigi persone di origine africana vengono fermate per i controlli più frequentemente rispetto alle altre persone. Questo avviene anche in Belgio, dove i giovani di origine marocchina sono controllati dalla polizia tre volte di più del resto della popolazione. Preoccupanti anche i dati del report del 2018 “Being Black in the EU” dell’Agenzia dell’Unione europea per i diritti fondamentali: tra gli intervistati, tutti persone di origine africana residenti nell’UE, il 24% nell’ultimo anno era stato sottoposto a controlli e, tra questi, il 44% aveva percepito il controllo come motivato da fattori razziali.

Chiara Vita

Tampone molecolare, test sierologico e tampone rapido: quale fare?

Sin dall’inizio di questa pandemia sono tante le notizie che si sono accavallate. Prima teorie sulle cause, poi ipotesi sulle varie terapie, tanti anche i trial (ancora in corso) per lo sviluppo di un vaccino efficace.

Purtroppo la disinformazione ha sempre causato tanta confusione ed alimentato paure e false credenze. Il dottor Google, se non supportato dalle giuste fonti, non ha sempre le risposte puntuali.

Altro argomento molto dibattuto è stato sin dall’inizio quello della diagnosi, eppure questo è il primo step e non dovrebbe affatto essere misconosciuto.

Sappiamo oramai fin troppo bene come il maggiore veicolo di questo SARS-CoV-2 siano i soggetti asintomatici, perché, inconsapevoli di essere stati contagiati, continuano le loro attività routinarie e lavorative senza il dovuto autoisolamento. È proprio per questo che scegliere il giusto tipo di test è importante.

Quali opzioni sono disponibili?

Quando ci sottoponiamo ad un esame diagnostico ciò che vogliamo è che sia sensibile e specifico. Con il primo termine intendiamo una metodica che riesca con quanta più affidabilità possibile a dare un esito positivo quando il soggetto è “affetto”. Il secondo, invece, ci aiuta ad evitare i falsi positivi, identificando correttamente i soggetti “sani”.
Sul Coronavirus ne abbiamo sentite di tutti i colori, ma al momento le metodiche più conosciute ed utilizzate sono: il test molecolare, il test antigenico ed il test sierologico. Scopriamoli assieme uno ad uno!

Metodiche diagnostiche in relazione alle settimane – Fonte: doi: 10.1001 / jama.2020.8259

Test molecolare

Per Test molecolare si intende l’ormai noto “tampone“. Fastidioso per alcuni, è sicuramente il metodo più affidabile per effettuare diagnosi di infezione.

Con l’ausilio di un bastoncino cotonato, si preleva un campione dalla mucosa naso-faringea (in presidi ospedalieri è possibile eseguirlo anche su espettorato o broncolavaggio o broncoaspirato). A questo punto si utilizza la PCR (Polymerase Chain Reaction – Reazione polimerasica a catena), una metodica che permette, amplificando la quota di genoma repertata, di dimostrare la presenza del virus nelle secrezioni raccolte con il tampone.

Il vantaggio del tampone è che, una volta effettuato, non necessita di ulteriori analisi e nella maggior parte degli individui con infezione clinicamente evidente l‘RNA virale è già rilevabile dal primo giorno dei sintomi e raggiunge il picco entro la prima settimana. Proprio per questo motivo si utilizza principalmente nei soggetti sintomatici per confermare il sospetto diagnostico di positività, nei soggetti asintomatici entrati in contatto con soggetti positivi e nel follow up, per assicurarci della remissione della malattia con un esito negativo.

Tampone nasofaringeo vs orofaringeo – Fonte: scienzainrete.it

Test antigenico

Se in apparenza può sembrare molto simile al tampone molecolare, il test antigenico o “tampone rapido” in realtà condivide con il precedente solo le modalità di prelievo. In questo caso infatti non si va a ricercare il genoma del Coronavirus, bensì la presenza di antigeni, proteine di superficie specifiche del virus (da qui la definizione di Test antigenico). L’aggettivo “rapido” invece si riferisce proprio alla velocità con cui sono disponibili gli esiti, circa 15 minuti, a discapito però della sensibilità e dell’affidabilità che risultano inferiori rispetto al tampone classico. Proprio per questo necessita, in caso di positività, di un ulteriore approfondimento con PCR. Anche in questo caso l’obbiettivo è il riconoscimento di malattia in fase attiva.

Per i suoi pregi può essere sfruttato per grandi screening di popolazione in categorie asintomatiche come passeggeri di mezzi pubblici o scolari e dipendenti.

Fonte: biomedicalcue.it

Test sierologico classico

I test sierologici sono relativamente più facili da eseguire. La loro utilità però, risente fortemente della presentazione tardiva degli anticorpi durante il decorso della malattia, il che non li rende determinanti di fase attiva. A differenza dei tamponi, qui si va a ricercare nel sangue la presenza degli anticorpi specifici contro il SARS-CoV-2.

Il test sierologico classico permette l’identificazione dei tipi di anticorpi (test qualitativo) e la loro quantità. Si tratta di un semplice prelievo di sangue venoso, analizzato poi con tecniche di immunoenzimatica (ELISA) o elettro-chemiluminescenza (ECLIA). In sintesi, sono due le classi anticorpali di nostro interesse:

  • IgM: sono le prime immunoglobuline (anticorpi) ad essere prodotte. Sono dosabili solitamente a partire dal 4°-6° giorno dalla comparsa dei sintomi (nei soggetti asintomatici non è possibile stabilire una data di inizio precisa) e scompaiono dopo qualche settimana.
  • IgG: sono gli anticorpi simbolo dell’immunità acquisita e di memoria (nel caso della Covid-19 diversi studi attestano una durata pari a circa 6 mesi, lasciando spazio a possibili reinfezioni oltre questo termine) e sono prodotti in una fase tardiva (vedi grafico a fine articolo sull’Andamento anticorpale).
Fonte: ilmessaggero.it

Test sierologico rapido

Il test sierologico rapido invece, pur basandosi sullo stesso principio del classico, dà informazioni solo sull’eventuale presenza o meno di anticorpi anti-Coronavirus. Con un pungidito si preleva una goccia di sangue capillare (solitamente dal polpastrello) che viene poi depositata su uno specifico dispositivo di rilevazione. In circa 15 minuti comparirà una banda colorata che indicherà la positività anticorpale o meno.

Si tratta chiaramente di un test poco affidabile, il cui impiego dovrebbe essere attentamente valutato.

Fonte: freepik.it

È bene ricordare che un soggetto positivo al test sierologico potrebbe non avere un’infezione in corso, viceversa un soggetto negativo potrebbe rivelarsi poi positivo, ma avere effettuato il test sierologico in una fase in cui ancora gli anticorpi non sono stati prodotti. Per questo si tratta di metodiche usate prevalentemente come screening di massa soprattutto a fini statistici ed epidemiologici.

Andamento anticorpale in relazione al tempo – Fonte: clinisciences.com

Fondamentale resta dunque la giusta scelta del test diagnostico in base alle esigenze, all’eventuale presenza di sintomatologia correlata alla Covid-19 e nel caso di venuta in contatto con un soggetto positivo (si consiglia il tampone se il contatto è avvenuto nelle 78 ore precedenti).

Giusto spazio anche alle metodiche di prevenzione, perché come sempre: prevenire è meglio che curare (e diagnosticare)!

Claudia Di Mento

Bibliografia:

Immagine in evidenza – Fonte: https://www.disabili.com/

https://www.nature.com/articles/s41591-020-0897-1

https://www.who.int/emergencies/diseases/novel-coronavirus-2019/technical-guidance-publications

https://jamanetwork.com/journals/jama/fullarticle/2765837

https://journals.plos.org/plosmedicine/article?id=10.1371/journal.pmed.1003358

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32245835/

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32342927/

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32621814/

https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32798514/

 

UniMe-Stone: la nuova piattaforma per imparare le lingue straniere

Sarà presentata domani 1 dicembre alle ore 10 la nuova piattaforma UniMe-Stone per l’apprendimento innovativo delle lingue straniere.

Cos’è UniMe-Stone?

Si tratta di una piattaforma agganciata al famoso portale “Rosetta Stone”, leader mondiale in materia di insegnamento delle lingue straniere in modalità e-learning. In un periodo come quello che ha caratterizzato questo 2020, si propone come un valido strumento per l’apprendimento innovativo di diverse lingue in modalità telematica. Basterà utilizzare il proprio computer, tablet o smartphone per potere avere accesso alle attività ed implementare il proprio bagaglio culturale.

Obiettivi

Gli obiettivi della stessa sono vari:

  • accrescere le capacità di comunicazione internazionale rafforzando lo studio delle lingue straniere;
  • aumentare le possibilità occupazionali in un mondo del lavoro oramai globalizzato;
  • promuovere tolleranza, interculturalità e inclusione sociale, abbattendo qualsiasi tipo di barriera.

Posso maturare CFU?

Sì, la partecipazione e la frequenza alle attività offerte garantiranno agli studenti dei Crediti Formativi Universitari, che potranno essere così intesi:

  • curriculari, per il conseguimento delle idoneità linguistiche previste dal proprio piano di studi;
  • liberi, per attività di scelta;
  • extracurriculari, per arricchire il percorso accademico e per i fini interni alla carriera universitaria.

Come funziona?

All’evento di domani saranno fornite tutte le informazioni didattiche e le indicazioni tecniche sul suo utilizzo. Basterà andare sulla pagina Facebook dell’Università degli Studi di Messina e seguire l’evento di lancio.

Interverranno durante l’incontro il Magnifico Rettore, prof. Salvatore Cuzzocrea, il Prorettore alla Didattica, prof. Francesco La Torre, la Delegata alle Politiche Linguistiche, prof.ssa Maria Grazia Sindoni ed il Team UniMe-Stone, composto da Marcella D’Arrigo, Nunzio Femminò e Fabio Sfuncia.

Locandina

Giovanni Alizzi

 

Cat Person: i rapporti di potere ai tempi del #Metoo

Parte superiore della copertina italiana – Fonte:einaudi.it                             

 

You Know You Want This: questo il titolo originale – che meglio ne sottolinea la natura scomoda – della raccolta di dodici racconti di Kristen Roupenian, pubblicata in italiano come Cat Person da Einaudi.

La sua storia inizia su internet, nel 2017, quando Cat Person – il singolo racconto che le dà il titolo – viene pubblicato sul The New Yorker e diventa virale, scatenando sui social un acceso dibattito su sesso e rapporti di genere. Alla scrittrice viene quindi commissionata un’intera raccolta, che diventa uno degli esordi letterari più attesi del 2019.

Il libro fa un’analisi lucida e pungente dei rapporti interpersonali e delle dinamiche di potere nel mondo contemporaneo; questa citazione da Mordere, ad esempio, rimarca l’esistenza di una gerarchia che causa discriminazioni non solo tra i generi, ma anche tra le etnie:

 A conti fatti, in quanto giovane donna bianca senza precedenti  penali, quasi certamente Ellie aveva nel mazzo almeno una carta “esci gratis di prigione”.

Bastava che imbastisse una storia vagamente sensata e le avrebbero creduto.

 

 

Foto per Cat Person dal magazine The New Yorker –  Fonte: newyorker.com    

Paura ed alienazione nel mondo contemporaneo

Con la tematica dei rapporti di potere si intreccia la sensazione di impotenza provata rispetto a circostanze concrete, come ne Il corridore notturno, dove un’insegnante subisce bullismo da parte di una scolaresca; e quella scaturita dall’inquietudine nei confronti del non tangibile, dell’imponderabile, di tutto il male presente nell’universo, che alla protagonista di Look at Your Game, Girl pare una forza gravitazionale che scorre in profondità sotto la superficie di ogni cosa.

Si indagano anche la comunicazione ed il modo in cui i social hanno cambiato le nostre relazioni, con particolare attenzione verso le conseguenze negative più evidenti: l’amplificarsi del senso di solitudine e di isolamento, l’illusione di conoscere qualcuno nel profondo.

In Cat Person seguiamo l’evolversi del rapporto tra Margot e Robert attraverso la messaggistica, tramite la quale non parlano mai veramente di loro stessi; solo ad appuntamento iniziato, Margot si rende conto che:

avrebbe potuto portarla da qualche parte e stuprarla e ammazzarla; in fondo di lui sapeva poco o niente.

Kristen Roupenian – Fonte: news.harvard.edu

Perché leggere Cat Person?

Nonostante alcuni racconti siano un po’meno riusciti, le pagine scorrono veloci e terminato il primo racconto non si potrà fare a meno di passare subito al successivo.

La scrittura è cruda, diretta ma pregna di ironia; riprende il nostro parlare nella quotidianità e non lo epura di nulla, neanche del turpiloquio e delle espressioni più colorite.

L’autrice sa muoversi al meglio tra più generi letterari, tratteggiando con la stessa efficacia sia le ambientazioni realistiche, che quelle fantastiche, fiabesche e fantascientifiche.

Ciò rende la raccolta adatta ad un pubblico eterogeneo, ma è consigliata in modo particolare a chi, pur essendo pieno di impegni, desidera comunque coltivare il piacere della lettura.

 Rita  Gaia Asti

In Cina esistono dei campi di concentramento. Ecco cosa succede ancora nel 2020

Lo Xinjiang, una delle più grandi regioni cinesi, è oggi teatro di una vecchia storia che tutti conosciamo a memoria: quella dei campi di concentramento. Questa potente macchina di annientamento non vive, come un brutto ricordo, sotto le macerie del passato, piuttosto nella realtà presente. Vittime, questa volta, sono gli uiguri.

Il silenzio su questa realtà è stato rotto da un’inchiesta del 2018 pubblicata da Bitter Winter, quotidiano online sulla libertà religiosa e i diritti umani in Cina, che ha mostrato video girati all’interno di questi campi simili a prigioni. L’indagine ha confermato la più grande deportazione di una minoranza etnico-religiosa dopo la Seconda Guerra Mondiale. Pechino non ha tardato a mettere a tacere le notizie circolanti dichiarandole false.

Il video tutorial per aggirare la censura

La vicenda è diventata virale quando un anno fa Feroza Aziz, una ragazzina di 17 anni, ha pubblicato su TikTok quello che apparentemente sembrava un video-tutorial per l’uso del piegaciglia, ma che si è rivelato essere una denuncia al trattamento riservato da Pechino agli uiguri. Così dirompenti le parole della giovane americana da non lasciare indifferenti:

“Questo è un olocausto”.

L’escamotage utilizzata dalla ragazza per aggirare la censura ha permesso a milioni di utenti di visualizzare il video prima che la piattaforma, per puro caso, la bannasse.

Ma chi sono gli uiguri? Perché vengono repressi e perseguitati?

Gli uiguri sono una minoranza di religione musulmana e di etnia turcofona che abita lo Xinjiang costituendo il 46% della popolazione, la maggioranza relativa della regione. Gli altri abitanti sono cinesi d’etnia Han e kazaki.

Lo Xinjiang e la Cina – Fonte: www.travelcities.net

 

Ottenuta l’indipendenza nel 1934 con la costituzione della repubblica del Turkestan orientale, la regione venne annessa alla Repubblica Popolare Cinese nel 1949 diventando terra di immigrazione cinese. Il malcontento e il dissenso si fecero sentire: nel secondo dopoguerra gli uiguri reclamarono a gran voce la loro indipendenza provocando repressioni da parte di Pechino.

Negli anni ’90 le tensioni si intensificarono. Nel 1991 uno studente religioso, fortemente influenzato dagli ideali della jihad afghana, organizzò una rivolta nel distretto di Baren per la ricostituzione dello Stato indipendente del Turkestan orientale; nel 1997 un gruppo estremista di uiguri islamici lanciò bombe sugli autobus ad Urumqi. Soltanto due dei numerosi atti che rafforzarono la stretta repressiva di Pechino.

L’attentato alle torri gemelle del settembre 2001 ha avuto un forte impatto sulla vicenda: la lotta al terrorismo degli anni 2000, unita alla paura che la minoranza musulmana potesse rappresentare un pericolo per il paese, non favorì gli uiguri che guardavano all’indipendenza. Pechino intensificò le repressioni, le limitazioni alle libertà personali, l’indottrinamento, tanto da suscitare forte reazioni da parte degli uiguri. Una fra queste fu la marcia organizzata ad Urumqi nel luglio del 2009, degenerata in uno scontro con le forze armate di Pechino. Una relazione sicuramente burrascosa che, come riportato da documenti del New York Times, portò il segretario generale del Partito Comunista Cinese, Xi Jinping, di fronte alle violenze uigure del 2014, a consentire l’utilizzo di misure di antiterrorismo che violavano i diritti umani. Tra queste, i campi di reclusione.

Uno sguardo all’interno dei campi: ecco cosa succede

Quello che si sa oggi sulla vicenda basta a suscitare biasimo e indignazione.

Secondo le immagini satellitari ottenute dall’Australian Strategic Policy Institute, sono 380 i campi presenti nello Xinjiang, tra campi di rieducazione con sistemi di sicurezza più deboli e vere e proprie prigioni fortificate.

La struttura dei campi – Fonte: agcnews.eu

I destinatari sono presunti musulmani ribelli, pericolosi ed estremisti che vengono arrestati senza alcun processo. La violazione dei diritti opera, dunque, ancor prima della reclusione.

Sono ritenute colpe dei detenuti: l’astensione dalla carne, il rifiuto dell’alcol, il possesso di libri di cultura uigura musulmana, l’uso della barba lunga. Se da una parte è vero che l’estremismo in Xinjiang esiste e che può degenerare nel terrorismo, dall’altra parte è chiaro che le pratiche appena elencate non ne sono prove manifeste. Si tratta, quindi, non di una lotta contro i terroristi, piuttosto dell’annientamento di un’intera tradizione culturale.

Questo è provato dalle stesse pratiche adoperate: gli uiguri sono costretti ad imparare il mandarino, a sottoporsi ad un indottrinamento quotidiano finalizzato ad una venerazione del partito comunista cinese e a torture di vario tipo. I detenuti guadagnano crediti per il rispetto della disciplina fino a giungere ad una vera e propria trasformazione culturale, al termine della quale vengono trasferiti in altri campi per formarsi in ambito lavorativo. I tempi della rivoluzione culturale di Mao Tse-Tung, dunque, non sono lontani come sembrano.

Le testimonianze sui campi di reclusione

La conversione ideologica non avviene senza minacce di morte, violenze e abusi, come confermano numerose testimonianze.

Sconvolgenti le parole di Gulbahar Jelilova, una donna detenuta per un anno e tre mesi:

“La stanza era di 20 m² e non c’erano finestre. All’interno c’erano una quarantina di donne. La metà di loro era in piedi, altre coricate per terra, l’una contro l’altra. Portavamo tutte pesanti catene ai piedi”.

La donna continua descrivendo a quali pratiche erano soggetti i reclusi: venivano loro mostrati video su Xi Jinpig e costretti a scrivere recensioni su di lui, per accertarsi che le loro idee stessero cambiando; ogni lunedì alle 9:55 dovevano cantare l’inno cinese, il resto della settima cinque canzoni al giorno.

A Radio Free Asia un funzionario della polizia che ha lavorato per sei mesi in un campo di lavoro della città di Aksu, ha rivelato che nel suo campo sono morti 150 musulmani di etnia uigura. Gli abusi, a detta di quest’uomo, che comprendono violenze fisiche e psicologiche, non riguardano soltanto gli incarcerati ma gli stessi familiari, costretti ad invitare a casa propria dei membri del partito comunista di etnia Han, che sono incaricati di sorvegliare sulle loro abitudini e idee politiche.

Circa un anno fa è stato pubblicato un video su Youtube da un utente anonimo, poi fatto circolare dall’emittente televisiva Cnn, che mostrava uomini in divisa da carcerati, bendati, con le mani legate e la testa rasata, sorvegliati da agenti della polizia. Secondo il quotidiano britannico The Guardian si tratta del trasferimento di detenuti uiguri da un campo ad un altro.

Antiterrorismo o repressione?

Queste testimonianze provano l’esistenza di una realtà per anni tenuta all’oscuro. I fatti smentiscono le dichiarazioni degli esponenti politici del partito comunista cinese, i quali presentano le loro azioni come operazioni di antiterrorismo. I campi di detenzione sarebbero dunque dei campi rieducativi finalizzati a purificare gli animi dalla tendenza alla violenza e all’estremismo. Di certo, come abbiamo visto, il terrorismo sovversivo esiste nello Xinjiang, ma come considerare antiterroristiche delle azioni rivolte ad un’intera comunità culturale?

Le dichiarazioni di Pechino sembrano essere false, soprattutto se si considera il generale clima di controllo e repressione che si respira in Cina, di cui i campi di concentramento per gli uiguri sarebbero ulteriore conferma. Si pensi alla campagna di sinizzazione avviata da Xi Jinping non solo contro l’islam ma anche contro il cristianesimo e il buddhismo tibetano, oppure alla repressione delle proteste intraprese dai mongoli contro il divieto di insegnare la lingua locale.

Inoltre, non si possono negare gli interessi economici e strategici del partito comunista nello Xinjiang, una regione ricca di risorse petrolifere e frontiera esterna della Cina, confinante con gli Stati dell’Asia centrale e, dunque, area fondamentale nelle nuove vie della seta promesse da Pechino. Questo è un dato importante da considerare per comprendere come il governo centrale, a differenza di quanto dichiari, sia profondamente interessato ad un controllo totalizzante della regione. Controllo che, tra l’altro, viene esercitato non solo attraverso i campi, ma anche per mezzo di una continua sorveglianza di sicurezza che prevede la possibilità di ispezionare i cellulari alla ricerca di contenuti sospetti, o di verificare l’identità delle persone usando software di riconoscimento facciale.

Altri campi di concentramento nel mondo

Tutti i sogni e le speranze di un mondo fondato sulla libertà e il rispetto dei diritti umani sembrano infrangersi. La delusione è profonda se si guarda ad una realtà della quale la Cina non rappresenta un’isola in mezzo all’oceano. Campi di concentramento esistono ancora oggi in tutto il mondo.

In Korea del Nord tra 80000 e 120000 persone, per lo più prigionieri politici, vivono nei kwanliso. In Myanmar, Malaysia e Bangladesh la reclusione ha come vittime i rohingya, una minoranza etnica musulmana a cui il governo birmano non ha concesso la cittadinanza. Esistono campi di internamento anche negli Stati Uniti, come quello di Clint in Texas, al confine messicano, in cui nel 2019 sono stati rinchiusi 250 minori non accompagnati in condizioni disumane. In Turchia ci sono campi in cui vivono 3,6 milioni di rifugiati siriani. In Libia sono rinchiusi i migranti dell’Africa Subshariana. Ci sono campi anche in Iraq e in Siria. E i Cie e i Cpr italiani? Nonostante il nome sia differente, si tratta di veri e propri campi di detenzione, in cui vivono, in condizioni disumane, migranti in attesa di essere identificati e rispediti, poi, contro la loro volontà, nella loro terra.

Chiara Vita

Vivere nel silenzio. 5 film che danno voce alle donne vittime di violenza

Il 25 Novembre è la giornata internazionale contro la violenza sulle donne. Quando parliamo di violenza, purtroppo gli esempi quotidiani sono ancora tanti, ma nessuno fino in fondo può comprendere quel silenzio che avvolge la donna vittima di violenza.

Il cinema – come sempre – ci mostra ciò che spesso è difficile cogliere: molti registi hanno messo in luce cosa si nasconde dentro l’anima di una donna ferita ed emarginata, non sostenuta dalla società. In questa occasione, vi raccontiamo 5 film che parlano non solo della violenza fisica, ma anche di quella psicologica di cui è costantemente vittima il genere femminile in un mondo in cui essere donna è una lotta continua per la sopravvivenza.

1) Il colore viola, Steven Spielberg (1985)

Il colore Viola è un film diretto da Steven Spielberg, tratto dall’ omonimo romanzo di Alice Walker, che vanta un cast stellare. La pellicola ha ottenuto numerose nomination agli Oscar e un Golden Globe nella categoria miglior attrice in un film drammatico a una fantastica Whoopi Goldberg, nei panni della protagonista Celi Harris. L’opera è proiettata su personaggi femminili e tratta di violenza domestica, razzismo, abusi e incesto

Il film è ambientato nel profondo sud degli Stati Uniti dei primi anni del Novecento e racconta la storia di due sorelle di colore che vivono in un’epoca razzista e bigotta: i due personaggi sono vittime di violenza domestica e abusi sessuali da parte del padre. Un’infanzia traumatica non impedirà loro di combattere per l’emancipazione, non solo femminile in senso ampio, ma anche sessuale.

Un film che ci offre la possibilità di scoprire fino a che punto può spingersi la violenza ma – soprattutto – come la donna possa rialzarsi anche dopo tante disgrazie.

Whoopi Goldberg e Margaret Avery (che nel film interpreta il personaggio di Shug Avery) – Fonte: cineavatar.it

2) Precious, Lee Daniels (2009)

Film diretto da Lee Daniels, tratto dal romanzo di Sapphire Push, Precious ha per protagonista ClarencePrecious” Jones (interpretata da Gabourey Sidibe), vittima di violenza domestica, abusi sessuali da parte del padre e – come se non bastasse – di violenza psicologica da parte dalla madre. 

Precious è una ragazza madre semianalfabeta che vive in un quartiere di soli afroamericani, in un piccolo appartamento con la madre, violenta e disoccupata. Rimasta incita da parte del padre, dà alla luce una bambina con la sindrome di Down; a distanza di anni, subisce un’altra violenza sessuale sempre da parte del genitore, rimanendo nuovamente incinta. La scuola, al posto di aiutarla, la espelle. Viene ospitata, grazie all’interessamento della direttrice, da un istituto per ragazzi con problemi sociali e sarà proprio lì che inizierà a prendere coscienza di sé stessa, con l’aiuto delle sue compagne e della sua professoressa Miss Rain (Paula Patton). 

Gabourey Sidibe (Precious) e Mo’Nique, vincitrice dell’Oscar nella categoria miglior attrice non protagonista per l’interpretazione della madre Mary Lee Johnston

3) La ciociara, Vittorio De Sica (1960)

” Pace?! Sì, bella pace!”

Cesira alle truppe di alleati

Parlando di violenza sulle donne, il riferimento è d’obbligo a un grande classico nostrano della storia del cinema: La ciociara, film che fruttò alla Loren il primo (e meritatissimo) Oscar della sua carriera. Tratta dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia, la trama è ispirata agli episodi realmente accaduti di violenze e stupri di massa perpetrati in Italia dalle truppe franco-marocchine durante la Seconda Guerra Mondiale.

La pellicola si apre su una Roma devastata dai bombardamenti e dalla fame: la vedova Cesira (Sophia Loren) e la figlia adolescente Rosetta (Eleonora Brown) decidono di lasciare la città e trovare dimora più sicura a Sant’Eufemia, paese d’origine della protagonista. Ma la tragedia della guerra travolge anche il paradiso bucolico della Ciociaria (così era chiamata in passato la provincia di Frosinone) e coinvolge inevitabilmente le due protagoniste.

La regia di De Sica denuncia in maniera magistrale la Storia scritta col sangue che ha per vincitori soltanto gli uomini: una Storia che non fa sconti a nessuno, che marcia sui più deboli e in particolar modo sulle donne, vittime indifese della guerra. I tedeschi vengono sconfitti, il conflitto è cessato e finalmente Cesira e la figlia sono libere di ritornare a casa. Ma a che prezzo? Gli alleati e le truppe di Goumier (soldati marocchini) al loro comando si riveleranno brutali quanto i nemici: insensibili alla voce delle donne e pronti a soffocarla sotto il boato di un conflitto disumano, come ancora oggi accade in molte zone di guerra.

Cesira ( Sophia Loren) in lacrime sulla strada del ritorno. Fonte: wikipedia.org

 

4) Uomini che odiano le donne, Niels Arden Oplev (2009)

Non avremmo potuto non citare Uomini che odiano le donne, diretto dal regista danese Niels Arden Oplev e tratto dall’omonimo best seller di Stieg Larsson. La pellicola è un thriller poliziesco dal gradissimo successo, sia di pubblico che di critica. I protagonisti sono Mikael Blomkvist (Daniel Craig), giornalista che dirige la rivista “Millennium”, e Lisbeth Salander, audace hacker dall’intelligenza fuori dal comune  che nasconde un passato segnato da violenze e abusi. Entrambi faranno luce sul caso irrisolto di una ragazzina scomparsa: ma più andranno avanti, più la storia si rivelerà spaventosa. 

Il film può considerarsi più “spoglio” rispetto al libro, perché manca una trattazione estesa del danno psicologico che creano gli uomini alle donne con la loro violenza; è quindi anche meno cruento rispetto alla lettura di Stieg Larsson. Nonostante ciò, la regia non delude, tenendoci con il fiato sospeso fino all’ultimo secondo della sua opera.

Noomi Rapace (Lisbeth Salander) – Fonte:mymovies.it

 

5) Thelma & Louise, Ridley Scott (1991)

Ultimo consiglio: una storia di riscatto priva di sdolcinato happy ending, questo indimenticabile road movie vanta la meravigliosa Susan Sarandon come protagonista a fianco della meno nota Geena Davis nei panni – rispettivamente – di Louise e Thelma, due amiche che decidono di lasciare “gli uomini” a casa e partire per un breve viaggio a bordo della propria Ford Thunderbird. Lungo il percorso non mancheranno ostacoli e pericoli: in un locale country dell’Arkansas, Thelma rischia di essere violentata e si salva solo grazie al pronto intervento dell’amica che spara al colpevole. Quel colpo di pistola proietta le due di fronte a un bivio: fuggire verso la libertà in Messico o consegnarsi alla dubbia giustizia degli uomini? La scelta delle due sarà coraggiosa e coerente fino alla fine.

“Thelma e Louise”: locandina – Fonte: l’occhiodelcieasta.com

È una strada lunga quanto il viaggio di Thelma e Louise quella da percorrere per dare voce alle donne vittime di violenza, sulle quali cala il silenzio ogni giorno; dobbiamo cercare le parole giuste per raccontare, perché discriminazioni e luoghi comuni sono spesso i primi mattoni sui quali costruiamo una realtà che sfocia inevitabilmente nella violenza.

Tanto deve essere fatto anche da noi donne: spesso nell’abbattere i muri dei vecchi pregiudizi, ci trinceriamo l’una contro l’altra nei sicuri confini di spazi a cui abbiamo finalmente accesso, ma non ancora del tutto nostri. Uno su tutti il mondo dei media, che spesso – come abbiamo visto di recente – utilizza termini impropri e umilianti, parole dubbie, giustificando persino i carnefici talvolta.

Proprio un’informazione corretta dovrebbe invece essere prerogativa e fine ultimo di tutti i mezzi di comunicazione, dai social ai giornali, dalle radio alla televisione.

                                                                                                                             

Alessia Orsa, Angelica Rocca

 

Immagine di copertina: magazzininesistenti.it

Alta formazione targata UniMe

Master di I e II livello

Sono 10 i Master di I e II livello attualmente attivi previsti dall’Università di Messina per l’anno accademico 2020-21.

Fonte: unime.it

Cos’è il Master?

Il Master è un titolo di studio superiore alla laurea, che consente di acquisire un ulteriore livello di specializzazione.

I piani didattici di UniMe sono stati sviluppati tenendo conto delle nuove frontiere della ricerca scientifica, oltre che delle varie richieste provenienti dal mondo lavorativo.

Come si accede ai Master?

  • Per accede ai Master di I livello è necessario aver conseguito una laurea triennale.
  • Per i Master di II livello è necessaria una laurea magistrale.
  • Le lauree vecchio ordinamento consentono di accedere sia ai Master di I che di II livello.

Master di I livello 

  1. Economia bancaria e finanziariaha come obbiettivo la formazione di professionisti che potranno intraprendere una carriera come analista d’investimento, finanziamento e manager nei settori aziendale, bancario e finanziario.
  2. Infermieri e ferristi di sala operatoria per la chirurgia mininvasiva e robotica: propone la formazione di figure professionali caratterizzate da specifiche competenze nella chirurgia 3D robotica e nella chirurgia laparoscopica e toracoscopia.

Le novità

  1. Esperto della comunicazio­ne digitale nella PA e nell’im­presa: offre la risposta all’esigenza di gestione strategica della comunicazione digitale. È caratterizzato da un percorso formativo che rivolge l’attenzione verso quelle società, culturali e lavorative, riconfigurate dalla pervasiva diffusione dei media digitali.

Master di II livello

  1. Neurologia interventistica vascolare: l’obiettivo del Master è quello di formare professionisti nell’ambito della neuro-radiologia interventistica con particolare competenza nel trattamento dello stroke ischemico.

Le novità 

  1. L’evoluzione della terapia endodontico-conservativa. Le tecniche digitali e microscopiche, i laser e i nuovi materiali: l’obiettivo è formare professionisti competenti in odontoiatria conservativa ed endodonzia in grado di poter affrontare situazioni cliniche complesse, programmando ed effettuando terapie in situazioni di elevata compromissione dentale.
  2. Medicina legale ed errori in sanità: gestione del rischio per la sicurezza delle cure e responsabilità penali, civili e amministrative: attraverso l’acquisizione dello specifico bagaglio culturale derivante dall’offerta didattica, i corsisti potranno ottenere una completa formazione e l’acquisizione di competenze in un ambito oggi molto complesso, necessario per chi quotidianamente deve risolvere problemi in merito alla valutazione del danno conseguente a responsabilità professionale sanitaria ed alla gestione del rischio clinico.
  3. Terapia intensiva e sub-intensiva pediatrica: offre un percorso formativo di alta specialità per la stabilizzazione e il trattamento delle patologie critiche che necessitano un supporto intensivo delle funzioni vitali in età pediatrica, con particolare riferimento alla gestione delle patologie “life threatening” dall’età neonatale all’adolescenza.
  4. Tecniche di preparazione dei farmaci antiblastici e valutazione della sicurezza ed efficacia dei dispositivi medici: si pone l’obiettivo di formare figure sanitarie con specifica ed avanzata competenza sulle finalità e funzionalità delle Unità Farmaci Antiblastici, delle aziende farmaceutiche e dei dispositivi medici.
  5. Hospital acquired infections, antimicrobial stewardship and pandemics: prevention, control and preparedness:  l’obiettivo è quello di formare figure professionali  in grado di valutare, trattare, prevenire ed effettuare sorveglianza delle infezioni correlate all’assistenza, effettuare valutazioni atte a monitorare il profilo beneficio-rischio, l’appropriatezza prescrittiva dei farmaci anti-infettivi ed il loro impatto economico nella reale pratica clinica.
  6. Advanced european studies: si tratta diun percorso che fornisce lo studio di elementi giuridici, economici e politologi­ci, con oggetto la struttura e il funzionamento dell’Unione Europea e delle sue più importanti politiche.

Come iscriversi ai Master UniMe?

  • Per conseguire i Master UniMe è necessario presentare la domanda di iscrizione on-line nei tempi e con le modalità previste dai relativi bandi.
  • Sarà necessario poi completare l’immatricolazione con il pagamento della rata della tassa di iscrizione.

Per maggiori informazioni, clicca qui

Maria Cotugno

ERSU: pubblicate le graduatorie relative alla Borsa di studio

L’ERSU ha appena pubblicato le graduatorie relative alla Borsa di studio per l’Anno Accademico 2020/2021.

Ricordiamo che gli studenti dei primi anni concorrono esclusivamente per reddito, diversamente da quelli degli anni successivi al primo che concorrono per merito.

Le graduatorie sono stilate in ordine del punteggio calcolato secondo i criteri previsti dal bando.

I partecipanti saranno classificati in elenchi in base al proprio dipartimento e corso di laurea. Ogni studente è rappresentato da un codice (N. pratica), che ha acquisito al momento della presentazione della domanda al concorso.

I partecipanti potranno risultare:

  1. Assegnatari (A), ovvero riceveranno il contributo previsto dalla borsa di studio;
  2. Idonei (I), saranno coloro che presentano tutti i criteri previsti ma che per insufficienza di fondi al momento non riceveranno il contributo economico.

Le graduatorie

Georgiana Florea

Regioni ed esperti critici contro l’indice Rt: sempre meno affidabile

Dall’entrata in vigore dell’ultimo DPCM, e dei famosi 21 parametri in base ai quali giudicare la situazione epidemiologica in una data regione, numerosi esperti hanno messo in dubbio l’affidabilità dell’indice RT. Si tratta dell’indice che mostra l’andamento della pandemia e che contribuisce a determinare le chiusure delle regioni. Molti sostengono che i principali problemi dell’indice consistano nella qualità dei dati utilizzati per calcolarlo.

Cos’è l’indice RT

L’indice di trasmissibilità netto (Rt) indica il numero medio di infezioni secondarie generate da una persona infetta in una certa data. Questo significa che il numero ci dice quante persone vengono contagiate da una sola persona, in media, e in un certo arco di tempo.

Chiarisce l’ISS -Istituto Superiore di Sanità- che: se RT dovesse essere pari a 4, in media ogni infetto contagerà quattro persone nel periodo considerato, e queste quattro persone ne contageranno altre quattro a testa nel periodo successivo, se l’indice dovesse rimanere costante.

Un ulteriore indicatore utilizzato per monitorare l’andamento dell’epidemia è invece l’indice R0. Questo secondo indice rappresenta il numero medio di infezioni secondarie prodotte da ciascun individuo infetto in una popolazione completamente suscettibile cioè mai venuta a contatto con il nuovo patogeno emergente. Misura dunque la potenziale trasmissibilità di una malattia infettiva prima che vengano inserite misure di contrasto. Quindi:

  • R0 mostra quanto può essere trasmessa una malattia all’inizio della pandemia.
  • RT misura la trasmissione dopo l’introduzione di misure di contrasto.

Per capire come la pandemia si evolverà è dunque importante monitorare le oscillazioni di tali indici.

  • Se ogni persona positiva contagia in media meno di una persona, la pandemia sta rallentando.
  • Se invece l’indice continua a rimanere sopra il valore 1, significa che la trasmissione del contagio è ancora elevata.

Secondo i dati fornitici dall’Istituto Superiore di Sanità: in Italia l’indice RT medio è da tempo sopra il valore 1, ma la notizia buona delle ultime settimane ci dice che è sceso da 1,72 a 1,43.

Ospedale militare di Baggio, Milano (ANSA)
Ospedale militare di Baggio, Milano  fonte: ANSA

Per arrivare a questi numeri servono calcoli che si basano sui dati raccolti ogni giorno dalle regioni: quanti sono i casi sintomatici e quando sono iniziati i sintomi. Qualora i dati forniti dalle regioni siano inaffidabili anche l’indicatore RT sarà inaffidabile. 

Le Regioni fanno muro ai 21 parametri

Diverse sono state le regioni che hanno avanzato la richiesta di riconsiderare i 21 parametri dell’indice RT.

Fronte unito è quello dei governatori che chiedono un incontro con l’esecutivo che potrebbe tenersi domani -giovedì 19 novembre- al fine di pensare a delle modifiche ai 21 indicatori introdotti dal governo.

Questo perché, le regioni sostengono, gli indicatori per definire il colore delle zone “non (sono più) adeguati al monitoraggio attuale”. Preferibile sarebbe invece un sistema semplificato impostato su 5 indicatori proposti dalle stesse Regioni.

I parametri proposti delle Regioni

  • Il primo parametro proposto dalle Regioni è la percentuale di tamponi positivi in rapporto a quelli effettuati;
  • il secondo indicatore è l’Rt, l’indice di trasmissione del virus, calcolato sulla base della sorveglianza integrata dell’Istituto superiore di sanità;
  • Il terzo fattore, di cui si dovrebbe tener conto secondo le Regioni, è il tasso di occupazione dei posti letto totali di terapia Intensiva per pazienti Covid-19;
  • Il quarto elemento è il tasso di occupazione dei posti letto totali di Area Medica per pazienti Covid-19;
  • Infine, ultimo punto, l’attività di controllo sul territorio (contact-tracing, isolamento e quarantena) ed il numero di professionisti impiegabili.

Il lavoro del Governo

Il Governo non ha mancato di ricordare che questi principi scientifici erano stati condivisi e che lo schema non può essere modificato in un momento in cui si è arrivati a superare la soglia delle 700 vittime in un giorno.

Serve una maggiore rete di protezione. La partita per ora si gioca sulla manovra ma si guarda anche avanti, in attesa che si sciolga il nodo del “Recovery fund”.

Come sempre, la tensione tra il governo e le regioni rischia di creare fibrillazioni non solo nella gestione dell’emergenza sanitaria ma anche nel Paese.

@GiuseppeConteIT
@GiuseppeConteIT

Nei prossimi giorni si riunirà la cabina di regia e si discuterà anche dell’eventualità di “allentare” la morsa di  alcune provincie, all’interno delle regioni nelle fasce a rischio, qualora l’indice RT registrasse in alcuni territori il valore inferiore a 1.

 

Maria Cotugno