Crioablazione: nuove frontiere nella ricerca al Rizzoli di Bologna

L’istituto Rizzoli di Bologna mediante la tecnica della crioterapia, è riuscito a curare i primi sei pazienti affetti da fibromatosi desmoide.

  1. Cos’è la fibromatosi desmoide?
  2. Il trattamento convenzionale
  3. Cos’è la crioablazione?
  4. Procedura clinica
  5. Intervento al Rizzoli di bologna
  6. Conclusioni

Cos’è la fibromatosi desmoide?

La fibromatosi desmoide è una neoplasia fibrosa benigna (raramente maligna), che origina dal tessuto connettivo, rappresentando il 3% delle neoplasie dei tessuti molli.
È una malattia rara che colpisce soggetti giovani (10-40 anni di età), con maggiore prevalenza nel sesso femminile. Si manifesta con crescita anomala dei tessuti molli delle estremità e delle cellule fibromuscolari a livello addominale. Ne consegue dolore, compressione degli organi interni e disturbi della motilità.
Esistono forme sporadiche e forme genetiche. Le prime sono dovute, nell’ 80% casi, alla mutazione del gene beta-catenina, mentre nel restante 20% al gene APC. Le seconde, invece, sono correlate alla poliposi familiare per alterazione del gene APC.

 

https://conganat.uninet.edu

Il trattamento convenzionale

Il trattamento convenzionale, fino ad oggi utilizzato, comporta l’asportazione chirurgica combinata alla chemioterapia o radioterapia. 
A causa delle numerose recidive riscontrate nel 60% dei pazienti, si è notato però che non è preferibile intervenire chirurgicamente ma farmacologicamente, bloccando unicamente la crescita del tumore.
Grazie alla tecnica della crioterapia, è stata studiata la possibilità di eliminare la neoplasia attraverso crioablazione, riducendo così il deficit derivante all’intervento chirurgico tradizionale.

Che cos’è la Crioablazione?

La crioablazione è una tecnica della radiologia interventistica eseguita sotto guida radiologica, che consiste nel congelare letteralmente le cellule. Gli ambiti di applicazione variano dalla cardiochirurgia, utilizzata nella cura delle aritmie, fino alla rimozione di tumori, come avvenuto al Rizzoli di Bologna per sei pazienti affetti da fibromatosi desmoide.

 

https://cdn.gvmnet.it/

Procedura clinica

L‘intervento avviene in anestesia locale, inserendo uno o più aghi nella massa tumorale. Attraverso questi viene inoculato gas di temperatura inferiore ai -20 °C. In tal modo l’acqua presente nelle cellule tumorali si condensa in ghiaccio, causando necrosi cellulare e liberando gli antigeni tumorali. Ciò induce una risposta immunitaria contro il tumore.
Dunque la crioablazione consente di agire solo sulla massa tumorale senza intaccare tessuti sani, come avviene difatti con la chemioterapia.

Intervento al Rizzoli di Bologna

Il primo intervento in Italia è stato eseguito a luglio 2020 su un paziente di 39 anni. Il soggetto soffriva di dolore intenso e debilitante nella zona di crescita del tumore. Ha portato a scomparsa quasi completa della massa tumorale con una singola seduta.
Lo studio è stato diretto dal dottor Costantino Errani e dal radiologo interventista Giancarlo Facchini, basandosi sui primi risultati di uno studio americano del Memorial Sloan Kettering Cancer Center ed uno studio multicentrico francese.

 

http://www.ior.it/

Conclusioni

Offrire ai malati non solo una valida alternativa a un trattamento aggressivo o invasivo ma soprattutto una tecnica più efficace è ciò che ogni medico desidera per i propri pazienti”
Anselmo Campagna

Livio Milazzo

Bibliografia

Congelare il tumore con la crioterapia. Al Rizzoli di Bologna curati con questa tecnica i primi 6 pazienti affetti da fibromatosi desmoide | ISTITUTO ORTOPEDICO RIZZOLI (ior.it)

Fibromatosi di tipo desmoide – irccstumori (istitutotumori.mi.it)

Poliposi adenomatosa familiare – Disturbi gastrointestinali – Manuali MSD Edizione Professionisti (msdmanuals.com)

L’arte di narrare una storia: omaggio a Kobe Bryant

«Gli eroi vanno e vengono ma le leggende sono per sempre» si legge sulla locandina della nuova serie tv firmata Netflix, in uscita ad Agosto 2022, dal titolo The Black Mamba. Dopo il successo di The Last Dance, serie tv prodotta dalla piattaforma streaming per celebrare Michael Jordan nell’ultimo anno con i Chicago Bulls, Netflix si rituffa nel mondo del basket con un’altra leggenda dell’NBA: Kobe Bryant.

L’uscita – a due anni dalla scomparsa di Kobe e della figlia Gianna, insieme ad altre sette persone, in un tragico incidente avvenuto il 26 Gennaio 2020 – permetterà a tutti di immergersi nel mondo di un professionista del gioco.

Kobe Bryant e la figlia Gianna. Fonte: SportFair

La serie racconterà in un arco di dieci episodi i vent’anni di carriera di Bryant con la maglia dei Lakers, ripercorrerà tutti i successi del campione NBA, dai suoi esordi ai tre storici titoli consecutivi, al rapporto con la figlia Gianna, di cui era allenatore; un modo per riscoprire la carriera e le sfide di Black Mamba, attraverso i racconti degli ex compagni e dei suoi avversari.

Black Mamba, che darà il titolo alla serie è il soprannome che Kobe stesso scelse durante gli anni più bui della sua vita privata e della sua carriera. Un soprannome che lo aiutò a scindere il Kobe fuori dal campo di gioco dal Kobe professionista del basket alias Black Mamba appunto, un letale e rapido serpente, l’animale alle cui caratteristiche si ispirava per sviluppare il proprio stile di gioco, metafora di dedizione e talento per raccontare il suo approccio mentale alla pallacanestro.

Kobe Bryant. Fonte: The Indian Express.com

Moltissimi sono altri contenuti presenti in rete che ci permettono uno sguardo lucido su quei luminosi venti anni di carriera fino al ritiro nel 2016. Tra tutti, il libro autobiografico scritto da Kobe stesso è sicuramente una via privilegiata per guardare il mondo del basket dal punto di vista di un campione che padroneggiava perfettamente il gioco della pallacanestro.

The Mamba Mentality è il nome dato all’autobiografia edita Rizzoli e uscita in Italia nel Novembre 2018. Un resoconto minuzioso dell’approccio mentale di Kobe Bryant alla pratica sportiva, una riflessione sull’importanza di alimentare il talento con dedizione e  perseveranza. L’autobiografia vanta la presenza delle bellissime fotografie di Andrew D. Bernstein, da tempo fotografo ufficiale dei Los Angeles Lakers che seguì Kobe sin dall’inizio: la sua prima foto risale al 1996, quando il campione aveva 18 anni. Bernstein definì così il libro e la loro collaborazione durante un’intervista:

“Questo libro ,è una collaborazione davvero unica tra un atleta e un fotografo. Non credo ci sia mai stato un altro atleta in uno dei quattro maggiori sport professionistici americani che abbia speso 20 anni e tutta la sua intera carriera con la stessa squadra, fotografato attraverso l’occhio di uno stesso fotografo.”

L’opera è la dimostrazione di come l’amore per qualcosa – in questo caso uno sport – possano essere espressi con mezzi sempre diversi. Ma soprattutto racconta della strada percorsa da Kobe per raggiungere i suoi obiettivi: duri allenamenti, continuo studio del proprio modo di giocare e degli avversari attraverso filmati, cura e attenzione per ogni dettaglio.

“The Mamba Mentality”: copertina. Fonte: Rizzoli

Ossessione e dedizione costante al basket sono gli ingredienti di questo approccio alla pallacanestro, una mentalità che ha permesso a Bryant di conquistare cinque titoli, due medaglie d’oro olimpiche, due premi come miglior giocatore della lega nelle Finals, due premi consecutivi come miglior marcatore della stagione e il secondo numero massimo di punti mai segnato in un incontro NBA, fino all’ultima partita della sua carriera, dove segnò ben 60 punti.

Ma l’amore per il Basket ha portato Bryant a sperimentare nuovi modi per raccontare della pallacanestro. Lo stesso Kobe scriverà infatti:

“Questo sport mi ha dato ogni opportunità che avessi mai potuto desiderare, e lungo la strada ho imparato moltissimo. E non solo sul campo. Senza il basket non conoscerei la creatività né la scrittura […] questo sport in pratica mi ha insegnato l’arte di narrare una storia.”

La necessità di narrare lo ha condotto infatti nel 2015 ad annunciare il suo ritiro dal mondo della pallacanestro con un articolo pubblicato sulle pagine del The Player’s Tribune, dal titolo : Dear Basket, una vera e propria dichiarazione d’amore al basket, dall’infanzia al momento del ritiro. Dear Basket diventerà un cortometraggio con la voce di Kobe e le animazioni e la regia di Glen Keane.

Il corto, realizzato con un tratto a matita, ricorda i bozzetti Disney. Un’opera sicuramente dal taglio sentimentale che venne premiata nel 2018 con l’Oscar come miglior cortometraggio animato.

Dal cortometraggio “Dear Basket”. Fonte: lascimmiapensa.com

Per tutti questi motivi, la vicenda di Black Mamba ha effettivamente del leggendario per tutto il mondo del basket e a distanza di due anni dalla morte, la sua carriera e la sua presenza vengono restituite ai suoi tifosi sotto altre vesti, sotto forma di racconti, grazie alla necessità di narrare, grazie all’aiuto di quella complessa arte che è il tessere una storia.

                                                                                                                                                                    Martina Violante

Ucraina: NATO e USA stringono ancora, ma i negoziati continuano. La Russia accusa l’Occidente

Lunedì la NATO ha dichiarato di aver stanziato nuove truppe, navi e caccia da combattimento sui territori dell’Europa dell’Est per intensificarne la difesa, mentre gli Stati Uniti – lo afferma il portavoce del Pentagono, John Kirby – hanno messo in stato d’allerta 8,500 soldati in vista di un eventuale attacco russo.

Giorni prima, il Presidente Biden aveva disposto il ritiro del personale diplomatico non essenziale dall’ambasciata americana in Ucraina, seguito a ruota da una medesima decisione proveniente dal Regno Unito. La Gran Bretagna sostiene convintamente che la Russia voglia instaurare in Ucraina un presidente filo-russo, nonostante non siano state addotte prove a sostegno dell’accusa.

Tuttavia, anche l’Ucraina ed i rappresentanti UE hanno ritenuto il ritiro del personale diplomatico di USA e UK una mossa avventata e prematura, affermando tra l’altro che «non c’è motivo di drammatizzare la situazione mentre i colloqui con la Russia sono ancora in corso».

Il Cremlino non ha tardato a ribattere, bollando questa ulteriore stretta degli Alleati come «un’isteria dell’Occidente ed una diffusione di bugie». Infatti, Mosca ha più volte smentito di avere intenzioni belligeranti, nonostante la tensione ad Est si sia intensificata a seguito del dispiegamento di 100,000 soldati russi sui confini dell’Ucraina alcuni mesi fa.

Quali sono le reali intenzioni della Russia?

Si tratta della domanda a cui gli analisti provano a rispondere ormai da tempo, ma il comportamento imprevedibile di Mosca rende la questione molto complicata. E tuttavia, atteggiamenti del genere presentano alcuni fondamentali precedenti localizzabili nella regione del Donbass, ove nel 2014 alcuni manifestanti armati si sono impadroniti di alcuni palazzi governativi e definiti dal governo Ucraino come terroristi finanziati da Mosca. Non è nuovo che la Russia intervenga sempre nei disordini sociali dell’Europa orientale e, quasi sempre, a favore delle forze separatiste (come nel caso della Crimea, risalente allo stesso periodo).

(fonte: globalriskinsights.com)

Il perché è variabile: da un lato, garantire un margine di influenza sui paesi ex-sovietici; dall’altro, impedire l’espansione della NATO ad Est. Secondo un articolo di Valigia Blu, la Russia proverebbe un senso di tradimento nei confronti degli Stati Uniti a seguito del mancato rispetto della promessa – risalente alla fine della Guerra Fredda – di non espandere l’influenza della NATO ad Est. I fatti hanno rivelato il contrario: nel ’97 arriva il Vertice di Madrid, ove l’allora presidente Clinton ha invitato vari paesi ex sovietici (tra cui l’Ucraina) ad annettersi al Patto Atlantico.

L’articolo continua nel sostenere la tesi che il Cremlino stia mettendo in atto un esempio di “diplomazia coercitiva“, servendosi della pressione militare per costringere gli Stati Uniti al dialogo. Finora, i tentativi diplomatici tenuti a Ginevra non avrebbero dato risultati concreti per via della difficoltà di incontrare i requisiti minimi proposti da entrambe le fazioni.

  • La Russia spinge per il ritiro della NATO dagli Stati che vi hanno aderito post-’97 (tutti Stati ex sovietici) ed, in generale, dal panorama dell’Europa orientale;
  • la NATO chiede che la Russia ritiri le truppe stanziate dal dicembre scorso al confine con l’Ucraina.

Dai recenti incontri non è emerso che alcuno degli schieramenti intenda accettare le condizioni dell’altro.

La polveriera ucraina

Intanto, i consiglieri politici di Russia, Ucraina, Francia e Germania si incontreranno mercoledì a Parigi per parlare del conflitto in Ucraina orientale che, dal 2014, ha mietuto almeno 15,000 vittime. I negoziati di pace sul Donbass hanno ricevuto ormai da tempo una battuta di arresto, laddove nelle elezioni del 2019 erano state uno dei punti programmatici primari del presidente Zelensky. Lo stesso candidato aveva ricevuto un riscontro positivo da Mosca – prima di cambiare totalmente i piani in seguito ad un calo di consensi e porsi in contrasto con la Russia di Putin, invocando l’entrata dell’Ucraina nel Patto Atlantico.

Nonostante sia ben possibile (ma per niente scontato) che tra le intenzioni russe non ci sia quella di invadere l’Ucraina, rimane di fatto una continua escalation di tensioni tra blocchi (ormai è lecito affermarlo) che potrebbero, in concreto, condurre allo scoppio di un conflitto.

(fonte: ispionline.it)

Se ciò avvenisse, si tratterebbe di uno scenario altamente frammentario, ove è divenuta ormai palese l’esistenza di contrasti interni alla stessa NATO (a seguito delle discusse affermazioni di Biden e Macron) – così come di una divisione interna all’Unione Europea, con la Francia che spinge per un sistema di sicurezza comune, Borrell e Germania che non intendono sporcarsi le mani (principalmente perché la Russia è il primo fornitore energetico del nostro continente) e la presidente Von Der Leyen che ha appena approvato un nuovo pacchetto di aiuti finanziari all’Ucraina da 1,2 miliardi di euro.

Senza dimenticare, poi, il ritardo e l’inefficacia degli interventi sanzionatori della NATO e dell’UE già all’alba dell’annessione russa della Crimea.

Valeria Bonaccorso

 

Euphoria: ecco 5+1 motivi per guardarla (e subito)

Oltre ogni ragionevole dubbio, Euphoria è la serie di cui il mercato dei teen drama ha disperatamente bisogno. Non perché ecceda nella bellezza della trama o nella verve, ma per la sua sincera vocazione di regalare allo spettatore la sensazione di vivere in un trip allucinogeno lungo cinquanta minuti. E noi l’apprezziamo per questo.

Al momento, la seconda stagione di Euphoria va in onda ogni domenica su HBO. In Italia è disponibile su Sky Atlantic ogni lunedì alle 3 di notte e in streaming su Now.

Se non l’avete ancora iniziata, ecco a voi 5+1 motivi per guardare questa serie tv firmata HBO.

1)  La perfetta combinazione tra musica e fotografia

Sappiamo che sono passati cinque minuti e vi state già chiedendo cosa vi abbia spinto ad iniziare questa serie. Lo sappiamo, ma fidatevi di noi: è più un’esperienza sensoriale che altro. Non pretende di farsi capire, ma di essere vissuta. Ponendo la vostra attenzione sulla musica, gli effetti sonori, così come anche sulla fotografia, riuscirete forse ad addentrarvi nel pieno dell’esperienza.

Jules ( Hunter Schafer) in una scena della prima stagione

Dopotutto, siete nella testa della protagonista Rue (Zendaya), la teenager tossicodipendente narratrice dell’intera storia (ecco il perché di tante scelte stilistiche del regista Sam Levinson).

Famosissima, poi, la colonna sonora Still don’t know my name di Labirinth, che potreste già aver sentito sui social.

 

2)  I casting

Ovviamente questa è una di quelle serie tv che si segue per la trama – e la trama è Jacob Elordi (benché sullo schermo interpreti l’odioso Nate)! Ma andando oltre le mere apparenze, i casting director si sono davvero superati. Non solo per aver sottoposto gli attori a molti provini (come Barbie Ferreira per il ruolo di Kat, ed Hunter Schafer per quello di Jules), ma anche per essere riusciti ad assumere le perfette versioni in miniatura degli attori, per interpretare flashback legati all’infanzia dei personaggi.

A sinistra: Kyra Adler interpreta Cassie da bambina.  A destra: Sydney Sweeney nel ruolo di Cassie da teenager.

Alcuni dei personaggi sono stati cuciti a pennello sugli interpreti, come nel caso della già citata Rue, di Lexi (Maude Apatow), e Fezco (Angus Cloud). Tra l’altro, per alcuni di loro si tratta della prima esperienza attoriale. Niente male, dal momento che la recitazione non lascia a desiderare (tranne che in sporadici momenti).

Lexi e Fezco durante una scena della seconda stagione

Curiosità: Zendaya ha ricevuto un Emmy Award per la sua interpretazione nella serie, diventando la donna più giovane a vincere un Emmy per la miglior performance drammatica.

3)  Lo stile dei personaggi

Un “normale” giorno di scuola per Maddy e Cassie

«Ma non è possibile che degli adolescenti si vestano così a scuola». Certo, i modi di vestire abbastanza esuberanti non verrebbero mai accettati in un vero sobborgo americano della classe media. Ma Euphoria non ha la pretesa di essere realistica, anzi.

Lo stile dei personaggi rappresenta un diretto riflesso del loro stato d’animo: lo notiamo soprattutto nel trucco, spesso esagerato, portato fino allo stremo nel caso della vanitosa Maddy (Alexa Demie). La truccatrice ha confermato quest’ipotesi, affermando che le gemme e l’eyeliner vamp di Maddy nella prima stagione rappresentano il suo carattere forte e tenace; tuttavia, ha anche aggiunto che i makeup sono destinati a variare col tempo ed in base alle esperienze dei personaggi.

Alcuni dei makeup utilizzati durante le riprese

Oltremare, infatti, il trucco alla Euphoria è già diventato moda ed in tantissimi provano a ricrearlo: che questo trend sbarchi presto anche in Italia?

4)  Questa scena

Questa scena, tratta dal primo episodio della prima stagione, raffigura uno dei trip di Rue subito dopo aver assunto delle sostanze stupefacenti ad una festa.

Vi risulta già vista? Probabilmente sì. Infatti è un riferimento ad un’altrettanta rinomata scena tratta dal film Inception. Levinson ha fatto installare un set girevole per rendere realistico l’effetto no-gravity.

Tra l’altro, per tutto l’arco della prima stagione è possibile trovare riferimenti a molti altri film cult. Tenete gli occhi ben aperti per notarne altri!

5)  Ogni personaggio rappresenta una debolezza

Sebbene a primo impatto possa sembrare che sia Rue il personaggio più disastrato della serie, non lasciatevi ingannare. Tutti i personaggi rappresentano una debolezza diversa, che va dalla sindrome dell’abbandono all’incapacità di fuggire da un rapporto tossico fino alle difficoltà di farsi valere o di far valere la propria sessualità. Questo è forse l’aspetto che più avvicina lo spettacolo al genere “teen drama”, benché venga affrontato in modo molto crudo e spassionato.

Cassie in una scena della seconda stagione

Nulla sfugge dalla lente di cinica della nostra protagonista, il cui racconto ribalta l’archetipo classico del personaggio. Non siamo in presenza di personaggi con alcuni difetti che vengono fuori durante l’arco evolutivo, anzi, qui è addirittura difficile trovare dei pregi. Ciononostante, il lavoro degli attori è stato davvero magistrale, inducendo lo spettatore a trovare sempre e comunque qualcuno in cui rispecchiarsi o per cui provare simpatia… Anche se quel qualcuno dovesse essere uno spacciatore di droga.

5+1) Bonus: anche Leonardo DiCaprio ha ammesso di guardare la serie

E quale persona più autorevole dello stesso DiCaprio?

A dire il vero, i nuclei tematici di Euphoria non rappresentano qualcosa di fittizio, ma si calano bene nella realtà di oggi – una realtà che il pubblico adulto può e deve conoscere, al fine di fornire protezione ai giovani che ne hanno disperato bisogno. Tant’è che lo stesso cast ha raccomandato più volte di guardare la serie facendo molta attenzione al contenuto sensibile, affinché gli spettatori più fragili non ne rimangano negativamente segnati. Alla fine di ogni episodio, poi, viene trasmesso un messaggio che invita chiunque ne abbia bisogno a cercare aiuto.

Insomma, la cura sta nei dettagli.

Valeria Bonaccorso

“Emily in Paris 2” : everything coming up roses

Serie family friendly, adatta ad ogni fascia d’età, ma con qualche piccola sbavatura – Voto UVM: 4/5

 

«Everything coming up roses» recitava una vecchia canzone. Una frase tra l’altro già sentita e pronunciata da Emily Cooper (Lily Collins), protagonista della serie tv di successo mondiale Emily in Paris, produzione targata Netflix. Il significato sembra racchiudere perfettamente quello che è il carisma, la grinta, la passione e la positività della protagonista.

Come ci eravamo lasciati?

Tra una storia d’amore giunta al termine e l’incontro con un’evidente nuova fiamma, lo chef francese Gabriel (Lucas Bravo), Emily riesce ad affermarsi, stravolgendo le regole dell’azienda in cui lavora, nonostante sia un’americana sbarcata a Parigi che –  come ormai risaputo – è terra di veri patriottici duri a staccarsi dai propri costumi e dalle proprie convinzioni, anche in ambito lavorativo.

Nuove amicizie, nuove prime volte e l’eccessivo entusiasmo, però, portano la protagonista a fare scelte sbagliate, come quella di tradire la propria amica, Camille (Camille Razat), andando a letto con il suo fidanzato.

Nonostante ciò, Emily continuerà a vivere godendo appieno la vita, e facendo quasi sentire questo senso di totale leggerezza anche agli spettatori. Se trasmettere questa sensazione al pubblico era l’intento dei produttori, si può dire che ci siano riusciti alla grande!

Primo selfie di Emily a Parigi 

Ecco cos’è cambiato nella seconda stagione

Sempre più francese, ma senza mai abbandonare le radici, i valori e le strategie (di marketing) del proprio Paese, Emily è ancora più determinata nel proprio lavoro, pur vivendo un crescendo di fatiche e difficoltà. Rimasta imbrigliata nel triangolo amoroso con Gabriel, nonché suo vicino di casa, e la sua prima amica conosciuta a Parigi, Camille ( ex o “quasi” di Gabriel), la vita di Emily andrà a sfociare in un susseguirsi di eventi negativi. Diverrà dnque meno “rosea”, seppur vissuta sempre con il sorriso in volto e il coraggio di mettersi in gioco.

Sarà Alfie ( Lucien Laviscount), affascinante inglese, suo compagno a scuola di francese, a portare grandi cambiamenti nelle sue giornate. Ma ancora una volta gli sceneggiatori decideranno di lasciarci col fiato sospeso. La stagione termina infatti con una difficile scelta che deve compiere la protagonista, scelta che può incidere sulla sua futura carriera (e anche sulla vita privata). Ci tocca aspettare un po’ per sapere come andrà a finire.

Da sinistra a destra: Lucien Laviscount, Lily Collins e Lucas Bravo nella foto promozionale di “Emily in Paris 2”

To be continued…

Passerà un anno, o forse più, prima dell’uscita della terza stagione già ufficialmente confermata insieme alla quarta  (quest’ultima del tutto inaspettata).

Per cui, cari fan, se avete passato una brutta giornata, questa è un’ottima notizia per cui gioire.

Inoltre, sono molte le voci che girano riguardo ad un’interessante aggiunta nel cast: si tratta di Kim Cattrall (la seducente Samantha di Sex and the City), che dopo aver rifiutato di partecipare all’attesissimo sequel And Just like that, sembra voler approdare proprio nella Parigi di Emily.

Un po’ meno per i detrattori di una serie che ha toccato il gradino più alto del podio delle tendenze mondiali, divenendo in poco tempo una delle produzioni Netflix più amate e redditizie degli ultimi anni.

Petra e Madeline: pregiudizi o solo ironia?

“Nella serie c’è un’inaccettabile caricatura di una donna ucraina. Un vero e proprio insulto. Ma è così che vengono visti gli ucraini all’estero?”

Una tra le tante voci critiche arriva dall’Ucraina: il ministro della cultura Oleksandr Tkachenko ha sottolineato come il personaggio di Petra (Daria Panchenko), compagna di classe di Emily nel corso di francese, sia costruito sul solito vecchio stereotipo degli abitanti dell’est Europa. È possibile che nonostante la globalizzazione e il multiculturalismo, ci si fermi ancora a questo genere di pregiudizi?

Ad ogni modo, possiamo notare come effettivamente molti personaggi della serie siano un po’ caricaturali: Madeline (Kate Walsh), ad esempio, rappresenta quella che potrebbe essere considerata l’americana tipo che non rispetta gli usi francesi e pretende di imporsi con arroganza su tutti ( tralasciando i suoi modi molto poco fini).

Per quanto gli stereotipi che riguardano la figura di Madeline siano certamente meno offensivi di quelli che caratterizzano  il personaggio di Petra, è chiara una tendenza in tutta la serie alle generalizzazioni facili.

Petra ed Emily fanno shopping. Fonte: New.Fox-24.com

Serie da vedere tutta d’un fiato

Emily in Paris – la prima come la seconda stagione – è una serie leggera, piacevole da seguire, con tutti i suoi intrighi amorosi, i suoi grandi eventi ed outfit alla moda (fin dai primi episodi non si è potuto fare a meno di notare lo stile di Emily).

Allo stesso tempo, però, è molto interessante il multiculturalismo presentato: nonostante alcune forzature (come nel caso di Petra), la serie gira tutta intorno a come Emily riesce ad integrarsi nella società francese, sempre però mantenendo una sua individualità.

A questo punto direi che non ci resta che aspettare – con ansia! – la terza stagione per scoprire le nuove avventure di Emily. Au  revoir!

Ilaria Denaro, Marco Abate

 

 

Tonga: un’isola distrutta e tanti nodi da sciogliere

Tra il 13 e il 15 gennaio 2022 si è verificato uno dei fenomeni vulcanici più potenti degli ultimi anni. Si tratta dell’eruzione del vulcano Hunga Tonga-Hunga Ha’apai, in prossimità delle Isole Tonga. L’esplosione che ne è conseguita è stata così violenta da interessare, con le sue onde d’urto, oltre metà del pianeta.

https://static.open.online

INDICE

  1. La cintura di fuoco: perché proprio qui?
  2. Conformazione del vulcano
  3. L’eruzione
  4. Big one
  5. L’acqua come benzina per il vulcano
  6. Cosa ci aspettiamo nell’immediato futuro?

La cintura di fuoco: perché proprio qui?

L‘arcipelago di Tonga e l’omonimo vulcano sottomarino si trovano tra la Nuova Zelanda e le Fiji.
La zona è legata alla cintura di fuoco del Pacifico, l’area con la maggiore attività sismica ed eruttiva della Terra. Si calcola, infatti, che circa il 90% dei terremoti verificatisi sul nostro pianeta sia associato a questa regione, nata dal movimento di subduzione tra placche continentali e oceaniche.
Il vulcano, in particolare, è situato nel punto di giunzione fra due delle maggiori zolle descritte dalla tettonica delle placche, quella Pacifica e quella Indo-australiana. È proprio in questo punto che si forma il magma che, risalendo lungo la costa, origina una catena di vulcani.

 

https://www.sapere.it

Conformazione del vulcano

Il vulcano Tonga ha una struttura molto estesa: è alto circa 1.800 m, ampio pressoché 20 Km. Si estende in gran parte sotto le acque oceaniche, emergendo solo di 100 metri.
Fenomeni eruttivi si verificano periodicamente. Gli ultimi eventi significativi, di entità minori se comparati con quelli dello scorso 15 gennaio, sono del 2009 e del 2014-2015. Già nel dicembre 2021 il vulcano ha iniziato a presentare fenomeni eruttivi, seppur moderati. Gli scienziati hanno scoperto, inoltre, l’esistenza di una caldera, una depressione a forma generalmente circolare, subito sotto il livello del mare, formatasi a causa dello svuotamento dopo un’eruzione.
Piccole eruzioni, di solito, si verificano ai bordi della caldera, mentre quelle maggiori hanno origine dal suo centro, rendendole più profonde. Il magma, dunque, si accumula fino a creare le condizioni ideali per una potente eruzione a partire dalla caldera.

https://www.focus.it

L’eruzione

Poco dopo le 5 del mattino di sabato 15 gennaio 2022 (ora italiana) una violenta eruzione ha cancellato Hunga Tonga-Hunga Haʻapai, un’isola vulcanica appartenente al Regno di Tonga. Questa è stata creata dall’eruzione dello stesso vulcano sottomarino tra il 2014 e il 2015 e dallo stesso è stata distrutta. Le foto satellitari, mostrano una nube di fumo estesa a coprire parte dell’arcipelago. Questa ha un diametro di circa 520 Km.
L’eruzione ha VEI 6( VEI: indice di esplosività vulcanica), superando addirittura quella famosa causata dal Vesuvio nel 79 d.C., catalogata con un VEI 5

Big one 

Lo scienziato Shane Cronin chiarisce su The Conversation che eruzioni di questa portata si verificano quasi ogni mille anni. Secondo i suoi studi, l’ultima sarebbe avvenuta nel Pacifico meridionale nel 1100 d.C. Per arrivare a tale conclusione, il gruppo di Cronin ha analizzato materiali provenienti dalle eruzioni nell’isola di Tongatapu, scoprendo due grandi fenomeni di questo genere. Per datarle è stato utilizzato il metodo del carbonio 14.
Dallo studio e dal confronto con gli eventi del 2009 e del 2014, Cronin segnala che l’evento del 15 gennaio 2022 rientrerebbe nella categoria dei big one. Tuttavia non risulta chiaro se si è trattato di un fenomeno di picco.

https://media.internazionale.it

L’acqua come benzina per il vulcano

L’esplosione dovrebbe in realtà essere affievolita dalla presenza di acqua. Quando il magma entra a contatto con questo fluido, anche a temperature molto elevate, si forma una sottile pellicola di vapore tra questo e il magma, così che venga isolato e raffreddato esternamente.
Questo processo non avviene quando dalla crosta il magma viene espulsa ricca di gas vulcanico. In questo caso, infatti, la lava entra velocemente nell’acqua, avendo un contatto diretto con quest’ultima e producendo esplosioni a catena. Un primo scoppio fa a pezzi il magma, i cui frammenti a contatto col liquido, producono nuove esplosioni e così via. 

Cosa ci aspettiamo nell’immediato futuro?

«Siamo nel mezzo di una importante sequenza eruttiva» sottolinea Cronin «e molti aspetti rimangono poco chiari, in parte perché l’isola è attualmente oscurata da nubi di cenere. Le ultime due eruzioni sono state molto forti. La prima ha prodotto nuvole di polveri che sono salite fino a 17 Km di altitudine. La seconda è stata ancora più violenta. Il pennacchio di cenere è salito fino a 20 Km. Ciò dimostra un’enorme potenza esplosiva, che non può essere spiegata dalla sola interazione magma-acqua. Questi segni suggeriscono che la grande caldera di Hunga si è risvegliata. Non è chiaro se quanto successo sia stato il culmine dell’eruzione o se si tratti solo di un primo botto».

Le parole dello scienziato fanno riflettere sull’eventualità del verificarsi di nuovi fenomeni di questo tipo in breve tempo. La speranza è che ciò non avvenga e che si possa, il prima possibile, raggiungere i territori interessati dall’eruzione per prestare soccorso e fornire aiuto alla popolazione.
Continua a stupire la potenza distruttiva del pianeta che ci ospita, che ci dona la vita decidendo poi di spezzarla.
Solo così possiamo capire di essere debolmente umani.

Alessia Sturniolo

Bibliografia

 

Il fragile “Universo” di Mara Sattei

Mara Sattei
Mara Sattei si rivela in “Universo”, viaggio all’interno dell’inconscio fatto di sogni, dubbi e speranze del passato, senza uscire però dalla sua zona comfort. – Voto UVM: 3/5

Mara Sattei si mette a nudo e, nel suo Universo, ci racconta la solitudine, quel senso di angoscia e di inadeguatezza che molto spesso accompagna le nostre vite. Ma ci parla anche dell’importanza della fede e di come conquistare questa consapevolezza sia il primo passo per riconciliarsi con le proprie fragilità.

“Bisogna prendersi dei momenti per sé stessi per capire chi siamo, da dove veniamo, cosa vogliamo dire e cosa vogliamo comunicare.” (Mara Sattei)

Il 9 aprile 2021 esce Scusa, il primo singolo ufficiale di Mara Sattei, prodotto dal fratello Tha Supreme. Un brano che rappresenta la forza gigantesca che una parola può avere, e con cui la cantante romana iniziò a dar vita al suo “mondo minimal”. Segue poi Ciò che non dici, pubblicato il 3 dicembre, e che vorrebbe essere un invito ad agire piuttosto che aspettare che accada qualcosa.

Finalmente il 14 gennaio arriva Universo, uno degli album più attesi dell’anno. Mara è una delle voci più originali del nuovo panorama musicale e questo disco ne è la dimostrazione. È come un viaggio, dentro l’anima di chi ha trovato nella musica “la strada per sentirsi libera”.

Copertina di Universo. Fonte: Columbia Records

Come dentro un teen drama

Non sempre è semplice attraversare i propri limiti e andare oltre le proprie paure. Ansia, solitudine e costante ricerca di libertà sono solo alcuni dei temi trattati all’interno dell’album. Non stupisce dunque il fatto che in alcuni momenti sembra quasi di ascoltare chiari riferimenti a storie adolescenziali. Ne sono un esempio Shot e Blu Intenso ft. Tedua, che sembra trovarsi particolarmente a suo agio all’interno del brano.

“Mi sono presa del tempo per capire su quale brano inserire dei featuring. E dovevano essere affini al mio mondo, altrimenti si rischiava troppo contrasto sulla scrittura del brano. Questa riflessione mi ha portato a scegliere anche artisti con cui non avevo mai collaborato, come Tedua.” (Mara Sattei in un’intervista su “Billboard”)

Si riconferma vincente la collaborazione con Flavio Pardini, in arte Gazzelle, con cui l’artista aveva già collaborato al singolo Tuttecose, una delle hit estive di quest’anno. Ad un primo ascolto Occhi Stelle sembrerebbe una classica canzone indie che non ha niente di nuovo da dire, ma nonostante tutto funziona piuttosto bene. Il ritornello risulta uno dei più orecchiabili dell’intero album e la firma di Gazzelle e del suo “sexy-pop” è più che evidente.

“Mentre in sottofondo passa il tuo ricordo
Perso, vagabondo, il mondo è capovolto
E sei tu come le stelle che non vanno giù
E io come le mutande che non togli più”

Miscela di dubbi e rimorsi

Inaspettato è invece il featuring con la cantante Giorgia, in Parentesi, che fa davvero da spartiacque all’interno dell’album, e in cui Mara finalmente ci dà una dimostrazione completa della sua intonazione precisa e della sua notevole estensione vocale. Per il resto il pezzo avrebbe tutte le carte in regola per partecipare ad un festival come Sanremo. Che sia davvero questo il brano scartato da Amadeus?

Insieme a quello di Giorgia, il featuring con Carl Brave, Tetris, sembrerebbe una delle canzoni più riflessive del disco. Che Mara fosse un’ottima liricista si era già intuito dai suoi precedenti lavori, soprattutto grazie a metriche serrate, neologismi e libertà di linguaggio, Sara Mattei (questo il suo vero nome) qui dà libero sfogo a dubbi e rimorsi del passato, facendosi sempre più piccola e vulnerabile e lasciando allo scoperto le proprie fragilità. Trova largo spazio anche il tema dell’amore, come in Cicatrici e in Sabbie Mobili, e infine il forte rapporto della cantante con la fede e con Dio:

“In Perle racconto proprio di quanto, a volte, ci si possa sentire avvolti da un contrasto; la conseguenza è la richiesta di aiuto. In questi momenti, io solitamente prego, nel brano lo dico esplicitamente. Nei periodi più bui ho sempre mantenuto un legame molto forte con la fede.”

 L’universo perfetto di Mara Sattei?

Ogni album ha i suoi alti e bassi e purtroppo, anche Mara alcune volte sembra non volersi proprio smuovere dalla sua comfort zone, costringendoci a dover skippare la canzone forse un po’ troppo “ritornellosa”. Purtroppo, all’interno di Universo questo accade e non si può non farci caso. Come in Antartide o in Tamigi, che pur essendo state “impacchettate” perfettamente dall’ormai noto fratello minore di Mara, tha Supreme, che si è occupato dell’intera produzione del disco, lasciano l’amaro in bocca, come se mancasse qualcosa.

In definitiva, l’album non è perfetto, ma funziona. Tutti noi possiamo ritrovarci in almeno una di queste canzoni perché ognuno ha i propri punti deboli, le proprie vulnerabilità. L’obiettivo di questo disco sembra proprio quello di buttarle fuori, come in un lungo flusso di coscienza, e trasformarle in punti di forza. Siamo esseri fragili, “facili alla rottura”, ma non per questo soli.

Domenico Leonello

Don’t Look Up: un film che ci prende in giro (e a buon diritto)

Un film che critica la nostra società in maniera brillante. Adam McKay non smette di stupire – Voto UVM: 4/5

 

Le potenzialità di un film alle volte non incontrano limiti. È incredibile come la stessa pellicola possa essere guardata e giudicata con occhio diametralmente opposto in base alla forma mentis di persone appartenenti ad orientamenti politici o culturali diversi.

Tra chi “a sinistra” l’ha elogiato quale capolavoro sulla crisi climatica e chi invece, tra i repubblicani, no ne ha digerito i riferimenti alla politica di Trump, Don’t Look  Up, si è rivelato un film che ha letteralmente spaccato in due l’opinione pubblica, soprattutto quella americana. Proprio per questo noi di UniVersoMe, non potevamo rinunciare ad analizzarlo.

Trama

Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence), una specializzanda di astrofisica, scopre un’enorme cometa, la cui traiettoria impatterà molto presto con la Terra causando l’estinzione di ogni forma di vita. La dottoressa. assieme al professor Randall Mindy, (Leonardo Di Caprio) sarà convocata immediatamente nello studio ovale del Presidente degli Stati Uniti (Meryl Streep).

Da qui in poi ha inizio il teatro dell’assurdo: le istituzioni ed i media non si preoccuperanno minimamente dell’imminente catastrofe, anzi non faranno altro che sminuire la vicenda e trattarla come se fosse una qualunque questione all’ordine del giorno.

Cast

Il cast della pellicola è di primissima qualità.

Leonardo Di Caprio e Jennifer Lawrence danno vita ad un duo che funziona perfettamente. I loro personaggi sono gli unici a rendersi conto della terribile minaccia che incombe sulla Terra. Gli attori, calati interamente nei rispettivi ruoli, riescono perfettamente ad incarnare due scienziati impauriti che cercano con ogni mezzo di informare l’intera razza umana anche mettendo a nudo tutte le sue debolezze. Nonostante tutto, continueranno imperterriti nel proprio intento.

Il professor Randall Mindy (Leonardo Di Caprio) e la dottoressa Kate Dibiasky (Jennifer Lawrence) in una scena del film

Allo stesso tempo, confusi e impacciati, i due personaggi riusciranno a conquistarsi l’empatia dello spettatore che per tutta la durata del film dovrà convivere con lo stato di nervosismo e di ansia provato dai protagonisti.

Meryl Streep interpreta il Presidente degli USA mettendo a segno – come sempre – un’interpretazione magistrale. Dà vita ad una creatura che si ciba di consensi, populista oltre ogni misura, insomma una vera e propria macchina politica. Si può quasi definire una rivalsa personale per l’attrice nei confronti di un noto presidente che l’aveva definita “sopravvalutata”.

Da segnalare anche le ottime interpretazioni di Jonah Hill nei panni di Jason Orlean (figlio della presidentessa) e del premio Oscar Mark Rylance in quelli di Peter Isherwell (una sorta di Steve Jobs o Elon Musk).

Stile Mckay

Il regista Adam Mckay, in passato, non si è fatto problemi ad affrontare con i suoi film tematiche delicate. Con La grande scommessa (2015) ha ripercorso le origini della crisi finanziaria del 2008, mentre con Vice – L’uomo nell’ombra (2018) ha raccontato la vita di Dick Cheney, il vice presidente di George W. Bush, uno degli individui più loschi della storia americana.

Rappresentare ed affrontare problematiche odierne quindi non lo intimorisce per nulla.

Il presidente degli USA Janie Orlean (Meryl Streep) in una scena del film

Come già fatto in passato, il regista è riuscito a identificare quale sia la causa di fenomeni negativi che interessano il mondo intero: l’operato umano.

I politici, i programmi Tv ed i cittadini stessi sono gli artefici di tutto ciò che accade in Don’t Look Up.

Ripudiamo la scienza per ascoltare  – e ammirare come pecorelle – chi sproloquia per soddisfare esclusivamente un interesse personale.

Una delle scene più emblematiche, a questo proposito, è quella in cui i due scienziati sono invitati in uno studio televisivo. Tanto per cominciare, il loro intervento viene messo in scaletta dopo l’apparizione di una famosa cantante (interpretata da Ariana Grande) che dà vita ad uno spettacolo super trash con il proprio ex compagno, spettacolo che tuttavia raccoglierà il picco massimo di spettatori della trasmissione. Solo dopo viene dato spazio alla questione della cometa, problematica affrontata con molta leggerezza, scherzandoci su e ridicolizzando la povera Kate Dibiasky. Quest’ultima, dopo aver provato a spiegare i pericoli cui la Terra sarebbe andata incontro, sclera divenendo lo zimbello del mondo di Internet.

Una storia raccontata in perfetto stile Mckay, unico nel suo genere: l’autore mira diretto al problema e lo mostra per quello che è senza usufruire di metafore o riferimenti esterni e raccontandone le conseguenze con un ritmo incalzante.

La locandina del film

 

Un film che va visto per ciò che è: un film. Non un attacco a una specifica frangia politica o una satira esagerata sui complottisti.

E’ solo una pellicola che ci apre gli occhi su cosa sia oggi la nostra società e lo fa in maniera brillante. Ci prende in giro ed è normale e giusto che sia così. Guardatelo, godetevi lo spettacolo e distogliete l’attenzione dalle guerre mediatiche condotte per accalappiare consensi inutili.

Vincenzo Barbera

 

Hawkeye: un graditissimo regalo per chiudere il 2021

 

      Un ottimo regalo firmato Marvel per le feste natalizie   – Voto UVM: 4/5

 

Arrivata al suo quarto prodotto seriale, Marvel offre agli spettatori un prodotto molto più leggero rispetto agli intricati Wanda Vision e Loki ed al più politico The Falcon and The Winter Soldier (uscite sempre nel 2021).

La serie Hawkeye, trasmessa dal 24 novembre al 22 dicembre scorso su Disney +, vede per la prima volta come protagonista – dopo oltre 10 anni di film del MCU – Clint Barton (Jeremy Renner) alias Occhio di Falco, affiancato da una freschissima new entry, Kate Bishop (Hailee Steinfeld).

Clint (Jeremy Renner) con il classico costume viola. Fonte: Disney +

Gli eventi hanno luogo – come di consueto nelle ultime produzioni Marvel – dopo Avengers Endgame (2019), e sono per la prima volta piuttosto semplici e tranquilli.

Clint si prepara a trascorrere un felice Natale con la sua famiglia fino a quando non vede in televisione un oscuro fantasma del suo passato. Qualcuno sta indossando il suo vecchio costume di Ronin, identità adottata da Clint dopo il “Blip” (conseguenza dello schiocco di dita di Thanos avvenuto in Avengers Infinity War), in cui l’arciere, divorato dalla perdita della sua famiglia, diviene un giustiziere di criminali assetato di sangue.

Clint scoprirà immediatamente che chi si cela dietro la maschera non sarà altro che Kate Bishop, e da lì la serie impennerà verso vette qualitative decisamente elevate. Descritta così la storia potrebbe sembrare caratterizzata da quei toni cupi da cui Hawkeye in realtà si distanzia subito.

Infatti, la sceneggiatrice Katrina Mathewson pesca a piene mani dalla storia migliore dello scanzonato arciere ossia l’Occhio di Falco di Matt Fraction e David Aja, da cui riprende interamente i “nemici”: la Tracksuit Mafia (Mafiosi in Tuta), versione tremendamente caricaturale di qualunque associazione criminale.

 

Clint e Kate in una scena della serie

Ma l’aspetto per cui Hawkeye brilla di più non è la trama (che resta comunque piacevole e ben congeniata) bensì il legame tra Clint e Kate.

Con il succedersi degli episodi il loro rapporto maestro-allieva progredisce sempre di più fino a diventare quasi quello che c’è tra un padre e una figlia. L’entusiasmo di una novizia Kate e la stanchezza di un Clint, ormai sovraccarico di tutte queste dinamiche, spiccano in un dualismo ben caratterizzato.

Ogni loro dialogo è impattante, sia che si soffermi sulle tematiche più profonde sia che tocchi quelle più leggere e divertite. Le prove attoriali dei due protagonisti, poi, rendono la serie la gemma che chiude un 2021 ricco di produzioni Marvel.

Da sottolineare anche le coreografie di combattimento totalmente inedite nel panorama MCU data la massiccia presenza di arco e frecce che rende i combattimenti mai ripetitivi.

La serie non è tuttavia esente da difetti, seppur divertente e spensierata. Non si percepisce mai un vero senso di pericolo che coinvolga i due protagonisti: la già citata Tracksuit Mafia è del tutto innocua e funge solo da esilarante “punching ball” ( valvola di sfogo), mentre l’introduzione di Echo (Alaqua Cox) risulta troppo frettolosa e volta esclusivamente a presentare al pubblico il personaggio per il suo futuro spin-off.

Infine un ritorno graditissimo potrebbe risultare quello di un personaggio reso magistralmente nelle sue precedenti apparizioni su Netflix, ma che qui viene decisamente “svilito”. Di chi si tratta non saremo noi a svelarvelo!

 

Da una copertina della serie di Fraction e Aja – Fonte: Marvel Comics

 

In conclusione, Hawkeye è una serie che scorre via piacevolmente chiudendo linee narrative senza lasciare buchi, ma che pecca un po’ di ingenuità nella costruzione della trama. Ciò nonostante, resta un ottimo regalo per le feste di Natale.

Giuseppe Catanzaro

Matrix Resurrections: un sequel che divide il pubblico

Film che promette bene, ma si perde col passare dei minuti. Da “Matrix” ci si aspettava di più – Voto UVM: 2/5

 

Dopo circa 18 anni dalla conclusione della trilogia, Matrix ritorna sul grande schermo con un sequel/reboot atteso dai migliaia di fan della saga.

Matrix Resurrections, questo è il nome della pellicola disponibile nelle sale cinematografiche dal 1° gennaio. Il film vede protagonisti nuovamente i personaggi di Neo e Trinity, sempre interpretati da Keanu Reeves e Carrie-Anne Moss. Presenti anche altri personaggi centrali della trilogia, come Morpheus e l’ agente Smith, in questo caso però impersonati da attori differenti (rispettivamente Yahya Abdul-Mateen II e Jonathan Groff).

La regia è stata affidata stavolta alla sola Lana Wachowski, che ha curato anche la sceneggiatura.

Neo e Trinity

Molti dubbi aleggiavano sul successo e sulla validità di un sequel del genere: le vicende si erano ormai concluse in Matrix Revolutions, un seguito sembrava abbastanza forzato. In sintesi, Matrix Resurrections sembrava il classico tentativo di fare incassi sfruttando un brand di successo. Tuttavia l’uscita dei trailer aveva riacceso l’entusiasmo e la curiosità tra i fan e non solo.

Prime impressioni: quei difetti che balzano all’occhio

La trama di base non è male: Neo si ritrova ancora intrappolato in Matrix facendo i conti con il suo passato che riemerge. Diversi sono i cambiamenti che avvengono all’interno di questo mondo (il che è più che legittimo). Il problema è lo sviluppo: il film infatti va a perdersi col passare dei minuti risultando non molto interessante.

Alcuni personaggi risultano spenti, altri si vedono poco e finiscono per avere ruoli secondari, altri ancora risultano delle macchiette che definirei “fastidiose”.

Il finale poi mi sembra troppo affrettato – nonostante il film arrivi quasi alle 2 ore e 20 – con molte situazioni che non vengono spiegate in maniera adeguata. Abbiamo pur sempre a che fare con della fantascienza, ma qui le forzature sembrano essere troppe e alcuni avvenimenti risultano incoerenti con i film precedenti, classico difetto dei sequel e motivo per cui difficilmente riescono bene.

Morpheus in una scena del film

In più la storia sembra priva di spunti filosofici interessanti: troviamo solamente argomenti già affrontati e quest’aspetto la depotenzia molto. Vengono riprese le tematiche della scelta e del libero arbitrio, ma il discorso si era già esaurito nei capitoli precedenti: questa appare solo una ripetizione. Perciò complessivamente ho trovato il film piuttosto vuoto: da Matrix si pretende qualcosa in più.

Metacinema e altre note di merito

Il film si pone, però, come una critica spietata verso la situazione cinematografica attuale: da una parte ci sono gli spettatori, affezionati a determinati prodotti, e dall’altra l’esigenza delle case di produzione di adattarsi a queste richieste per riuscire a vendere. Ciò che traspare è un intento da parte della regista di prendere in giro questo sistema, come possiamo notare nella prima parte della pellicola.

Lana Wachowski sembrerebbe girare e scrivere questo sequel quasi di controvoglia, costretta dalle esigenze di mercato della Warner. Tuttavia, quello che ne viene fuori sono alcuni siparietti metacinematografici di alto livello, che ironizzano sul film stesso.

Sembrerebbe esserci stata una presa di coscienza da parte della regista che, consapevole di aver già tirato fuori il meglio dal brand, decide comunque di realizzare questo quarto capitolo, adottando di proposito certe soluzioni infelici, ma offrendo all’industria ciò che vuole.

Forse il cinema, come ogni forma d’arte contemporanea – per usare un termine proprio del film – si trova davvero intrappolato in un loop, in cui si ritorna sempre a proporre il classico “usato sicuro”, qualcosa di già visto (non a caso uno dei temi affrontati in questo Matrix è quello del déjà-vu).

Fonte: Zimbio.com – Carrie Anne Moss, Lana Wachowski e Keanu Reeves alla première del film

Per quanto riguarda l’aspetto tecnico, la regia è stata curata magistralmente, la CGI ben utilizzata e le scene d’azione non dispiacciono, anche se a volte confusionarie e comunque al di sotto di quelle viste nei film precedenti.

Presenti anche molte citazioni e riferimenti alla trilogia: puro fan-service verso gli appassionati che però non guasta, anzi è ben realizzato e rientra tra le note più positive.

Un Matrix diverso?

È molto difficile valutare questa pellicola: se si dovesse considerare una parodia voluta contro il sistema dello sfruttamento estenuante dei brand cinematografici, allora il giudizio sarebbe ottimo. Se si dovesse considerare, invece, esclusivamente come sequel della trilogia allora lo reputerei insufficiente.

Matrix Resurrections può convincere come film a sé stante, ma, posto in confronto con i capitoli precedenti della saga, rivela la sua vacuità.

In sostanza è un Matrix diverso, lontano dai canoni e dalle atmosfere dei primi film. Ma forse questo cambiamento è stato voluto e ci si dovrebbe focalizzare non tanto sulla trama, ma sul messaggio che la regista vuole dare.

È vero che si può trovare sempre qualcosa da raccontare: le storie potenzialmente non finiscono mai, ma ad un certo punto diventano ridondanti, rischiando di cadere nella mediocrità.

 

Sebastiano Morabito