La fattoria degli animali: il racconto di una rivoluzione

La fattoria degli animali è un romanzo breve che porta il lettore alla riflessione, con chiari riferimenti alla Russia sovietica. – Voto UVM: 5/5

Leggere è senza alcun dubbio uno dei più grandi piaceri della vita: ci permette di viaggiare con la fantasia, immaginando luoghi fantastici e immedesimandoci totalmente nei personaggi. Ma la lettura non è solo questo. Come ogni forma d’arte può avere una funzione catartica, portando il lettore alla riflessione. È proprio questo il caso della Fattoria degli animali (Animal Farm). Si tratta di un breve romanzo allegorico, scritto da George Orwell tra il 1943 e il 1944 e pubblicato per la prima volta il 17 aprile del 1945 in versione originale.

Animali d’Inghilterra

Nella fattoria padronale del signor Jones, gli animali lavorano tutti i giorni fino allo sfinimento, ricevendo in cambio solamente il minimo per sopravvivere. Una sera il vecchio maggiore, il maiale più anziano e più rispettato nella fattoria, chiama a raccolta tutti gli animali per rivelargli la verità sulla loro miserabile esistenza. Gli spiega come tutti, fin quando reputati utili, vengono sfruttati per il lavoro, per poi essere uccisi brutalmente. Ed è proprio allora che inneggia ad una rivoluzione.

Poco dopo la sua morte la rivoluzione diventa realtà e la fattoria padronale diventa la fattoria degli animali. Questi stilano sette comandamenti che racchiudono i principi dell’”animalismo”, per poter vivere nell’uguaglianza e nella giustizia. Ma una figura inizia ad imporsi sempre di più sugli altri animali. È il maiale Napoleon ad ergersi come capo, violando e storpiando a poco a poco tutti e sette i comandamenti.

la fattoria degli animali
Murales rappresentante Napoleon. Fonte: wikimedia.commons.org

Dal vecchio Jones al nuovo padrone Napoleon

Analizzando in maniera più puntuale questo racconto, si possono notare due punti di vista: quello dello stesso Napoleon e quello di tutti gli altri animali.

Napoleon, descritto fin da subito come una figura dall’aria più severa e taciturna, cerca di imporsi, trovando però opposizione da parte di un altro maiale: Palla di neve. Fatto fuori quest’ultimo, la vita nella fattoria inizia a modificarsi radicalmente. Tutti gli altri animali sono portati a fidarsi dei maiali, in quanto considerati più intelligenti, tanto che lo stesso cavallo Gondrano prende come sua regola generale: “il compagno Napoleon ha sempre ragione”. Questi finiscono per accettare passivamente quello che viene detto loro, ed anche quando le galline o la cavalla Berta provano a controbattere, vengono subito zittite dal maiale Clarinetto, un’altra figura emblematica all’interno della storia.

Tocca a lui occuparsi delle relazioni tra Napoleon e gli animali, placando ogni forma di possibile malcontento nascente. Ad esempio, nel momento in cui i maiali iniziano a non rispettare più i comandamenti è lui a dover convincere del contrario gli altri animali della fattoria.

Questi ultimi vengono rappresentati, invece, come ideologicamente piatti. Sostengono inizialmente il vecchio maggiore che per primo ha dato l’idea di rivoluzione, per poi passare a Napoleon, distruttore di quegli stessi ideali. Anche nelle ultimissime pagine, in cui Napoleon è ormai il nuovo padrone alla stregua del vecchio signor Jones (o anche peggio), nessun animale ha il coraggio di ribellarsi e lottare per la propria libertà e per quegli ideali inneggiati col vecchio maggiore.

la fattoria degli animali
Il settimo comandamento modificato. Fonte: flickr.com

L’allegoria della Russia Sovietica

La fattoria degli animali è anche dotata di due appendici scritte dallo stesso Orwell, le quali ci aiutano a contestualizzare meglio la sua creazione e pubblicazione. È noto, infatti, come l’opera fosse stata rifiutata da diversi editori prima di essere stampata nel 1945. Un editore, oltretutto, aveva inizialmente accettato il manoscritto, per poi rifiutarlo in un secondo momento su avviso di un funzionario del Ministero dell’Informazione britannico. Da qui, parte la critica di Orwell alla “English intelligentia”, la classe intellettuale britannica. Quest’ultima mette in atto una vera e propria censura volontaria, considerando sconveniente pubblicare libri che andassero a criticare il capo di uno stato alleato come la Russia nel 1943.

Chiari sono infatti i riferimenti del racconto allegorico: il dispotico Napoleon è una rappresentazione dello stesso Stalin, mentre invece Palla di neve, costretto a scappare dalla fattoria, rappresenta Trockji.

La seconda appendice, invece, sarebbe nient’altro che una prefazione scritta da Orwell per l’edizione in ucraino. Rivolta a tutte le persone presenti nei campi profughi in Germania, favorevoli alla Rivoluzione d’ottobre ed ai suoi ideali originari, ma dissenzienti del regime staliniano.

La fattoria degli animali ci permette di riflettere su vari aspetti. Primo fra tutti, ci permette di notare come tutte le libertà, anche una volta conquistate, debbano essere difese e mai date per scontate. Inoltre ci rende consapevoli di come, all’interno di una società, qualcuno tenti sempre di sovrastare l’altro che, per mantenere una stabilità sociale o perché disinteressato alla vita politica, glielo permette.

Ilaria Denaro

Anna dai capelli rossi o Maria Chiara Giannetta?

Tutti sull’attenti quando passa il capitano Anna Olivieri, ruolo che ha consacrato Maria Chiara Giannetta attrice co-protagonista per la prima volta, che, grazie alla sua semplicità, simpatia e talento, è riuscita ad attenuare l’addio al capitano Tommasi (Simone Montedoro) in Don Matteo, facendo innamorare gli spettatori italiani.

“Il mio desiderio è intrattenere: conta cosa dirò”

Maria Chiara Giannetta è un’attrice italiana nata a Foggia il 20 maggio 1992 che, seppur amata e conosciuta, trova l’apice della sua notorietà nel nostro Paese nel 2021, grazie alla fiction Rai Blanca. Da sempre appassionata al mondo del teatro, comincia a fare spettacoli a livello amatoriale già dall’età di 11 anni, per poi iniziare ufficialmente a studiare recitazione, fino ad approdare al Centro sperimentale di Cinematografia di Roma a 19 anni, conducendo in contemporanea gli studi in Lettere all’Università degli Studi di Foggia. 

Comincia ad ottenere i primi ruoli importanti in spettacoli teatrali, per poi apparire per la prima volta nella TV italiana proprio grazie ad una comparsa in Don Matteo nel 2014, senza sapere che qualche anno dopo ci sarebbe tornata da co-protagonista. 

Nel frattempo esordisce sul grande schermo con La ragazza del mondo nel 2016, senza mai abbandonare però la TV grazie a piccoli ruoli in fiction note quali L’allieva, Un passo dal cielo e Che Dio ci aiuti. 

Ciò che non vedono gli occhi…

Maria Chiara Giannetta in Blanca. Fonte: RaiPlay

“Ho imparato ad andare oltre le cose che vedo.”

Blanca è la nuova serie tv Rai di produzione Lux Vide e Rai Fiction, debuttante per la prima volta il 22 novembre 2021 su Rai 1 e disponibile ad oggi anche su Netflix.  Regina di ascolti del lunedì sera con oltre 5 milioni e mezzo di telespettatori a puntata, racconta la storia di Blanca Ferrando, una ragazza non vedente stagista in un commissariato di polizia a Genova, che ha perso la vista a soli 12 anni a seguito di un tragico evento, il cui ricordo la accompagna nel corso della sua quotidianità.

Nonostante la sua cecità, Blanca, accompagnata dal suo compagno di vita – nonché suo cane Linneo – ha un’enorme abilità nel risalire, tramite gli altri sensi sovrasviluppati, a casi irrisolti in campo poliziesco.

Per interpretare questo personaggio, Maria Chiara Giannetta ha seguito la consulenza di cinque tutor non vedenti affinché la facessero entrare in questo nuovo mondo, così da immedesimarsi al meglio nel ruolo di Blanca, rivelandosi una vera professionista.  Inoltre, la serie è stata girata interamente sotto la consulenza artistica di Andrea Bocelli.

Nello stesso periodo, su Canale 5 va in onda “Buongiorno Mamma“, la cui storia ruota intorno ad Anna (non il capitano). La protagonista, madre e moglie di Guido (Raoul Bova), è entrata in coma nel 2013 e da allora non si è più svegliata. Questo ha portato la famiglia a continui drammi e frustrazioni, ma a rimanere – nonostante tutto – sempre unita a lei.

Da universitaria al palco dell’Ariston

“E quante volte io per orgoglio non ho mai chiesto aiuto. Che stupida.”

Un po’ inaspettatamente, Maria Chiara Giannetta è ufficialmente entrata nel cuore di milioni di persone grazie alla sua presenza come co-conduttrice al 72esimo Festival di Sanremo.

Maria Chiara Giannetta a Sanremo 2022. Fonti: Rai, AP Magazine

Tra fanatismo e scetticismo, lei, così semplice, sorridente e spigliata, ha infranto ogni forma di pregiudizio nei suoi confronti, riuscendo a conquistare chiunque grazie alla sua comicità e umiltà, tratti messi in evidenza durante la quinta serata del Festival, soprattutto nel divertente dialogo che ha v isto protagonisti lei e Maurizio Lastrico (il PM in Don Matteo). I due hanno interpretano una coppia di innamorati gelosi ma infedeli: il tutto basato su testi di canzoni celebri della musica italiana, passando da Parole parole di Mina a Musica leggerissima di Colapesce e DiMartino.

Non è mancato il suo monologo, accompagnata dai “Guardiani di Blanca”( così chiamati da lei stessa: sono tutti coloro che l’hanno sostenuta e accompagnata durante il viaggio di Blanca), in cui racconta la sua evoluzione artistica all’interno della serie, e come, grazie ad essa, è riuscita a “vedere oltre le cose”. Ha toccato un argomento difficile, sensibile, ma con il suo grande cuore ha incantato chiunque la sentisse parlare.

Nonostante la giovane età e la poca esperienza, ha mostrato un elevatissimo grado di capacità, rivelandosi all’altezza e meritevole di stare sul palco del più grande Festival della musica italiana.

Ma oggi, quante volte dovrà tirarsi le orecchie?

Proprio oggi, 20 maggio 2022, Maria Chiara Giannetta spegne 30 candeline, e noi non possiamo che essere orgogliosi che sia, ad oggi, uno dei volti più celebri della televisione italiana. Nonostante i pochi anni di carriera, le auguriamo un futuro pieno di successi come quelli ottenuti finora ( o anche maggiori).

Da tutta la redazione UniVersoMe, buon compleanno Maria Chiara.

Nei secoli fedele, capitano!

Marco Abate

Un sistema che non precluda voci ma che sappia riconoscere i falsi

Ha un limite la libertà?

Il 3 maggio si è celebrata la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa ma ancora oggi ci si interroga su quale sia il suo limite invalicabile, semmai debba esservene uno.

Una storia sbagliata

Il primo paese che abolì la censura, nel 1695, fu l’Inghilterra, dove già nel corso del Cinquecento era stato istituito un severissimo sistema di controlli sulla stampa. Dovette passare quasi un secolo, prima che tale censura venisse abrogata anche in Francia. Appena dopo la presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, la libertà di stampa fu proclamata dalla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”. Non tardarono però ad arrivare contestazioni da un gruppo di rivoluzionari. E anche un giurista francese considerò non un’utopia ma un’assurdità questa libertà illimitata che mai dovrebbe esistere nella legislazione di un popolo civile.

Si aprì così a Parigi, nell’estate del 1789, un dibattito sui limiti della libertà di stampa e di parola, a cui si cerca ancora una risposta. Sempre in Francia, infatti, lo stesso dibattito si riaccese dopo la strage al settimanale satirico Charlie Hebdo” nel 2015. Sorse dunque spontaneo chiedersi se fosse giusto o meno fare della satira, in quel caso sulla religione, senza tener conto della sensibilità di alcuni lettori. E la risposta non può che essere affermativa, in una società in cui (purtroppo o per fortuna?) vige la tutela dell’illimitata libertà di parola e di stampa. In cui illimitato vuol dire che tutto può essere oggetto di satira e di giudizio.

Libertà di stampa: utopia o distopia?

Dovremmo forse affidarci alle parole del filosofo olandese Baruch Spinoza, che all’interno del suo “Trattato teologico politico” propone per tutti una libertà di pensiero e di parola non illimitata. Il filosofo afferma infatti che è un diritto di ognuno esprimere il proprio pensiero, ma bisognerebbe limitarsi ad esporlo semplicemente seguendo la propria ragione, senza inganno, ira o odio nei confronti altrui.

C’è chi invece nel corso della storia non ha esitato a riconoscere ai sovrani la piena facoltà di giudicare le varie opinioni. Ma pensiamo davvero a cosa significherebbe istituire un controllo sulla libertà di stampa, evitando la pubblicazione di quei giornali ritenuti magari sconvenienti. Ciò rievocherebbe soltanto uno dei più terribili scenari orwelliani, mettendo nelle mani di un giudice l’immenso potere di decidere quando una libertà possa essere esercitata e quando no, sulla base del solo gusto personale. Può essere questa considerata “libertà di stampa”?
Essa dovrebbe piuttosto rappresentare un potere per contrasto: i giornali, in primis, dovrebbero dimostrare la capacità e la volontà di opporsi ad un potere “malato”, e non farsi soggiogare da esso.
Ora più che mai abbiamo bisogno che la stampa si metta in ascolto dell’altro ed eviti di appiattirsi sullo scontro politico.

La libertà di stampa non è un privilegio…

“Voi, la stampa libera, contate più di quanto abbiate mai fatto nel secolo scorso”

Sono state queste le parole pronunciate qualche giorno fa dal Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, alla cena dei Corrispondenti alla Casa Bianca. Tradizione ripresa dopo i due anni di sospensione voluti da Donald Trump, che ha sempre dimostrato una certa sfiducia nei confronti dei media, scagliandosi di continuo contro stampa e giornalisti. Per Biden, invece, il buon giornalismo serve da specchio della società, per riflettere sul bene, sul male e soprattutto sulla verità. Il Presidente non ha perso l’occasione per ringraziare i reporter di tutto il mondo che con coraggio oggi si fanno portavoce proprio di quella verità che affligge l’Ucraina, mettendo a rischio la loro stessa vita. Perché “libertà di stampa” in fin dei conti vuol dire anche “assoluta indipendenza dagli uomini del Governo”.

Lo sanno bene tutti quei giornalisti indipendenti della Russia che rischiano fino a quindici anni di carcere parlando della guerra in modo oggettivo e subendo la peggiore censura degli ultimi decenni. La stampa, dunque, non dev’essere nemica del popolo, ma piuttosto porsi come guardiana di una libertà ormai in bilico da troppo tempo, sempre pronta a mettersi dall’altro lato della barricata, nella parte scomoda, per difendere i propri ideali e la propria autonomia.

…è una necessità!

Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso tenuto in occasione dei 70 anni della Gazzetta del Sud, ha colto l’occasione per sottolineare l’importanza dell’indipendenza dell’informazione, definendola “l’unico riparo dalle sfide imposte dagli eventi del mondo”. Il Capo dello Stato ha poi continuato spiegando l’importanza di un sistema informativo che senza precludere nessuna voce riesca ad informare con proprietà critica i suoi lettori su ciò che accade nel mondo.

La libertà di stampa è alla base della democrazia e in quanto tale è necessaria alla sua realizzazione: fin quando un Paese avrà un’informazione indipendente e funzionale allora potrà vantare un buon governo.

 

Domenico Leonello

* Articolo pubblicato il 05/05/22 all’interno dell’inserto “Noi Magazine” di Gazzetta del Sud.

Distacco della piattaforma Conger: cosa accade in Antartide

Le terre dei ghiacciai sono solo alcune delle vittime del riscaldamento globale. Tra tutte le aree colpite, l’Artico e l’Antartide, insieme alla calotta groenlandese, sono le più sofferenti. Negli ultimi 40 anni la massa di ghiaccio perso in Antartide è aumentata di sei volte, portando ad un innalzamento del livello del mare di 1, 3 cm.

Cosa sta succedendo in Antartide?

Basta osservare gli ultimi eventi per comprendere come l’Antartide stia andando alla deriva. È recente la notizia secondo cui la piattaforma Conger, lunga 8 km e situata nella parte occidentale della Wilkes Land, sia collassata. Gli scienziati stanno ancora approfondendo i motivi dell’incidente, ma tra questi segnalano sicuramente l’aumento eccezionale delle temperature. Verso marzo l’area è stato colpita da un’anomala ondata di calore, che ha innalzato le temperature fino a 47 gradi.  È da sottolineare che la piattaforma aveva mostrato dei segnali di distacco già 15 anni fa, ma non aveva mai dato segni di un collasso così veloce. La situazione è peggiorata a partire dal 2020 e, tramite i rilievi satellitari, gli studiosi avevano dimostrato come già il 4 marzo del 2022 il Conger avesse perso metà della sua naturale estensione.

Distacco del ghiaccio: di cosa si tratta?

Il fenomeno del distacco del ghiaccio, o dell’ablazione glaciale, consiste nella rottura di una parte di ghiaccio appartenente ad una piattaforma, ad un ghiacciaio, ad un iceberg o ad un crepaccio. A seconda delle dimensioni del ghiaccio collassato si distingue tra un growler (alto meno di un metro e lungo meno di 5 m), un bergy bit (alto da 1 a 5 metri e lungo da 5 a 15 m), per poi individuare distacchi ancora più grandi, come nel caso del Conger.

Il momento precedente al distacco è caratterizzato da forti boati e, inoltre, la caduta del ghiaccio può provocare onde molto alte. Le ragioni  del distacco cambiano a seconda del caso considerato. Oltre alle temperature elevate, si possono riscontrare fenomeni sismici ed eventi mareali, onde di tempesta (storm surge), collisioni tra ghiacciai, screpolature del ghiaccio. Oggi gli scienziati stanno cercando di stabilire una legge previsionale del distacco, servendosi delle variabili di temperatura, densità, spessore, carico di impurità.

Fonte: blastingnews.com

Lo sviluppo del fenomeno tra XX e XXI secolo

Nel corso degli anni si sono susseguiti diversi fenomeni di questo tipo. Tra questi, il distacco di due aree della piattaforma glaciale di Larsen, nel 1995 e nel 2002. Nel primo caso si dispersero 3250 km2 di ghiaccio. Nel 2005, invece, quasi l’intera piattaforma glaciale di Ayles  si distaccò dal margine settentrionale dell’Isola di Ellesmere, che dal 1900 ha perso circa il 90% delle sue piattaforme. Allora si persero 87,1 km² di ghiaccio. Infine, una situazione molto critica, riguarda il ghiacciaio di Jakobshavn Isbrae, dal quale ogni anno si distaccano 35 miliardi di tonnellate di ghiaccio.

Jakobshavn Isbrae, Groenlandia

Antartide: non solo la piattaforma Conger

Accanto al Conger, sono parecchi i ghiacciai che continuano a collassare, come il ghiacciaio Totten e la piattaforma di Glenzer. Gli scienziati continuano ad osservare e analizzare questi eventi, mentre la loro attenzione è rivolta anche al ghiacciaio Thwaites, la cui caduta potrebbe determinare l’innalzamento dei mari globali di oltre mezzo metro. Il suo soprannome è infatti “ghiacciaio del giorno del giudizio”.

Gli studi condotti

Gli studi condotti hanno dimostrato che tra il 1979 e il 1990 l’Antartide ha perso circa 40 miliardi di tonnellate di massa di ghiaccio all’anno. La perdita è peggiorata sempre di più: tra il 2009 e il 2017 è risultata pari a circa 252 miliardi di tonnellate all’anno. Si è osservato come l’area più colpita sia la Wilkes Land, proprio il luogo in cui si trovava la piattaforma Conger.

Ghiacciaio Thwaites, Antartide

Consapevolezza tra scenari spaventosi

Al momento è difficile immaginare uno scenario positivo per l’Antartide, così come è difficile immaginarla privata dei suoi ghiacciai. Gli eventi che portano al loro collasso sono  peculiari, ma è semplice intuire che se non controllati  potrebbero portare a distacchi ancora più intensi, con conseguenze  per l’intero pianeta. Comprendere cosa accade in territori lontanissimi da noi significa sapere cosa sta accadendo e cosa potrebbe accadere a livello globale.

In questo caso non esiste alcuna distanza.

Giada Gangemi

Bibliografia:

Clementino ritorna indossando la più famosa maschera napoletana

Clementino ritorna in grande stile, ma con il costume di un “pulcinella nero”– Voto UVM: 5/5

 

Napoli è quella terra dove le maschere popolano il territorio: basta girare ogni angolo per vedere  “volti” creati secoli fa. Troviamo Zeza, Don Nicola, Tartaglia e tanti altri che hanno fatto conoscere la terra “bianca e azzurra”, da tutti noi ammirata nei film di Sorrentino, nella bravura di attori come Totò, Massimo Troisi e Tony Servillo, nel mito di Maradona, che hanno reso Napoli una delle mete più belle e amate al mondo.

Proprio pochi giorni fa è ritornato sulle scene Clementino, ma con un altro volto: quello di Pulcinella, la maschera più amata nella storia del teatro. Dopo averci lasciato tre anni fa con Tarantelle, il 29 aprile il rapper ha pubblicato un nuovo album: Black Pulcinella.

Black Pulcinella( 2022)

“Contro i cantanti ca nun sann chell c’hann scritt
Copia incolla da motivazione.it
Indosserò una maschera non sai cosa c’è dietro” (Black Pulcinella)

La iena ritorna vestita di nero (qualcuno dice che sia il lato oscuro del rapper di Avellino, ma non è così). Ascoltando le nuove canzoni, possiamo ancora sentire e “osservare” la simpatia di Clementino, quella che ci ha fatto innamorare e apprezzare ancor di più la sua arte. La tracklist è composta da quindici brani, in cui Clementino non è solo: ad accompagnarlo ci sono tanti artisti come Rocco Hunt, Geolier, Nerone, che già in passato avevano lavorato con lui.

Il dialetto napoletano si mischia con il rap, le basi musicali sono accattivanti, le sinfonie ci trascinano e ci catapultano nel magico mondo dell’incoerenza. Il rapper, da perfetto sagittario, punta la sua freccia e la scaglia verso il finto perbenismo, che ormai la nostra società è costretta a subire ogni giorno. Ma in fondo – lo sappiamo – il nostro Cleme non ha peli sulla lingua.

E’ lui stesso a spiegarci che il suo nuovo lavoro si rifà al proprio modo di vivere la musica: già in passato si definiva un “black pulcinella”, per via della musica afroamericana che ha influenzato lo stile del cantante, facendolo divenire un “Pulcinella travestito di nero”.

 “In passato quando mi chiedevano «ma tu che genere fai?», spesso rispondevo «il Black Pulcinella» “

La musica – come la poesia, la scrittura e gli stessi simboli – esiste per esprimere a volte ciò che non si può dire nel linguaggio parlato. Anche Pulcinella è un simbolo: rappresenta Napoli, è il personaggio che si dice sia nato dentro il Vesuvio, altro elemento iconico della città.  Pulcinella è un mito, al pubblico regala solo sorrisi, ma la sua maschera nasconde quella malinconia di chi ha passato tanti guai durante la sua vita – così ha dichiarato anche il nostro artista.

Maschera di Pulcinella. © Alessia Orsa

Per questo l’album  è “the dark side of Ienawhite”, il lato “nero” di Clementino,  che ci mostra come tutti i mali sociali possano condizionare l’essere umano. Ci fa percepire anche il suo lato più fragile, ci fa entrare dentro la sua anima, mostrandone le insicurezze e le paure. Quindi Clementino ha un lato “dark”, da non confondersi col buio, col male che caratterizza i personaggi solitari alla Joker. Qui il pulcinella nero non è solo, ma accompagnato da altri rapper in feat. che rendono l’album “puro” e la purezza non ha niente a che vedere con l’oscurità.

“Iamm sott acqua Bombap tu nun respir compà
Ngop a nu palc bombard e po’ m circ pietà
Miettm nterr e contant” ( The dark side of Iena White)

Il rapper Clemente Maccaro, in arte “Clementino”. Fonte: flickr.com

 

L’ultimo capolavoro di Clementino non delude i suoi vecchi fan: il rapper non si è lasciato trascinare dallo stile commerciale che rende tutto finto e iper-velocizzato e che ormai siamo costretti a sorbire ogni giorno. Il Pulcinella Nero rimane fedele a sé stesso, regalandoci un’opera emozionale.

Alessia Orsa

 

 

Siamo tutti “fate ignoranti”. Il significato della nuova serie di Ferzan Özpetek

La nuova serie tv conferma la genialità di Özpetek nel narrare il mistero dell’amore e della vita e ci fa sperare in una seconda stagione. Voto UVM: 4/5

 

«Perché si fanno così tante domande? Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene» affermava una saggia Monica Vitti ne L’eclisse (1962). Se ci pensate bene, quando baciamo o abbracciamo lo facciamo ad occhi chiusi. Possiamo conoscere perfettamente l’altro, vedere nitidamente il suo volto quando ne siamo innamorati? O il sentimento forse si nutre soprattutto sul nascere di quella necessaria ignoranza che serve a tenere in piedi l’illusione? Amore e conoscenza sembrano due binari che non corrono paralleli, ma tutt’al più qualche volta si scontrano in quelli che sono imprevisti incidenti di percorso, momenti rivelatori in cui apriamo gli occhi e scopriamo che chi ci sta accanto nasconde più segreti di quanti pensiamo.

Proprio in questo scontro, si incrociano Antonia (Cristiana Capotondi) e Michele (Eduardo Scarpetta), persone apparentemente molto diverse, due treni che deragliano in seguito alla morte di Massimo (Luca Argentero). Sono loro i protagonisti della serie tv Le fate ignoranti di Ferzan Özpetek, lanciata il 13 aprile su Disney Plus e remake dell’omonimo film che lanciò la carriera del regista italo-turco.

“Tutti abbiamo un segreto …”

Per chi non avesse visto il film del 2001 con Margherita Buy e Stefano Accorsi, tracciamo brevemente delle coordinate. Antonia e Massimo sono una coppia felicemente sposata da 15 anni che vive una comoda esistenza borghese in una villa con tanto di giardino sul lago. L’equilibrio idilliaco quanto monotono si rompe nel momento in cui Massimo muore e la moglie lo perderà due volte scoprendo che da qualche tempo il marito aveva una doppia vita e intratteneva una relazione addirittura con un uomo, Michele.

Mossa inizialmente dalla tipica curiosità masochista della donna tradita di scoprire sempre di più, Antonia si ritroverà a frequentare Michele. Si affezionerà così a lui e al suo gruppo di amici stravaganti, una vera e propria famiglia che di rito si riunisce nei pranzi domenicali, una “piccola comunità arcobaleno” che si difende dal mondo esterno andando orgogliosa della propria diversità.

Ma chi sono le “fate ignoranti”?

C’è ancora la stessa storia fuori dalle righe nella serie del 2022, riproposta fedelmente anche in alcuni dialoghi, nelle situazioni, negli interni e nelle atmosfere che compongono gli universi distanti di Antonia e Michele (la villa dove lei conduce un’esistenza ovattata è praticamente identica: stessi toni grigi, stesso arredamento geometrico). Ma c’è anche molto di più (o di meno, secondo qualche detrattore).

A partire dagli attori perfetti anche nei volti per i ruoli che incarnano: abbiamo i tratti da dama rinascimentale della Capotondi a racchiudere la purezza della moglie ingenua. E poi gli occhi sporgenti, quasi disturbanti di Scarpetta che mettono in discussione le certezze della protagonista, la verve di Carla Signoris, nei panni della madre quasi ingombrante nella sua frivola joie de vivre. Uno su tutti: Argentero, col tipico sorriso da ragazzo della porta accanto, solare e affascinante benché poco acculturato. Ma non finisce qui.

Özpetek, insieme a Gianluca Mazzella (regista di alcuni degli otto episodi), si prende stavolta tutto il tempo per dipingere nei minimi dettagli l’intero affresco di personaggi che circonda il triangolo Antonia- Michele – Massimo, le cosiddette “fate ignoranti”.

 Luce vs ombra. Serie tv e film a confronto

Perché Massimo non aveva solo un amante, “aveva una famiglia, un intero mondo”. E qui questo mondo, più che nel film, emerge in tutta la sua gioia ed esuberanza, che si manifesta nella solarità, nei colori caldi di quella tavola imbandita ogni domenica a festa, che contrasta invece con le tinte fredde (anche nel vestiario) di Antonia. Sparite sembrano le ombre della discriminazione, dell’Aids che aleggiavano sulla casa di Michele nel film del 2001 (un personaggio “tragico” come quello di Ernesto viene eliminato dalla sceneggiatura). C’è più  luce, il dramma lascia il posto a toni comici per narrare la magia di un gruppo di amici che si alimenta di condivisione, feste (e anche di pettegolezzi).

Lo spettatore ha il tempo di conoscere Serra (Serra Yilmaz), Vera (Lilith Primavera), Luisella (Paola Minaccioni) , Annamaria (una sottovalutata Ambra Angiolini) e tutti gli altri, di cogliere il senso di famiglia che li lega, anche in rapporto a Massimo che questa famiglia la vive. Qui un’altra differenza fondamentale col film: conosciamo Michele e gli altri ancor prima dell’incidente che sarà il preludio della scoperta di Antonia. La relazione di Michele e Massimo, la seconda vita di quest’ultimo qui non è clandestina, ma corre in parallelo a quella coniugale, ha la stessa dignità, lo stesso diritto d’esistenza.

La doppia vita di Massimo. Nella serie le due scene sono praticamente sincroniche.

Forse i tempi sono cambiati e adesso Özpetek può raccontare con più leggerezza un mondo quale quello LGBT che prima si nascondeva ai margini della società. O forse, andando più a fondo, ci accorgiamo che le storie di Antonia e Michele si sviluppano in parallelo perché entrambi sono “fate ignoranti” ( nel senso proprio del termine “ignorare”). Ad entrambi i punti di vista manca “qualcosa”.

Loro che pensavano di poter confinare Massimo nella galassia sicura del proprio sguardo, si trovano a scoprire invece che la persona che amiamo è sempre e comunque un universo sconosciuto, una stella che continua a brillare di luce propria, anche quando non stiamo a guardarla.

“Per quella parte di te che mi manca e che non potrò mai avere” (dalla dedica di Michele a Massimo, che Antonia trova dietro il quadro)

 

 Angelica Rocca

I segreti di Silente: un altro flop?

Con un intreccio che fa acqua da tutte le parti, il terzo capitolo di “Animali Fantastici” non soddisfa le aspettative dei fan – Voto UVM: 2/5

I segreti di Silente arriva nei cinema dopo il poco convincente secondo capitolo della saga Animali Fantastici e dove trovarli, che ha fatto arrivare molti scettici in sala. È riuscito quindi a farci uscire soddisfatti?

La riposta è più no che si, purtroppo. Molti elementi risultano essere frutto di una gestione confusionaria, con personaggi ed intere sequenze poco rilevanti per lo sviluppo della trama. Risaltano invece la doti attoriali dei due veri protagonisti del film, Jude Law e Mads Mikkelsen, vere gemme della pellicola. Ma andiamo più nello specifico.

Il film parla ancora dello scontro “fratricida” tra Silente (Jude Law) e Grindelwald (Madds Mikkelsen). La loro lotta si sposta ora in campo politico: il mago oscuro sta infatti cercando di scalare le gerarchie del potere per scatenare la sua guerra contro i babbani. A Silente sta quindi il compito di fermarlo, con l’aiuto del suo gruppo.

Cosa non ci ha convinto de I segreti di Silente

I pregi in questo film non mancano: anche gli animali, dopo essere scomparsi nel secondo capitolo, tornano con un ruolo predominante in questo. Un grande aiuto è stato dato alla Rowling nella scrittura: dopo il secondo film era chiaro a chiunque infatti che la scrittrice non fosse la più adatta a scrivere sceneggiature, avendo esperienza solo coi romanzi. Il film infatti ha un ottimo ritmo e riesce a coinvolgere lo spettatore.

Sebbene quindi ci siano note positive ne I segreti di Silente, non riusciamo a promuoverlo del tutto, per degli errori molto evidenti che nascono dalla cattiva gestione della saga in toto: anche questo film infatti non è nient’altro che un riempitivo e la sensazione generale che si ha è che sia servito di fatto solo ad aggiustare ciò che di critico vi era stato nel secondo capitolo.

Molti personaggi diventano estremamente secondari se non veri e propri figuranti che, se eliminati, non avrebbero avuto effetto sullo sviluppo dell’intreccio. La stessa cosa succede a molte sequenze per cui ci siamo ritrovati a sperare che finissero il prima possibile affinché la trama andasse avanti.

Jude Law in una scena del film. Fonte: Warner Bros.

Anche i motivi stessi per cui la trama va avanti sono costruiti su un castello di carte. Badate bene, l’intera saga di Harry Potter non ha mai brillato nella scrittura delle sue parti strettamente politiche, ma in questo film si raggiungono assurdità quasi ridicole.

Secondo la tradizione, l’elezione del Capo Supremo del mondo magico avviene in questo modo: il candidato prescelto sarà quello davanti cui si inchinerà il qilin, sorta di creatura magica capace di discernere i puri di cuore.  Ma chi di voi alla fine darebbe il potere ad un puro di cuore? E come si fa a trovare sempre quel puro di cuore, nel corso della storia del mondo magico, tra i candidati delle varie fazioni? La lungimiranza non è di casa neanche nella politica del nostro mondo – sia chiaro – ma almeno dalle nostre parti, sembra che tutto si “riesca a tenere in piedi”.

Parlando poi anche delle azioni dei buoni, il piano messo in atto per combattere un nemico che conosce in anticipo le mosse (Grindelwald ha il potere di prevedere il futuro) è si dichiaratamente un “non piano”, ma ciò arriva a discapito della comprensione generale. Lo spettatore che si ritrova sballottato da una parte all’altra e a “dover dare tutto per buono”. Ingaggiare un “non mago” per combattere un mago oscuro ha senso? Beh, se il capo dice di sì, allora va bene!

Cosa salviamo de I segreti di Silente

Insomma l’impalcatura del film non riesce a reggersi del tutto sulle sue gambe, ma è capace invece di farti interessare al legame tra Silente e Grindelwald. I due attori hanno una chimica incredibile, riescono benissimo a trasmettere il legame tra i due personaggi, soprattutto all’inizio e sul finale in cui interagiscono e comunicano tra loro e allo spettatore solo con gesti e sguardi.

Jude Law e Madd Mikkelsen nei panni di Silente e Grindelwald. Fonte: Warner Bros.

Dopo due capitoli che risultano riempitivi ed un primo che serviva solo a tastare le acque, possiamo quindi aspettarci un miglioramento nei prossimi film, sperando che gli sceneggiatori colgano gli errori dei precedenti.

Rimane comunque un peccato che il primo pensiero dopo la visione di un film sia: speriamo che il prossimo, adesso, sia migliore.

Matteo Mangano

Jacques Perrin, il marinaio della meraviglia

Volto angelico, capelli d’argento e occhi azzurri come il ghiaccio o, forse, sarebbe più appropriato dire “occhi azzurri come il mare” perché il mare lui l’ha sempre amato, venerato e omaggiato. Ci ha lasciati, all’età di 80 anni, Jacques Perrin, un marinaio della meraviglia prima ancora che attore, regista e produttore di successo. In un sessantennio di carriera ha dimostrato di possedere il raro dono dello spirito di un sognatore capace di stupirsi e stupire ancora e ancora.

«Se ci meravigliamo del mondo, vivremo meglio

Figlio d’arte, ha imparato a navigare lungo le coste della fantasia sin da bambino ascoltando la madre leggergli poesie e, all’età di 14 anni, sale sul palco per la prima volta.

È stato però il cinema italiano, terra cui rimane legato per tutta la vita, a offrirgli il suo primo ruolo importante, ne La ragazza con la valigia (1961) di Valerio Zurlini. Era l’epoca delle collaborazioni italo-francesi e la coppia Zurlini–Perrin diede alla luce altri celebri film, come Cronaca familiare (1962).

«Il fior de’ tuoi gentili anni caduto» (Ugo Foscolo)

È con questa citazione al sonetto “In morte al fratello Giovanni” che si apre la pellicola del regista bolognese.
Enrico (Marcello Mastroianni), giornalista trentacinquenne, riceve una telefonata che gli comunica la morte del fratello minore Lorenzo (Jacques Perrin). A questo punto la narrazione si svolge in flashback, e in flashback nel flashback, durante i quali Enrico cerca di comprendere il suo consanguineo più fragile e bisognoso di affetto.

Da sinistra a destra: Lorenzo (Jacques Perrin) ed Enrico (Marcello Mastroianni) in una scena del film “Cronaca familiare”. Fonte: Titanus

Cronaca familiare è un film struggente sulla debolezza e sul bisogno dell’altro. Il cinema di Zurlini ha sempre messo in scena tempeste di passioni. E in questo caso la passione è rappresentata dall’amore fraterno che il regista rende con grande sensualità e carnalità. Il film si chiude, in una scena devastante, con l’ultimo abbraccio dei due fratelli. Un momento disperato e intensissimo che Enrico interrompe non riuscendo ad accettare di vedere Lorenzo in fin di vita.

«Voglio ricordarti vivo.»

Il cloud della carriera di Jacques Perrin

Nel corso della sua carriera l’attore ha vinto molti premi, tra cui ricordiamo la Coppa Volpi per la migliore interpretazione maschile al Festival di Venezia del 1966 per il film Un uomo a metà del cineasta italiano Vittorio De Seta. Nel film, di stampo psicanalitico, il regista sceglie di raccontare junghianamente, la proiezione di uno stato di coscienza, indagando nella mente di Michele (Jacques Perrin): un giornalista che ha appena attraversato un esaurimento nervoso. Ma la forte crisi sembra non essere conclusa del tutto. L’uomo infatti ripensa al difficile rapporto con la madre e al senso di inferiorità nei confronti del fratello. È così che la pellicola diventa una lunga seduta di auto-analisi. Un’ora e mezza di fuga dalla realtà attraverso i ricordi, i sogni e le paure di un uomo psicologicamente ferito.

Nel 1968, s’imbarca nella professione di produttore, al fianco di Costa-Gavras, per il film Z – L’orgia del potere (Z) (1969). Il fatto che nessuno volesse finanziare questo film sulla dittatura dei colonnelli greci scatena altri due talenti: la delicata denuncia politica e la capacità di trovare finanziamenti.

«Non parlo di soldi con i banchieri, parlo di un sogno da costruire

Totò adulto (Jacques Perrin) in una scena del film “Nuovo cinema paradiso”. Fonte: Cristaldifilm, Films Ariane

La sua carriera va a gonfie vele e, nel 1988, recita nel film che l’ha reso celebre e apprezzato in tutta Italia: Nuovo Cinema Paradiso, regia di Giuseppe Tornatore (1988). Chi non si è commosso guardando i frammenti di pellicola dei baci censurati salvati da Alfredo? Così come ha fatto Totò (Jacques Perrin), ormai adulto, tornato a casa dopo avere realizzato il suo sogno? Se non l’avete visto, potreste usare la fantasia (e Perrin, probabilmente, ne sarebbe ben lieto) oppure guardarlo, no?

Le pellicole naturalistiche

L’amore per la Madre Terra e l’animo da avventuriero lo portano altrove. Ed è così che produce alcuni documentari, tra i più noti: Microcosmos – Il popolo dell’erba (1996), Il popolo migratore (2001), e La vita negli oceani (2009).  La bramosa ricerca della felicità, per Perrin, non può che derivare dal rispetto verso la natura e dall’umiltà umana dinanzi la sua bellezza.

«Come non capire che la Terra non ci appartiene? Gli animali, le piante, sono a casa tanto quanto noi. E, se davvero dessimo loro il loro posto, vivremmo meglio

La lotta politica a difesa della natura è protagonista anche del suo ultimo film Goliath, regia di Frédéric Tellier (2022) che affronta la questione delle lobby e dei pesticidi.

Approdato all’isola del cinema appena ventenne, ne esce da ammiraglio pluridecorato (e premiato) dopo aver incantato e, soprattutto, meravigliato milioni di spettatori con il suo animo nobile cui Baudelaire, ne siamo certi, avrebbe detto: “Uomo libero, sempre avrai caro il mare“.

Au revoir marinaio della meraviglia, e merci per tutti i sogni che hai reso realtà!

Angelica Terranova
Domenico Leonello

Energie rinnovabili: svolta nell’immagazzinamento dell’energia solare

Energia solare, l’energia rinnovabile green del presente e futuro. Nonostante ciò, viene utilizzata con un dispendio non indifferente di materie prime rare. Oggi, con la nuova tecnologia MOST (Molecular Solar Thermal Energy Storage Systems), introdotta grazie ad uno studio sino-svedese, è possibile immagazzinare l’energia fino a 18 anni con il successivo utilizzo anche a distanza, divenendo così il vero fulcro energetico del futuro.

Indice dei contenuti

Cos’è l’energia solare?

Utilizzo e limiti

Tecnologia MOST

Utilizzi futuri

 

Cos’è l’energia solare?

L’energia solare è l’energia associata alle radiazioni solari (energia radiante generata dal sole attraverso reazioni termonucleari di fusione ed emessa successivamente nello spazio trasportando con sé energia solare), rappresentando la forma primaria di energia sulla terra.

Fonte: www.bluabitare.com

Utilizzo e limiti

In natura viene utilizzata direttamente dagli organismi in grado di utilizzare la fotosintesi clorofilliana (autotrofi o vegetali) e indirettamente attraverso essi, grazie all’energia chimica proveniente dalla loro digestione e utilizzo, anche dagli altri organismi (animali, uomo, ecc).

Fonte: www.scuolamania.it

Dal punto di vista energetico, rappresenta la principale fonte di energia rinnovabile insieme all’energia nucleare. Può essere utilizzata per generare calore (solare termico) o elettricità (fotovoltaico), attraverso sistemi differenti di utilizzo e immagazzinamento.

  • Il solare termico utilizza dei sistemi a circolazione naturale o forzata. Il liquido posto all’interno dei pannelli una volta riscaldato, viene successivamente messo in circolo.
  • Il fotovoltaico utilizza delle celle fotovoltaiche attraverso le quali converte la luce in energia elettrica, con un’efficienza massima del 19-20%. L’energia viene prodotta solamente durante le ore diurne ed ha bisogno, per l’utilizzo dell’energia derivante, di essere messo in rete o dell’utilizzo di accumulatori ingombranti e costosi.
Fonte: www.auraimpianti.com

Queste tecnologie hanno dei limiti che ne impediscono un utilizzo consumer:

  • l’irraggiamento solare medio (corrispondente a 3kWh al nord e 5kWh al sud) e la continuità di utilizzo;
  • l’utilizzo di materie prime provenienti dalle terre rare;
  • efficienza energetica bassa.

Tecnologia MOST

Una ricerca sino-svedese nata nel 2007 e che ha coinvolto gli atenei Shanghai Jiao Tong University e Chalmers University of Technology di Göteborg, ha dimostrato che grazie al MOST e ad un termoregolatore, è possibile catturare e immagazzinare energia, senza l’uso di una batteria. La Molecular Solar Thermal Energy Storage Systems (MOST) si basa sull’utilizzo di una molecola composta da carbonio, idrogeno e azoto (appositamente progettata) che, quando colpita dall’energia solare, si trasforma in un isomero ricco di energia (molecola con gli stessi atomi ma disposti in maniera differente). Questi, trasferiti in una soluzione di toluene, possono conservare tale energia fino a 18 anni. Successivamente, un generatore termoelettrico (spessore di 300 nm), trasforma il calore derivante dal ritorno alla forma originale degli isomeri in energia elettrica pronta ad essere utilizzata.

Fonte: DDay
Fonte: https://www.dday.it/

Utilizzi futuri

Al momento si tratta di una tecnologia acerba, ma sicuramente con un ventaglio di applicazioni notevole. Uno dei ricercatori ha commentato:

“Il generatore è un chip ultrasottile che potrebbe essere integrato nell’elettronica come cuffie, orologi intelligenti e telefoni. Finora abbiamo generato solo piccole quantità di elettricità, ma i nuovi risultati mostrano che il concetto funziona davvero. Sembra molto promettente. Stiamo lavorando per ottimizzare il sistema. La quantità di elettricità o di calore che può estrarre deve essere aumentata. Anche se il sistema energetico è basato su materiali di base semplici, deve essere adattato per essere sufficientemente conveniente da produrre, e quindi da introdurre in modo più ampio.”

Livio Milazzo

Bibliografia

DDay

Wikipedia

Chip-scale solar thermal electrical power generation – ScienceDirect

 

Tra mistero e luci rosse: cosa è andato storto in Élite 5?

Classico esempio di serie tv di successo portata avanti perché fa tendenza, sebbene le idee sembrano essere terminate – Voto UVM: 2/5

 

Élite, serie tv targata Netflix, è una delle produzioni di maggior successo degli ultimi anni. Uscita per la prima volta nel 2018, è entrata subito nel cuore della gente.

È la tipica serie adolescenziale, ma arricchita di crimini e misteri che avvengono all’interno del liceo d’élite più famoso di Spagna e nelle vite dei protagonisti, attorno a cui ruota la trama di ogni stagione.

Inoltre, tratta temi sociali importanti quali le dipendenze dalla droga e dal sesso, l’ossessione compulsiva, il razzismo, la ricerca della propria sessualità, ma anche la disuguaglianza economica e la fede religiosa, il tutto sul filo di un grande valore ricorrente: l’amicizia

Giallo ed erotismo a Las Encinas

La stagione inizia con il caso irrisolto di Armando de la Ossa, ucciso nel finale della quarta stagione durante la festa di capodanno di Philipe (Pol Granch): ciò che sembrava essere ormai passato, è tornato letteralmente a galla.

Anche questa volta i produttori decidono di lasciarci sulle spine fin dal primo episodio, mostrando scene di una nuova apparente morte. L’identità della vittima verrà svelata solo nelle ultime puntate, sebbene la storia venga lasciata in sospeso e con l’evidente intento di proseguire la serie con la sesta stagione già confermata.

Ma durante tutta la stagione, lo spettatore non è rimasto “a bocca asciutta”:  non sono mancate relazioni tossiche – a tratti passionali – e scene erotiche, che non sembrano più essere un tabù. Il tutto, però, risulta un po’ forzato, come se si volessero accontentare i fan di una serie priva colpi di scena, ma anzi molto prevedibile.

Samuel (Iztan Escamilla), Ari (Carla Diaz), Ivàn (André Lamoglia) e Patrick (Manu Rios). Fonte: NerdPool

New entry: promosse o bocciate?

Non mancano certamente le new entry, pronte a sconvolgere la storia e con l’intento di conquistare il grande pubblico. Ci sono riuscite?

Si tratta di Isadora (Valentina Zenere) e Ivàn (André Lamoglia): rispettivamente “l’imperatrice di Ibiza”, ereditiera e proprietaria di molti locali dell’isola, e il figlio di un famoso calciatore.

Entrambi portano scompiglio nella vita dei protagonisti e, tra orgoglio e confusione, risulteranno quasi odiosi all’occhio dello spettatore. Ma alla fine dei conti, si sa, a tutto c’è un perché: lo script approfondirà i loro personaggi man mano, rendendo la loro immagine più limpida, e riuscendo quindi a farli piacere a chi li guarda.

Isadora (Valentina Zenere) e Ivàn (André Lamoglia). Fonte: SpettacoloFanpage

The show must go on: Élite 6 confermata

Nonostante sia diventata piatta e banale, il nuovo delitto irrisolto stavolta riguarderà uno dei protagonisti che ci accompagna dalla prima stagione: per cui è proprio il caso di dirlo: lo spettacolo deve andare avanti.

Ad attenderci, però, sarà un cast del tutto nuovo (o quasi) i cui ruoli sembrano essere già stati assegnati, seppur ancora senza alcuna conferma da parte dei sospetti nuovi attori.

A quanto pare, le riprese per la nuova stagione inizieranno a breve a Madrid, mentre la sua uscita è prevista nel corso del 2023. Non ci resta che attendere!

Like o dislike?

Come già detto, la serie sembra continuare per il gusto di cavalcare l’onda del successo, che in ogni caso arriva puntuale tutti gli anni. Infatti, a poche ore dalla sua uscita, Élite 5 è subito entrata nella top ten delle serie più viste del momento nel mondo, a conferma del fatto che i suoi episodi riescono a fare tendenza nonostante gli anni che passano e i vari cambiamenti.

C’è meno adrenalina e le aspettative sono ridotte, d’altronde è raro che una serie tv rimanga bella, originale e appassionante come per la prima stagione, ma questo è uno dei casi estremi.

La trama sembra essere incentrata solo su un tema – o meglio – su più temi strettamente collegati tra loro: sesso, droga, feste e crimine.

Senz’altro ormai si vive Élite per sapere come andrà a finire, con la speranza, però, che nella sesta stagione ci sia una nuova impennata di qualità.

 

Marco Abate