Da un estremo all’altro della follia. Cosa sta succedendo nel MCU?

Dopo ormai 14 anni di MCU, c’era bisogno di una nuova corrente creativa che portasse un po’ di innovazione nel genere supereroistico.

Figli di questa nuovo “filone” sono senza dubbio Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia e la serie basata sul personaggio di Moon Knight.

Filo comune tra i due prodotti è il diverso modo di raccontare e sviluppare l’elemento della follia.

Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia

La pellicola diretta da Sam Raimi è indubbiamente il film più particolare mai prodotto e apparso all’interno di una cinematografia Marvel finora sempre fedele ai propri schemi.

Descrivere questo prodotto è tutt’altro che semplice, in quanto la trama risulta essere molto lineare e quasi elemento di secondo piano nell’insieme del film.

Il film riparte esattamente dalla fine di Spider-Man No Way Home, continuando a narrare anche gli eventi accaduti in Wanda/Vision.

                                                                                                                                     

Viene introdotto il personaggio di America Chavez (Xochitl Gomez), fulcro degli avvenimenti narrati in quanto ha il potere di aprire portali che conducono in altri universi. Ed è per merito/a causa di questo potere che si ritroverà nell’universo 616 (lo stesso numero utilizzato all’interno dei fumetti per descrivere l’universo principale) dove incontrerà Doctor Strange (Benedict Cumberbatch).

Il regista però è poco interessato agli eventi che deve narrare: lo è molto di più a ciò che deve far vedere allo spettatore e a come lo vuole far vedere.

Attraverso un ritmo incessante, Raimi riesce a realizzare sequenze che raccontano il suo cinema da tutti i punti di vista: quel gore alle volte così diretto da spiazzare lo spettatore, altre camuffato ma impattante al tempo stesso; transizioni così maestose ma anche folli e straordinariamente creative, e citazioni che galvanizzano come non mai i fan delle opere a fumetti (e non solo).

La nuova pellicola sullo stregone supremo risulta avere una trama un po’ soffocata dal ritmo frenetico datogli dal regista, che aggiunge pochi tasselli all’enorme puzzle narrativo del MCU. Ma dato l’estro e l’autorialità di Raimi che confeziona un prodotto eccellente, per una volta ( e ci auguriamo molte altre) va bene così.

Moon Knight

L’ultimo prodotto seriale confezionato in casa Marvel era uno di quelli più attesi dal pubblico, data l’enorme potenzialità del personaggio.

Steven Grant (Oscar Isaac) è un timido ed impacciato addetto ai souvenir nel British Museum, la cui vita verrà presto sconvolta quando il mercenario Marc Spector e la divinità egizia della luna Konshu irromperanno nella sua quotidianità cambiandola per sempre.

Per analizzare la serie possiamo concentrarci su due aspetti: trama e protagonista.

Parlando della prima, all’interno del MCU si sta cercando di dare una scossa agli ormai più che decennali schemi narrativi o di infrangere alcuni dogmi.

Moon Knight riesce parzialmente in ciò, in quanto all’epoca della sua presentazione fu descritta come la serie più dark e violenta vista finora sulla piattaforma Disney. Le aspettative sono state soddisfatte per quanto riguarda la violenza, ma in tutto ciò ancora una volta è la narrazione a risentirne.

 

                                                                                                                    

Si ha una premessa narrativa interessante nei primi due episodi, che però va pian piano scemando nel corso della serie per chiudere con un finale davvero molto debole e che non lascia nulla allo spettatore – che sia qualche emozione o la curiosità di sapere l’evoluzione futura del personaggio.

Ben altro discorso va fatto per la prova attoriale di Oscar Isaac, il quale riesce con una naturalezza disarmante ad interpretare le varie personalità del personaggio protagonista della serie. Una performance che lo eleva a migliore attore protagonista di un prodotto seriale Marvel. La follia connaturata in Moon Knight e nella sua controparte Steven Grant/Marc Spector riesce a trovare la sua massima espressione proprio grazie alla sua interpretazione.

Insomma, Moon Knight si rivela un’enorme occasione sprecata dal punto di vista narrativo ma che è riuscita a cristallizzare l’ormai affermato talento di Oscar Isaac.

La follia è l’elemento centrale attorno a cui ruotano queste due nuove produzioni. Da un lato abbiamo quella visiva esaltata da Raimi, dall’altro quella mentale perfettamente interpretata da Oscar Isaac. Entrambi riescono egregiamente nel trattare con due modi diversi – ma entrambi validi -un tema tanto difficile.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

 Giuseppe Catanzaro

 

FRU22. La radio si evolve ma resta evergreen

Il Festival delle Radio Universitarie, conosciuto anche come FRU, è un evento molto speciale per i radiofonici universitari, un appuntamento fisso ogni anno dal 2007 che permette a tantissimi ragazzi, sparsi per tutta l’Italia, di poter si ritrovare e coltivare insieme una grande passione: quella per la radio.

Lo scopo del Festival è quello di analizzare attraverso dibattiti e panel l’esperienza della radiofonia italiana, lasciando la parola agli esperti del settore, che individuano nella comunicazione multimediale un valido strumento per la diffusione di valori culturali. Un Festival che non si rivolge solo agli universitari, ma coinvolge tutti coloro che sono interessati al mondo della radio e della comunicazione.

I tre inviati di UVM al FRU di quest’anno. Da sinistra: Roberto Fortugno, Sarah Tandurella e Carmen Nicolino. Foto di Carmen Nicolino

FRU22: si riparte da Catania

L’edizione di quest’anno ha avuto tutto un altro sapore: è stata la prima in presenza dopo due anni di pandemia e si è svolta a Catania per la seconda volta. La manifestazione, tenutasi dal 19 al 22 maggio e organizzata grazie alla sinergia delle radio universitarie che fanno parte del circuito RadUni, ha avuto come sede l’Università degli Studi di Catania, permettendo a tutti i suoi partecipanti di trascorrere un divertentissimo weekend all’insegna della musica, con un’atmosfera tipicamente siciliana. Il capoluogo etneo è stato invaso da oltre 150 giovani che per tre giorni sono stati immersi in momenti di approfondimento, workshop, musica e socializzazione.

Il badge dell’edizione del Festival delle Radio universitarie di quest’anno. Foto di Sarah Tandurella

L’appuntamento più atteso è stato quello della Speaker Challenge: 22 ragazze e ragazzi provenienti da varie radio universitarie si sono sfidati a colpi di sketch radiofonici per eleggere la miglior voce dell’anno. Ad avere la meglio è stato Flebs, nome d’arte di Marco Fleba, studente universitario radiofonico proveniente da Radio 6023, la radio dell’Università del Piemonte Orientale. È stato poi assegnato un secondo premio, quello per il Miglior Format Radiofonico 2022, alla trasmissione Dietro Le Quinte di Unica Radio dell’Università di Cagliari.

 I temi dell’edizione

Temi centrali del FRU di quest’anno sono stati la sostenibilità, l’evoluzione della radio, il ruolo dei giornalisti e ovviamente la musica. I tantissimi panel organizzati da RadUni hanno avuto come moderatori illustri professionisti.

La professoressa Tricomi dell’Università di Catania ha spiegato la necessità di trattare argomenti scientifici anche in radio nonostante la difficoltà di non poter usare immagini, utilizzando un linguaggio semplice, in modo che il pubblico percepisca l’utilità di tali informazioni. Angelo Di Benedetto di RTL 102.5 e il giornalista Stefano Rossini (Gruppo Icaro) hanno affrontato il tema della sostenibilità, riassunto nel concetto di “consumare meglio, non meno”.

Il giornalista Danilo De Biasio ha costruito un dibattito sull’obbligo morale del giornalista di essere imparziale ma – allo stesso tempo – di riuscire ad imporsi con “un intervistato che dice la cosa sbagliata al momento sbagliato”.

Infine il giornalista e fondatore di Igers Roma, Matteo Acitelli, ha illustrato come utilizzare i vari social per fare informazione.

L’inviata e redattrice di UniVersoMe Sarah Tandurella. Foto di Roberto Fortugno

Tra informazione e intrattenimento: un mezzo antico e moderno

Ma la vera, unica e indiscussa protagonista del FRU rimane la radio: potente mezzo di comunicazione, che molti danno per scontato, ma che continua ad essere fonte di informazione e di intrattenimento. Come ogni altro medium, anche la radio si sta evolvendo, dal punto di vista uditivo attraverso i podcast, ma anche attraverso un punto di vista visivo con l’uso di immagini.

La radio continua ad essere uno strumento che si affida esclusivamente alla voce ma – come dicono lo speaker radiofonico Wad e la producer Marta Boffelli di Radio Deejay, ospiti anche loro del festival – «nulla vieta di spostare il materiale su altre piattaforme e diffondere ulteriormente il messaggio che si vuole trasmettere». Basti pensare che ormai da tempo è possibile “ascoltare” un programma radiofonico in televisione, guardando quello che accade dentro uno studio radiofonico durante una puntata, e sono in molti ormai a repostare contenuti radiofonici su social network come Instagram e Tiktok.

Una parte dei partecipanti al FRU e gli ospiti Wad e Marta Boffelli di Radio Deejay. Foto di Radio Frequenza Libera (Politecnico di Bari)

I momenti migliori sono quelli di conoscenza, di confronto e di scambio di idee con gli altri partecipanti. Il FRU permette di apprendere nuovi concetti o di perfezionare quelli che già sono stati assimilati, di accrescere le proprie competenze e di confrontarsi con gli altri. Per questo motivo, per noi studentesse e studenti di Radio UniVersoMe è stato facile conoscere gente con le stesse passioni, con gli stessi sogni e soprattutto con la stessa voglia di fare radio.

Non si tratta di accendere un microfono e parlare, ma di voler comunicare un messaggio importante e di cambiare il mondo attraverso uno strumento che è allo stesso tempo antico e moderno. Ecco cosa trasmette veramente il FRU: un’energia che ti invoglia a dare tutto ciò che sei in un continuo flusso di creatività e innovazione.

Sarah Tandurella

* Articolo pubblicato su Gazzetta del Sud nell’inserto Noi Magazine il 26/05/2022

3 canzoni “rubate” da Jeff Buckley

Come diceva il grande Massimo Troisi ne Il Postino? «La poesia non è di chi la scrive, ma di chi se ne serve». Una massima che apre anche a noi comuni mortali – che poeti non siamo – il privilegio di attingere alla bellezza dell’universale poetico. Possiamo dire lo stesso di una canzone? Non è forse vero che certe melodie eterne, a dispetto del genio di chi le ha composte, sono piuttosto di chi riesce a portarne alla luce l’anima nascosta? Di chi riesce a rivelarne la bellezza incompresa, di chi presta corde vocali e talento a quell’arte che in quanto tale non ha diritti d’autore ma appartiene ad ogni uomo?

E’ questa la poesia di voci come quella di Jeff Buckley, cantautore degli anni ’90 morto a soli 30 anni, figlio di un altro grande artista: Tim Buckley. A 25 anni dalla sua tragica morte, avvenuta per annegamento il 29 maggio 1997, non vogliamo fare un torto al Buckley cantautore raffinatissimo, compositore di canzoni delicate e allo stesso tempo potenti come Forget Her, Everybody here wants you, Lover you should’ve come over. Preferiamo però ricordare il Buckley grande interprete – tra gli altri – di successi di mostri sacri come Led Zeppelin, Bob Dylan, Edith Piaf ( penso alla sua commoventissima rivisitazione di Je n’en connais pas la fin).

Ecco a voi 3 canzoni ( e potevamo sceglierne tante altre!) che il nostro ha meravigliosamente “rubato” ad altri artisti portandole sulle vette del capolavoro.

1) Mama you been on my mind: più di un tributo al grande Dylan

Ogni cantautore americano che si rispetti non può non misurarsi col grande Bob Dylan. Diversi sono i classici che Buckley ha reinterpretato nel corso della sua carriera anche durante i live, ma ce n’è uno della discografia dylaniana, inciso nel ’64 e rimasto inedito fino al ’91, che ha davvero fatto suo. Mama you been on my mind è una folk ballad su cui l’orecchio subito si adagia e si fa cullare, una melodia semplice e leggera nel tipico stile del menestrello.

La voce flautata e quasi sussurrata di Buckley e il riff acustico dell’intro, nella versione pubblicata su Grace Legacy Edition (2004), traghettano questa canzone del ‘64 fuori da ogni tempo, portandone a galla la delicatezza nascosta, quella che forse nemmeno Dylan che l’ha composta era riuscito ad afferrare

2)  I know it’s over: quando una rock ballad diventa poesia

Si può soffrire per una storia d’amore finita se in fondo non era mai davvero cominciata? E a chi confessare il nostro dolore quando non sappiamo in quale altro posto andare?

Se avessimo il talento di Johnny Marr e Steven Morrisey, rispettivamente voce e chitarra degli Smiths, gruppo rock degli anni ’80, comporremmo una canzone per ammettere “I know it’s over”. Rock ballad uscita nell’86,   l’omonimo brano del gruppo britannico è un mantello di note che avvolge l’ascoltatore col suo sound vellutato, in cui il basso fa da padrone, e lo trascina nel mood di chi si rassegna sentendo «il terreno cadere sopra la propria testa».

A dispetto delle parole cupe, nella versione degli Smiths ( per quanto bellissima) non avvertiamo realmente il “crac” del cuore spezzato.

Doveva arrivare Jeff Buckley per infondere al pezzo una malinconia inedita, quasi dark, nella sua versione live ai Sony Studios di New York. L’arpeggio di chitarra in stile Hallelujah apre qui una confessione sincera sostenuta dalla voce pulita e più acuta di Buckley, una confessione poetica che arriva più diretta alle orecchie di chi ascolta.

Il finale rabbioso, quasi urlato, sembra suggerire, a differenza della versione originale, che chi canta non vuole rassegnarsi e lasciarsi andare al corso delle cose.

3) Hallelujah: l’apoteosi di Buckley

Se vi diciamo che Jeff Buckley era di Orange County a cosa pensate? Ci siamo intesi: ad O.C., il teen drama per eccellenza che tra gli altri meriti ventava una colonna sonora alternative e indie rock d’eccezione.

Punta di diamante della soundtrack e canzone simbolo dell’amore tragico Ryan/Marissa, era proprio l’Hallelujah di Buckley, canzone che non a caso è un inno solenne all’unione tanto cercata e sperata con la donna amata.

Dire di Buckley e non di Cohen che è il vero autore ( e molti non lo sanno!) non è un caso. Perché quella dell’album Grace (1994) è a tutti gli effetti un’altra canzone che ancor meglio dell’originale – cantata su un tono più grave – trasmette la spiritualità con cui viene trasfigurata l’unione fisica tra i due amanti. E’ quel ritornello sussurrato, le corde della Telecaster che suonano prepotenti e cristalline ad una ad una che ci elevano in un sublime crescendo.

E poi l’esplosione commovente della voce di Buckley nel verso più bello: «l’amore non è una marcia vittoriosa, ma una fredda e spezzata Halleluja».

Quindi ciliegina sulla torta non poteva che essere lei: Hallelujah, la canzone che più di ogni altra appartiene veramente a Buckley. Dobbiamo forse ringraziare O.C. se la nostra generazione conosce questo classico di Cohen.

O forse dobbiamo ringraziare proprio lui: Jeff Buckley, una voce angelica, “messaggera” appunto della musica dei grandi all’alba dei primi 2000. A metà strada tra Robert Plant e Nina Simone, tra semplicità e sperimentazione, tra il folk “chitarra e voce” dei nostri nonni e il punk potente dei nostri padri, la musica di Jeff sembrava davvero provenire da un altro mondo, ineffabile, etereo: non trovava definizione. Useremo perciò le parole di Bono degli U2, che disse di lui:

“Era una goccia pura in un oceano di rumore.”

 

Angelica Rocca

 

 

Unime ricorda Giovanni Falcone, a 30 anni da quel terribile 23 Maggio

“Ninetta mia, crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio”

Era una mattina come le altre, nell’autostrada sopra Capaci:  le macchine percorrevano le strade come sempre e il rumore degli pneumatici veniva interrotto ogni tanto da un colpo di clacson. Ad un tratto il tempo venne spezzato da una bomba. Un semplice click aveva creato una nube di polvere, il rumore dei veicoli lasciò il posto alle urla e ai pianti dei passeggeri e degli autisti; l’artefice di tale orrore si chiamava Totò Rina. Un omuncolo piccolo piccolo aveva appena tolto la vita a Giovanni Falcone, un uomo dai grandi valori, morto per il proprio lavoro e per l’amore del proprio Paese.

Murales dedicato a Falcone e Borsellino a Palermo. Dall’archivio UVM

Sono passati 30 anni da quel 23 Maggio del 1992. Dopo nemmeno due mesi, anche il suo collega Paolo Borsellino venne assassinato. In quell’anno perdemmo due grandi uomini, uccisi per mano della codardia.

“Il ricordo e la memoria di Giovanni Falcone”: l’incontro organizzato da Unime

A trent’anni esatti dalla Strage di Capaci, nella giornata del 23 Maggio 2022, presso l’aula magna del Rettorato di Messina, si è tenuta la celebrazione del ricordo di Giovanni Falcone, assassinato dall’organizzazione criminale Cosa Nostra. Nell’attentato perse la vita pure  la scorta, che era diventata ormai l’ombra del giudice, e  Francesca Morvillo,  anche ella magistrato e moglie di Falcone. L’incontro è stato organizzato dall’Università di Messina, assieme al Consiglio degli Ordini degli Avvocati e l’Ufficio Scolastico Provinciale.

Da sinistra verso destra: Domenico Santoro, il Rettore Cuzzocrea, Laura Romeo, Stello Vadalà. © Gianluca Carbone 

Dopo i saluti istituzionali del Rettore, prof. Salvatore Cuzzocrea, del Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Messina Domenico Santoro, della Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati sez. Messina Laura Romeo e del dirigente Scolastico Provinciale di Messina Stello Vadalà, ha aperto la conferenza il Prorettore Vicario, prof. Giovanni Moschella.

Gli ospiti che sono intervenuti sono stati: il Procuratore della Repubblica Maurizio de Lucia, la Studentessa Unime Noemi Munter, il componente del Consiglio Nazionale Forense Francesco Pizzuto, il Procuratore  della Repubblica di Reggio Emilia Gaetano Paci, la Studentessa Unime Simona Calabrese e Angela Nicotra dell’Ordine di Diritto Costituzionale dell’Università degli Studi di Catania. La cerimonia si è conclusa con un dibattito portato avanti dai liceali di Messina.

Il giorno in cui l’Italia capì cos’è la mafia

Ad aprire la cerimonia dedicata a Falcone è stato proprio il ricordo del Magnifico. Ci ha confessato che trenta anni fa era diretto verso Capaci, quando la sua macchina fu fermata: no ne capiva il motivo, nell’aria avvertiva confusione e notava nei volti delle persone un’espressione interrogatoria. Dopo un po’ gli giunse la notizia della strage, e in quel preciso momento comprese fino a che punto potesse arrivare la mafia, in quel momento tutta Italia intuì cosa fosse veramente.

Ha ricordato inoltre a tutti noi studenti, che questo morbo va combattuto ogni giorno e la vera libertà è scegliere, come la scorta di Falcone, che ha deciso di rischiare la propria vita, rimanendo accanto a lui e a tutta la Sicilia.  Proprio per questo, dobbiamo essere orgogliosi e grati a tutti coloro che hanno combattuto la mafia, e che continuano farlo. Falcone e Borsellino ci hanno insegnato che non dobbiamo mai voltarci indietro.

«Falcone è un punto di riferimento per tutti noi magistrati.» Queste sono state poi le parole della dott.ssa Laura Romeo, che ci ha spiegato che solo grazie a Falcone e a Borsellino l’Italia ha una Procura Nazionale, l’organo che dirige la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, fondato il 20 Gennaio del 1992. Ogni ente dell’antimafia è nato grazie ai due magistrati.

Il pubblico presente alla commemorazione nell’Aula Magna del Rettorato. © Gianluca Carbone

Parole che hanno colpito il pubblico sono state anche quelle del Dirigente Scolastico e Provveditore agli Studi di Messina, il prof. Stello Vadalà, che ha accompagnato i suoi studenti alla commemorazione in onore di Falcone.

“Pure chi salta la fila ha una mentalità mafiosa. Chi ha l’aria da prepotente, chi se la prende con i più deboli. La mafia sarà sconfitta, solo quando lo Stato stesso e i cittadini saranno la scorta “

Buttare la carta a terra, non avere rispetto per il prossimo o semplicemente saltare la fila denota un senso di prepotenza, che è intrinseco all’essere umano  ma è anche il primo credo della mafia. Le parole del professore, ci fanno capire che pure noi a volte sbagliamo, non curandoci della nostra comunità e delle persone. Parole non banali che invitano al coraggio di ricordare tutte le vittime di mafia, non solo durante i loro anniversari.

Sono stati tanti i discorsi pronunciati durante l’evento da voci che hanno ridato anima non solo alla memoria di Falcone ma anche a tutti noi. Viviamo in un Paese in cui la mafia ancora detiene un potere, anche se non come quello di una volta. Falcone e Borsellino sono stati sconfitti, ma il loro agire e il loro pensiero ancora restano e continuano a combattere quel morbo. Per una prospettiva nuova, per le generazioni sedute nei banchi scolastici perché siano testimoni loro stessi di queste memorie in modo che la mafia un giorno diventi solo una storia da film horror.

Murales dedicato a Falcone a Palermo. Dall’archivio UVM

Vorrei concludere, rivolgendo due parole direttamente al giudice che perse la vita nella strage di Capaci. Dimmi Falcone, non avevi paura assieme al tuo collega e amico Paolo Borsellino?  Vedevamo il timore nei vostri occhi, lo spavento di non rientrare più a casa, di non rivedere più la vostra amata, di non tornare al vostro lavoro. Il vostro terrore, però, lo  assopivate con la voglia di virtù e di giustizia.

Alessia Orsa

 

La fattoria degli animali: il racconto di una rivoluzione

La fattoria degli animali è un romanzo breve che porta il lettore alla riflessione, con chiari riferimenti alla Russia sovietica. – Voto UVM: 5/5

Leggere è senza alcun dubbio uno dei più grandi piaceri della vita: ci permette di viaggiare con la fantasia, immaginando luoghi fantastici e immedesimandoci totalmente nei personaggi. Ma la lettura non è solo questo. Come ogni forma d’arte può avere una funzione catartica, portando il lettore alla riflessione. È proprio questo il caso della Fattoria degli animali (Animal Farm). Si tratta di un breve romanzo allegorico, scritto da George Orwell tra il 1943 e il 1944 e pubblicato per la prima volta il 17 aprile del 1945 in versione originale.

Animali d’Inghilterra

Nella fattoria padronale del signor Jones, gli animali lavorano tutti i giorni fino allo sfinimento, ricevendo in cambio solamente il minimo per sopravvivere. Una sera il vecchio maggiore, il maiale più anziano e più rispettato nella fattoria, chiama a raccolta tutti gli animali per rivelargli la verità sulla loro miserabile esistenza. Gli spiega come tutti, fin quando reputati utili, vengono sfruttati per il lavoro, per poi essere uccisi brutalmente. Ed è proprio allora che inneggia ad una rivoluzione.

Poco dopo la sua morte la rivoluzione diventa realtà e la fattoria padronale diventa la fattoria degli animali. Questi stilano sette comandamenti che racchiudono i principi dell’”animalismo”, per poter vivere nell’uguaglianza e nella giustizia. Ma una figura inizia ad imporsi sempre di più sugli altri animali. È il maiale Napoleon ad ergersi come capo, violando e storpiando a poco a poco tutti e sette i comandamenti.

la fattoria degli animali
Murales rappresentante Napoleon. Fonte: wikimedia.commons.org

Dal vecchio Jones al nuovo padrone Napoleon

Analizzando in maniera più puntuale questo racconto, si possono notare due punti di vista: quello dello stesso Napoleon e quello di tutti gli altri animali.

Napoleon, descritto fin da subito come una figura dall’aria più severa e taciturna, cerca di imporsi, trovando però opposizione da parte di un altro maiale: Palla di neve. Fatto fuori quest’ultimo, la vita nella fattoria inizia a modificarsi radicalmente. Tutti gli altri animali sono portati a fidarsi dei maiali, in quanto considerati più intelligenti, tanto che lo stesso cavallo Gondrano prende come sua regola generale: “il compagno Napoleon ha sempre ragione”. Questi finiscono per accettare passivamente quello che viene detto loro, ed anche quando le galline o la cavalla Berta provano a controbattere, vengono subito zittite dal maiale Clarinetto, un’altra figura emblematica all’interno della storia.

Tocca a lui occuparsi delle relazioni tra Napoleon e gli animali, placando ogni forma di possibile malcontento nascente. Ad esempio, nel momento in cui i maiali iniziano a non rispettare più i comandamenti è lui a dover convincere del contrario gli altri animali della fattoria.

Questi ultimi vengono rappresentati, invece, come ideologicamente piatti. Sostengono inizialmente il vecchio maggiore che per primo ha dato l’idea di rivoluzione, per poi passare a Napoleon, distruttore di quegli stessi ideali. Anche nelle ultimissime pagine, in cui Napoleon è ormai il nuovo padrone alla stregua del vecchio signor Jones (o anche peggio), nessun animale ha il coraggio di ribellarsi e lottare per la propria libertà e per quegli ideali inneggiati col vecchio maggiore.

la fattoria degli animali
Il settimo comandamento modificato. Fonte: flickr.com

L’allegoria della Russia Sovietica

La fattoria degli animali è anche dotata di due appendici scritte dallo stesso Orwell, le quali ci aiutano a contestualizzare meglio la sua creazione e pubblicazione. È noto, infatti, come l’opera fosse stata rifiutata da diversi editori prima di essere stampata nel 1945. Un editore, oltretutto, aveva inizialmente accettato il manoscritto, per poi rifiutarlo in un secondo momento su avviso di un funzionario del Ministero dell’Informazione britannico. Da qui, parte la critica di Orwell alla “English intelligentia”, la classe intellettuale britannica. Quest’ultima mette in atto una vera e propria censura volontaria, considerando sconveniente pubblicare libri che andassero a criticare il capo di uno stato alleato come la Russia nel 1943.

Chiari sono infatti i riferimenti del racconto allegorico: il dispotico Napoleon è una rappresentazione dello stesso Stalin, mentre invece Palla di neve, costretto a scappare dalla fattoria, rappresenta Trockji.

La seconda appendice, invece, sarebbe nient’altro che una prefazione scritta da Orwell per l’edizione in ucraino. Rivolta a tutte le persone presenti nei campi profughi in Germania, favorevoli alla Rivoluzione d’ottobre ed ai suoi ideali originari, ma dissenzienti del regime staliniano.

La fattoria degli animali ci permette di riflettere su vari aspetti. Primo fra tutti, ci permette di notare come tutte le libertà, anche una volta conquistate, debbano essere difese e mai date per scontate. Inoltre ci rende consapevoli di come, all’interno di una società, qualcuno tenti sempre di sovrastare l’altro che, per mantenere una stabilità sociale o perché disinteressato alla vita politica, glielo permette.

Ilaria Denaro

Anna dai capelli rossi o Maria Chiara Giannetta?

Tutti sull’attenti quando passa il capitano Anna Olivieri, ruolo che ha consacrato Maria Chiara Giannetta attrice co-protagonista per la prima volta, che, grazie alla sua semplicità, simpatia e talento, è riuscita ad attenuare l’addio al capitano Tommasi (Simone Montedoro) in Don Matteo, facendo innamorare gli spettatori italiani.

“Il mio desiderio è intrattenere: conta cosa dirò”

Maria Chiara Giannetta è un’attrice italiana nata a Foggia il 20 maggio 1992 che, seppur amata e conosciuta, trova l’apice della sua notorietà nel nostro Paese nel 2021, grazie alla fiction Rai Blanca. Da sempre appassionata al mondo del teatro, comincia a fare spettacoli a livello amatoriale già dall’età di 11 anni, per poi iniziare ufficialmente a studiare recitazione, fino ad approdare al Centro sperimentale di Cinematografia di Roma a 19 anni, conducendo in contemporanea gli studi in Lettere all’Università degli Studi di Foggia. 

Comincia ad ottenere i primi ruoli importanti in spettacoli teatrali, per poi apparire per la prima volta nella TV italiana proprio grazie ad una comparsa in Don Matteo nel 2014, senza sapere che qualche anno dopo ci sarebbe tornata da co-protagonista. 

Nel frattempo esordisce sul grande schermo con La ragazza del mondo nel 2016, senza mai abbandonare però la TV grazie a piccoli ruoli in fiction note quali L’allieva, Un passo dal cielo e Che Dio ci aiuti. 

Ciò che non vedono gli occhi…

Maria Chiara Giannetta in Blanca. Fonte: RaiPlay

“Ho imparato ad andare oltre le cose che vedo.”

Blanca è la nuova serie tv Rai di produzione Lux Vide e Rai Fiction, debuttante per la prima volta il 22 novembre 2021 su Rai 1 e disponibile ad oggi anche su Netflix.  Regina di ascolti del lunedì sera con oltre 5 milioni e mezzo di telespettatori a puntata, racconta la storia di Blanca Ferrando, una ragazza non vedente stagista in un commissariato di polizia a Genova, che ha perso la vista a soli 12 anni a seguito di un tragico evento, il cui ricordo la accompagna nel corso della sua quotidianità.

Nonostante la sua cecità, Blanca, accompagnata dal suo compagno di vita – nonché suo cane Linneo – ha un’enorme abilità nel risalire, tramite gli altri sensi sovrasviluppati, a casi irrisolti in campo poliziesco.

Per interpretare questo personaggio, Maria Chiara Giannetta ha seguito la consulenza di cinque tutor non vedenti affinché la facessero entrare in questo nuovo mondo, così da immedesimarsi al meglio nel ruolo di Blanca, rivelandosi una vera professionista.  Inoltre, la serie è stata girata interamente sotto la consulenza artistica di Andrea Bocelli.

Nello stesso periodo, su Canale 5 va in onda “Buongiorno Mamma“, la cui storia ruota intorno ad Anna (non il capitano). La protagonista, madre e moglie di Guido (Raoul Bova), è entrata in coma nel 2013 e da allora non si è più svegliata. Questo ha portato la famiglia a continui drammi e frustrazioni, ma a rimanere – nonostante tutto – sempre unita a lei.

Da universitaria al palco dell’Ariston

“E quante volte io per orgoglio non ho mai chiesto aiuto. Che stupida.”

Un po’ inaspettatamente, Maria Chiara Giannetta è ufficialmente entrata nel cuore di milioni di persone grazie alla sua presenza come co-conduttrice al 72esimo Festival di Sanremo.

Maria Chiara Giannetta a Sanremo 2022. Fonti: Rai, AP Magazine

Tra fanatismo e scetticismo, lei, così semplice, sorridente e spigliata, ha infranto ogni forma di pregiudizio nei suoi confronti, riuscendo a conquistare chiunque grazie alla sua comicità e umiltà, tratti messi in evidenza durante la quinta serata del Festival, soprattutto nel divertente dialogo che ha v isto protagonisti lei e Maurizio Lastrico (il PM in Don Matteo). I due hanno interpretano una coppia di innamorati gelosi ma infedeli: il tutto basato su testi di canzoni celebri della musica italiana, passando da Parole parole di Mina a Musica leggerissima di Colapesce e DiMartino.

Non è mancato il suo monologo, accompagnata dai “Guardiani di Blanca”( così chiamati da lei stessa: sono tutti coloro che l’hanno sostenuta e accompagnata durante il viaggio di Blanca), in cui racconta la sua evoluzione artistica all’interno della serie, e come, grazie ad essa, è riuscita a “vedere oltre le cose”. Ha toccato un argomento difficile, sensibile, ma con il suo grande cuore ha incantato chiunque la sentisse parlare.

Nonostante la giovane età e la poca esperienza, ha mostrato un elevatissimo grado di capacità, rivelandosi all’altezza e meritevole di stare sul palco del più grande Festival della musica italiana.

Ma oggi, quante volte dovrà tirarsi le orecchie?

Proprio oggi, 20 maggio 2022, Maria Chiara Giannetta spegne 30 candeline, e noi non possiamo che essere orgogliosi che sia, ad oggi, uno dei volti più celebri della televisione italiana. Nonostante i pochi anni di carriera, le auguriamo un futuro pieno di successi come quelli ottenuti finora ( o anche maggiori).

Da tutta la redazione UniVersoMe, buon compleanno Maria Chiara.

Nei secoli fedele, capitano!

Marco Abate

Un sistema che non precluda voci ma che sappia riconoscere i falsi

Ha un limite la libertà?

Il 3 maggio si è celebrata la Giornata Mondiale della Libertà di Stampa ma ancora oggi ci si interroga su quale sia il suo limite invalicabile, semmai debba esservene uno.

Una storia sbagliata

Il primo paese che abolì la censura, nel 1695, fu l’Inghilterra, dove già nel corso del Cinquecento era stato istituito un severissimo sistema di controlli sulla stampa. Dovette passare quasi un secolo, prima che tale censura venisse abrogata anche in Francia. Appena dopo la presa della Bastiglia, il 14 luglio 1789, la libertà di stampa fu proclamata dalla “Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino”. Non tardarono però ad arrivare contestazioni da un gruppo di rivoluzionari. E anche un giurista francese considerò non un’utopia ma un’assurdità questa libertà illimitata che mai dovrebbe esistere nella legislazione di un popolo civile.

Si aprì così a Parigi, nell’estate del 1789, un dibattito sui limiti della libertà di stampa e di parola, a cui si cerca ancora una risposta. Sempre in Francia, infatti, lo stesso dibattito si riaccese dopo la strage al settimanale satirico Charlie Hebdo” nel 2015. Sorse dunque spontaneo chiedersi se fosse giusto o meno fare della satira, in quel caso sulla religione, senza tener conto della sensibilità di alcuni lettori. E la risposta non può che essere affermativa, in una società in cui (purtroppo o per fortuna?) vige la tutela dell’illimitata libertà di parola e di stampa. In cui illimitato vuol dire che tutto può essere oggetto di satira e di giudizio.

Libertà di stampa: utopia o distopia?

Dovremmo forse affidarci alle parole del filosofo olandese Baruch Spinoza, che all’interno del suo “Trattato teologico politico” propone per tutti una libertà di pensiero e di parola non illimitata. Il filosofo afferma infatti che è un diritto di ognuno esprimere il proprio pensiero, ma bisognerebbe limitarsi ad esporlo semplicemente seguendo la propria ragione, senza inganno, ira o odio nei confronti altrui.

C’è chi invece nel corso della storia non ha esitato a riconoscere ai sovrani la piena facoltà di giudicare le varie opinioni. Ma pensiamo davvero a cosa significherebbe istituire un controllo sulla libertà di stampa, evitando la pubblicazione di quei giornali ritenuti magari sconvenienti. Ciò rievocherebbe soltanto uno dei più terribili scenari orwelliani, mettendo nelle mani di un giudice l’immenso potere di decidere quando una libertà possa essere esercitata e quando no, sulla base del solo gusto personale. Può essere questa considerata “libertà di stampa”?
Essa dovrebbe piuttosto rappresentare un potere per contrasto: i giornali, in primis, dovrebbero dimostrare la capacità e la volontà di opporsi ad un potere “malato”, e non farsi soggiogare da esso.
Ora più che mai abbiamo bisogno che la stampa si metta in ascolto dell’altro ed eviti di appiattirsi sullo scontro politico.

La libertà di stampa non è un privilegio…

“Voi, la stampa libera, contate più di quanto abbiate mai fatto nel secolo scorso”

Sono state queste le parole pronunciate qualche giorno fa dal Presidente degli Stati Uniti, Joe Biden, alla cena dei Corrispondenti alla Casa Bianca. Tradizione ripresa dopo i due anni di sospensione voluti da Donald Trump, che ha sempre dimostrato una certa sfiducia nei confronti dei media, scagliandosi di continuo contro stampa e giornalisti. Per Biden, invece, il buon giornalismo serve da specchio della società, per riflettere sul bene, sul male e soprattutto sulla verità. Il Presidente non ha perso l’occasione per ringraziare i reporter di tutto il mondo che con coraggio oggi si fanno portavoce proprio di quella verità che affligge l’Ucraina, mettendo a rischio la loro stessa vita. Perché “libertà di stampa” in fin dei conti vuol dire anche “assoluta indipendenza dagli uomini del Governo”.

Lo sanno bene tutti quei giornalisti indipendenti della Russia che rischiano fino a quindici anni di carcere parlando della guerra in modo oggettivo e subendo la peggiore censura degli ultimi decenni. La stampa, dunque, non dev’essere nemica del popolo, ma piuttosto porsi come guardiana di una libertà ormai in bilico da troppo tempo, sempre pronta a mettersi dall’altro lato della barricata, nella parte scomoda, per difendere i propri ideali e la propria autonomia.

…è una necessità!

Lo stesso Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, nel discorso tenuto in occasione dei 70 anni della Gazzetta del Sud, ha colto l’occasione per sottolineare l’importanza dell’indipendenza dell’informazione, definendola “l’unico riparo dalle sfide imposte dagli eventi del mondo”. Il Capo dello Stato ha poi continuato spiegando l’importanza di un sistema informativo che senza precludere nessuna voce riesca ad informare con proprietà critica i suoi lettori su ciò che accade nel mondo.

La libertà di stampa è alla base della democrazia e in quanto tale è necessaria alla sua realizzazione: fin quando un Paese avrà un’informazione indipendente e funzionale allora potrà vantare un buon governo.

 

Domenico Leonello

* Articolo pubblicato il 05/05/22 all’interno dell’inserto “Noi Magazine” di Gazzetta del Sud.

Distacco della piattaforma Conger: cosa accade in Antartide

Le terre dei ghiacciai sono solo alcune delle vittime del riscaldamento globale. Tra tutte le aree colpite, l’Artico e l’Antartide, insieme alla calotta groenlandese, sono le più sofferenti. Negli ultimi 40 anni la massa di ghiaccio perso in Antartide è aumentata di sei volte, portando ad un innalzamento del livello del mare di 1, 3 cm.

Cosa sta succedendo in Antartide?

Basta osservare gli ultimi eventi per comprendere come l’Antartide stia andando alla deriva. È recente la notizia secondo cui la piattaforma Conger, lunga 8 km e situata nella parte occidentale della Wilkes Land, sia collassata. Gli scienziati stanno ancora approfondendo i motivi dell’incidente, ma tra questi segnalano sicuramente l’aumento eccezionale delle temperature. Verso marzo l’area è stato colpita da un’anomala ondata di calore, che ha innalzato le temperature fino a 47 gradi.  È da sottolineare che la piattaforma aveva mostrato dei segnali di distacco già 15 anni fa, ma non aveva mai dato segni di un collasso così veloce. La situazione è peggiorata a partire dal 2020 e, tramite i rilievi satellitari, gli studiosi avevano dimostrato come già il 4 marzo del 2022 il Conger avesse perso metà della sua naturale estensione.

Distacco del ghiaccio: di cosa si tratta?

Il fenomeno del distacco del ghiaccio, o dell’ablazione glaciale, consiste nella rottura di una parte di ghiaccio appartenente ad una piattaforma, ad un ghiacciaio, ad un iceberg o ad un crepaccio. A seconda delle dimensioni del ghiaccio collassato si distingue tra un growler (alto meno di un metro e lungo meno di 5 m), un bergy bit (alto da 1 a 5 metri e lungo da 5 a 15 m), per poi individuare distacchi ancora più grandi, come nel caso del Conger.

Il momento precedente al distacco è caratterizzato da forti boati e, inoltre, la caduta del ghiaccio può provocare onde molto alte. Le ragioni  del distacco cambiano a seconda del caso considerato. Oltre alle temperature elevate, si possono riscontrare fenomeni sismici ed eventi mareali, onde di tempesta (storm surge), collisioni tra ghiacciai, screpolature del ghiaccio. Oggi gli scienziati stanno cercando di stabilire una legge previsionale del distacco, servendosi delle variabili di temperatura, densità, spessore, carico di impurità.

Fonte: blastingnews.com

Lo sviluppo del fenomeno tra XX e XXI secolo

Nel corso degli anni si sono susseguiti diversi fenomeni di questo tipo. Tra questi, il distacco di due aree della piattaforma glaciale di Larsen, nel 1995 e nel 2002. Nel primo caso si dispersero 3250 km2 di ghiaccio. Nel 2005, invece, quasi l’intera piattaforma glaciale di Ayles  si distaccò dal margine settentrionale dell’Isola di Ellesmere, che dal 1900 ha perso circa il 90% delle sue piattaforme. Allora si persero 87,1 km² di ghiaccio. Infine, una situazione molto critica, riguarda il ghiacciaio di Jakobshavn Isbrae, dal quale ogni anno si distaccano 35 miliardi di tonnellate di ghiaccio.

Jakobshavn Isbrae, Groenlandia

Antartide: non solo la piattaforma Conger

Accanto al Conger, sono parecchi i ghiacciai che continuano a collassare, come il ghiacciaio Totten e la piattaforma di Glenzer. Gli scienziati continuano ad osservare e analizzare questi eventi, mentre la loro attenzione è rivolta anche al ghiacciaio Thwaites, la cui caduta potrebbe determinare l’innalzamento dei mari globali di oltre mezzo metro. Il suo soprannome è infatti “ghiacciaio del giorno del giudizio”.

Gli studi condotti

Gli studi condotti hanno dimostrato che tra il 1979 e il 1990 l’Antartide ha perso circa 40 miliardi di tonnellate di massa di ghiaccio all’anno. La perdita è peggiorata sempre di più: tra il 2009 e il 2017 è risultata pari a circa 252 miliardi di tonnellate all’anno. Si è osservato come l’area più colpita sia la Wilkes Land, proprio il luogo in cui si trovava la piattaforma Conger.

Ghiacciaio Thwaites, Antartide

Consapevolezza tra scenari spaventosi

Al momento è difficile immaginare uno scenario positivo per l’Antartide, così come è difficile immaginarla privata dei suoi ghiacciai. Gli eventi che portano al loro collasso sono  peculiari, ma è semplice intuire che se non controllati  potrebbero portare a distacchi ancora più intensi, con conseguenze  per l’intero pianeta. Comprendere cosa accade in territori lontanissimi da noi significa sapere cosa sta accadendo e cosa potrebbe accadere a livello globale.

In questo caso non esiste alcuna distanza.

Giada Gangemi

Bibliografia:

Clementino ritorna indossando la più famosa maschera napoletana

Clementino ritorna in grande stile, ma con il costume di un “pulcinella nero”– Voto UVM: 5/5

 

Napoli è quella terra dove le maschere popolano il territorio: basta girare ogni angolo per vedere  “volti” creati secoli fa. Troviamo Zeza, Don Nicola, Tartaglia e tanti altri che hanno fatto conoscere la terra “bianca e azzurra”, da tutti noi ammirata nei film di Sorrentino, nella bravura di attori come Totò, Massimo Troisi e Tony Servillo, nel mito di Maradona, che hanno reso Napoli una delle mete più belle e amate al mondo.

Proprio pochi giorni fa è ritornato sulle scene Clementino, ma con un altro volto: quello di Pulcinella, la maschera più amata nella storia del teatro. Dopo averci lasciato tre anni fa con Tarantelle, il 29 aprile il rapper ha pubblicato un nuovo album: Black Pulcinella.

Black Pulcinella( 2022)

“Contro i cantanti ca nun sann chell c’hann scritt
Copia incolla da motivazione.it
Indosserò una maschera non sai cosa c’è dietro” (Black Pulcinella)

La iena ritorna vestita di nero (qualcuno dice che sia il lato oscuro del rapper di Avellino, ma non è così). Ascoltando le nuove canzoni, possiamo ancora sentire e “osservare” la simpatia di Clementino, quella che ci ha fatto innamorare e apprezzare ancor di più la sua arte. La tracklist è composta da quindici brani, in cui Clementino non è solo: ad accompagnarlo ci sono tanti artisti come Rocco Hunt, Geolier, Nerone, che già in passato avevano lavorato con lui.

Il dialetto napoletano si mischia con il rap, le basi musicali sono accattivanti, le sinfonie ci trascinano e ci catapultano nel magico mondo dell’incoerenza. Il rapper, da perfetto sagittario, punta la sua freccia e la scaglia verso il finto perbenismo, che ormai la nostra società è costretta a subire ogni giorno. Ma in fondo – lo sappiamo – il nostro Cleme non ha peli sulla lingua.

E’ lui stesso a spiegarci che il suo nuovo lavoro si rifà al proprio modo di vivere la musica: già in passato si definiva un “black pulcinella”, per via della musica afroamericana che ha influenzato lo stile del cantante, facendolo divenire un “Pulcinella travestito di nero”.

 “In passato quando mi chiedevano «ma tu che genere fai?», spesso rispondevo «il Black Pulcinella» “

La musica – come la poesia, la scrittura e gli stessi simboli – esiste per esprimere a volte ciò che non si può dire nel linguaggio parlato. Anche Pulcinella è un simbolo: rappresenta Napoli, è il personaggio che si dice sia nato dentro il Vesuvio, altro elemento iconico della città.  Pulcinella è un mito, al pubblico regala solo sorrisi, ma la sua maschera nasconde quella malinconia di chi ha passato tanti guai durante la sua vita – così ha dichiarato anche il nostro artista.

Maschera di Pulcinella. © Alessia Orsa

Per questo l’album  è “the dark side of Ienawhite”, il lato “nero” di Clementino,  che ci mostra come tutti i mali sociali possano condizionare l’essere umano. Ci fa percepire anche il suo lato più fragile, ci fa entrare dentro la sua anima, mostrandone le insicurezze e le paure. Quindi Clementino ha un lato “dark”, da non confondersi col buio, col male che caratterizza i personaggi solitari alla Joker. Qui il pulcinella nero non è solo, ma accompagnato da altri rapper in feat. che rendono l’album “puro” e la purezza non ha niente a che vedere con l’oscurità.

“Iamm sott acqua Bombap tu nun respir compà
Ngop a nu palc bombard e po’ m circ pietà
Miettm nterr e contant” ( The dark side of Iena White)

Il rapper Clemente Maccaro, in arte “Clementino”. Fonte: flickr.com

 

L’ultimo capolavoro di Clementino non delude i suoi vecchi fan: il rapper non si è lasciato trascinare dallo stile commerciale che rende tutto finto e iper-velocizzato e che ormai siamo costretti a sorbire ogni giorno. Il Pulcinella Nero rimane fedele a sé stesso, regalandoci un’opera emozionale.

Alessia Orsa

 

 

Siamo tutti “fate ignoranti”. Il significato della nuova serie di Ferzan Özpetek

La nuova serie tv conferma la genialità di Özpetek nel narrare il mistero dell’amore e della vita e ci fa sperare in una seconda stagione. Voto UVM: 4/5

 

«Perché si fanno così tante domande? Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene» affermava una saggia Monica Vitti ne L’eclisse (1962). Se ci pensate bene, quando baciamo o abbracciamo lo facciamo ad occhi chiusi. Possiamo conoscere perfettamente l’altro, vedere nitidamente il suo volto quando ne siamo innamorati? O il sentimento forse si nutre soprattutto sul nascere di quella necessaria ignoranza che serve a tenere in piedi l’illusione? Amore e conoscenza sembrano due binari che non corrono paralleli, ma tutt’al più qualche volta si scontrano in quelli che sono imprevisti incidenti di percorso, momenti rivelatori in cui apriamo gli occhi e scopriamo che chi ci sta accanto nasconde più segreti di quanti pensiamo.

Proprio in questo scontro, si incrociano Antonia (Cristiana Capotondi) e Michele (Eduardo Scarpetta), persone apparentemente molto diverse, due treni che deragliano in seguito alla morte di Massimo (Luca Argentero). Sono loro i protagonisti della serie tv Le fate ignoranti di Ferzan Özpetek, lanciata il 13 aprile su Disney Plus e remake dell’omonimo film che lanciò la carriera del regista italo-turco.

“Tutti abbiamo un segreto …”

Per chi non avesse visto il film del 2001 con Margherita Buy e Stefano Accorsi, tracciamo brevemente delle coordinate. Antonia e Massimo sono una coppia felicemente sposata da 15 anni che vive una comoda esistenza borghese in una villa con tanto di giardino sul lago. L’equilibrio idilliaco quanto monotono si rompe nel momento in cui Massimo muore e la moglie lo perderà due volte scoprendo che da qualche tempo il marito aveva una doppia vita e intratteneva una relazione addirittura con un uomo, Michele.

Mossa inizialmente dalla tipica curiosità masochista della donna tradita di scoprire sempre di più, Antonia si ritroverà a frequentare Michele. Si affezionerà così a lui e al suo gruppo di amici stravaganti, una vera e propria famiglia che di rito si riunisce nei pranzi domenicali, una “piccola comunità arcobaleno” che si difende dal mondo esterno andando orgogliosa della propria diversità.

Ma chi sono le “fate ignoranti”?

C’è ancora la stessa storia fuori dalle righe nella serie del 2022, riproposta fedelmente anche in alcuni dialoghi, nelle situazioni, negli interni e nelle atmosfere che compongono gli universi distanti di Antonia e Michele (la villa dove lei conduce un’esistenza ovattata è praticamente identica: stessi toni grigi, stesso arredamento geometrico). Ma c’è anche molto di più (o di meno, secondo qualche detrattore).

A partire dagli attori perfetti anche nei volti per i ruoli che incarnano: abbiamo i tratti da dama rinascimentale della Capotondi a racchiudere la purezza della moglie ingenua. E poi gli occhi sporgenti, quasi disturbanti di Scarpetta che mettono in discussione le certezze della protagonista, la verve di Carla Signoris, nei panni della madre quasi ingombrante nella sua frivola joie de vivre. Uno su tutti: Argentero, col tipico sorriso da ragazzo della porta accanto, solare e affascinante benché poco acculturato. Ma non finisce qui.

Özpetek, insieme a Gianluca Mazzella (regista di alcuni degli otto episodi), si prende stavolta tutto il tempo per dipingere nei minimi dettagli l’intero affresco di personaggi che circonda il triangolo Antonia- Michele – Massimo, le cosiddette “fate ignoranti”.

 Luce vs ombra. Serie tv e film a confronto

Perché Massimo non aveva solo un amante, “aveva una famiglia, un intero mondo”. E qui questo mondo, più che nel film, emerge in tutta la sua gioia ed esuberanza, che si manifesta nella solarità, nei colori caldi di quella tavola imbandita ogni domenica a festa, che contrasta invece con le tinte fredde (anche nel vestiario) di Antonia. Sparite sembrano le ombre della discriminazione, dell’Aids che aleggiavano sulla casa di Michele nel film del 2001 (un personaggio “tragico” come quello di Ernesto viene eliminato dalla sceneggiatura). C’è più  luce, il dramma lascia il posto a toni comici per narrare la magia di un gruppo di amici che si alimenta di condivisione, feste (e anche di pettegolezzi).

Lo spettatore ha il tempo di conoscere Serra (Serra Yilmaz), Vera (Lilith Primavera), Luisella (Paola Minaccioni) , Annamaria (una sottovalutata Ambra Angiolini) e tutti gli altri, di cogliere il senso di famiglia che li lega, anche in rapporto a Massimo che questa famiglia la vive. Qui un’altra differenza fondamentale col film: conosciamo Michele e gli altri ancor prima dell’incidente che sarà il preludio della scoperta di Antonia. La relazione di Michele e Massimo, la seconda vita di quest’ultimo qui non è clandestina, ma corre in parallelo a quella coniugale, ha la stessa dignità, lo stesso diritto d’esistenza.

La doppia vita di Massimo. Nella serie le due scene sono praticamente sincroniche.

Forse i tempi sono cambiati e adesso Özpetek può raccontare con più leggerezza un mondo quale quello LGBT che prima si nascondeva ai margini della società. O forse, andando più a fondo, ci accorgiamo che le storie di Antonia e Michele si sviluppano in parallelo perché entrambi sono “fate ignoranti” ( nel senso proprio del termine “ignorare”). Ad entrambi i punti di vista manca “qualcosa”.

Loro che pensavano di poter confinare Massimo nella galassia sicura del proprio sguardo, si trovano a scoprire invece che la persona che amiamo è sempre e comunque un universo sconosciuto, una stella che continua a brillare di luce propria, anche quando non stiamo a guardarla.

“Per quella parte di te che mi manca e che non potrò mai avere” (dalla dedica di Michele a Massimo, che Antonia trova dietro il quadro)

 

 Angelica Rocca