Inside Job: i complottisti hanno ragione

Un esperimento originale con un unico difetto: la ricerca esasperata dell’approvazione del pubblico. Voto UVM: 4/5

Inside Job è la nuova serie animata per adulti targata Netflix. Shion Takeuchi (nome conosciuto già per altri lavori, come Gravity Falls e Regular Show) è la mente geniale che si nasconde dietro al progetto.

Disponibile sulla piattaforma statunitense dal 22 ottobre, la serie è composta da 10 episodi dalla durata di 25/30 minuti, che compongono la Prima Parte. Nel cast di doppiatori troviamo Lizzy Caplan (nel ruolo della protagonista Reagan Ridley), Clark Duke (che presta la voce al belloccio e poco furbo Brett Hand), Brett Gelman ( che interpreta Magic Myc, un fungo parlante, proveniente dalle profondità della terra) e tanti altri.

Lavorare per un’agenzia segreta non è facile

Immaginate di diventare il capo di un’agenzia segreta: la Cognito Inc., che controlla e insabbia qualsiasi cosa. Immaginate che questa agenzia sia controllata da un governo delle ombre, formato da illuminati incappucciati senza scrupoli. Questa è la vita di Reagan Ridley, una scienziata dall’intelligenza fuori dal normale, capace di creare le più strambe e originali invenzioni ma, allo stesso tempo, incapace di rapportarsi con gli altri.

Se pensate di poter trattare i collaboratori con sufficienza, se pensate di poter urlare in faccia la verità a una persona, non curandovi dei suoi sentimenti, allora vi meritate Brett Hand. «Cosa ?» vi starete chiedendo. «Cosa?» è anche quello che si chiede Reagan, appena scopre che, nel ruolo di capo della Cognito Inc. sarà affiancata da un mediocre uomo bianco (come lo definisce lei), belloccio e per niente furbo. La reazione dei suoi collaboratori, però, sarà totalmente diversa. Brett riuscirà a stringere amicizia con loro, risultando, da subito, simpatico. Tutto l’opposto di Reagan che, sebbene cerchi di comportarsi come un vero capo, è odiata da tutti.

Reagan e Brett (fonte buzzfeed.com)

Dieci episodi per rivalutare la realtà

Durante i dieci episodi della serie, Reagan, Brett e quattro collaboratori si imbatteranno in centomila situazioni differenti. Inside Job, infatti, presenta allo spettatore le più svariate teorie del complotto: un solo episodio è sufficiente per mettere in discussione la realtà. I rettiliani esistono (solo per fare alcuni esempi, Taylor Swift, Madonna, la Regina Elisabetta, Ellen DeGeneres sarebbero reptoidi), si nascondono tra di noi, sono personaggi famosi estremamente ricchi e influenti, finanziano il lavoro della Cognito Inc., affinché tenga nascosta la loro esistenza, e sono responsabili del riscaldamento globale. Non vi basta? Bene: lo sbarco sulla luna? Semplice green screen! Le scie chimiche? Esistono e servono per drogarci. Il presidente degli Stati Uniti? Facilmente sostituibile da un robot dall’aspetto identico, ma comandato da Reagan. Insomma, se basta poco per convincervi, è importante che prima di iniziare la serie sappiate che “è tutto finto”.

Oltre il complotto: altri temi

Inside Job rientra nell’orbita di quelle che sono serie animate iconiche di Netflix: BoJack Horseman, Final Space, Rick and Morty (qui una nostra recensione della quinta stagione) sono sicuramente degli esempi perfetti.

Il tema centrale dell’opera è sicuramente quello del complotto, ma questo non è il solo. La serie è capace di affrontare anche altri topic che riguardano la vita privata della protagonista. Da un lato il padre, ex dirigente della Cognito Inc., ha preferito costruire un orso robot per abbracciarla al posto suo e adesso cerca di attirare l’attenzione della figlia, facendola finire nei guai; dall’altro la madre colpisce spesso la ragazza nei suoi punti più deboli. Insomma Reagan non ha avuto vita facile: a scuola veniva emarginata dagli altri bambini, è figlia di due cattivi genitori da cui non ha mai ricevuto un abbraccio e crescendo porterà con sé questi traumi.

Sarà grazie all’aiuto di Brett e della sua squadra (un fungo parlante con poteri telepatici, un dottore drogato, una manager a capo del reparto Manipolazione dei media e messaggi subliminali e un veterano, mezzo uomo e mezzo squalo) che la scienziata riuscirà a crescere e guarire.

Reagan, il padre e l’orso robot

Tra originalità e mainstream

Inside Job è una serie animata che cerca di soddisfare i gusti del pubblico. Solo i più esperti conoscitori di meme riusciranno a cogliere le moltissime citazioni presenti nei dieci episodi. Probabilmente è questo l’aspetto negativo della serie: la continua ricerca dell’audience, vuoi attraverso battute volgari (in una serie per adulti è normale, ma qui sono decisamente troppe), vuoi attraverso continui riferimenti o citazioni alla pop culture, alla cultura del web, finisce col rendere gli episodi troppo carichi, troppo frettolosi.

Nonostante questo, però, la serie risulta molto originale. Riesce, attraverso la satira, a prendere in giro tutti coloro che credono alle più assurde teorie (ciò risulterà evidente in uno specifico episodio).  In attesa della seconda parte, non resta che consigliarvene la visione… prima che i rettiliani prendano il controllo del pianeta!

Beatrice Galati

Ritorno in presenza: il racconto degli studenti Unime

Si paventava il tramonto dell’istruzione per come la conosciamo. Si paventava un mutamento antropologico che avrebbe persino portato all’estinzione di una specie caratteristica dell’ecosistema delle nostre città: lo studente fuori sede. La pandemia sarebbe stata l’anticamera di una rivoluzione copernicana che si sarebbe giocata su due cardini: smart working ed e-learning.

Eppure a Messina così non è stato: Unime dall’11 ottobre ha ripristinato la frequenza in aula al 100%. La città dello Stretto torna a gremirsi di matricole, treni, tram e aliscafi brulicano di universitari in mascherina, nei condomini risuonano di nuovo dialetti diversi.

Di nuovo insieme: studenti durante una lezione di Economia. © Angelica Rocca

Se chiedessimo a un passante di raccontarci il ritorno in presenza, forse ne uscirebbe fuori questo scenario pittoresco. Ma com’è il panorama visto dagli occhi degli studenti tornati in aula?

Un dipinto alquanto cupo emerge ad esempio dalle parole di Alessia, studentessa di Filosofia: «L’ansia che da un momento all’altro la linea potesse cadere durante le lezioni è svanita. Siamo più tranquilli, più sereni, ma esistono comunque altri disagi: siamo stati trasferiti al Polo di Farmacia, edificio a fianco del nostro dipartimento. Ci ritroviamo spaesati: un vero e proprio incubo. La sede del DICAM (Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne) da quasi due anni, si è trasformata in un cantiere, in tutti noi è sorto un senso di angoscia: quella che chiamavamo “casa” si è rivestita di impalcature e false speranze.»

Miryam, studentessa di Informatica, ci racconta invece l’intera Odissea che compie ogni mattina per arrivare a lezione tra tram e bus interurbani. «Tutte le mattine sono arrivata a lezione con ritardi addirittura di 45 minuti. Nonostante l’annuncio di un potenziamento delle corse ATM, gli orari che si ritrovano nelle tabelle non coincidono con quelli reali. Il bus di linea 24 che porta a Papardo (sede delle facoltà scientifiche) spesso salta la fermata delle 8:05 davanti al terminal Cavallotti (vicino alla stazione centrale). Un’alternativa sarebbe il tram, ma anche quest’ultimo salta parecchie corse. Quando dal Terminal Museo partivano le navette verso i poli del Papardo e dell’Annunziata, la situazione non era così disastrosa. Adesso è diventata ingestibile: i bus di linea, non essendo riservati ai soli studenti e ben più piccoli delle navette, possiedono una capienza ridotta

Un tram ATM alla fermata di Piazza Cairoli. Fonte: archivio UVM

Stesso scenario anche all’Annunziata (sede del già citato Dicam oltre che di Farmacia, Veterinaria e Scienze Motorie). Afferma Domenico, studente di Lettere Moderne: «Da qualche settimana hanno aggiunto qualche corsa, ma continuano ad esserci comunque pochi bus e troppo affollati. Molte volte mi è capitato di arrivare tardi a lezione o addirittura di doverne saltare qualcuna proprio per questo motivo.» Nonostante i disagi, se si tratta di scegliere tra lezioni in presenza e corsi su Teams, questi studenti non manifestano dubbi. «I momenti in presenza che ho vissuto i primi anni sono nettamente migliori e imparagonabili alla didattica a distanza.» risponde Myriam. «Il ritorno in presenza è stato un po’ come ritrovare la quotidianità ormai persa: semplici gesti come la pausa caffè con i colleghi, conversazioni, risate tra una lezione e l’altra, strette di mano. Una delle più grandi mancanze della teledidattica è stato proprio il contatto diretto, tutta quella dimensione della corporeità indispensabile all’uomo.» aggiunge Domenico.

Dello stesso avviso Ilaria, studentessa di Scienze Politiche: «Finalmente possiamo vivere l’università sotto un aspetto più sociale. Mi ha stupito molto però che la ripresa delle attività in presenza non sia stata totale: i laboratori linguistici vengono svolti esclusivamente sulla piattaforma Rosetta Stone, sebbene nella mia facoltà esistano docenti di madrelingua predisposti all’insegnamento della materia. Per poter apprendere correttamente una lingua sarebbe necessario un confronto diretto con l’insegnante.»

E-learning garanzia di democrazia? Questo lo slogan di chi ignora un digital divide che attanaglia tante piccole realtà del Belpaese e trova conferma nelle parole di Maria, studentessa di Lettere Classiche: «La dad ha presentato per me dei limiti. Vivo in un paesino dove spesso la connessione è precaria. Il ritorno in presenza mi ha permesso quindi di essere più costante nell’apprendimento.» E aggiunge: «La connessione particolare che ho con il libro nonché la manualità sono importanti e l’attenzione che pongo in aula è maggiore: ho un problema neurologico che limita la mia concentrazione nonché la capacità di ricordare eventi recenti e attività programmate. Con maggiore lentezza e fatica memorizzavo nuove informazioni attraverso uno schermo. Il ritorno in presenza, nonostante l’iniziale corsa ad ostacoli tra pullman e mezzi vari, è stato primario, essenziale!»

“Seguire” in dad: vignetta satirica. Fonte: l’ecodellascuola.altervista.org

Stando a quanto affermano gli studenti Unime, non sarà la nostra generazione a cestinare l’insegnamento tradizionale a favore dell’Università delle piattaforme. Il futuro della formazione non si dovrebbe decidere in un aut aut tra didattica in presenza ed e-learning: quest’ultima più che mera opzione escludente, potrebbe rimanere un’ottima risorsa integrativa alle lezioni frontali (soluzione già sfruttata da altri atenei italiani).

È di quest’idea Lucia, studentessa di Giurisprudenza: «L’interazione vis a vis tra studenti e professori è imprescindibile nel nostro corso di studi, soprattutto in vista di una futura carriera forense e la dad sotto quest’aspetto è fortemente limitante. Tuttavia si sarebbe potuto ricorrere alla teledidattica in questi giorni di maltempo ed evitare di perdere preziose ore di lezione che verrebbero recuperate a ridosso degli esami.»

Il punto di forza della dad, allora, si può rinvenire non sul terreno dell’apprendimento, ma piuttosto nel suo potere di trascendere – al di là dell’emergenza sanitaria- limiti e difficoltà presenti in quel mondo della fisicità reale cui i giovani tuttavia non vogliono (e non devono!) rinunciare. Assenza di strutture adeguate, insufficienza di mezzi di comunicazione sono alcune problematiche esistenti già da tempo che noi studenti chiediamo di risolvere offline a gran voce. Una voce a cui le politiche territoriali e nazionali dovrebbero prestare ascolto.

Angelica Rocca

 

Articolo pubblicato il 04/11/2021 nell’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud

Rick e Morty: il ritorno della delirante fantascienza Netflix

La quinta stagione di “Rick e Morty” si conferma una storia carica di risate e sempre capace di coinvolgere – Voto UVM: 4/5

Rick e Morty torna in scena a gamba tesa. La folle serie animata di Adult Swim (nata come parodia di Ritorno al futuro) con protagonisti lo “scienziato pazzo” Rick e suo nipote, l’insicuro Morty, dopo una lunga attesa è tornata su Netflix. Insieme ai due protagonisti rivediamo sul piccolo schermo anche le avventure di tutta la famiglia Smith che, anche questa volta, dovrà avere a che fare con le assurde trovate dell’amato e odiato nonno.

Dopo l’esordio americano avvenuto il 5 giugno, la quinta stagione della serie animata più assurda di sempre è arrivata anche in Italia, su Netflix dal 22 ottobre. Quest’ultima uscita ci porta così ad un fatidico 51 su 101 (non la carica, ma gli episodi commissionati da Adult Swim al duo Roiland-Harmon), lasciandoci intendere di essere giunti a metà del percorso.

Cosa aspettarsi

Anche in questa nuova stagione le aspettative non sono state tradite. L’universo che conoscevamo si è ampliato ancora, mostrandoci altri pianeti assurdi e razze aliene strampalate; non mancano i mondi paralleli e i nemici fuori di testa da affrontare. La qualità dell’animazione continua a crescere di stagione in stagione, i mondi sono sempre stracolmi di dettagli che riescono a rendere le ambientazioni credibili in un universo di stramberie.

La serie non si stanca di parodiare la qualsiasi, partendo dal mondo dei supereroi (il Mr. Nimbus del primo episodio ricorda un “marvelliano” Namor erotomane), fino ad un episodio in cui le citazioni dei mafia movie (come Scarface ed Il Padrino) ed una narrazione alla “Quei Bravi Ragazzi fanno da sfondo ad una caricatura dei Power Rangers.

Il percorso di Rick si fa invece sempre più interessante: assistiamo infatti ad una progressiva apertura sempre più esplicita alle emozioni. Quello che avevamo conosciuto come una sorta di superuomo nietzschiano, capace di convivere con il caos e a tratti anche di dominarlo, perde sempre più quella patina di apatia: prima con l’amico Persuccello (5×08) e poi con lo stesso Morty (5×10).

GoTron Jerrysis Rickvangelion (5×07)

Risate a più livelli

Chiunque conosca la serie sa già cosa aspettarsi dalla comicità di Rick & Morty: le battute sono ovunque e su ogni cosa. In ogni singolo episodio gli sceneggiatori si dilettano nel far convivere le battute nonsense e quelle più becere e demenziali con altre più sottili e di pura satira sociale.

Come sempre la critica – mai troppo velata – è rivolta all’America ed alle sue storture, sia passate che attuali. Una nazione in cui il Congresso corrotto preferisce un Presidente-tacchino. Probabilmente non ci troviamo di fronte alla stagione più divertente del programma, ma lo standard è così alto da far cedere questa critica su se stessa.

Il Ringraziamento di Rick e Morty (5×06)

Tanto spazio per la trama

Ed ecco che uno degli aspetti più amati ed odiati della serie fa capolino. Sì, perché quella trama così intrigante, apparentemente immensa ma che raramente progredisce, in questa stagione prende piede come non mai.

Il passato di Rick dirada quella zona d’ombra che lo ha avvolto nelle stagioni precedenti e si racconta, tramite flashback brevi ma pieni di spunti: dal giorno in cui ha perso la moglie fino a quello in cui lo abbiamo conosciuto. Il rapporto con Morty si fa sempre più profondo e più avanzano le stagioni più gli alti e i bassi tra i due tendono a confermare la loro tacita dipendenza reciproca. Da non trascurare poi il ritorno del famigerato Evil Morty che in questi episodi trova la sua (presunta) conclusione, e con lui anche tutte le vicende della splendida cittadella.

Anche in questo caso risulta difficile trovare delle sbavature nella narrazione degli autori, lo spettatore si trova sempre di fronte ad un mondo in cui non esistono il bianco ed il nero ed è tutto incredibilmente grigio. Tutti i “cattivi” sembrano avere ragioni valide o almeno comprensibili per fare quello che fanno, ed allo stesso tempo quelli che dovrebbero essere “i buoni” assumono comportamenti anche peggiori dei loro nemici.

Antonio Ardizzone

UniMe si conferma tra le top mondiali secondo il The World University Rankings

L’Università di Messina riconferma gli ottimi risultati dell’anno precedente nella classifica del “World University Rankings by Subject”. Traguardo importante che sottolinea come l’Ateneo si stia dimostrando capace di cavalcare dei trend positivi, puntando ad una crescita costante.

I risultati dell’Ateneo

Dallo studio emergono diverse facoltà di spicco per l’Università di Messina come quelle di Ingegneria e Psicologia che figurano tra le migliori 400 al mondo. Le discipline legate alla Medicina e alla Salute si sono invece piazzate tra le migliori 500. Stesso risultato per Scienze biologiche e Scienze informatiche che, nel loro ambito, sono rientrate nella fascia che va dalla posizione 401 alla 500 al mondo. Un altro importante risultato è stato quello ottenuto da Scienze naturali e Scienze umanistiche, dove UniMe si è piazzata tra le migliori 800 sulle 3000 valutate.

La classifica

Il metodo di classificazione prevede diversi indicatori di performance divisi in 5 macro-aree, ovvero:

  1. l’insegnamento,
  2. la ricerca,
  3. le citazioni,
  4. la prospettiva internazionale,
  5. il reddito dell’industria.

Ciascuna sezione prevede diversi punti sulla cui base si è sviluppato lo studio. Le metodologie di ricerca sono meglio specificate nel documento pubblicato insieme allo studio dell’anno precedente dalla stessa “World University Rankings by Subject”.

Indicatori utilizzati – Fonte: The World University Rankings Methodology

Le parole del Rettore

Il risultato ottenuto è stato accolto con grande soddisfazione dal Magnifico Rettore Prof. Salvatore Cuzzocrea che ha parlato di forte “gratifica” per i traguardi raggiunti, sottolineando che gli stessi : “come sempre ci spingono a lavorare giorno dopo giorno per conseguire nuovi e più proficui risultati”. Il Rettore ha poi precisato:

Dall’inizio del mio mandato abbiamo cercato di lavorare per riuscire a qualificare sia la ricerca che la didattica. Questa classifica premia il nostro impegno e quindi ringrazio tutta la comunità accademica per gli sforzi fatti, ampiamente ripagati.

Antonio Ardizzone

Tutte le donne di Monica Vitti: i 90 anni di un’antidiva

Il 3 novembre del 1931 nasceva a Roma Monica Vitti, attrice sicuramente poco nota ai nati dopo del 2000, anche perché da quasi 20 anni si è ritirata dalle scene volontariamente a causa di una malattia degenerativa. In occasione del suo 90esimo compleanno vorremmo provare a farvela conoscere meglio o a sbloccare qualche ricordo ai più che molto probabilmente ricordano i suoi film.

Monica Vitti, dopo aver trascorso alcuni anni di vita nella nostra Messina perchè il padre era un agente di commercio estero, scopre la passione per il teatro che diventa quasi un diversivo per intrattenere i suoi fratellini durante la seconda guerra mondiale.

Dopo il diploma all’Accademia di Arte Drammatica nel 1953, le si apriranno le porte di una lunga carriera che durerà quasi quaranta anni. Vitti collaborerà con i più grandi registi dell’epoca: Scola, Monicelli, Risi, Antonioni, senza dimenticare il sodalizio artistico con Sordi.

Monica Vitti. Fonte: Blog ModApp

Le donne della Vitti sono molto diverse rispetto a quelle delle commedie all’italiana (filone che diverrà molto famoso in quel periodo), nonostante nelle pellicole interpretate i tradimenti, la gelosia, la sterile vita coniugale e i triangoli siano temi predominanti. Molto probabilmente per questo viene considerata da molti l’Antidiva.

Ma quante donne è in fondo Monica Vitti? Ne abbiamo scelte cinque che racchiudono la sua innata versatilità.

1) Complicata seduttrice

Dramma della gelosia (tutti i particolari in cronaca) – Ettore Scola (1970)

Dalla regia di Ettore Scola, Dramma della gelosia è uno di quei film che segna il passaggio dell’attrice dalla carriera drammatica a quella comica. Adelaide è una giovane fioraia romana un po’ sui generis che si ritroverà coinvolta in un menage a trois con i giovani Oreste Nardi (Marcello Mastroianni) e Nello Serafini (Giancarlo Giannini).

Sensuale quanto basta, mai volgare, la Vitti riesce a caratterizzare il personaggio di Adelaide caricandolo di isterismo,  vulnerabilità ma anche di ironica eleganza e notevole dignità.

Da sinistra a destra: Mastroianni, Vitti e Giannini in una scena del film. Fonte: Titanus

Con la sua voce roca e il “burino accento romanesco” renderá leggera la “disgrazia” di questa protagonista che prova a liberarsi del triangolo amoroso.

2) Moglie borghese

Io so che tu sai che io so – Alberto Sordi (1982)

Qui troviamo l’attrice romana nei panni di Livia sposata con il banchiere Fabio Bonetti (interpretato dal regista). Livia si ritrova imbrigliata in un rapporto di coppia monotono con il classico uomo medio italiano tutto lavoro e partite di calcio in TV.

Sordi e Vitti in una scena del film. Fonte: Scena Film

È lei che tra mille peripezie riesce a tenere in piedi la famiglia e a ricucire il rapporto con Fabio.

Livia è un personaggio che a tratti sembra essere in preda a crisi isteriche, una donna a cui la Vitti riesce a dare forza di volontà e anche velata comicità. Livia è tutte le mogli medio borghesi che sono salde come una roccia ma che a volte possono crollare.

3) Siciliana forte e sanguigna

La ragazza con la pistola – Mario Monicelli (1968)

Assunta Patanè (Monica Vitti) è una ragazza siciliana d’altri tempi, “onesta” e sempre vestita di nero. Rapita e poi lasciata dall’uomo di cui era segretamente innamorata, deciderà di vendicare l’onore ferito. Monicelli dà un risvolto inedito e più ridanciano alla classica vicenda della fanciulla “sedotta e abbandonata”, attorno a cui ruota l’omonimo cult di Germi del ’64 e ci riesce proprio perché cuce addosso alla Vitti un personaggio degno delle sue doti attoriali.

Sebbene Sedotta e abbandonata sia pellicola nettamente più raffinata de La ragazza con la pistola, c’è qualcosa che alla prima manca ed è proprio la notevole presenza scenica della Vitti (lei romana si calerà perfettamente nei panni della siciliana), superiore a quella dimostrata da Stefania Sandrelli nelle vesti della vittima inerme dietro le quinte di teatrini orchestrati dalla famglia per salvare l’onore.

A sinistra Stefania Sandrelli in “Sedotta e abbandonata”, a destra Monica Vitti ne “La ragazza con la pistola”. Da notare il look simile delle due protagoniste

Assunta, invece, anche se complice di una mentalità arretrata, è lei stessa a prendere la pistola in mano e tentare il riscatto. Certo erano già altri tempi e le lotte femministe stavano scrivendo un pezzo importante di pagine di storia. Ma avere nel cast una grande interprete come la Vitti sicuramente permise al regista di dare carne e ossa a un personaggio comico nella sua drammaticità meridionale, quanto determinato.

4)  Moderna e insicura

Amore mio aiutami – Alberto Sordi (1969)

Raffaella (Monica Vitti) è una donna sposata che si innamora di un altro uomo e indovinate un po’ a chi deciderà di confidare le proprie pene d’amore? Esattamente al marito (Alberto Sordi)!

Alberto Sordi e Monica Vitti nei panni di Giovanni e Raffaella. Fonte: Documento Film

Satira amara su un certo progressismo, Amore mio aiutami è un divertente teatro dell’assurdo in cui la coppia Sordi-Vitti dimostra per la prima volta sul grande schermo un feeling coinvolgente e fuori dal comune. Gli sfoghi di Raffaella si amalgamano alla perfezione con la finta compostezza piccolo-borghese del marito banchiere Sordi (qui un nostro articolo sull’attore romano). Vitti all’apice della sua bravura nel saper caricare di pathos ed emotività un personaggio come Raffaella, donna innovativa ma fragile.

5) Raffinata e misteriosa

La notte – Michelangelo Antonioni (1961)

Ultimo ma non meno importante, un film della Vitti meno conosciuta, quella più di nicchia, drammatica, musa del cinema dell’incomunicabilità del regista Antonioni.

A primo acchitto sembra marginale il ruolo ricoperto dalla Vitti in questa pellicola dalle tinte esistenzialiste. A dominare le scene è la storia di due coniugi in crisi: gli affascinanti (Lidia) Jeanne Moreau e Giovanni (Marcello Mastrianni), mentre Valentina (Monica Vitti) è soltanto di passaggio nella loro vita, un’affascinante sonosciuta che incontrano a una festa.

Eppure bastano poche inquadrature per cogliere il talento della Vitti nel calarsi in un personaggio fuori dalle righe, al di là degli steccati della classica seduttrice, una ragazza riflessiva e misteriosa che si rivelerà il punto di svolta necessario alla paralisi esistenziale dei protagonisti.

Da sinistra a destra: Jeanne Moreau, Marcello Mastroianni e Monica Vitti ne La notte di Michelangelo Antonioni. Fonte: Dino De Laurentiis

In un’intervista ad Enzo Biaggi, Monica Vitti si definì “femminista”. Il suo impegno politico non era manifestare nelle piazze o spendersi in grandi dimostrazioni, ma intepretare “donne che hanno fatto dei passetti” come amava lei stessa affermare.

Angelica e Ilenia Rocca

COP26: stop alla deforestazione entro il 2030

E’ stato raggiunto un accordo, lunedì 1 novembre, durante la COP26 (Conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici) iniziata a Glasgow il 31 ottobre, sotto la presidenza del Regno Unito: fermare la deforestazione, nei 100 Paesi firmatari, entro il 2030. Il patto è molto importante, se si considera che in questi Paesi è presente l’85% delle foreste mondiali. Tra i firmatari della “Dichiarazione di Glasgow su foreste e terra” anche Stati Uniti, Russia, Brasile e Cina. Il loro contributo è di vitale importanza, in quanto si tratta delle economie più forti del mondo e di Paesi che ospitano le più grandi foreste mondiali. Per promuovere politiche volte a fermare la deforestazione, saranno stanziati 12 miliardi di dollari pubblici, ai quali si aggiungeranno altri 7 miliardi da parte di società private. Nonostante il buon risultato, però, decine di migliaia di attivisti sono arrivati a Glasgow per far pressione sulla Conferenza. Alla loro guida Greta Thunberg che, arrivata nel Regno Unito lo scorso sabato, guiderà venerdì una manifestazione di protesta. Intervistata dalla BBC, ha ribadito l’importanza di non mollare, affermando che “a volte dobbiamo far arrabbiare la gente” per difendere ciò in cui crediamo. La Conferenza terminerà il 12 novembre.

L’attivista Greta Thunberg a Glasgow (fonte heraldscotland.com)

I tre grandi obiettivi della COP26

Alla chiusura del G20, tenutosi a Roma, i Paesi partecipanti non sono riusciti a trovare un valido accordo sul clima. È, quindi, di vitale importanza la Conferenza che si sta tenendo in questi giorni a Glasgow. I tre obiettivi da raggiungere sono: mantenere il riscaldamento del pianeta intorno a 1,5 gradi centigradi (rispetto ai livelli pre-industrializzazione), come previsto dagli accordi di Parigi del 2015; un intervento finanziario dei Paesi più sviluppati nei confronti di quelli più poveri, con il compito di consegnare cento miliardi di dollari l’anno, a partire dal 2022; adottare un insieme di regole scientifiche che permetteranno di misurare le emissioni che alterano il clima. Sugli obiettivi da raggiungere si è espresso anche il Premier italiano, Mario Draghi:

“Mentre pianifichiamo i nostri prossimi passi, dobbiamo porci obiettivi concreti. Questo percorso richiede creatività, ambizione e una sana pianificazione economica. Sono orgoglioso degli sforzi compiuti dall’Italia e dall’Unione Europea attraverso il programma Next Generation EU. Gli Stati membri hanno deciso di trasformare la pandemia in un’opportunità. Abbiamo avviato una serie ambiziosa di riforme e investimenti. Intendiamo accelerare la transizione ambientale nelle nostre economie e rendere la crescita più equa e sostenibile”.

Il premier Draghi a Glasgow (fonte agi.it)

 

Il Premier ha, inoltre, sottolineato l’importanza di coinvolgere le banche multilaterali di sviluppo e la Banca Mondiale, invitandole a impegnarsi nella condivisione dei rischi con il settore privato. Draghi ha parlato anche delle ripercussioni che il cambiamento climatico ha su pace e sicurezza globali: l’esaurirsi di risorse naturali fa aggravare le tensioni sociali, può portare a nuovi flussi migratori e contribuire all’aumento di terrorismo e criminalità organizzata.

USA, Germania, Cina: gli interventi dei leader

Il Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, durante il suo discorso alla COP26, ha riconosciuto la grande responsabilità che il suo Paese può avere nel dare l’esempio. La sua speranza è quella di trasformare la più grande economia del mondo in una delle più innovatrici per energia pulita:

“Quello che faremo è ridurre le emissioni del 50-52% rispetto al 2005 entro il 2030. La mia amministrazione sta lavorando incessantemente dimostrando che queste non sono parole ma azioni. Puntiamo all’obiettivo di 1,5 gradi entro il 2030, trasformando la più grande economia del mondo nella più innovatrice. Ecco perché oggi abbiamo un programma per arrivare a emissioni zero entro il 2050”.

La proposta della cancelliera tedesca, Angela Merkel, è quella di far pagare un prezzo per le emissioni di Co2. Questo spingerebbe le industrie dei Paesi ad adottare migliori tecnologie per raggiungere la neutralità climatica. La speranza della Merkel è quella di raggiungere un mondo a emissione zero, speranza che può diventare realtà, secondo lei, solo se si blocca il finanziamento internazionale di elettricità generata dal carbone.

Anche il presidente cinese, Xi Jinping, seppur non fisicamente presente alla Conferenza, ha invitato tutti i Paesi a “intraprendere azioni più forti per affrontare insieme la sfida climatica”. Per il leader, gli effetti negativi del riscaldamento globale sono sempre più evidenti e l’urgenza di un’azione globale continua a crescere.

Un altro importante intervento è quello della presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen, che scrive così in un tweet:

“La Cop26 è un momento di verità per i nostri piani per fermare il cambiamento climatico. L’Europa si impegna a essere il primo Continente neutrale dal punto di vista climatico al mondo e unire le forze con i suoi partner per un’azione per il clima più ambiziosa. La corsa globale per lo zero netto entro la metà del secolo è iniziata”.

L’UE si impegnerà per ridurre del 30% le emissioni di gas metano e per finanziare tecnologie green:

“Dobbiamo mobilitare fondi per il clima per sostenere i Paesi vulnerabili per adattarsi. L’Ue contribuirà in pieno per raggiungere i nostri obiettivi globale sull’adattamento. Con quasi 27 miliardi di dollari nel 2020, Team Europe è già il maggior fornitore di finanziamenti per il clima, di cui la metà per l’adattamento”

Beatrice Galati

 

Squid Game: un gioco pericoloso

La società in cui viviamo fa di noi degli instancabili consumatori: il vortice di consumi in cui siamo gettati ci rende piccoli ingranaggi di una gigantesca macchina, che vorrebbe determinare – con o senza permesso -il nostro posto nel mondo. Il nostro posto come vincenti o come disperati.

E se, oltre ogni  limite, la vita stessa si trasformasse in un prodotto di cui i consumatori possono disporre?

E’ questo il limite che la serie tv sudcoreana firmata Hwang Dong-hyuk, conosciuta in tutto il mondo, ha oltrepassato, portando a chiederci fino a dove ci si può spingere per sedere al tavolo dei vincenti.

Squid game,“Il gioco del calamaro”,disponibile su Netflix dal 17 Settembre scorso, ha il record come esordio più visto sulla piattaforma streaming. Impossibile non averne sentito parlare, con oltre cento milioni di spettatori, altrettanti meme e non poche polemiche, Squid Game traccia un sentiero tortuoso all’interno del panorama artistico mondiale, prendendo le mosse dall’interesse delle opere sudcoreane per i temi della lotta di classe, del disagio economico ed esistenziale.

 Squid Game, guardie.  Fonte: Netflix

Veniamo catapultati “come per gioco” in un talent show che ospita 456 partecipanti, reclutati e scelti da una misteriosa organizzazione, sulla base di un fattore comune: la disperazione.

Un gruppo di disperati, con debiti di gioco o problemi con la giustizia,di ogni estrazione sociale, si sfidano in una serie macabra e perversa di giochi d’infanzia.Personaggi alienati, senza speranza e alternative, che agiscono mossi dall’istinto di sopravvivenza. In palio un premio in denaro.

I giochi infantili, come “un due tre stella” o il tiro alla fune, vengono trasformati in giochi mortali, in cui gran parte dei partecipanti viene uccisa nel fallire la prova. Ogni morte fa aumentare il montepremi finale, destinato al vincitore dei sei giochi, per una vincita complessiva di oltre 45 miliardi di won (circa 33 milioni di euro). Naturalmente, nel senso più darwiniano del termine, al crescere della posta cresce la brutalità dei partecipanti, disposti a tutto pur di sopravvivere, vincere, cambiare vita.

Come in Parasite di Bong Joon-ho, vincitore della Palma d’oro alla 72° edizione del Festival di Cannes, e molte altre produzioni sudcoreane, assistiamo al delinearsi delle ciniche e spietate dinamiche che caratterizzano una nazione segnata da contrasti insanabili, dal divario sociale, dalla corruzione. Parasite è un’opera amata dalla critica e dal pubblico per quello che mostra: le conseguenze  di un sistema socio-economico che non lascia spazio, caratterizzato dalla cattiveria, che genera parassiti e alimenta un eterno ciclo dei vinti, lasciando fuori dallo schermo la speranza di una prospettiva migliore.

Quello di Squid Game è un mondo distopico – caratterizzato da colori pastello, inquadrature e ambientazioni geometriche – che accoglie un gran numero di scene splatter. Ad ogni sfida i personaggi reagiscono in modo diverso, e c’è poco spazio per un’ evoluzione morale: assistiamo per lo più al caratterizzarsi ed evolversi della massa. La massa di giocatori in tuta verde che tenta di sopravvivere, tra uno scellerato antagonismo individuale e di gruppo, aggrappandosi alle dinamiche del branco che si regge sulla regola della sopraffazione del più forte sul più debole.

Squid Game, ambientazione

L’intera macchina di Squid Game, ha il solo scopo di intrattenere i suoi spettatori nascosti, dietro uno schermo. I mandanti e i veri destinatari dei giochi sono infatti i “VIP”, persone molto ricche, dalle maschere scintillanti, che scommettono come all’ippodromo sui disperati, facendoli gareggiare in questo macabro e mortale talent show. Il solo fine è l’intrattenimento.

E’ sul finire della serie che la distanza creata tra due mondi lontani anni luce tra loro, quello dei ricchissimi e dei poverissimi si accorcia, tentando di riunirli all’insegna di una necessità comune: il divertimento. E’ il personaggio creatore del gioco a dirci che ciò che accomuna le persone senza soldi e quelle con troppi soldi è che la loro vita non è felice. All’interno dell’attuale sistema, alimentato dal debito e dalla colpa, per le dinamiche che lo caratterizzano, le uniche certezze possibili sembrano essere l’infelicità e la disperazione.

 

Squid Game, giocatore 456

Non è possibile ignorare il successo di Squid Game, come non è possibile ignorare le non poche polemiche sollevate intorno alla serie tv, che lascia perplessi sul piano etico e morale. Lo stesso autore Hwang Dong- hyuk ha atteso nove anni per vedere prodotti i nove episodi, a lungo rifiutati per il loro contenuto violento. Nonostante la serie appaia su Netflix come vietata ai minori di quattordici anni, molte sono state le emulazioni, soprattutto da parte di bambini e giovani (è solo di qualche settimana fa la notizia di un caso di violenza durante la ricreazione in una scuola elementare di Treviso).

Se l’opinione è divisa tra chi vorrebbe una censura e chi lo ritiene un rimedio controproducente, sarebbe altrettanto importante domandarsi cosa sia possibile fare per spezzare il terribile incantesimo che rende le nuove generazioni, al pari delle vecchie, consumatrici disperate e senza via d’uscita. Il vero dramma è la mancanza di alternative, l’assenza di una prospettiva realmente sovversiva e nuova anche e soprattutto all’interno del panorama artistico. Un’alternativa capace di innescare un sostanziale cambiamento, di conservare il suo potere rivoluzionario, sentinella delle domande degli uomini e non dei bisogni dei consumatori. 

                                                                                                           Martina Violante

 

Articolo pubblicato il 28/10/2021 nell’inserto Noi Magazine della Gazzetta del Sud 

 

 

 

 

 

New World: rinascita degli mmo?

Progetto senza dubbio ambizioso, New World è il miglior videogame uscito finora dalle fucine di Amazon. Necessita ancora però di tanto lavoro di “ripulitura”. Voto UVM: 3/5

Nascita, esplosione e “morte” di un genere

Massive Multiplayer Online (mm0) è una sigla che racchiude tanto in sé: il genere permette a decine di giocatori di incontrarsi in un videogame, svolgere assieme ogni attività presente e interire con gli avatar degli altri players. Le sue peculiarità consistono anche nella capacità di accompagnare per anni, o decenni in alcuni casi, le vite di chi decide di salire sulle loro giostre: i ricordi non sono mai stati il gioco in sé, ma la condivisione dell’esperienza e l’interazione costante.

Il genere degli mmo esiste dai lontani anni 80 in cui esperienze text based si limitavano a stimolare le fantasie dei giocatori, ma già da allora si poteva notare il potenziale del genere. Fu con Ultima Online, uscito nel ’97, che i giocatori si sentirono finalmente parte di qualcosa di speciale: un mondo creato interamente dalle loro azioni con eroi e villain nati dalle loro gesta.

E’ stato però nel 2005 che il genere conobbe la sua esplosione: World of Warcraft prese di fatto tutta l’esperienza accumulata in 20 anni dagli sviluppatori e rimodellò il genere rendendolo alla portata di tutti, rimuovendo molta della tediosità e delle lungaggini dei suoi predecessori.

“Ultima online” e “World of Walcraft”: capostipite e apice degli mmo

Il panorama degli mmo negli ultimi anni è però, a detta degli appassionati, stagnante: le nuove uscite sono pochissime e in molti casi risultano già viste e con poche idee.

Anche World of Warcraft da sempre sulla cresta dell’onda con milioni di giocatori attivi, è soggetto oggi ad aspre critiche. L’unica stella che risplende è Final Fantasy 14 che, dopo la rinascita del progetto nel 2013, continua a raccogliere elogi sia da critica che da pubblico, risultando essere l’unico gioco in crescita negli ultimi anni.

“Final Fantasy 14” è attualmente l’mmo più popolare. Fonte: Square Enix

Il clima nell’ambiente quindi non è certo uno dei migliori oggi. New world, lanciato lo scorso 28 settembre da Amazon, si inserisce in questo contesto come una nuova promessa, cercando di modificare la formula classica dell’mmo che dopo il successo esponenziale di alcuni giochi, era stata imitata e ripetuta da molti nella speranza di riviverne il successo.

Qual’è l’esperienza in gioco?

Nato come gioco survival, in cui l’unico obbiettivo del giocatore era quello di raccogliere risorse per arricchirsi e contemporaneamente sconfiggere i giocatori avversari delle fazioni opposte, New World ha cambiato volto nel corso dello sviluppo virando verso il multiplayer di massa, per spiccare agli occhi di una community mmo odierna meno tendente alla competizione estrema rispetto al passato. Si è quindi snellito e reso molto meno ostico nelle sue meccaniche, dopo i feedback critici delle prime fasi di test da parte dei giocatori.

Il gioco si propone quindi come un’avventura ambientata all’epoca delle grandi colonie europee. Noi giocatori ci imbarcheremo infatti verso l’atlantico, ma non sbarcheremo sulle sponde dell’America bensì su quelle del reame di Aeternum, luogo intriso di magia. Qui gli avventurieri sbarcati prima di noi hanno già avuto modo di stabilirsi, fondare città e soprattutto le fazioni a cui dovremo unirci per aiutare nella costruzione e nell’ampliamento dei vari avamposti e fortini sparsi per la mappa.

Anche la mappa stessa gioca un ruolo importante per la raccolta di risorse: legna, ferro, pelli e carne sono tutti elementi indispensabili per la sopravvivenza nel mondo di gioco. Ognuno dei giocatori può inoltre inserirsi in varie nicchie per diventare un elemento centrale nell’esperienza dell’intero server, vendendo sul mercato i frutti del suo lavoro, aiutando gli altri giocatori nella costruzione di armi, armature o particolari piatti di cucina, nonché nella fortificazione e nel miglioramento degli avamposti e delle città.

Guerra per gli avamposti e raccolta delle risorse: due degli elementi principali del gioco

L’avventura si sviluppa quindi seguendo uno schema semplice in cui il giocatore è chiamato ad affrontare missioni ed obbiettivi che lo vedono convolto nelle stesse meccaniche: raccogliere tronchi d’albero, sconfiggere mostri o animali in giro per il mondo o colpire, occasionalmente, avamposti avversari. Il gioco non riesce sempre a divertire in questa ripetitività e purtroppo lo affliggono altri importanti problemi come la mancanza di un end game soddisfacente e che abbia al centro l’interazione tra i giocatori, così come vari errori di programmazione e bug che in molti casi rovinano l’esperienza di molti.

Siamo ottimisti per il futuro?

Non si è trattato quindi di un lancio perfetto per il nuovo gioco di Amazon, ma l’insieme di elementi nuovi per il genere lo ha reso anche dopo settimane gettonato da molti, che nonostante le imperfezioni continuano ad andare avanti nelle guerre tra le fazioni di Aeternum. Si può quindi sperare in un percorso di riassesto per il gioco, su cui Amazon ha già dichiarato di puntare parecchio. Gli sviluppatori hanno spiegato già che il gioco verrà espanso con i restanti 2/3 del contenuto.

New World, al netto di tutto ciò, si rivela senz’altro una boccata d’aria fresca per quei giocatori che si sono ritrovati in molti casi a rivivere la stessa eccitazione e frenesia dei primi anni 2000, periodo d’oro dei “Multigiocatore di massa”.

Cooperazione tra giocatori, altro elemento chiave. Fonte: Amazon Games

Resta da vedere se gli sviluppatori daranno ascolto al feedback dei giocatori e assesteranno quei pilastri pericolanti che a lungo andare possono rovinare un’esperienza che ha la possibilità di essere ricordata nel tempo, con gioia, dagli appassionati.

Matteo Mangano

UniMe nella top 3: boom di iscrizioni di studenti stranieri

L’Università di Messina continua ad accogliere studenti da ogni parte del mondo. Uno studio sull’internazionalizzazione eseguito dall’Osservatorio Talents Venture, riportato in un articolo del Sole24ore, mostra come l’Ateneo Peloritano abbia registrato la terza posizione tra tutte le università italiane per il tasso di crescita di immatricolati stranieri nell’ultimo quinquennio.

La classifica tiene inevitabilmente conto anche dell’aumento del numero di immatricolazioni totali, al fine di escludere quelle università che hanno visto crescere la percentuale di iscritti provenienti dall’estero, ma anche una decrescita di immatricolazioni da parte degli studenti italiani.

I dati ed il raffronto con l’anno passato

La regina di questa speciale classifica è l’Università di Cassino con una crescita del 13,5%, seguita da Milano San Raffaele con un incremento del 7,6% ed a seguire l’Università di Messina che ha registrato una crescita del 5,8%. L’Ateneo ha così dato seguito alla statistica che già questa estate aveva in qualche modo preannunciato traguardi importanti, con le 16.000 candidature di studenti extra-europei, partite da più di 40 nazioni differenti, che l’Università aveva raccolto nello scorso mese di luglio. I corsi con maggiori richieste sono stati quelli di Data Anlysis, Political Sciences and International Relations, International Management e Medicine and Surgery.

Crescita delle immatricolazione totali

Sempre sulla base degli studi dell”Osservatorio Talents Venture (clicca qui per leggere l’articolo completo), UniMe aveva già presentato un trend positivo nello scorso anno accademico con un aumento delle iscrizioni, così ingente da portare l’Ateneo tra i migliori 5 italiani in questa specifica statistica. Una tendenza confermata anche su scala nazionale dove, nonostante tutte le variabili in gioco legate alle limitazioni Covid-19, si era registrato un +15% di studenti stranieri iscritti alle università italiane, con la Sicilia capace di raggiungere un buon tasso di crescita pari al 13%.

Le conseguenze

Si tratta indubbiamente di statistiche che sorridono non solo all’Università di Messina, ma anche alla città, con le ripercussioni positive che da tale aumento potrebbero scaturire. Si tratta di una possibilità importante per l’economia e per la cultura cittadina. Questi nuovi arrivi potrebbero portare non solo ad una maggiore domanda per affitti e spese ordinarie, che indubbiamente sarebbero un impulso positivo al mercato della città, ma si tratta anche di nuovo e giovane capitale umano che, anche al di fuori dagli ambienti universitari, potrebbe stimolare il contesto cittadino.

Antonio Ardizzone

Sam Raimi: una favola di regia

Nel corso della storia del cinema possiamo contare diversi esempi di uomini e donne capaci di imporre le proprie idee e farsi amare dal pubblico internazionale partendo da zero.

Compie oggi 62 anni Sam Raimi, regista che ha fatto la storia della settima arte imponendosi autonomamente in un settore estremamente ostico verso chi non possiede le conoscenza necessarie per poterci lavorare.

Noi di UniVersoMe vogliamo celebrarlo andando a ripercorrere le tappe più significative della sua carriera.

Le origini e la trilogia de La Casa

Alla base del successo del regista gioca un ruolo fondamentale l’amicizia con Bruce Campbell. I due si conoscono dai tempi della scuola e fin da adolescenti iniziano a girare dei cortometraggi con una cinepresa regalata a Sam dal padre.

Trascorrono gli anni e la passione per il cinema porta i due a fondare una propria società insieme a Robert Tapert (l’allora compagno di stanza d’università di Raimi): la Renaissance Pictures. Il primo film della nuova casa di produzione fu La Casa (1981).

La pellicola racconta di cinque ragazzi che si recano in uno chalet sito all’interno di un bosco per divertirsi. Qui vi trovano un libro scritto in sumero (il Necronomicon), mediante il quale involontariamente evocano un’entità maligna che li perseguiterà. Toccherà ad Ash Williams (Bruce Campbell) cercare di salvare se stesso e i suoi amici.

Una scena del film – Fonte: Renaissance Pictures

La Casa inizialmente venne accolto da pareri discordanti della critica e non ottenne particolare successo al botteghino. Nel corso degli anni però, grazie alla redistribuzione in home video, venne ampiamente rivalutato fino ad essere considerato uno dei cult movie a basso costo più amati della storia. A causa del budget bassissimo, Raimi dovette arrangiarsi parecchio durante le riprese: molti effetti speciali vennero creati con mezzi di fortuna sul set stesso.

Ciò che colpisce enormemente della regia è sicuramente l’utilizzo della telecamera nei momenti in cui l’entità si muove tra i boschi: il regista ha deciso di effettuare delle riprese in soggettiva del demone mentre insegue i ragazzi. Gli inseguimenti vengono mostrati dal punto di vista dell’entità grazie a una sorta di steadicam (creata dal regista stesso), montata su un supporto mobile che garantisce un movimento fluido e veloce della cinepresa. Il risultato è un effetto tremolante senza alcuna perdita di qualità dell’immagine.

Nel 1987 il regista gira una sorta di sequel/remake, intitolato La Casa 2, con Bruce Campbell nuovamente nei panni  di Ash Williams. Grazie alla distribuzione di Dino De Laurentis e ad un budget 10 volte superiore al film precedente, Raimi riesce a riproporre ciò che aveva già realizzato ne La Casa, innalzando esponenzialmente la qualità della pellicola.

Un elemento estremamente importante della pellicola è certamente l’aspetto del protagonista: Ash ad un certo punto del film è costretto ad amputarsi una mano e poi ad autoimpiantarsi una motosega per sostituirla. Con una mano-motosega da un lato ed un fucile dall’altro, diviene a tutti gli effetti un personaggio iconico nel panorama del genere horror. Un esempio di come Raimi riesca ad aggiungere particolari significativi alla trama che restano impressi in maniera indelebile nella mente dello spettatore.

Ash ed il suo amato braccio-motosega

Nel 1992 esce il seguito diretto de La Casa 2 intitolato L’armata delle tenebre, film visceralmente diverso dai precedenti.  Non ci troviamo più di fronte ad un horror con sprazzi di comicità, ma più propriamente davanti ad un fantasy che vede sempre Ash Williams catapultato nel medioevo dove dovrà fronteggiare le forze del male.

La trilogia di Spider-Man: rinascita del cinecomic

Dopo il successo della trilogia de La casa, arriva un’occasione più unica che rara per il regista: nel 2000 la Sony gli affida il compito di dirigere Spider-Man. Un momento significativo per la carriera di Raimi: se prima il regista aveva tutta la libertà del mondo per esprimere la sua creatività da cineasta senza particolari pressioni, ora si ritrova su un livello estremamente più elevato.

Impostando la pellicola come una sorta di commedia d’azione con spruzzi di romanticismo d’alta classe (il bacio tra Peter Parker e Mary Jane meriterebbe un intero articolo a parte!) e gag esilaranti, il regista gira un film che incassa 800 milioni di dollari.

Il famoso bacio tra Peter Parker (Tobey Maguire) e Mary Jane (Kirsten Dunst) – Fonte: Columbia Pictures/ Sony Pictures

Fino ad allora i film sui supereroi erano considerati B-movies e le grandi case di produzione – a parte rarissime eccezioni- non investivano in tali progetti. Spider-Man (2002) fu un salto nel buio per la Sony, che grazie a Raimi decise poi di girarne due seguiti dal medesimo stile (in Spider-Man 3 però non sono presenti gag degne di questo nome). Da lodare anche le brillanti interpretazioni di tutto il cast (presente anche l’amico Bruce Campbell in un cameo).

La trilogia di Spider Man trascina una mole gigantesca di persone in sala ad assistere a un film di supereroi, segnando la rinascita del cinecomic e l’inizio di un periodo d’oro per il genere che arriverà fino ai giorni nostri con le pellicole del Marvel Cinematic Universe.

Sam Raimi – Fonte: horrorstab.com

Raimi è un esempio lampante non solo di come si fa cinema, ma di come si possa creare qualcosa che abbia qualità in qualsiasi condizione. Senza soldi gira una pietra miliare del genere horror, con i soldi dà linfa vitale al genere cinematografico più redditizio di sempre. Chapeau Mr Raimi.

Vincenzo Barbera