Spencer: la storia di Lady D. da un altro punto di vista

Spencer racconta di una figura unica nella storia in maniera coinvolgente, con un’interpretazione da Oscar di Kirsten Stewart, voto 5/5

 

Principessa Diana, Lady D, Spencer: conosciuta e ben nota da tutte e tutti, è stata la componente della famiglia reale inglese che è vissuta maggiormente sotto i riflettori del mondo, emergendo da subito come figura ribelle ed anticonformista rispetto al protocollo della corona.

Spencer, scritto da Steven Knight e diretto da Pablo Larraìn, è il nuovo biopic che va a ripercorrere quello che è stato il periodo più buio della vita della principessa: le vacanze di Natale del 1991, trascorse con la famiglia reale a Sandrigham. E dopo le quali si avrà la rottura definitiva e la separazione dal principe Carlo. Il film, presentato in anteprima al festival del cinema di Venezia, è stato distribuito nelle sale statunitensi già il 5 Novembre dello scorso anno.

Un focus speciale su Diana

Primo piano della principessa Diana. Fonte: mymovies.it

Sulla stessa linea di altri film biografici del regista, come Jackie sulla figura della first lady Jacqueline Kennedy, e Neruda sul noto poeta, in Spencer si mantiene una ferma e meticolosa focalizzazione sulla protagonista. Tutti gli stati d’animo di Diana vengono riflessi nelle inquadrature e nel background musicale, sempre molto cupo e teso.

Ma ciò che rende questa pellicola così autentica è l’impressionante interpretazione di Kirsten Stewart nei panni di Diana, la quale le è fruttata anche la nomination agli Oscar 2022 come miglior attrice protagonista. Definirei questa sua performance inaspettata, in quanto i precedenti ruoli dell’attrice, come ad esempio quello di Bella Swan in Twilight, si sono sempre rivelati poco veritieri ed a tratti irrilevanti. Invece in Spencer, l’attrice è riuscita ad impersonificare pienamente la principessa ribelle, con tutte le sue preoccupazioni e la sua voglia di lottare contro quella stessa istituzione che stava pian piano uccidendo il suo spirito libero.

Carlo: marito e padre incurante

“Charles: But, you know, you have to be able to make your body do things you hate.
Diana: That you hate?
Charles: That you hate.
Diana: That you hate?
Charles: Yes. For the good of the country.
Diana: Of the country?
Charles: Yes, the people. Because they don’t want us to be people. That’s how it is. I’m sorry, I thought you knew.”

Il principe Carlo, interpretato dall’inglese Jack Farthing, è una figura pressoché assente per la prima parte del film. Pur rendendosi conto del grave stato di sofferenza della moglie, non fa nulla, rimarcando così il grave stato di crisi del loro rapporto. Egli spicca veramente nel film solamente nella scena di questo dialogo, in cui diventa un vero e proprio antagonista per Diana. Rappresenta il velo di ipocrisia di cui la famiglia reale effettivamente si ricopre, “for the good of the country”. Finzione che invece Diana non riesce ad accettare, cercando di rivendicare sé stessa.

William e Harry: l’unica evasione

Diana insieme ai principi Harry e William. Fonte: orgoglionerd.it

Nei momenti più bui, in cui la vita nella famiglia reale sembra insopportabile, Diana tende a rifugiarsi con i figli in un mondo più semplice, distaccandosi dal presente. Un esempio è la scena in cui la principessa, la notte della vigilia di Natale, dopo aver cercato di entrare nella sua vecchia casa, sveglia i due bambini per portargli dei regali (da aprire il giorno di Natale, non la vigilia come è tradizione della corona), e per mettersi a giocare con loro. In questa, come in molte altre occasioni, possiamo notare il forte attaccamento di Lady D. nei confronti dei propri figli e, allo stesso tempo, di come i bambini si rendano conto della sofferenza della madre, in particolar modo William, interpretato da Jack Nielen, che cerca in qualche modo di aiutarla e confortarla.

Il grande critico reale

Le vicende narrate sono indubbiamente molto delicate e possono in qualche modo essere mal viste da chi ne è direttamente protagonista. Quando si è trattato di portare sul grande schermo vicende della famiglia reale, è spesso stata la regina Elisabetta ad esternare le proprie critiche. Ma per Spencer, un altro membro della corna ha presentato il proprio scetticismo: stiamo parlando del principe Harry. Quest’ultimo ha affermato di non voler neanche presenziare alla cerimonia degli Oscar 2022, per evitare di imbattersi proprio nell’attrice Kirsten Stewart. Spencer ritrae, in maniera esplicita, un momento molto difficile della madre, quindi le critiche di Harry possono, a mio parere, nascere da un sentimento di salvaguardia di quella figura che per il mondo è stato un personaggio pubblico, ma per lui più semplicemente l’affetto più caro.

A sinistra l’attrice Kirsten Stewart, a destra il principe Harry e la duchessa Meghan. Fonte: elle.com

Spencer, insieme agli altri capolavori candidati quest’anno agli Academy awards, è sicuramente da non perdere. Per via di vari problemi collegati alla pandemia, il film, programmato per gennaio, uscirà nelle sale italiane il 24 Marzo. Quindi miei cari cinefili, giovedì tutti al cinema!

Ilaria Denaro

Una famiglia vincente: la storia di un padre e del suo sogno

“King Richard” è un film che fa riflettere molto sul ruolo della famiglia e sul contesto storico di qualche decennio fa- Voto UVM: 5/5

«Vinceremo e condivideremo la nostra vittoria con ogni persona del mondo». Sono queste le  parole di King Richard, allenatore ma soprattutto padre delle due campionesse di tennis, Serena e Venus Williams, le quali hanno contribuito a far la storia e portato orgoglio al popolo afroamericano. Sono state le figure ispiratrici di intere generazioni, hanno trasmesso la forza di chi è disposto a sacrificarsi per raggiungere i suoi obiettivi e realizzare i propri sogni.

Tuttavia non possiamo mettere in secondo piano l’uomo che ha plasmato le sorelle Williams all’insegna di questi valori. Passato alla storia come ‘Re Riccardo’, Richard Williams è andato contro ogni pregiudizio, ha lottato per dare il meglio e garantire un futuro di successo alle sue figlie.

Lasciamoci ispirare anche noi dalla loro storia, assaporiamola e viviamola attraverso il film biografico “King Richard-Una famiglia vincente” diretto da Reinaldo Marcus Green. Lasciamoci commuovere dalla recitazione di Will Smith, nei panni di  King Richard ,e delle giovanissime co-protagoniste Saniyya Sidney e Demi Singleton, nei panni rispettivamente di Venus e Serena Williams .

Un piano per il successo

Facciamo un salto nel passato: siamo negli ‘90 a Compton, un malfamato quartiere di Los Angeles, ed è lì dove tutto ha inizio. Richard Williams ha sempre avuto chiaro il futuro di queste due – allora – bambine: sarebbero state delle campionesse di tennis e non avrebbe fatto vivere loro l’ingiustizia sociale che era ancora tipica di quegli anni e di cui lui stesso portava i segni.

Padre di cinque figlie, con una situazione patrimoniale quasi precaria, e una conoscenza di questo sport inesistente, Richard inizia ad allenarle insieme alla moglie; prodigandosi tra lavoro, allenamenti, e la ricerca costante del  miglior coach che le possa portare al successo. 

La famiglia Williams al completo durante la vittoria,alla competizione juniores ,di Venus Williams. Fonte Overbrook Entertainment, Star Thrower Entertainment, Warner Bros

Il suo motto «se non pianifichi, hai intenzione di fallire» si ripete continuamente durante le scene del film, segno inconfondibile di quella che era la sua visione; questo suo atteggiamento potrebbe essere valutato come quasi ossessivo ma  non biasimabile. Dietro ogni sua parola e decisione troviamo sempre  il desiderio di dare il meglio alle proprie figlie.

Richard Williams : Questo mondo non ha mai avuto rispetto per Richard Williams. Ma rispetterà voi.”

 

Cambio di protagonista

Diversamente da come ci si potrebbe aspettare da un biopic, la storia non è incentrata sulle vicende delle sorelle: il focus che Green ha deciso di centrare  è il “nostro” formidabile allenatore. Destreggiandosi tra il ruolo di coach e padre, King Richard ci mostra le sue diverse sfaccettature e il proprio ruolo nella carriera delle figlie. 

A sinistra Richard Williams; a destra l’attore Will Smith nel ruolo di Richard. Fonte: IoDonna

Importante il messaggio di solidarietà e famiglia che impronta la trama: la famiglia come punto di ancoraggio e conforto nei momenti più bui – che sicuramente non possono mancare – e la solidarietà come forza contrastante di quel male chiamato diseguaglianza. La solidarietà che vive intrinsecamente nel cuore di un popolo che si sente affiatato. Ed è per questo che la vittoria delle sorelle Williams è anche la vittoria del popolo nero.

Richard Williams: il prossimo passo che stai per fare non rappresenterà solo te. Rappresenterà ogni ragazzina nera sulla Terra.”

Verso gli Oscar

Una famiglia vincente- King Richard, dopo aver vinto un premio Golden Globe, come migliore attore in un film drammatico a Will Smith e un premio Bafta, sempre per la performance di Will Smith, lo troveremo prossimamente sul palco degli Academy Awards con sei nomination: miglior film, miglior montaggio a Pamela Martin, migliore attore protagonista a Will Smith, migliore attrice non protagonista a Aunjanue Ellis, migliore canzone a Beyoncé, e migliore sceneggiatura originale a Zach Baylin.

 

Will Smith in una scena del film insieme a Saniyya Sidney e Demi Singleton. Fonte: Overbrook Entertainment, Star Thrower Entertainment, Warner Bros

Dopo due candidature Oscar come miglior attore, per i film Alì (2002) e La ricerca della felicità (2007), Will Smith sarà stato in grado di dimostrare, di essere degno di ricevere il premio cinematografico più prestigioso e antico del mondo?

Giada D’Arrigo

Padron ‘Ntoni: un papà siciliano

“Gli uomini son fatti come le dita della mano: il dito grosso deve far da dito grosso, e il dito piccolo deve far da dito piccolo.”

Così Padron ‘Ntoni, emblematico personaggio nato dalla fantasia di Giovanni Verga, spiega il suo ideale di famiglia nella sua celebre opera I Malavoglia”.           

Sacra, unita e indivisibile, la famiglia Toscano, sempre conosciuta da che mondo era mondo col soprannome antitetico de “I Malavoglia”, incarna alla perfezione i valori della famiglia tradizionale siciliana.         

Un ritratto della famiglia Toscano all’opera – Fonte: studentville.it

La “famigliuola di padron ‘Ntoni”

Umile, laboriosa, ospitale e vittima di innumerevoli disgrazie, che nel corso del romanzo determineranno la disgregazione dei vari componenti.

“E la famigliuola di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano. Prima veniva lui, il dito grosso, che comandava le feste e le quarant’ore; poi suo figlio Bastiano, Bastianazzo, perchè era grande e grosso quanto il San Cristoforo che c’era dipinto sotto l’arco della pescheria della città; e così grande e grosso com’era filava diritto alla manovra comandata, e non si sarebbe soffiato il naso se suo padre non gli avesse detto «sóffiati il naso» tanto che s’era tolta in moglie la Longa quando gli avevano detto «pigliatela». Poi veniva la Longa, una piccina che badava a tessere, salare le acciughe, e far figliuoli, da buona massaia; infine i nipoti, in ordine di anzianità: ’Ntoni il maggiore, un bighellone di vent’anni, che si buscava tutt’ora qualche scappellotto dal nonno, e qualche pedata più giù per rimettere l’equilibrio, quando lo scappellotto era stato troppo forte; Luca, «che aveva più giudizio del grande» ripeteva il nonno; Mena (Filomena) soprannominata «Sant’Agata» perchè stava sempre al telaio, e si suol dire «donna di telaio, gallina di pollaio, e triglia di gennaio»; Alessi (Alessio) un moccioso tutto suo nonno colui!; e Lia (Rosalia) ancora né carne né pesce.”

I lettori più appassionati la conoscono come “l’etica del pugno chiuso“, concetto secondo cui ogni membro della famiglia è assimilato alle dita di una mano e pertanto ha una sua posizione fissa e altamente gerarchizzata.

Ognuno è tenuto a rispettare il proprio posto e ad accontentarsi della propria condizione sociale ed economica al fine di non essere travolto dalla fiumana del progresso che solo i vincitori sono in grado di cavalcare.

Il nipote ‘Ntoni, che un giorno avrebbe dovuto rivestire la figura del capofamiglia, viene descritto come un vinto che avendo cercato di migliorare la propria condizione è stato sopraffatto dalla fiumana.

“Fa il mestiere che sai, che se non arricchisci camperai.”

Il segreto per vivere serenamente? Accontentarsi.                                                                                       

Ma ‘Ntoni avrebbe mai potuto accontentarsi di essere un padre distaccato, freddo, emotivamente assente e poco aperto al dialogo come lo era stato suo nonno per il padre Bastianazzo?

Avrebbe mai potuto mostrare indifferenza di fronte all’esigenza della nuora di avere un caldo abbraccio di consolazione per la partenza del figlio? O di fronte alla frustrazione di un nipote che sin dalla nascita porta il peso di un ruolo che forse non ha desiderio di assumere? 

Illustrazione della famiglia Toscano, i “Malavoglia” – Fonte: scuolissima.com

Padron ‘Ntoni: un uomo tutto d’un pezzo

Sicuramente ben lontano dall’ideale di padre affettuoso, comprensivo, inclusivo, giocoso che conosciamo oggi, Padron ‘Ntoni è un uomo che non può permettersi di piangere, perché egli è la colonna portante della famiglia. Se egli crolla, di conseguenza crolla ogni componente della famiglia.                

“Il nonno, da uomo, non diceva nulla; ma si sentiva un gruppo nella gola anch’esso, ed evitava di guardare in faccia la nuora, quasi ce l’avesse con lei.”

Padron ‘Ntoni è un uomo che non può permettersi di mostrarsi debole, vulnerabile. Se avesse incrociato lo sguardo della nuora probabilmente si sarebbe commosso.  Ma un vero uomo non piange. Cosa allora lo rende uomo se non la sofferenza? Cosa è più umano del dolore? E soprattutto, che senso ha fare parte di una famiglia così unita come Verga stesso la descrive, per poi non poter condividere tale dolore?

Determinato, irremovibile, responsabile, impassibile. Il capofamiglia non ha neppure la possibilità di rilassarsi perché chi ha carico di casa non può dormire quando vuole. E non può assolutamente abbandonare il suo ruolo poiché senza pilota barca non cammina.

Eppure, nonostante il suo modo di dimostrare affetto sia apparentemente inesistente, un attento osservatore può comprendere l’amore che lo lega alla sua famiglia tramite un’azione semplice come quella di offrire un bicchier d’acqua alla nuora.                                                                    

Un’azione che intende comunicare vicinanza, supporto. Diversa, ma pur sempre una dimostrazione d’affetto.  Un attento osservatore vedrebbe, nel tentativo di corrompere i “pezzi grossi” del paese per evitare al nipote di prestare servizio militare obbligatorio, un atto di amore. 

Enrico Guarnieri, interprete di Padron ‘Ntoni nella rappresentazione teatrale de “I Malavoglia” di Guglielmo Ferro – Fonte: ilbuonsenso.net

Chi è allora Padron ‘Ntoni?

Chi è allora Padron ‘Ntoni? Semplicemente un papà.

Un papà che non ha goduto a pieno del suo ruolo di padre perché lo ha confuso e assimilato più del dovuto a quello di capofamiglia. 

Un nonno che ha visto nei suoi nipoti, i futuri discendenti che avrebbero sorretto la casa costruita con tanta fatica dai suoi avi.   

Un uomo che ha vissuto credendo che mostrare la sua sfera più intima ed emotiva lo rendesse meno uomo.                                     

A volte, per essere un bravo papà, è sufficiente saper essere umano.

 

Alessandra Cutrupia

 

Fonti:

Giovanni Verga, I Malavoglia, Milano, Treves, 1881

Immagine in evidenza:

Giovanni Verga, autore de “I Malavoglia” – Fonte: michelegrillo.it

Disney, Pixar, Sony o indie: quale sarà il miglior film d’animazione 2022?

Quest’anno la lotta per la statuetta di miglior film d’animazione si preannuncia ostica, con contendenti equipaggiati di un ottimo arsenale. Dal lato Disney abbiamo Encanto e Raya e l’ultimo drago, che continuano la tradizione recente dei classici con forti eroine in copertina, e Luca, il nuovo film co-prodotto con Pixar, dai tratti nostalgici.

Sony presenta invece I Mitchell contro le macchine continuando sulla strada di “Into the spiderverse”. Entra poi da outsider il documentario Flee, progetto di nicchia venuto alla ribalta.

L’incanto dei Madrigal

Il nuovo musical Disney, Encanto, si presenta come un’avventura vivace e piena di colori, con personaggi carismatici. Si avvicina molto all’immaginario dei Paesi dell’America Latina, ricalcando i paesaggi e la cultura di quella parte di mondo. Tutto si basa sul dono fatto alla famiglia dei protagonisti: ognuno dei Madrigal ottiene un potere magico grazie al quale ha la possibilità di aiutare la famiglia e l’intero villaggio sorto intorno alla loro “Casìta”.

Un concept semplice ma che funziona. Purtroppo il film risente, a parer nostro, di una parte musical che si estrania dalla narrazione. Soffre inoltre di un finale poco coraggioso, con un risvolto che va quasi ad annullare lo sviluppo dell’intero film. Riesce comunque a divertire ed emozionare fino alla fine, lasciando addosso una piacevole sensazione di positività.

La famiglia Madrigal. Fonte:  Walt Disney Studios

La ricerca delle quattro gemme

Raya è invece un’avventura ambientata in un mondo orientaleggiante che deve tanto a Dune e Star Wars. È infatti una classica avventura fantasy, in cui seguiamo un’eroina nella sua ricerca di quattro artefatti magici. Le terre esplorate ed ogni popolo presentano una forte identità, invogliando il pubblico a seguire il percorso della trama.

Ciò aiuta il film a reggersi, tra alti, rappresentati dalle sequenze più seriose che rendono più realistico ed adulto il mondo ed i suoi personaggi, e bassi che potevano essere tranquillamente evitati. Soprattutto un finale alla ”tarallucci e vino” che avremmo preferito non vedere, in un serioso mondo post apocalittico con grande enfasi sulla politica e sui popoli. Rimane comunque un ottimo film che avrebbe potuto essere grande.

Le due protagoniste nemiche-amiche. Fonte: insidethemagic.net

I mostri marini di Portorosso

Passando sul versante Pixar, Luca è un film che tocca corde molto nostalgiche e personali. Ambientato in Liguria durante il boom economico dell’Italia, mostra tutto quello che risulta iconico di quel periodo, ricordando molto da vicino anche le pellicole di quegli anni. La salsedine sulla pelle sembra quasi di sentirla e tra la case dalle mura crepate nei vicoli stretti acciottolati, si respira la stessa sensazione di un’indimenticabile estate da turista. Il mare è reso in maniera eccellente e – non a caso – è stato scelto come elemento centrale della storia.

Il film quindi è – e rimane -una vera gioia per gli occhi e per il cuore, anche se di fatto ci troviamo di fronte ad una storia trita e ritrita, di genitori apprensivi e della crescita personale di un protagonista timido che scopre il mondo preclusogli fino a quel momento.

I tre bambini protagonisti. Fonte: Pixar Animation Studios, Walt Disney Pictures

Real life versus web

La produzione Sony, invece, risulta essere molto diversa. Ne I Mitchell contro le macchine, la commistione di animazione 2d e 3d è il vero elemento di forza. Traspira da ogni fotogramma una grande creatività grazie alle nuove possibilità realizzative. La famiglia di protagonisti risalta per la sua eccentricità (evidenziata dalle giganti onomatopee a schermo e dalla dinamicità dell’animazione) e per il suo essere ”freak”. Ma la loro fisicità e il loro carattere risultano estremamente umani ed empatici ad un occhio più adulto.

L’intera trama è un pretesto per far avvicinare il padre e la figlia maggiore. Questa premessa riesce, nella sua semplicità, a creare una storia a cui il pubblico di qualunque età può legarsi. Questo anche grazie al buon ritmo e alle buone sequenze d’azione, assieme ad un finale rocambolesco, in cui – grazie a Dio! – buoni e cattivi non si abbracciano.

L’unico difetto del film è l’estremizzazione di alcuni motivi narrativi, che coinvolgono tutto il pianeta e avrebbero invece funzionato di più  se confinati agli USA. Ultima nota positiva a margine è la frecciatina a certe aziende, a cui al giorno d’oggi abbiamo dato troppo potere.

La ”stravaganza dei Mitchell”. Fonte: Sony

Vivere in fuga

Per finire parliamo di Flee. Nato come progetto estremamente low budget, è riuscito ad ottenere una candidatura a ben tre premi: miglior film d’animazione, miglior film internazionale e miglior documentario.

Lo strazio e l’angoscia si percepiscono, riuscendo a far sentire al pubblico, una vicinanza intima al protagonista e alla sua famiglia, anche grazie all’uso di un’animazione grezza, incredibilmente riuscita. La pellicola si presenta come una traduzione su carta di un documentario filmato dal vivo, inframezzato dai ricordi narrati dal protagonista, in cui si racconta la fuga dall’Afghnistan successiva alla guerra civile degli anni ’80. Seguiamo la famiglia nella sua fuga verso la Russia e poi verso l’Europa, vivendo i drammi dell’illegalità e del trovarsi senza aiuti, con la costante speranza di un futuro migliore per sé e per i propri cari.

La pellicola, raccontando una storia cruda e reale, ha buone probabilità di rimanere nella mente di coloro che la guarderanno, a maggior ragione in un momento storico come questo. 

Il peschereccio dei trafficanti umani. Fonte: Sun Creature Studios

Pronostico?

La scelta dell’Accademy quest’anno potrebbe essere scontata o coraggiosa: se da un lato sarebbe ovvio premiare Encanto, dall’alrtro speriamo nella vittoria de I Mitchell, perché ci auguriamo che la classica animazione 3d occidentale possa evolvere rispetto alla staticità di quella Disney o Pixar.

Ci sentiamo di escludere dal podio gli altri tre, ma saremmo felicemente sorpresi di veder trionfare Flee, magari anche in altre categorie.

 

Matteo Mangano

Irradiazione protonica: possibile svolta con la terapia laser

Terapia protonica (protonterapia), una tecnologia innovativa e in evoluzione costante, ma con difficoltà legate agli enormi costi. Recentemente però, grazie alle nuove scoperte (protonlaserterapia) potrebbe diventare una delle nuove e più potenti armi contro il cancro.

INDICE

Cos’è la protonterapia?

Cosa sono i protoni e come funziona?

Quali malattie si possono trattare?

Nuove scoperte e prospettive future

Approccio terapeutico

 

Cos’è la protonterapia?

La protonterapia è una metodica di radioterapia esterna, che sfrutta i protoni per irradiare un tessuto malato (come una massa tumorale), al fine di danneggiare il DNA delle cellule e “uccidere quelle bersaglio”, portando a guarigione il paziente.

Cosa sono i protoni e come funziona?

I protoni sono particelle pesanti subatomiche dotati di carica positiva, facenti parte degli adroni (nello specifico dei barioni, contenti un numero dispari di quark). È proprio questa caratteristica che li rende adatti alla radioterapia. Infatti, grazie alla loro massa, posseggono una bassa dispersione laterale nell’attraversamento dei tessuti e, inoltre, la dose erogata al tessuto è massima solamente negli ultimi millimetri del tragitto della particella (questo punto è chiamato picco di Bragg, Fig 1).

(Fig. 1) Fonte: http://www.informa.airicerca.org/

Questo consente di evitare che il fascio si diffonda ai tessuti sani e rimanendo localizzato sul bersaglio, garantisce la massima efficacia terapeutica con bassi effetti collaterali, permettendo di utilizzare delle dosi più cospicue per una migliore prognosi ( a differenza dei raggi x o radioterapia tradizionale, dove non si possono utilizzare dosi più elevate senza il rischio di compromettere i tessuti sani a causa della dose d’uscita).

Fonte https://linearbeam.com/protonterapia/

Fonte https://linearbeam.com/protonterapia/

Quali malattie si possono trattare?

I tumori che ad oggi si possono trattare sono tutti quelli in cui attualmente si utilizza la radioterapia convenzionale.  Essa è indicata nei casi di tumori radio-indotti (sorti in pazienti già trattati con radioterapia convenzionale), nei tumori vicino a organi nobili (come il cervello) e contro tutti i tumori solidi pediatrici.

Nello specifico, secondo la US National Library of Medicine i tumori che possono essere trattati sono:

  • Tumori cerebrali, cordomi e condrosarcoma della base cranica;
  • Melanomi oculari;
  • Tumore dei seni paranasali;
  • Tumore delle ghiandole salivari;
  • Melanomi mucosa delle alte vie respiratorie;
  • Linfomi;
  • Tumore al pancreas e del fegato;
  • Tumore alla prostata, cordoni e contro sarcoma sacrali, tumori del retto;
  • Sarcomi le parti molli.

Nuove scoperte e prospettive future

Uno dei principali problemi della terapia protonica è che richiede grandi acceleratori di particelle e costi elevati. Proprio per questo motivo, gli studiosi, hanno analizzato l’impiego di metodiche alternative, come i sistemi laser, per ovviare al problema.
Un team di ricerca presso l’HZDR (Helmholtz-Zentrum Dresden-Rossendorf), ha testato con successo l’irradiazione con protoni laser sugli animali.
La Dott.ssa Beyreuther ha spiegato che è frutto di un intenso lavoro ed avanzamento delle tecnologie: “Lavoriamo al progetto da 15 anni, ma solo negli ultimi tempi siamo riusciti ad ottenere, finalmente, miglioramenti cruciali, soprattutto grazie ad una migliore comprensione dell’interazione dei flash laser. Ora possiamo adattarli per creare impulsi di protoni che hanno energia sufficiente e sono anche abbastanza stabili“.

Fonte: HZDR / Juniks

Approccio terapeutico

Il nuovo approccio si basa su due principi:

  • Laser ad alta potenza;
  • Enorme intensità che permetterebbe la somministrazione della dose di radiazioni nell’arco di un milionesimo di secondo.

Elke Beyreuther ha infatti affermato: “È importante un laser ad alta potenza per generare forti impulsi di luce di estrema brevità, che vengono poi sparati su una sottile lamina di plastica o metallo. In seguito, l’intensità di questi lampi emette fasci di elettroni, creando un forte campo elettrico che può raggruppare i protoni in impulsi ed accelerarli ad alte energia. Ci sono indicazioni che una somministrazione di una dose così rapida aiuta a risparmiare il tessuto circostante sano anche meglio di prima. Vogliamo quindi condurre studi preclinici per studiare quando e come questo metodo di irradiazione rapida dovrebbe essere utilizzato per ottenere un vantaggio nella terapia del cancro“.

Livio Milazzo

Bibliografia

Irradiazione protonica: la nuova frontiera per combattere il cancro (everyeye.it)

Tumour irradiation in mice with a laser-accelerated proton beam | Nature Physics

Wikipedia, l’enciclopedia libera

Linearbeam

 

The Batman: Il ritorno dell’eroe tormentato

Matt Reeves confeziona un prodotto autoriale sull’uomo pipistrello senza snaturarlo. – Voto UVM: 5/5

 

L’autorialità nei cinecomics non è di certo una novità, basti pensare alla trilogia di Spider-Man di Sam Raimi o ai precedenti Batman di Tim Burton e Nolan. Il regista Matt Reeves, con il suo The Batman, uscito nelle sale il 3 marzo 2022, vuole rendere omaggio alle precedenti incarnazioni dell’uomo pipistrello, dando vita a quello che da molti è stato definito come il miglior Batman di sempre.

In una nuova Gotham sporca, perversa e fradicia di pioggia che fa da palcoscenico ad una serie di efferati omicidi, nel bel mezzo della campagna elettorale per il nuovo sindaco, indaga un Batman (Robert Pattinson) in attività da appena qualche anno. Quest’ultimo coadiuvato da Alfred (Andy Serkis), dal commissario Gordon (Jeffrey Wright) e da Catwoman (Zoe Kravitz).

Batman in una scena del film. Fonte:Warner Bros. Pictures

Le tenebre di una nuova Gotham

Reeves riesce a confezionare una detective story dai toni noir e polizieschi, impattante sia per la sceneggiatura che per regia e fotografia, dando vita ad alcune delle sequenze migliori mai viste nella storia cinematografica del cavaliere oscuro. Esaltando alcune delle caratteristiche principali che hanno reso grande l’eroe di casa DC, non fa mancare la paura che egli incute nel cuore di ogni criminale alla sola vista del bat-segnale. Come egregiamente dimostrato dalla sequenza che introduce per la prima volta nella pellicola il crociato di Gotham.

Altro punto forte della pellicola è senz’altro il non essere una origin story (ormai raccontata e vista fino alla nausea) bensì un punto di vista mai narrato prima, di un Batman già formato ma ancora acerbo. Quest’ultimo è, infatti, soltanto al suo secondo anno di lotta del crimine, e soffre ancora per la morte dei genitori.

Il regista, inoltre, non fa mancare i riferimenti ad alcune delle storie più iconiche del pipistrello, prendendo a piene mani principalmente da Il Lungo Halloween di Loeb e Sale e da Anno Uno del leggendario Frank Miller. Trasponendone alcuni snodi fondamentali, riesce ad adattarli magistralmente alla vicenda narrata all’interno della pellicola.

Il cast eccezionale di The Batman

L’attore inglese Robert Pattinson, sin da subito si rivela la scelta migliore per interpretare un personaggio così complicato e tormentato. Fa pace con i fantasmi ( e i vampiri!) del passato, riuscendo a calarsi perfettamente nei panni di un giovane Bruce Wayne e del suo Batman, rabbioso e irregolare.

Un plauso più che meritato va anche al resto del cast. Al fianco di Pattinson troviamo il Pinguino di Colin Farrell, reso totalmente irriconoscibile grazie ad uno splendido lavoro di trucco e costumi; la Catwoman di Zoe Kravitz che più risente della sceneggiatura del film. Alla Kravitz, infatti, il regista regala una backstory ed una motivazione ben più precise rispetto a quelle della sua misteriosa controparte a fumetti. Ed infine l’Enigmista, di Paul Dano, che ci regala una prestazione sontuosa degna di una futura nomination agli Oscar.

L’Enigmista di Paul Dano. Fonte: Warner Bros. Pictures

In conclusione The Batman è il film che tutti stavano attendendo. Matt Reeves confeziona un racconto che trasuda le caratteristiche dell’uomo pipistrello da ogni lato e che le fa brillare in un prodotto che rimarrà nella storia del genere come uno dei migliori esponenti.

Giuseppe Catanzaro

“A’ pistola lasciala e guarda Il Padrino”: 5 motivi per recuperare un cult

Il 15 marzo 1972 fu proiettato per la prima volta quello che non è un semplice film, ma un vero e proprio capolavoro con la “C” maiuscola: Il Padrino (The Godfather), tratto dall’omonimo romanzo di Mario Puzo.

Proprio in occasione del suo “compleanno d’oro” – oro che ha, effettivamente, intascato con un botteghino da ben 1.144.234.000 di dollari! –, è tornato in sala in versione restaurata, dandoci l’opportunità  per scoprire e, chissà, innamorarci del gangster-movie per eccellenza, di un lungometraggio che ha fatto la storia del cinema e che tutti, dal più appassionato dei cinefili al più giovane dei profani, dovrebbero conoscere.

E se non foste ancora convinti del perché questa pellicola è ancora oggi così famosa, ecco a voi 5 motivi (in realtà, ce ne sarebbero molti di più!) per cui dovreste  mettervi comodi ad ammirare l’opera d’arte del regista Francis Ford Coppola 

1) Il tema della famiglia

Non esiste citazione più adatta per descrivere Il Padrino di questa: «Perché un uomo che sta troppo poco con la famiglia non sarà mai un vero uomo». E non è un caso che il film si apra proprio con uno degli eventi più importanti per una famiglia, che può finalmente riunirsi: il matrimonio della figlia di Don Vito Coreleone, Connie (Talia Shire).

La trilogia, infatti, narra dell’ascesa e della caduta di una “famigghia” di immigrati, prima che di un clan mafioso, nell’America del secondo dopoguerra che, spesso, contrasta la vita “alla siciliana”  o – peggio – gli interessi della Famiglia.

Il matrimonio di Connie Corleone. Fonte. Paramount Pictures

In particolare, racconta del passaggio del testimone da un padre a un figlio. Il primo, Vito Corleone ( Marlon Brando), è un uomo saggio che, agli spargimenti di sangue, preferisce l’uso della ragione e che, nel momento del declino, si avvicina al figlio. Il secondo, Mike Corleone ( Al Pacino), è un po’ la “pecora bianca” di una famiglia che, come lo stesso afferma, “non gli somiglia”. Ma si sa, nessuno può sfuggire al proprio destino (e ai propri doveri), neanche lui…

E in questa Famiglia, il ruolo della fimmina è sacro fino a Donna Carmela Corleone (Morgana King) perché, con il passare delle generazioni, si assiste a una loro progressiva marginalizzazione. Basti pensare a Kay Adams (Diane Keaton) che, da amata fidanzata cui raccontare tutti gli intrighi della Famiglia, diventa moglie scomoda cui sbattere la porta in faccia.

Diane Keaton e Al Pacino in una delle prime scene del film. Fonte: Paramount Pictures

Coppola è riuscito a presentarci, senza pregiudizi e buonismo, una famiglia che poteva sedersi tranquillamente a tavola e, tra una portata e l’altra – rigorosamente della tradizione sicula – organizzare lo sterminio di un clan nemico o il battesimo di un neonato.

2) Più di un assaggio di Sicilia (e del messinese)

La Sicilia e non New York o il Nevada, sfondo dei loschi affari dei Corleone nel secondo film, è il vero teatro dell’ascesa e dell’epilogo del clan. Evocata nell’accento dei personaggi, nelle tradizioni, nelle musiche, che portano la firma di un fuoriclasse quale Nino Rota (compositore del maestro Fellini) e persino in quelle arance presagio costante di malaugurio, l’isola spicca nella bellezza delle sue campagne arse e dei suoi paesini tipici in molte scene.

Oltre alla stazione in stile liberty di Giardini Naxos, che compare nel terzo capitolo e al Teatro Massimo di Palermo con le sue scale, scenario perfetto per l’ultimo tragico atto di questa saga familiare, innumerevoli sono le location sicule in cui Coppola scelse di girare sin dal primo film. E quasi tutte in provincia di Messina (Forza d’Agrò, Motta Camastra). Una su tutte Savoca, con la sua Chiesa di San Nicolò, dove Michael sposerà Apollonia e il celebre Bar Vitelli, in cui chiede la mano della ragazza al padre di lei, che altro non è in realtà che un antico palazzo baronale.

Il corteo nuziale di Michael e Apollonia ( Simonetta Stefanelli) per le strade di Forza d’Agrò. Fonte: Paramount Pictures

La fotografia di Gordon Willis a questo proposito è straordinaria: con i suoi chiaroscuri crea delle scene – dipinto in grado di trasmettere una sensazione di mistero, di “mala sorte” e di intrighi sottaciuti agli spettatori, che enfatizzano personaggi che, come ognuno di noi, nascondono un lato cattivo. Un cambio di lente si ha, invece, proprio nelle scene girate in Sicilia. Fotogrammi che richiamano quasi delle vecchie polaroid, o forse i ricordi catturati nei pomeriggi estivi che gli immigrati, costretti a scappare da questa terra tanto bella quanto maledetta, portavano nella loro memoria una volta giunti in terra straniera.

3) La finzione che incontra la realtà

Nonostante la sceneggiatura scritta a quattro mani, molte delle scene diventate cult del film sono state spontanee. Il gatto che Don Vito accarezza nella prima sequenza del film non era un membro scritturato del cast ma, dopo essersi imbattuto nelle coccole della troupe, rimase sul set costringendo il neo-padroncino Marlon a ridoppiare la scena per via delle fusa troppo rumorose.

Marlon Brando assieme alla sua costar felina. Fonte: Paramount Pictures

“Naturale” è anche il nervosismo di Luca Brasi (Lenny Montana) alla presenza del temuto Padrino alias la star Marlon Brando. Talaltro Marlon, per mettere a suo ago il collega o, più probabilmente, per fargli uno scherzo (si dice che fosse un gran burlone), entrò in scena con un biglietto sulla fronte con scritto: «Vai a fare in…».

Fortunata perché poi diventata di uso comune, sebbene non prevista, è la frase di Peter Clemenza (Richard S. Castellano):  «A pistola lasciala… Pigliami i cannoli», che avrebbe dovuto dire solo «lascia la pistola», dopo l’omicidio  del sospettato traditore Paulie Gatto (John Martino). E, infine, è vera la reazione del “cinematografaro” Jack Woltz (John Marley) alla vista di una testa di cavallo vera nel suo letto… effetto sicuramente bene riuscito ma, Francis, avremmo preferito di gran lunga un manichino!

4) Lo charme di Al Pacino

Ci perdoni Sylvia Plath per questo sacrilegio, ma rivisitando un suo verso possiamo ammettere (a malincuore!) : “ogni donna adora un gangster”. E questo gangster è proprio Michael Corleone, alias l’affascinante Al Pacino nell’interpretazione che l’ha fatto conoscere al grande pubblico. Fu proprio un occhio femminile – quello della moglie di Coppola – a scorgere il potenziale dell’attore.

Se il don Corleone di Brando rimane impresso nell’immaginario comune per la parlata strascicata e le battute tipiche del vocabolario di un uomo d’onore, quello di Pacino, il nuovo Don Corleone consacrato con quel “baciamo le mani” a chiusura del primo film, punta tutto sullo sguardo di due grandi occhi scuri che “bucano lo schermo”, sul silenzio ambiguo – quasi passivo aggressivo – e autoritario dell’uomo d’affari, sui binari del non detto su cui corre il nuovo codice mafioso.

Al Pacino ne “Il Padrino I”

Come non dar ragione a questo punto a Diane Keaton che prese una sbandata per il suo collega di set? Artisticamente azzeccata ma “eticamente pericolosa” la scelta di Coppola: di Michael Corleone finiamo scena dopo scena per innamorarci e – ancor peggio – ci ritroviamo a spalleggiarlo nelle sue scelte al di là del bene e del male.

5) Il più famoso film di mafia in cui la “mafia” non è mai nominata

Coppola ha raccontato che, dal primo all’ultimo ciack, ha dovuto lottare più volte con la casa produttrice, rischiando anche il licenziamento.

Uno scontro si ebbe al momento del casting. Il regista fece di tutto per affidare la parte di Don Vito a Marlon Brando e quella di Michael ad Al Pacino, nonostante il parere contrario dei produttori, avversi al primo perché caduto in disgrazia e notoriamente una “testa calda”, e al secondo perché allora “sconosciuto”.

E pensare poi che per la Paramount, che voleva un regista italo-statunitense, Coppola non era nemmeno la prima scelta! Se non erano loro nemici, chi altro lo è?

Aveva ragione Don Vito a dire:

“Tieni i tuoi amici vicino, ma i tuoi nemici ancora più vicini”

Ma nemico numero uno della celebre major cinematografica fu proprio uno dei veri boss delle “cinque famiglie” di New York: l’italoamericano Joe Colombo, che osteggiò la produzione dietro l’alibi della cattiva pubblicità che il film avrebbe inferto alla comunità di Little Italy. Volantinaggio e sabotaggio fino ad arrivare ad esplicite minacce nei confronti di Al Ruddy, produttore esecutivo, e di Robert Evans, uno dei capi della Paramount, furono le strategie messe in atto da Colombo e dai suoi adepti affinché l’occhio della cinepresa non illuminasse il fenomeno mafioso. Poi la deposizione delle armi: Colombo incontrò i produttori e si arrivò al compromesso.

La produzione poteva proseguire con la benedizione del “padrino” a patto che nello script non comparisse mai la parola “mafia”. Una concessione omertosa? Forse, considerando che da allora non poche furono le intrusioni della malavita reale nel set: molti scagnozzi furono scritturati nel cast (uno su tutti Al Martino nei panni di Johnny Fontaine) e la produzione non conobbe ostacoli per girare in molti quartieri di Little Italy.

Francis Ford Coppola sul set de “Il Padrino III”. Fonte: LaPerrera.mx

 

Ad ogni modo, in questo controverso e oscuro intreccio di arte e vita, ci rendiamo conto perché Il padrino può considerarsi cult e pochissimi suoi epigoni possono vantare lo stesso titolo. C’è una regola aurea che circola nelle scuole di cinema ed è quella di non esprimere con tante parole un concetto che puoi rappresentare con le immagini.

Non importa allora che Don Vito Corleone e i satelliti che gli gravitano attorno non siano chiamati “mafiosi”: lo spettatore lo sa già sin dalla prima scena, dal primo cenno, dai rituali con cui si decide e si comunica con freddezza spietata il destino della famiglia e dei suoi nemici. Coppola la mafia non la nomina, ma la racconta, in maniera più che realistica. Una narrazione mitologica? Troppo romantica come qualche detrattore ha affermato? O azzardatamente priva di etica? La risposta  è racchiusa come al solito nelle immagini, in quell’ultima celebre scena ( silenziosa!) che conclude la trilogia … e che non vi sveleremo.

Angelica Rocca

Angelica Terranova

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Belfast: l’Irlanda del conflitto vista attraverso gli occhi di un bambino

 Film leggero da seguire, ma che trasmette comunque molto al pubblico – Voto UVM: 5/5

 

Il cinema non è solamente quell’arte meravigliosa che ci permette di evadere, immergendoci in qualche mondo lontano. A volte i film possono aiutarci a vedere delle pagine di storia da un punto di vista differente.

Belfast, scritto e diretto da Kenneth Branagh, è un altro dei film di cui andremo a parlare in questa road to oscar 2022.

Dove la finzione si intreccia con la realtà

Belfast,1969. La città è scossa da manifestazioni molto violente da parte di gruppi di militanti protestanti contro le minoranze cattoliche. Questo è lo sfondo storico in cui vivono Buddy, bambino vivace interpretato da Jude Hill, la madre, il fratello e i due nonni, interpretati da Ciaràn Hinds e dalla già premio Oscar, Judi Dench. Qui il racconto dell’allegra infanzia di Buddy, costellata di giochi, scuola e primi amori, si unisce a quello delle ansie e preoccupazioni della madre, sola in una città animata da scontri, con gravi problemi economici e del padre, interpretato dall’affascinate Jamie Dornan, costretto a separarsi dalla sua famiglia per lavorare in Inghilterra.

 

Buddy che gioca nelle vie di Belfast

 

In Belfast, vediamo raccontata l’origine di quello che sarà il lungo conflitto nordirlandese ma in una chiave più leggera, secondo il punto di vista di un bambino: un po’ come avviene per la Germania nazista in Jojo Rabbit, anche se in questo caso con un’impronta meno caricaturale.

Un film da Oscar (o da sette!)

A meno di un mese dalla cerimonia, Belfast si afferma come una delle pellicole favorite, assicurandosi ben 7 candidature, di cui alcune in categorie molto rilevanti. Kenneth Branagh ottiene la candidatura per miglior regia e miglior sceneggiatura originale, insieme a quella per la statuetta più ambita, come miglior film.

Candidati a miglior attore non protagonista e miglior attrice non protagonista per le loro performance più che autentiche sono anche Ciaran Hinds e Judi Dench.

Un inno all’Irlanda

Belfast è una rappresentazione fedele e meticolosa dell’Irlanda del nord della fine degli anni ’60: Kennet Branagh, nordirlandese, ha scelto un cast formato prevalentemente da attori irlandesi, con l’inglese Judi Dench come unica eccezione. La quale compensa, naturalmente, con la sua maestria ed il suo talento. Questo ha permesso di portare sul grande schermo un linguaggio più verosimile. Guardando il film in lingua originale, infatti, non risulta difficile notare l’accento molto particolare degli attori e molte locuzioni tipiche della cultura irlandese.

Il cast di Belfast. Fonte: belfastlive.co.uk

 

Oltre tutto, la pellicola più che essere un semplice inno all’Irlanda, è anche una trasposizione autobiografica del regista stesso. Branagh nasce a Belfast nel 1960 e vive la sua infanzia un po’ come quella di Buddy, costellata da violenti scontri e proteste, fino a quando all’età di nove anni lascia Belfast con la sua famiglia trasferendosi a Reading, in Inghilterra, per poi ritornarci idealmente in quest’opera cinematografica.

Un pezzo di Nuovo Cinema Paradiso

“Go Now. Don’t Look Back.” 

“Non tornare più, non ci pensare mai a noi, non ti voltare, non scrivere.

Due citazioni tratte da film di registi differenti, che raccontano storie diverse, ma che mantengono un fortissimo punto di contatto: la difficoltà di doversi separare dai propri cari e la necessità di doverli lasciar andare.

La prima è la frase di chiusura di Belfast, mentre l’altra è tratta dal capolavoro di Giuseppe Tornatore Nuovo Cinema Paradiso, in particolare dalla scena in cui Alfredo dice addio al giovane Salvatore. Non passa inosservata nemmeno la somiglianza tra questi due film per quanto riguarda le riprese.

In entrambe le pellicole ritroviamo, infatti, un fotogramma praticamente identico: si tratta della scena di Buddy in Belfast e di Salvatore bambino in Nuovo Cinema Paradiso, seduti in sala con la luce del proiettore alle loro spalle.

Buddy e Salvatore al cinema

 

Nonostante Belfast racconti un importante capitolo di storia, alla fine risulta essere molto più di un semplice film storico e in parte autobiografico. Belfast si rivela una pellicola sui valori della famiglia, sull’attaccamento verso la propria città natale e le proprie tradizioni, ed è proprio questo che lo rende speciale.

Ilaria Denaro

 

La Sicilia: “fìmmina” raggiante e lussuosa

Un omo può campare per cent’anni allato a ‘na fìmmina, dormirici ‘nzemmula, farici figli, spartirici l’aria, cridiri d’avirla accanosciuta come meglio non si po’ e alla fini farisi pirsuaso che quella fìmmina non ha mai saputo com’è fatta veramenti.” 

Determinate, coraggiose, passionali, affettuose.

Le donne di Camilleri non sono figure che appaiono tacitamente per poi scomparire dopo poche battute. Sono personaggi autentici, dalle mille sfaccettature, ammalianti e ardenti. 

Sono così vive che il lettore può sentirne il profumo, il tono di voce, la cadenza ritmica dei passi e persino l’andatura dei battiti. Ogni parola, mai volgare, le esalta nella loro interezza di fìmmine suscitando nel lettore quella magnetica attrazione che lo spinge a voltare incessantemente pagina, mosso da un insaziabile istinto famelico di curiosità.

Una brama così potente, che s’egli potesse, trasformerebbe quei dipinti creati dalla fantasia dell’autore, in una realtà alterata.  

Livia e Angelica: due facce della stessa medaglia

Che siano ladre, assassine, amanti o nemiche del Commissario Montalbano, le donne hanno un ruolo da non sottovalutare. E per quanto il nostro protagonista si sforzi di osservarle, di comprenderle, di risolvere l’enigma che ogni donna cela dentro di sé, rimangono sempre contornate da una sfera di mistero.

A cominciare da Livia, fidanzata, amante, amica e discreta confidente di Salvo, che di fronte a lei non ha bisogno di interpretare il ruolo di commissario, né di alzare le barriere di coraggio necessarie sul posto di lavoro. Di fronte a Livia, crollano le incertezze di omo che egli ha sempre dovuto reprimere; la paura di non essere all’altezza della sua donna lo pervade soprattutto quando incontra Angelica Cosulich, trentenne vittima di un furto narrato nel romanzo Il sorriso di Angelica, che esercita un’attrazione fatale nei confronti del Commissario di Vigàta. 

Se Livia rappresenta “il grande bacino di Venere” in grado di contenere i suoi più oscuri istinti, Angelica al contrario rappresenta quel desiderio sfrenato di consumare un amore giovanile ritrovato tra le pagine illustrate del poema di Ariosto, con l’unica differenza che l’Angelica dell’Orlando furioso Montalbano non aveva mai potuto vederla in carne ed ossa di fronte a sé. 

Livia sul set cinematografico de “Il commissario Montalbano” – Fonte: repubblica.it

 

“Livia era l’unica al munno che l’accapiva come manco lui arrinisciva ad accapirisi”; averla tradita con Angelica lo faceva sentire meno uomo di quel che credeva essere diventato. 

Ridicolo! Si stava addimostranno un omo ridicolo! ’Nnamurarsi accussì d’una picciotta che potiva essiri sò figlia! Che spirava d’ottiniri? Doveva troncari subito. Non era dignitoso per un omo come lui!

Eppure, proprio quando credeva si trattasse solo di un’infatuazione, Angelica si presentò a Marinella, in casa del Commissario, ed egli non riuscì a resistere.

Montalbano, con lintizza, raprì la porta. E sapiva, mentri che lo faciva, che non stava sulo raprenno la porta di casa, ma macari quella della sò pirsonali dannazioni, del sò inferno privato.

Il profilo di Angelica sembrava “addisignato da un mastro d’opira fina” e lo stesso Salvo ammette che anche se tutto il suo essere la desiderava, un parte del suo cervello ancora opponeva resistenza. Un’opposizione dovuta alla lealtà nei confronti di Livia o nei confronti del suo essere omo

Margharet Madè  interpreta Angelica ne “Il commissario Montalbano” – Fonte:tvzap.kataweb.it

 

Montalbano sapeva che se esisteva una persona al mondo a cui poteva raccontare tutto, persino di averla tradita, quella era Livia. Eppure, una volta rivelato il peccato commesso, una vivace risata sconvolse il Commissario dall’altro capo del telefono: Livia s’era convinta che il suo amato fosse in vena di scherzare, poiché si sarebbe fatto scuoiare vivo piuttosto che ammettere di essere stato con un’altra donna!

Eppure, Montalbano con un’altra donna c’era stato. E l’unica cosa che aveva capito era che principalmente aveva tradito se stesso.

Cosa, dunque, può accomunare Livia e Angelica? Due donne tanto diverse cui principio fautore delle loro azioni risiede nella fedeltà.

Fedeltà in primis a loro stesse; Livia, in quanto fidanzata, rimane coerente per ciascun romanzo al ruolo di sincera innamorata del Commissario. 

Angelica, in quanto seduttrice spudorata di una serie indefinita di uomini con cui condivide la sua intimità, rimane fedele al suo irrinunciabile appetito sessuale.

L’errore di Montalbano in definitiva, consiste nell’aver sovrapposto l’immagine di Angelica con quella dell’eroina di Ariosto, credendo di essere ancora un giovane che può concedersi il lusso di contraddirsi come solo un omo innamorato può fare!

Ingrid: impavida amica del Commissario

Svedese, attraente, coraggiosa e audace. Ingrid Sjöström diventa, sin dal primo romanzo di Camilleri “La forma dell’acqua”, amica e complice del Commissario.

Il volto cinematografico di Ingrid –  Fonte:screenweek.it                                             

Vittima di un marito che non la ama abbastanza da notare le violenze sessuali che il suocero le riserva, qualcuno cerca di incastrarla sfruttando a proprio vantaggio i suoi modi sensuali e disinibiti per mettere in atto un ingarbugliato delitto avvenuto a Vigàta.

Sarà proprio il nostro Commissario a capire l’innocenza di Ingrid al punto di distruggere le prove create dal presunto colpevole. 

Nonostante l’autore descriva principalmente la giovane come “una vera fìmmina da copertina”, ciò che emerge maggiormente dalla narrazione è il suo animo astuto e impavido che non rinuncia al desiderio di padroneggiare del suo corpo senza vergogna e lotta fino allo stremo per rivendicare il diritto di disporre della sua sessualità in maniera libera e spregiudicata

Ingrid è una donna che non si arrende alle meschinità di quelli che lei rifiuta di considerare veri òmini.

Cos’è dunque la Sicilia, se non una fìmmina che mette in ginocchio chiunque provi a calpestare ed offuscare il suo valore?

 

Alessandra Cutrupia

 

Tick, Tick… Boom! La stoffa del miglior attore cucita a tempo di musical

 

Un musical scoppiettante e coinvolgente è la perfetta occasione di rivalsa per un talentuoso Garfield – Voto UVM: 5/5

 

Sentirsi in tempo, nel tempo. Come se tutto fosse in perfetto equilibrio tra te ed il mondo. È così che un giovane quasi trentenne, nonché compositore teatrale vive i rapporti umani – l’amicizia e l’amore – ma anche i propri obiettivi e sogni. Ciò che emerge è la continua spinta che un uomo determinato ha nel perseguire e realizzare qualcosa di grande, prima che il tempo porti via qualsiasi speranza di successo.

Tick, Tick è il continuo ticchettio dell’orologio, il tempo che scorre e si consuma dietro una piccola lancetta. Boom è suspence o anche realizzazione. È con questa titolo che Andrew Garfield si aggiudica il posto nella scalata agli Oscar come miglior attore protagonista.

Tick,Tick…Boom! Fonte: Netflix

Il profilo dell’attore

Classe 1983, Andrew Garfield è stato senza dubbio una fantastica sorpresa alle nomination degli Oscar di quest’anno. Grazie alla sua favolosa interpretazione, nel film Tick, Tick… Boom! si è aggiudicato il Golden Globe 2022 come miglior attore protagonista. La nomina è stata confermata anche alla categoria degli Academy Awards dove troviamo a fargli compagnia l’attore Benedict Cumberbatch ne Il potere del cane.

Quello di miglior attore è sempre stato un trofeo ambito da tutti e per questo risulta anche un premio molto combattuto dai tanti attori in gara. La performance di Andrew lungo tutta la durata di Tick, Tick… Boom! è stata geniale, inaspettato, brillante e molto vivace: proprio per questo l’attore dovrà quindi confrontarsi con grandi professionisti del campo come Will Smith, Javier Bardem e Denzel Washington.

Nel corso della sua carriera, del resto, Garfield, ha sempre mostrato il proprio talento ed è stato in grado di lasciar inciso nei nostri ricordi il proprio ruolo di Peter Parker in The Amazing Spiderman dove ha dimostrato un grande valore attoriale proprio così come anche nella pellicola The Social Network di David Fincher.

Andrew Garfield candidato a miglior attore protagonista

Sotto ritmi diversi

È vero che non tutti amano i musical e per questo il film – con 1 ora e 55 minuti di durata – potrebbe risultare a tratti noioso. Nonostante questo limite molto soggettivo, ciò nonostante esistono dei personaggi canterini che tutti abbiamo amato, ad esempio Mary Poppins, la vecchia tata che canta ninnenanne ai piccoli o Christian che conquista la bella Satine cantando al Moulin Rouge. E poi c’è Jonathan Larson, compositore e amante della musica che lavora alla scrittura e alla realizzazione del suo nuovo musical.

 Larson nella pellicola mostra in che modo tiene impegnato il suo tempo: componendo. Lo fa continuamente e su tutto, addirittura anche su un barattolo di zucchero. Qualsiasi cosa lo circondi diventa musica e riesce addirittura a coinvolgere anche i suoi amici, che a loro volta cantano e ballano insieme a lui, come se si trovassero tutti in una grande festa.

La scena più simpatica è sicuramente quella in cui cerca di riappacificarsi con la propria ragazza e le canta una canzone usando il suo braccio come se fosse una tastiera. Non una scelta di cattivo gusto, bensì ironica e molto dolce.

Il musical e la grande interpretazione dell’attore racchiudono la vita e le giornate di un artista innamorato del proprio talento. Dalla trama scoppiettante e ironica che suscita un vivace coinvolgimento, una pellicola musicalmente moderna e a tratti poetica: è questo quello che si può dire di Tick,Tick… Boom!

Sui social sono diversi i commenti generati dal pubblico che affermano quanto questo film sia vicino alla perfezione. L’interesse è rivolto soprattutto ai monologhi, i quali ricostruiscono arte e vita privata del protagonista.

Tick,tick…boom! Fonte: stagechat.co.uk

La ribalta

Una scena che rende evidente il lavoro ben fatto è quella in cui Garfield mette tutto sé stesso nella voce, nonostante non abbia mai studiato canto prima di quel momento. Uno sforzo sicuramente apprezzato dal pubblico e non solo, che ha cucito addosso ad Andrew il vestito da miglior attore protagonista. La rara maturità attoriale è stata subito riconosciuta.

Il merito non va solo all’attore ma anche a chi ha esaltato le sue doti e ha saputo scegliere bene: il regista Lin-Manuel Miranda. Sono diversi i tratti del profilo di Miranda che ricalcano quelli di Larson. Miranda durante la sua carriera è passato attraverso il rap e il freestyle e ha iniziato presto a scrivere musical: è per questo che la sua fama nasce a Broadway. Il messaggio lanciato dall’attuale pellicola sembra richiamare anche qualche passaggio della vita del regista. È anche questo che rende il suo lavoro un qualcosa di strettamente personale e intimo.

Cos’altro dire? Corri a vederlo su Netflix. C’è un gran sogno da realizzare prima che sia troppo tardi.. Nel frattempo Tick…..Tick…..Tick….

Boom!

Annina Monteleone