Tra le pagine della vita di Sheldon Cooper

Divertente ma che lascia spazio alla riflessione, ottimo per passare del tempo in famiglia e con gli amici. – Voto UVM:5/5

 

Chi non ha adorato il personaggio di Sheldon Cooper (Jim Parsons) nella sitcom americana The Big Bang Theory? Probabilmente un po tutti abbiamo apprezzato la sua ironia, seppur un tantino tagliente, come anche il formidabile e divertente quartetto di scienziati insieme a Penny (Kaley Cuoco), Amy (Mayim Bialik) e Bernadette (Melissa Rauch). Bene, perché non è finita qua!

Personaggi principali di “The Big Bang Theory” in una delle consuete serate in compagnia a casa di Sheldon e Leonard. Fonte: Chuck Lorre Productions, Warner Bros.

I produttori Chuck Lorre e Steven Molaro ci hanno deliziato con una serie dedicata interamente a questo personaggio. Nata come spin off e prequel della serie “madre”, Young Sheldon è incentrata sull’infanzia dello scienziato. Arrivata in Italia nel 2018 attraverso la piattaforma streaming Infinity Tv, oggi entrerà a far parte del catalogo di Netflix.

Nella vita di Sheldon

Ambientata in Texas, troviamo un giovane Sheldon, interpretato da Iain Armitage, dell’età di nove anni, che, grazie alla sua innegabile intelligenza, si ritrova nei panni di uno studente liceale. In una famiglia in cui si sente poco a suo agio: tra una madre convinta credente sempre pronta a citare Dio, un padre allenatore della squadra di football del liceo, e due fratelli che non perdono tempo nel prenderlo in giro.

Poster Young Sheldon. Fonte: senzalinea.it

La sua intelligenza e la sua mancata emotività lo portano ad essere escluso sia all’interno che all’esterno del contesto domestico. Molto spesso, infatti, per via dei suoi comportamenti inusuali tende a mettere la famiglia in difficoltà agli occhi della comunità ma, nonostante ciò, vengono fatti vedere alcuni momenti di affetto, in cui tutti i membri della famiglia dimostrano il loro volergli bene. Con la voce narrante di Sheldon da adulto, ci viene rivelata un’analisi retrospettiva degli eventi mostrati negli episodi, con qualche dettaglio della serie originale.

Rapporto madre figlio…e non solo

Dato il rapporto conflittuale che ha sempre caratterizzato la scienza e la religione, ci si potrebbe aspettare una certa severità dalla madre Mary, interpretata da Zoe Perry, nei confronti di Sheldon. Ma non è questo che ci mostra la serie. Sua prima sostenitrice, Mary è sempre pronta ad aiutarlo e a confortarlo, sembra quasi essere l’unica a preoccuparsi del suo effettivo benessere. Non dimentichiamoci, inoltre, di “Dolce Kitty”, la ninna nanna che il piccolo scienziato le chiedeva di cantare quando stava male. Gesto rimasto anche nei panni di uno Sheldon adulto.

Mary e Sheldon in un momento affettuoso. Fonte: Chuck Lorre Productions, Warner Bros.

Un ruolo importante è giocato anche dalla nonna Connie, o “nonnina” come è solito chiamarla Sheldon. Contrariamente alla figlia è una donna irresponsabile e ciò porta alla nascita di molti conflitti con Mary. Ma quando si tratta del suo nipote preferito, è disposta a mettersi in gioco, dando del filo da torcere a chiunque.

Ultimo, ma non per importanza, è il padre George, interpretato da Lance Barber. Personaggio che trasmette l’idea classica di padre-allenatore che non desidera altro che il figlio giochi nella propria squadra di football. Viene mostrato un rapporto controverso con una percettibile sensazione di imbarazzo, ma nonostante ciò non mancano le dimostrazioni di affetto reciproco, evidenti soprattutto nell’incoraggiamento del padre verso i successi accademici di Sheldon.

Il piccolo Sheldon: perché guardarlo?

A sinistra Iain Armitage a destra Jim Parsons, entrambi interpreti del ruolo di Sheldon Cooper. Fonte: serietivu.com

Iain Armitage nella sua interpretazione riesce a mostrare benissimo i tratti distintivi dello Sheldon adulto di Jim Parsons, compresa la sua faccia inespressiva.

La serie molto apprezzata dal pubblico, in grado di essere vista anche da chi disconosce il mondo di ‘Big Bang’, è leggera, fluida e divertente ma non lascia fuori i problemi sociali e relazionali tipici di quegli anni. In conclusione, è un’ottima serie che vale la pena guardare. Detto ciò, Sheldon vi aspetta su Netflix!

Bazinga! a tutti.

Giada D’Arrigo

The French Dispatch: la dedica cinematografica al giornalismo

Pellicola vivace, leggera ed originale, in stile Anderson – Voto UVM: 5/5

 

Il cinema talvolta può divenire l’arma perfetta per portare sul grande schermo, e quindi davanti agli occhi di tutti, anche altre forme d’arte e d’espressione. Questo è proprio il caso di The French Dispatch of Liberty, Kansas Evening Sun, scritto e diretto da Wes Anderson (Grand Budapest hotel).

La pellicola è dedicata al giornale Newyorker ed a molti dei suoi cronisti, ai quali, in alcuni casi, Anderson si è ispirato per plasmare i suoi personaggi: in particolare la figura fulcro del film, il direttore Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray), è una trasposizione del fondatore del Newyorker, Harold Ross.

Questo film, così originale e tutto in stile pienamente Anderson è stato, insieme a Ultima notte a Soho, il grande escluso di quest’anno, in quanto non candidato in nessuna categoria degli Academy Awards.

It began as a holiday…

Da subito ci viene presentato lo schema del film. Esso comprende: un necrologio, una guida per i viaggi e tre dei migliori articoli tratti dal The French Dispatch. Questa edizione speciale, l’ultima, è fatta in onore del direttore Arthur Howitzer Jr., morto improvvisamente d’infarto. Quest’ultimo, trasferitosi per una vacanza da universitario ad Ennui, in Francia, aprì una propria sezione del giornale del padre dedicata ad arte, cucina, cultura locale e politica, riunendo la sua amata squadra di reporter tra cui Herbsaint Salzerac (Owen Wilson), J.K.L. Beresen (Tilda Swinton) Lucinda Krementz (Frances Mcdormand) e Roebuck Wright (Jeffrey Wright).

Il primo articolo riportato dopo le notizie su Ennui è Il capolavoro di cemento. Appartenente alla sezione “Arte”, narra le vicende del tormentato artista Moses Rosenthaler (Benicio del Toro), condannato a 50 anni di reclusione in una prigione-manicomio. Qui il mercante d’arte Julien Cadazio (Adrien Brody) scoprirà la sua arte, rendendolo famoso.

Il secondo articolo, Revisioni di un manifesto, presenta tutta una stagione di rivolte studentesche capitanate dai giovani Zeffirelli (Timothée Chalamet) e Juliette (Lyna Khoudri). Zeffirelli entra direttamente in contatto con Krementz (Frances McDormand), la reporter del The French Dispatch, la quale revisionando il suo manifesto, sarà coinvolta, pur cercando di mantenere la neutralità del cronista.

Il terzo ed ultimo articolo, La sala da pranzo del commissario di polizia, descrive la cena del reporter Roebuck Wright (Jeffrey Wright) dal commissario di polizia, preparata da un noto chef, il tenente Nescaffier (Stephen Park). Durante la cena, però, il figlio del commissario viene rapito e l’inviato del giornale si vedrà coinvolto nell’operazione di liberazione del bambino.

Un cast stellato

The French Dispatch è caratterizzato da un vasto cast corale, formato da alcuni degli attori più quotati del momento, tra cui anche svariati premi Oscar o candidati all’Academy, come Frances Mcdormand, Benicio del Toro, Adrien Brody e Saoirse Ronan. In più, è presente il cameo di tre grandi stelle del cinema hollywoodiano: Christoph Waltz, Willem Dafoe e Edward Norton, nel secondo e nel terzo racconto.

Il cast al festival di Cannes. Fonte: laRepubblica.it

Tecniche e peculiarità

Più che la bravura degli attori, più che la trama, in The French Dispatch quello che spicca veramente è proprio l’originalità con cui è stato realizzato. In particolare, vengono utilizzate ed alternate diverse tecniche cinematografiche. Un chiaro esempio si ritrova già nella scelta dei colori: alla pellicola prevalentemente in bianco e nero, si alternano delle scene cruciali, che si tratti di flashbacks o altro, con i classici colori brillanti andersoniani.

Inoltre, è anche molto curiosa la struttura stessa del film. Il tutto si presenta con un filo logico legato dalla singola edizione del giornale. In poche parole, è come se lo spettatore stesse sfogliando il The French Dispatch!

Da notare è anche la scelta del sottofondo musicale. La musica molto spesso influisce su come il film viene percepito in totale dallo spettatore, ed in questo caso bisogna sicuramente applaudire la bravura del compositore due volte Premio Oscar, Alexandre Desplat.

Due scene del film in bianco e nero ed a colori

Una cosa bisogna proprio dirla: Wes Anderson non smentisce mai il suo stile, e porta sul grande schermo una certa vivacità unica nel suo genere. Ma questa volta c’è anche di più: una dedica al Newyorker, e forse un po’ a tutti i giornalisti.

Mi sono dilungata troppo, ma direi che posso seguire il consiglio chiave dello stesso Arthur Howitzer Jr., ovvero…

“Just try to make it sound like you wrote it that way on purpose”

Ilaria Denaro

Peaky Blinders 6 è davvero l’ultimo atto di Thomas Shelby?

Un finale di serie dai ritmi un po’ lenti ma che permette di completare l’identità di tutti i personaggi di Peaky Blinders – Voto UVM 4/5

 

 

“Ero arrabbiato con il mio amico:
glielo dissi, e la rabbia finì.
Ero arrabbiato con il nemico:
non ne parlai, e la rabbia crebbe.”

È con questi versi, tratti da “L’albero del veleno” di William Blake, che ha inizio un nuovo capitolo di vita per Thomas Shelby (Cillian Murphy). Siamo nel 1933 e il proibizionismo viene abrogato dopo quattordici anni dalla sua attuazione. Tommy è ormai un uomo diverso. Ha abbandonato il whisky – che prima utilizzava per proteggersi dal dolore e dal freddo – ritenendolo ora colpevole dei moti rumorosi dentro la sua testa.
Per la prima volta nella sua vita si mette in dubbio, cercando di far pace con tutti i fantasmi del passato.

Tommy Shelby – Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd, © Matt Squire

Thomas Shelby: Dio, diavolo o comune mortale?

“È vero, io non sono Dio. Non ancora.”

Per quasi cinque stagioni, abbiamo osservato il delirio di onnipotenza di un giovane Tommy in continua ascesa, pronto a qualsiasi cosa pur di ottenere il tanto bramato potere. Da sempre per lui, ogni catastrofe è stata un’opportunità per ricominciare. Ma in questa stagione c’è qualcosa di diverso. Tommy, ormai visto da tutti – in particolar modo da Michael (suo nipote) – come il diavolo in persona, diventa vulnerabile. In seguito a una serie di traumi, cerca la redenzione dei suoi peccati e prova ad essere un uomo migliore, per sé e per chi gli sta attorno.

“Non sono il diavolo…ma solo un comune uomo mortale.”

Solo nel finale di stagione Tommy ritrova la fede, in Dio, e soprattutto in sé stesso come figura quasi immortale.

 Un obbligato ritorno alle radici per i Peaky Blinders

Dopo che il regista della serie Steven Knight, ha cercato in ogni modo di convincere tutti sulla veridicità degli eventi soprannaturali, il finale di quest’ultima stagione ha finalmente confermato che ogni maledizione e ogni previsione sul futuro erano reali.

Le visioni che hanno accompagnato “il capo della famiglia Shelby” per tutto questo tempo non sono state semplicemente il risultato del suo disturbo da stress post-traumatico. I fantasmi in Peaky Blinders esistono e sono sempre esistiti.

“Ma tu devi seguire le voci che senti, dargli ascolto, devi fare ciò che dicono.” (Il fantasma di Grace a Tommy)

Thomas e il fantasma di Grace. Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd

Se in passato è stato il fantasma di Grace (Annabelle Wallis), la defunta moglie, a guidare Tommy, sostenendolo quando nessuno lo ascoltava, in questa stagione sarà la zia Polly ad apparire in sogno sia a lui che al figlio Michael (Finn Cole).

Non dobbiamo infatti scordarci che la famiglia Shelby è di origine irlandese-rom. Thomas e i suoi fratelli hanno sangue rom da parte di entrambi i genitori, mentre Polly Gray (Helen McCrory) è la figlia della “principessa gitana”. Sarà proprio in assenza di quest’ultima che Thomas, sarà costretto a fare i conti con quella tradizione che ormai per troppo tempo aveva rinnegato.

Peaky Blinders: il mondo tra le due guerre

Fin dalla prima stagione, la serie ha esplorato l’impatto devastante della Grande Guerra sui personaggi. Accanto alle lotte contro nemici sempre pronti a minacciare la loro posizione di potere, Tommy e il fratello Arthur (Paul Anderson) combattono un’altra guerra contro i loro demoni interiori. Tentano di superare i traumi della guerra utilizzando alcolici e oppiacei come meccanismo di difesa per rimanere a galla.

Siamo nel 1933 e, con la nomina di Adolf Hitler a cancelliere, comincia l’ascesa del nazismo. Sarà proprio sulle note della struggente Blackbird che assisteremo a una scena di violenza nei confronti di Ada Shelby (Sophie Rundle), sorella di Tommy e vedova del comunista Freddie Thorne (Iddo Goldberg), colpevole di essere la madre di una bambina nera e di un figlio per metà ebreo, oltre che lei stessa una zingara. Le immagini ci mostrano come il fascismo bussi ormai anche alle porte dell’Inghilterra. “Merito” di Oswald Mosley (Sam Claflin), fondatore nel 1932 dell’Unione Britannica dei Fascisti, formazione politica di estrema destra, vicina al Partito Nazionale Fascista di Benito Mussolini.

Da una parte, dunque, vedremo le conseguenze di quanto iniziato da Oswald Mosley nella quinta stagione, dall’altra approfondiremo il viaggio interiore dei fratelli Shelby, ancora fortemente provati dalla Prima Guerra Mondiale.

“Stop al fascismo” in Peaky Blinders. Fonte: Caryn Mandabach Productions Ltd

…è davvero tutto finito?

L’ultima stagione della serie, che ha già debuttato nel Regno Unito su BBC One il 27 febbraio, arriverà in Italia sulla piattaforma Netflix il 10 giugno 2022. Inoltre, il regista che ha già confermato le riprese di un film, previste per il 2023, sembra non aver ancora intenzione di abbandonare l’universo dei “fo***ti Peaky Blinders”!

“Vedremo ancora la Gran Bretagna tra le due guerre. Scopriremo come il primo conflitto non sia stato d’insegnamento e come sia semplice ricadere negli stessi errori. Vedremo anche la fine dell’Impero: entreremo nella Seconda Guerra Mondiale e mostreremo quanto sia stata devastante. Ho rivisitato la storia che racconteremo, e andremo anche oltre la fine del conflitto. Voglio andare avanti, voglio vedere come procederanno le vicende narrate.” (Steven Knight)

 

Domenico Leonello

L’Attacco dei Giganti: verso la conclusione di un capolavoro

A dir poco entusiasmante: una delle serie più coinvolgenti degli ultimi anni – Voto UVM: 5/5

 

L’Attacco dei Giganti, titolo tradotto dall’originale giapponese “Shingeki no Kyojin”, è senza dubbio una delle opere più importanti e conosciute prodotte nel paese del Sol Levante.

Nato come manga nel 2009 dalla mente del giovane Hajime Isayama, ha acquisito grossa popolarità grazie al suo adattamento anime.  Proprio nei giorni scorsi, si è conclusa la seconda parte della stagione finale, con l’opera sempre più vicina alla sua conclusione che avverrà con una terza parte in uscita nel 2023.

 

“L’Attacco dei Giganti”: locandina della quarta stagione. Fonte: MAPPA Studio

Il perché del successo dell’opera

Il manga è stato pubblicato sulla rivista Bessatsu Shonen Magazine, il target quindi sarebbe quello dello “shonen”, ossia un pubblico adolescenziale, benché l’opera presenti anche tratti da “seinen”, fruibili quindi da una categoria più matura.

Partendo dal contesto iniziale, le vicende sono ambientate in uno scenario alternativo dai caratteri medievali. L’umanità è soggiogata dalla presenza di creature denominate appunto “giganti”, esseri antropomorfi di grandi dimensioni che hanno come unica finalità quella di divorare più umani possibili. Per proteggersi da questa minaccia, gli uomini si sono ritirati all’interno di un territorio delimitato da tre cerchie di mura che li tiene temporaneamente al sicuro, ma li costringe a vivere come se fossero “in gabbia”.

La situazione peggiorerà con la comparsa di due giganti anomali che faranno breccia tra le mura, dando inizio alla serie di eventi che costituiranno la trama dell’anime. E’ proprio quest’ultima ad aver generato il grande successo dell’opera, poiché ricca di diversi risvolti e colpi di scena che mantengono alti picchi di qualità in tutte le stagioni.

Un’altra locandina della quarta stagione. Fonte: MAPPA Studio

Non vi sarà solo lotta per la sopravvivenza contro queste mostruose creature, ma anche la lotta interna, segno che spesso il peggior pericolo per l’uomo è rappresentato dall’uomo stesso.

L’ambiente, per la gran parte degli episodi, è cupo e tetro: pochi sono i sorrisi, le storie d’amore, i momenti di gioia… Non c’è spazio per tutto questo! Distruzione, morte e miseria prendono il sopravvento nel mondo, considerato più volte dagli stessi personaggi così crudele: un contesto perfetto per far notare l’orrore della guerra. Ma nell’animo umano è presente la speranza, il motore che porta ad andare avanti alla ricerca della libertà e della verità.

I nuovi episodi: un’altalena di emozioni

Questa seconda parte della quarta stagione è stata a tratti molto entusiasmante, a tratti invece un po’ lenta ed esplicativa. Si riprende da dove ci eravamo lasciati: Marley cerca di ottenere la sua vendetta, dopo la disfatta di Liberio, arrivando allo scontro con Eren, il cui obiettivo è entrare in contatto con Zeke per ottenere il potere del gigante fondatore.

I primi episodi di questa parte sono tutti un crescendo, che proietta luce su eventi passati con nuove e fondamentali rivelazioni, con il terzo episodio in particolare che può essere definito uno dei più entusiasmanti dell’intera serie. Dopo di che notiamo un rallentamento nei ritmi delle puntate, con meno azione e scoperte eclatanti.

Osserviamo comunque come in questa parte i personaggi secondari si prendano la scena, con un’analisi psicologica importante ai fini dell’evoluzione delle vicende. Le ultime puntate, infine, riprendono il tenore delle prime: combattimenti, flashback e chiarimenti importanti vanno a creare terreno fertile per un gran finale. Nota di merito per le scene conclusive dell’ultimo episodio, che fanno venire i brividi.

Cosa è cambiato (in bene e in male) ?

I nuovi episodi mettono in discussione ancora di più lo stereotipo classico del “villain” in una storia: ognuno può essere il cattivo dal punto di vista dell’altro. Uno degli aspetti distintivi, che rende l’opera superiore rispetto ad altre, è appunto la presenza di un protagonista caratterizzato magistralmente, molto complesso a livello psicologico, che allo stesso tempo risulta un’antagonista pericolosissimo, ma con delle motivazioni e uno scopo ben preciso.

Lo studio di animazione, MAPPA Studio, ha svolto un lavoro notevole dal punto di vista visivo: si nota maggior cura dei dettagli, grande fluidità nell’ animazione, computer grafica migliorata rispetto agli episodi precedenti, grazie a un budget più ampio stanziato per la produzione.  Il tutto accompagnato da un’impeccabile colonna sonora che dà quel tocco in più all’opera.

Frame di una puntata dell’anime. Fonte: MAPPA Studio

La vera pecca consiste nella mancanza di un doppiaggio in lingua italiana, che fino a questo momento era stato sempre realizzato (e anche in maniera impeccabile). L’anime, infatti, è fruibile solamente in lingua originale con sottotitoli, da quando la piattaforma di streaming Crunchyroll, che non è interessata a curare gli adattamenti nelle lingue degli altri Paesi, ne ha acquisito i diritti. Si spera che si sblocchi la situazione e si possa arrivare a un accordo, anche per dare continuità al lavoro magistrale realizzato dai doppiatori nostrani.

In conclusione, non ci resta che attendere l’anno prossimo per la trasposizione degli ultimi capitoli del manga, che chiuderanno il cerchio di questa fantastica opera.

 

Sebastiano Morabito

 

 

Il viaggio continua: alla ricerca dei luoghi più pericolosi del mondo

Il viaggio alla ricerca dei luoghi più pericolosi al mondo non è affatto breve. Tra il terrore e la meraviglia, il nostro pianeta non smette di offrirci scenari sublimi, che non possono non suscitare curiosità e voglia di scoperta.

Sublime è il senso di sgomento che l’uomo prova di fronte alla grandezza della natura sia nell’aspetto pacifico, sia ancor più, nel momento della sua terribile rappresentazione, quando ognuno di noi sente la sua piccolezza, la sua estrema fragilità, la sua finitezza ma, al tempo stesso, proprio perché cosciente di questo, intuisce l’infinito e si rende conto che l’anima possiede una facoltà superiore alla misura dei sensi”
-Immanuel Kant

Il Guatemala Sinkhole

Il 30 maggio 2010, nella città di Guatemala, un’area profonda circa 90 metri è collassata. Si è pensato che il motivo della formazione della dolina fosse stata la combinazione tra la tempesta tropicale Agatha, l’eruzione del vulcano Pacaya (l’ultima è recente e risale al 2021) e il malfunzionamento delle tubature fognarie. Al di sotto della città del Guatemala vennero trovati depositi di pomice vulcanica, quindi il luogo è esposto a facile erosione del terreno.

C’è chi però ha sostenuto maggiormente la tesi dell’errore umano. Il geologo del Dartmouth College Sam Bonis, ha ritenuto che la causa della catastrofe fosse da ricondurre esclusivamente all’erronea fissazione dei tubi fognari. Aggiunse inoltre, che proprio per tale motivo il termine “dolina” sarebbe improprio, indicando un fenomeno solo naturale. Secondo lo studioso invece, la causa dell’evento fu artificiale.

Ad ogni modo, è certo che nella città del Guatemala la formazione di doline fosse molto probabile: anche nel 2007 si era assistiti a un simile accaduto. Oggi la voragine è considerata uno dei luoghi più pericolosi al mondo. A incutere timore è la contezza di quanto fragile sia il terreno sotto cui potremmo trovarci.

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Fonte: www.themarysue.com

L’isola dei coccodrilli

L’isola di Ramree, detta anche Yangbye Island, si trova in Birmania ed è considerata uno dei luoghi meno adatti alla sopravvivenza. Durante la Seconda Guerra Mondiale fu terreno di vari scontri militari tra forze inglesi e forze giapponesi. L’Inghilterra aveva cercato di stabilirvi una base aerea ma i giapponesi rivendicarono subito l’occupazione dell’isola. Gli inglesi sovrastarono i giapponesi, i quali si misero in fuga cercando rifugio nella giungla di mangrovie. Ma la giungla sembra essere stata un nemico peggiore delle truppe inglesi. Tra le mangrovie giunsero circa 500 soldati giapponesi ma si racconta che solo 20 di loro sopravvissero all’attacco dei coccodrilli che abitano la giungla.

Questo avvenimento non sembra essere attestato da molte fonti, dunque non si sa se ritenerlo solo una leggenda. L’isola resta comunque un luogo molto pericoloso, dato che è realmente occupata da un gran numero di coccodrilli. Rientra infatti nel Guinness dei Primati per i pericoli riservati a uomini e animali.

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Fonte: www.pinterest.it

La Death Valley

La Death Valley (Valle della Morte) è una depressione che fa parte del Grande Bacino e si estende fra Sierra Nevada a ovest e Stato del Nevada a est. È attualmente considerata uno dei luoghi più pericolosi al mondo per le stringenti condizioni di sopravvivenza per animali e vegetali a causa delle condizioni climatiche-ambientali. Quest’area fa parte della zona climatica del deserto del Mojave, quindi vi è molto caldo. Da maggio a settembre la temperatura può raggiungere picchi di 54°, il che significa che in estate non vi è la possibilità di muoversi durante il giorno. In generale, è comune tra i turisti visitare la Valle in primavera, quando il deserto fiorisce a seguito delle brevi ma intense piogge.

Vi sono numerosi punti panoramici da cui poter ammirare la Valle, tra cui il  Zabriskie Point e il Dante’s View (così chiamato proprio perché da qui si osserva l’ “inferno”, ovvero la Death Valley). Ai punti panoramici si aggiungono aree in cui osservare fenomeni particolari. Un esempio è la Racetrack Valley Road in cui per via dei venti invernali le pietre si muovono lungo un lago asciutto, lasciando delle scie.

Sebbene le temperature pericolose in alcuni periodi dell’anno, la Death Valley è un luogo che stupisce, in cui è necessario addentrarsi con i giusti accorgimenti.

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Fonte: wall.alphacoders.com

Il villaggio di Ojmjakon

Per parlare ancora di pericoli e di temperature particolari il luogo perfetto è Ojmjakon, un villaggio di 800 abitanti situato nella Siberia orientale. Il nome è molto eloquente: esso deriverebbe da “ejumu”  che nella lingua sacha significa “lago ghiacciato”.

In questa località, così come in altre zone della Siberia, vi sono temperature bassissime: il 6 febbraio 1913 si registrarono -67,7 gradi. Per questo motivo Ojmjakon è stato candidato per l’appellativo di “polo Nord del freddo”, ossia il posto in cui è stata registrata la temperatura più bassa. Ad oggi si contende il titolo con altre due località siberiane: Verchojansk e Tomtor.

Dunque, in questo caso le temperature troppo basse sembrano rendere Ojmjokon non molto ospitale e ai turisti viene sconsigliato di visitarla. Sembra che le uniche persone ad essersi abituate alle sue temperature siano i pochi abitanti del posto.

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Fonte: trebinjelive.info

Gli otto inferni giapponesi

Quando si arriva a Beppu, in Giappone, si osservano subito fumi e vapori sulfurei. La città poggia su sorgenti termali dalle quali fuoriescono 70.000 metri cubi di acqua caldissima ogni giorno (tra i 37 e quasi i cento gradi). La città giapponese è pertanto considerata la seconda fonte più grande di acque termali dopo lo Yellowstone National Park. Tra le circa 2800 sorgenti termali vi sono otto laghetti che si distinguono, concentrati nelle zone di Kannawa e Shibaseki. Vengono chiamati jigoku”, cioè “inferni” di Beppu, per la tradizione giapponese che vuole che l’Inferno si suddivida in otto strati. Tra questi quello più famoso è il Chinoike Jigoku, o Blood Pond Hell. Le sue acque raggiungono temperature elevatissime e inoltre la grande quantità di ossido di ferro conferisce al lago un colore rosso, tanto da sembrare sangue. Alla pericolosità delle temperatura, si aggiunge un aspetto macabro che fa del luogo, per quanto spaventoso, un posto unico.

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Fonte: siviaggia.it

Conclusioni

Ancora una volta si è potuto osservare come la Terra sia sempre pronta a sorprenderci, suscitando timore ma anche moltissimo stupore. Capire anche i pericoli che vi si celano è necessario per comprendere l’estremo rispetto che merita il pianeta e ciò non può mai smettere di essere ribadito. L’amore per la Terra deve nascere dalla consapevolezza del male e del bene che contiene, imparando ad accettare entrambi e cercando la via più giusta per convivere con essi.

 

Giada Gangemi

Per approfondire:

I 15 posti più pericolosi del mondo (nextme.it)

Gli inferni di Beppu – Orizzonti blog 

Il giro del mondo: alla ricerca dei luoghi più pericolosi

 

Scrubs: la serie che ci fa ridere ed emozionare allo stesso tempo

“Con il cuore di JD e la testa di Kelso” (AntartidePTN)

Fin da piccola ho avuto una passione: quella del cinema, della musica e dello spettacolo. Non come interprete, ma come osservatrice: guardo, analizzo e mi commuovo. Essendo un amore il mio, ho visto tante opere, alternando il mio interesse verso più direzioni. Scrubs è quella serie tv che mi ha colpito particolarmente. Ideata dal regista Bill Lawrence, la serie ha ottenuto una fama internazionale, andando in onda dal 2001 al 2010: 9 anni, 9 stagioni e 182 episodi che hanno coinvolto il pubblico.

Scrubs ha lanciato la carriera dell’attore Zach Braff, che interpreta il Dottor John Michael “J.D.” Dorian. (Curioso sapere che proprio oggi la star della fortunata serie spenga 47 candeline).

Da sinistra a destra: Turk (Donald Fraison) Elliot (Sarah Chalke) Carla (Judy Reyes) e JD (Zach Braff). Fonte: Disneyplus

Di cosa parla Scrubs?

“Un saggio disse che lo spirito umano può superare ogni ostacolo… Quel saggio non aveva mai fatto triathlon”

Le vicende avvengono all’Ospedale Sacro Cuore con “sale bianche”, mascherine, medici e pazienti che corrono da una stanza all’altra. Nei corridoi possiamo notare il tirocinante John Dorian, un ragazzo dal cuore d’oro, fresco di laurea, alle prese con questo mondo nuovo – fatto non solo di lavoro, ma d’amore e amicizia – composto di attimi di paura e felicità. John comincerà questa nuova avventura assieme al suo migliore amico Christopher Turk (Donald Fraison).

Nel primo episodio farà la conoscenza di tutte le persone che entreranno a far parte dalla sua vita. Come il Dottor Cox (John C. McGinley) nonché il suo mentore, poi l’amore della sua vita Elliot Ridd (Sarah Chalke), l’inserviente (Neil Flynn) di cui non si saprà mai il suo vero nome e che renderà la vita di JD un vero inferno. Abbiamo il Primario di medicina, il Dottor Kelso (Ken Jenkins), più interessato ai soldi che alla cura dei suoi pazienti, e infine troviamo la Capa infermiera Carla Espinosa (Judy Reyes), una specie di “madre” per tutti i nuovi arrivati.

Le prime otto stagioni sono interamente narrate dal punto di vista di JD, ad eccezione di alcuni episodi.

I personaggi principali di Scrubs. Fonte: Disneyplus

Sigla e titolo

Il titolo è un gioco di parole: “scrubs” indica le divise indossate da medici e infermieri. E come ci ha insegnato la pandemia, sappiamo che è importante lavarsi le mani accuratamente, strofinando per bene. Medici e chirurghi devono eliminare ogni tipo di germe prima di compiere qualsiasi operazione. “To scrub”, in italiano, vuol dire proprio “strofinare”.

La sigla della serie è Superman, un brano della band musicale Lazlo Bane. Durante la canzone vediamo i protagonisti, in sequenze alternate, passarsi un radiogramma che infine viene poggiato su un diafanoscopio. La canzone rappresenta non solo la serie ma tutto il mondo della medicina perché molte volte pensiamo ai dottori come a degli “eroi”, un po’ come quelli dei fumetti. Ma si sa, anche Superman ha la sua Kryptonite.

“Ma non posso fare tutto ciò da solo
No, lo so non sono Superman”

Perché è diversa?

“È per questo motivo che l’emicrania non le passa: qui vede, questo si legge “analgesico”, non “anale-gesico”. Signore, le prenda per bocca…”

Per anni è andato di moda il genere medical drama. Si pensi a Doctor House o a Grey’s Anatomy. Tutte opere che suscitano un grande interesse nel pubblico, ma che purtroppo sembrano essere sempre uguali tra di loro: serie in cui il contenuto viene meno e si pensa solo all’immagine commerciale. Ed è proprio in questo caso che troviamo quegli episodi che vanno avanti solo per l’audience generata da un “senso di attaccamento” del pubblico.

Anche a me, quando finisco una serie, un libro o un film, succede spesso che mi salga un senso di angoscia, avendo in qualche modo creato un legame con la storia o con i personaggi. L’unica serie che si distacca dai gusti del mercato globalizzato è proprio Scrubs. Anch’essa è legata agli stessi elementi del genere medical, ma la trama, che più si avvicina alla realtà, è allo stesso tempo più leggera. Un paradosso se ci pensiamo! La vita in sé non ha attimi prolungati di felicità e di quiete: il nostro tempo è costituito soprattutto da istanti di infelicità e solitudine. Quindi perché Scrubs è cosi leggera?

Fonte: DisneyPlus

Scrubs è una delle poche serie che riesce a legare comicità e “dramma”, rendendole una cosa sola. Nel giro di 20 minuti, ridi e subito dopo scoppi in lacrime. Ogni particolare, anche il più piccolo, rende lo spettatore partecipe alla storia, mettendo in mostra “il reale” che viviamo giorno per giorno. Ricordandoci che alla fine, per quanto si possano incolpare gli altri, la persona con cui bisogna prendersela davvero è soltanto una: noi stessi. I pensieri di JD, i monologhi del Dottor Cox, e le azioni degli altri personaggi ci insegnano che tutti siamo fragili ed è normale sbagliare.

Per questo, di fronte a situazioni tragiche non dobbiamo abbatterci. A volte è giusto chiedere aiuto, ma non bisogna mai arrendersi. Scrubs è quella serie che lega il riso e il pianto in unico filo: due reazioni che scaturiscono da due stati d’animo opposti, ma che appartengono ad ogni essere umano. Bisogna mostrare le proprie fragilità e ammettere di avere paura: nessuno di noi è Superman, come dice la sigla.

  Alessia Orsa

Grammys Awards 2022: come sono andati?

La notte del 4 aprile, tra le 21.30 e le 5.00 italiane, si è tenuta la 64esima edizione dei Grammys Awards, la premiazione canora più importante del panorama musicale. Ritenuti da molti come gli “Oscar della musica“, sono un appuntamento fisso ogni anno.

La cerimonia si è tenuta all’ MGM Grand Garden Arena di Las Vegas, un’arena già ampiamente utilizzata per altre premiazioni negli scorsi anni. Il presentatore Trevor Noah, comico e attore statunitense, ha aperto la serata ironizzando su quanto accaduto durante gli Oscar con la famiglia Smith (che fortunatamente non era tra il pubblico, per cui nessun presentatore è stato maltrattato e\o schiaffeggiato in diretta nazionale).

Grafica digitale della statuetta dei Grammys Awards di quest’anno. Fonte: GRAMMY.com

Grammys Awards: and the winner is…

Grandi premiazioni inaspettate quest’anno. Jon Batiste è stato il musicista più candidato, con ben undici nomination; seguono Justin Bieber, Doja Cat ed H.E.R. con otto candidature a testa. Altri artisti nominati sono stati Taylor Swift, Billie Eilish con il fratello Finneas e Olivia Rodrigo. Spunta anche il nome di The Weeknd in un featuring con Kanye West. Anche se in realtà, la pop star canadese ha deciso di non partecipare più alla competizione a causa dell’esclusione da qualsiasi categoria avvenuta nel 2021.

Jon Batiste è stato anche il musicista più premiato della serata. Ben cinque grammofoni per il jazzista autore della colonna sonora del film Disney: Soul. Porta a casa i premi “Best American Roots Performance“, “Best American Roots Song“, “Best Score Soundtrack for Visual Media“, “Best Music Video” con Freedom e l’ambito “Album of the Year” con We Are.

Fortunato anche il duo Silk Sonic, composto dall’incredibile Bruno Mars e da Anderson Paak, che ha portato a casa ben quattro grammofoni. Il duo ha vinto nelle categorie “Record of the Year“, “Song of the Year“, “Best R&B Performance” e “Best R&B Song” per lo più grazie al brano Leave the Door Open, che tutt’ora è presente in molte delle classifiche musicali più importanti. Proprio il duo ha aperto la premiazione esibendosi sulle note di 777.

Olivia Rodrigo è – senza sorpresa per nessuno – la migliore artista emergente dell’anno. La 19enne, autrice di brani di successo come Good 4 U e Deja Vu e dell’album Sour, porta a casa tre statuette (ma uno le cade di mano durante gli scatti nel dopo show).

Olivia Rodrigo, Silk Sonic e Jon Batiste durante la premiazione dei Grammys Awards. Fonte: CBC

Gli artisti non premiati

Ora passiamo al lato scioccante della competizione. Twitter, il social network più usato durante questi eventi, è letteralmente esploso dall’inizio alla fine dello show a causa dei BTS. La boy band sudcoreana più famosa al mondo era palesemente la favorita di chiunque nella categoria come “Best Pop Duo/Group Performance” ma, anche quest’anno, l’Accademy ha deciso di snobbare i ragazzi. La categoria infatti è stata vinta da Doja Cat e SZA con la loro Kiss Me More. Gli stessi Bangtan Boys (BTS), probabilmente consapevoli di non vincere, hanno più volte ribadito il concetto già espresso lo scorso anno:

Sia che vinciamo o meno il Grammy, noi abbiamo già ottenuto ciò che volevamo. Abbiamo voi (ARMY) quindi abbiamo tutto. – RM

I BTS sono stati in ogni caso gli artisti più attesi della serata. La loro esibizione di Butter ha fatto ballare tutti i presenti in sala e tremare i muri e le pareti dell’arena.

La boy band BTS sul red carpet dei Grammys. Fonte: Ginger Generation.it

Altro fandom che è rimasto “a bocca asciutta” è stato quello di Justin Bieber. Nonostante le nomination, anche lui non ha portato nulla a casa e la sua esibizione è stata la peggiore della serata. La CBS (il canale che trasmette la premiazione) ha infatti deciso di censurare il linguaggio “scurrile” di Peaches, la canzone in collaborazione con Daniel Caesar e Giveon. Il risultato è stato qualcosa di esilarante: la regia non era a tempo con la canzone e toglieva l’audio troppo tardi o troppo presto, censurando tutto tranne le parolacce.

L’Italia ai Grammys Awards

Subito dopo l’esibizione della giovanissima e talentuosissima Billie Eilish con Happier Than Ever, la cantante Dua Lipa e la collega Megan Thee Stallion hanno presentato il premio Best New Artist. Nell’esatto momento in cui le due donne si sono messe davanti al microfono, una voce fuori campo ha urlato:

Dai, basta, basta. Ragazze, basta!

Gli italiani che hanno visto live la scena in un primo momento hanno pensato: “Ho acceso per sbaglio la televisione?”. Invece no. La famosa stilista italiana Donatella Versace era lì presente! È stata lei ad occuparsi dei vestiti delle due artiste e, una volta salita sul palco con loro, ha modificato ulteriormente i loro abiti, si è presa un applauso e poi è tornata tra il pubblico. Un momento che i social hanno amato e che ha acceso una luce ancora più luminosa sulle creazioni della stilista italiana addosso ai presenti (Dua Lipa ha avuto diversi cambi d’abito ed erano tutti della casa di moda Versace).

Menzione speciale per l’Ucraina

Nonostante il clima euforico e festivo della serata, nel secondo blocco dello spettacolo si è deciso di dedicare uno spazio alla situazione di guerra in Ucraina. Il conflitto con la Russia è sempre presente nelle news di questi giorni, non ha bisogno di ulteriori spiegazioni, ma è opportuno non dimenticarlo mai. Il presidente ucraino Zelens’kyj è riuscito a mandare un bellissimo messaggio di resistenza e di pace a tutto il mondo grazie agli schermi dei Grammys Awards:

Qual è il contrario della musica? La guerra. La guerra non ci fa scegliere chi sopravvive e chi giacerà in un silenzio eterno. Difendiamo la nostra libertà per vivere. Per amare. Per suonare. Nella nostra terra combattiamo la Russia che porta un silenzio orribile con le sue bombe. Un silenzio di morte. Riempite questo silenzio con la vostra musica. Riempitelo oggi per raccontare la nostra storia. Per raccontare la verità sulla guerra nei social media e in TV. Supportateci in qualsiasi modo, qualsiasi ma non il silenzio. E la pace arriverà.

John Legend ha ulteriormente siglato le parole del presidente con l’esibizione del suo brano Free. Accompagnato dalla cantante ucraina Mika Newton, dalla musicista Siuzanna Igidan e dalla poetessa Lyuba Yakimchuk oltre che dall’orchestra vestita con i colori della bandiera ucraina.

La musica unisce sempre e comunque. Non importa quale siano le tue sfumature: se trovi la tua canzone, trovi la pace.

Sarah Tandurella

“Il mostruoso femminile”: la paura delle donne tra mito e cinematografia di massa

“La donna è sempre stata un mostro.
La mostruosità femminile si insinua in ogni mito, dal più noto al meno conosciuto.”

Si apre così Il mostruoso femminile, saggio di Jude Ellison Sady Doyle, pubblicato in Italia nel marzo del 2021 ed edito da Tlon. Al suo interno, l’autrice si avvale di molteplici fonti – in primis casi di cronaca nera, letteratura gotica e cinematografia horror – per ricercare i timori alla base delle storie terrificanti che da sempre il patriarcato perpetra sul femminile. La narrazione è suddivisa in tre parti: figlie, mogli, madri – gli unici ruoli che la nostra società legittima per una donna – e pone come fondamento della sua analisi miti e leggende popolari che hanno costituito la materia prima di tutte le opere moderne successive.

La copertina del saggio. Foto di Rita Gaia Asti

Fin dai primi capitoli l’autrice dimostra che le figure femminili demoniache, o in generale sovrannaturali, sono ritratte con connotati mostruosi perché paradossalmente forniscono un ritratto realistico di come sarebbero le donne se lasciate libere di comportarsi da esseri umani indipendenti.
Il primo passo con cui il patriarcato se ne assicura la sottomissione, e dunque la de-umanizzazione, è la repressione della loro rabbia fin dall’adolescenza. Non a caso il nostro contesto socio-culturale alimenta narrazioni nelle quali la rabbia provata durante la pubertà femminile è così disumana da evocare potenze infernali.
E’ il caso de L’esorcista, l’iconico film del 1973 diretto da William Friedkin. Nella pellicola, la dodicenne Regan MacNeil viene posseduta dal demonio e manifesta comportamenti che, a ben vedere, più che una “possessione” sembrano una spettacolarizzazione orrorifica della pubertà femminile:

“Esplode di rabbia, insulta le figure autoritarie e vi si oppone, si fa beffe di Dio e dell’uomo, lanciando inutili provocazioni. Parla ossessivamente di sesso, soprattutto per scandalizzare gli altri. Impreca, urla, odia tutti, e il minuto dopo è l’adorabile bambina che vuole la mamma.”

Regan MacNeil in una scena de L’esorcista. Fonte: Warner Bros Entertainment, Inc

Quando l’autodeterminazione rende la donna disumana

Per il patriarcato è cruciale assicurarsi che fin dalla prima adolescenza la donna percepisca la propria rabbia come anomala e dunque se stessa come un mostro da addomesticare, da controllare dall’esterno, piuttosto che come un essere umano con sentimenti umani, anche negativi. Così può condurla più facilmente verso gli unici due ruoli che ha in serbo per lei: sposa mansueta e madre amorevole.

Tuttavia, anche in epoche remote, poteva capitare che donne sposate, soprattutto se troppo padrone di sé e provviste di una rendita personale più consistente di quella del marito, potessero apparire così anomale da non essere considerate affatto umane, ma creature di un altro mondo. Emblematiche, da questo punto di vista, sono le fate del folklore irlandese. Queste, scrive Doyle, non solo pretendevano rispetto nell’ambito di una relazione coniugale, ma avevano diritto a lasciare il marito umano se le percuoteva:

“In una delle storie raccolte da Evans-Wentz, l’uomo impara che non deve percuotere più di due volte la moglie senza ragione, e per percossa si intende anche un leggero colpetto sulla spalla.”

Fate dal folklore irlandese. Fonte: amazon.it

Purtroppo un marito violento è solo il prodotto più evidente di una gerarchia patriarcale. Le sue manifestazioni più distruttive gravano invece nel profondo del nostro inconscio ed assumono la forma di modelli inarrivabili.

E’ il caso di Carolyn Perron, la cui vicenda reale dei primi anni settanta ispirò il film L’evocazione – The Conjuring, uscito nel 2013. Carolyn, liberale giovane poetessa atea, costretta di peso a diventare una casalinga conservatrice e cristiana, si convinse di essere perseguitata da una strega di nome Bathsheba.

In realtà, le azioni violente che immaginava compiute dalla strega erano compiute da lei stessa, ridotta in uno stato di disperata prostrazione. Bathsheba altri non era che la rappresentazione di sentimenti a lungo repressi: il rancore per l’abbandono delle sue aspirazioni, sacrificate ai bisogni delle figlie, ed il senso di colpa per non riuscire a rispecchiare quell’ideale di amore incondizionato, da sempre richiesto alle madri, avevano creato il mostro.

La locandina del film L’evocazione – The Conjuring. Fonte: sentieridelcinema.it

Perché leggerlo?

La penna dell’autrice, cruda ed a tratti tagliente, sviscera con cura ogni risorsa a cui attinge. Traccia un quadro meticoloso di ogni forma di violenza che l’uomo ha adoperato nei secoli per assoggettare il femminile. Ne derivano pagine indimenticabili, che risucchiano il lettore nella loro infinita ed illimitata oscurità con lo scopo di guidarlo verso una progressiva quanto necessaria presa di coscienza. Inoltre la bibliografia è arricchita con preziose considerazioni personali dell’autrice su ciascuna fonte menzionata, con l’aggiunta di validi consigli per chi volesse approfondirne il contenuto.

Rita Gaia Asti

 

È stata la mano di Dio – Sorrentino e l’esigenza del cinema

Sorrentino si racconta attraverso il suo film più intimo, spingendoci a non “disunirci” – Voto UVM: 5/5

 

Il cinema, la settima arte che da sempre ha avuto l’onere di raccontare ogni genere di storia, dalla creazione puramente immaginaria al racconto intimo e personale di una vita vissuta, trancia il filo che separa la finzione dalla realtà.

È il caso di Paolo Sorrentino e del suo ultimo capolavoro È stata la mano di Dio, campione d’incassi e nomination internazionali (speriamo anche di vittorie!), che ha portato l’Italia fino alla Hollywood degli Oscar.

Una lettera all’aldilà

” Chissà se, nell’aldilà, è consentito andare al cinema. Così mia madre potrebbe vedere la lettera che le ho scritto, attraverso questo film.”

Parole commoventi e commosse quelle pronunciate da Sorrentino, nella lettera pubblicata sulla “Repubblica”, che dedica il film alla madre, scomparsa insieme al padre in un tragico incidente quando il regista era solo un ragazzino.

Il cineasta nel mettersi a nudo, si lascia andare alla nostalgia dei ricordi, descrivendoci l’ironia della madre come un sollievo per qualsiasi problema: uno strumento per minimizzare e sdrammatizzare.

 “Da adulto, ho compreso. Mi è parsa l’unica strada. Minimizzare.”

La lettera si chiude con un consiglio che può solo portare a riflettere tutti noi:

“A costo di essere ridicoli, sentimentali e pieni di lacrime. È necessario, per diventare grandi, passare attraverso le porte del ridicolo e del pianto. Il pianto degli adulti. L’unico modo, per una madre, di ritrovare, davanti a sé, il bambino meraviglioso che tutti siamo stati. ”

Un primo piano del bravissimo Filippo Scotti nei panni di Fabietto Schisa. Fonte: Netflix

Tra il mare e la mano de Dios

Possiamo dire che il film colmi uno spazio che intercorre tra una distesa di profondo mare blu e il verde prato del San Paolo degli anni ’80, quando a solcare quel campo da calcio c’era lui: Maradona.

Il mare e Maradona diventano – ognuno a modo loro – costanti segni di mutamento che indicano punti cruciali della trama.

La pellicola si apre su un’immensa distesa blu, ricca di innumerevoli sfumature, con i suoi suoni e ritmi cadenzati che ripropone metaforicamente nel moto ondoso le stagioni della vita del protagonista, Fabietto Schisa (alter ego dello stesso Sorrentino). Il mare a cui vengono affidati i riti di passaggio, si fa sineddoche della stessa Napoli e della sua cultura senza trucco e senza inganno; si fa carico di quel surrealismo, raccontando l’autentica malinconia del cambiamento.

Dall’altra parte al Bipe de oro, il compito di metronomo dell’esistenza, testimone di gioia e dolore di Fabietto, al punto di essere rappresentato come una persona cara, di famiglia.

Le poche volte in cui appare al centro della scena, sembra parlare direttamente al protagonista quanto al regista e – indirettamente – anche a noi. Le punizioni di Maradona diventano metafora di vita e, seguendo traiettorie improbabili, ci spingono al bisogno di ostinazione, in quella parabola quasi impossibile mascherata da atto divino.

Dal dolore al racconto: la “nascita” di Sorrentino

Il film può essere simbolicamente diviso in tre parti.

1) Una ricetta di famiglia

La prima, piena di fragorose risate, dove ci viene presentata in tutta la sua bizzarria la famiglia Schisa raccontata per quella che è: una sorta di teatro disfunzionale.

Uno dei punti cardine della vita di Fabietto (Filippo Scotti) è la mamma Maria (Teresa Saponangelo), con il suo amore struggente, i suoi sorrisi, gli scherzi irriverenti ma anche i silenzi e il dolore, in un ritratto non tradizionale ma autentico che ribalta tutti i luoghi comuni sulle “mamme del sud”. Un altro è il padre Saverio (Toni Servillo), guitto e talvolta severo, che non sa davvero comunicare col figlio e non gli insegna davvero a vivere; eppure nella condivisione di alcuni momenti e in gesti d’amore imperfetto il ragazzo trova il suo senso di esistere.

Attorno al nucleo familiare centrale si affacciano altre figure, in un coro tragico che accompagnerà Fabio nel suo passaggio all’età adulta. Tra tutte lo zio Alfredo, presenza malinconica sincronizzata con l’anima della città. Personaggio di altissima intelligenza, sarà di fatto colui che traghetterà moralmente Fabio nel dolore.

Dall’altra parte la zia Patrizia (una bellissima Luisa Ranieri), considerata pazza, sarà con la sua anima cangiante la musa di Fabietto che lo condurrà invece nella dimensione del racconto.

La famiglia Schisa sulla vespa. Fonte: sorrisi.com

2) La realtà scadente

La seconda parte esplora l’ambiguità e la complessità dei legami, da quelli familiari a quelli d’amicizia, agli incontri intimi e alla fascinazione per il desiderio e l’amore. Ciò avviene in una serie di momenti assoluti, come un album di sequenze che non descrivono tanto un racconto di formazione, quanto un processo di decostruzione. Perché per ritrovarsi bisogna necessariamente perdersi.

Sorrentino in maniera magistrale fa coesistere risate sguaiate e lacrime brucianti. Sorprendente come tali momenti forti vengano rappresentati in maniera solenne, ma senza cadere nell’eccessività.

Perché bisogna accettare la perdita, bisogna accettare il crollo, come nel momento in cui, nel silenzio completo di una sala cimiteriale, si sente solo lo scatto di una serratura che rappresenta l’addio più doloroso che si possa vivere.

3) L’arte come esigenza, come salvezza

Nella terza parte, dopo le lacrime e il pianto, il cinema a quel punto diventa l’unico modo per unire gesto ed espressione, esigenza e necessità, arte e sopravvivenza.

Sorrentino cita e chiama in causa i suoi maestri, prima Fellini, “presente” durante la prima parte del film, e poi Antonio Capuano.

Capuano diventa un mentore capace di trasformare Fabietto in Fabio (e Fabio in Paolo, verrebbe da dire) in una delle sequenze più eloquenti del film, un feroce dialogo sulla ricerca d’identità, sul cinema e sul coraggio, che davvero segna le origini di Sorrentino come regista.

“Ma è mai possibile che ‘sta città non te fa venì in mente nient’ a raccuntà? Insomma, Schisa la tien’ coccos a ricer’? O si nu strunz come tutti quant’ llate?

È il racconto della nascita, la scoperta della vita, una vita in cui Fabio, dovrà capire come riuscire a non “disunirsi”, per trovare sé stesso e la sua voce.

Paolo Sorrentino e Filippo Scotti alla biennale del cinema di Venezia. Fonte: tgcom24news

 

Gaetano Aspa

Fabri Fibra è pronto a mettere ordine al “Caos” che lo circonda

L’album racchiude tutti gli elementi che caratterizzano la figura complessa del rapper: tecnica brillante, ironia, verità pura e semplice, linguaggio diretto – Voto UVM: 4/5

 

Dopo una lunga pausa è tornato l’artista che ha permesso al rap di sfondare in Italia. Sono infatti passati ben cinque anni dalla pubblicazione di Fenomeno, e Fabri Fibra sceglie di celebrare i suoi vent’anni di carriera con un nuovo full album: Caos.

Il disco è stato reso disponibile su tutte le piattaforme streaming musicali dal 18 marzo. Si sa che Fabrizio Tarducci, vero nome del rapper, non prova grande stima o simpatia nei confronti dei media tradizionali e in particolare della categoria giornalisti. Proprio per questo sceglie di raccontare e spiegare lui stesso l’album, attraverso una playlist apposita su Spotify con 17 file audio, uno per ogni traccia.

Sulla copertina di Caos, Fabri Fibra passeggia sulle spiagge di Grado. Fonte: Soundsblog

“Quanto successo devo fare per sentirmi amato?”

Questo è forse uno dei punti chiave dell’intero album. Il caos di cui Fibra parla non è solo quello che caratterizza la sua vita personale o il suo percorso artistico. È un caos generale, del mondo intero, presente ovunque: nella musica, nella politica e nei sentimenti.

L’album contiene 17 tracce e moltissime collaborazioni. Spiccano quelle con Marracash, Guè Salmo. Menzioni speciali meritano il brano Liberi con Francesca Michielin e la title track con Lazza e Madame. Ovviamente non poteva mancare il feat con Neffa, grande amico di Fibra, che compare in Sulla giostra.

La traccia che pubblicizza l’ultimo lavoro del rapper di Senigallia è Propaganda, in collaborazione con Colapesce e Dimartino. Il brano invita a riflettere sul comportamento di alcuni politici e sul loro modo di disilludere gli elettori. Caos si apre con un Intro, sul campionamento di “Il cielo in una stanza” di Gino Paoli, in cui Fibra ripercorre tutti i suoi vent’anni di carriera, e si chiude con un Outro, che racchiude i ringraziamenti sinceri dell’artista a tutti coloro che hanno lavorato con lui alla realizzazione dell’album.

L’energia dirompente di Fibra

I temi che Fibra affronta in questo nuovo lavoro sono tanti. Prima di tutto è palese la critica ad altri non ben definiti rapper (anche se possiamo facilmente immaginare a chi si riferisce), colpevoli di non essere autentici e di cercare solo fama e soldi. Ma la cosa che veramente disturba Fibra è il consumismo che caratterizza i nostri giorni e che sembra divorarci senza freni. Ne sono vittime anche i rapporti sentimentali che non possiamo più permetterci di vivere a pieno.

Con il successo arrivano anche coloro che vogliono approfittarsene ma Fibra non permette a nessuno di farlo. Anche le amicizie più vecchie e stabili risentono del successo ma, anche in questo caso, tutto è sotto controllo. A volte capita però che, nonostante l’armatura che il rapper si è costruito addosso, arrivino i momenti di sconforto. Questi non devono essere un blocco ma si devono accettare per quello che sono, senza vergognarsene.

Sono presenti anche brani di denuncia verso l’uso di sostanze stupefacenti. Il rapper analizza, in modo critico, gli effetti negativi che la marijuana produce e sottolinea che non c’è nulla di magico o speciale nel consumarla. Divora le tue emozioni e poi ti lascia vuoto, con l’illusione che ti riempia di energia e di vitalità.

Fabri Fibra in concerto. Fonte: Radio 105

In realtà Caos è un album così complesso e ricco di particolari che è impossibile racchiuderlo in una critica logica e sistematica. Già dal primo ascolto ti cattura e ti lascia senza fiato. Il rapper, in un file audio su Spotify, dice che ormai nessuno ascolta un disco dall’inizio alla fine, ed è vero. Io però vi consiglio di farlo e di ascoltarlo come se aveste davanti un film o, meglio ancora, una serie tv: il risultato finale è spettacolare.

Sarah Tandurella