Chi ha ucciso Elvis? Il film è la risposta

La pellicola non ha i toni dei classici biopic. Il regista non ha paura di osare e rende il tutto troppo pesante. – Voto UVM: 2/5

 

“Da piccolo, ero un sognatore. Leggevo i fumetti e diventavo l’eroe della storia. Guardavo un film, e diventavo l’eroe del film. Ogni sogno che ho fatto si è avverato un centinaio di volte. ” (Elvis Presley)

Baz Luhrmann torna alla regia a nove anni da Il Grande Gatsby, per raccontarci la storia del Re del Rock’n’roll: Elvis Presley (Austin Butler). Il film, uscito nelle sale italiane il 22 giugno, va oltre la stretta etichetta di biopic e si pone l’obiettivo di mostrare al pubblico l’animo tormentato del celebre cantante e showman con un fare eccessivo e intimo allo stesso tempo.

La storia è raccontata dall’agente di Elvis, il sedicente colonnello Tom Parker (magistralmente interpretato da Tom Hanks), imbonitore da fiera, socio e al contempo rivale del cantante, al quale spreme energie e profitti fino all’ultima goccia. Ma per tutto il film ci si pone la stessa domanda: chi è il vero colpevole della morte dell’artista?

Sinossi

Elvis, sognatore fin da bambino, voleva essere come i supereroi dei suoi fumetti, per liberare il padre dal carcere e salvare la famiglia dai problemi economici. Nato nel Mississippi e cresciuto a Memphis, nel Tennessee, era molto legato alla musica e alla cultura afroamericana. Di matrice black erano, infatti, sound, voce e postura del divo.

Elvis in concerto in una scena del film. Fonte: Warner Bros.

 

Negli anni della segregazione razziale fu persino denunciato per le sue movenze e sonorità afroamericane, accusato di favorire quel processo di integrazione tra bianchi e neri, tanto temuto negli Stati repubblicani del Sud. Venne così costretto a rinunciare al suo stile e fu punito con il servizio militare in Germania.

Nella seconda parte della pellicola viene poi raccontato l’ingresso di Elvis nel mondo del cinema, il suo grande amore per Priscilla (Olivia DeJonge), fino ad arrivare agli anni di Las Vegas: la sua prigione d’oro.

Il cinema barocco di Luhrmann

Il film che si potrebbe tranquillamente dividere in quattro atti, dura la bellezza di due ore e quaranta minuti – percepite quattro – che risultano essere fin troppe per un film del genere. Senza contare che a salvarsi è solo poco più della metà della durata della pellicola!

“Quando la narrazione non funziona più, il risultato è la decadenza”  (Aristotele)

Quante volte ci allontaniamo dalle sale cinematografiche consolandoci con un: «Certo, però, la fotografia era stupenda.» Ebbene, questo film potrebbe in parte rientrare in questa casistica, se si pensa alle svariate, e fin troppe, tecniche cinematografiche utilizzate dal regista, che a tratti finiscono per snaturare lo stesso film: dallo yo-yo temporale alle inquadrature sottosopra, per arrivare all’abuso di split screen (divisione dello schermo in più immagini simultanee).

Scena del film in split screen. Fonte: Warner Bros.

 

Ma parlando di Baz Luhrmann non poteva essere altrimenti. Il regista di Romeo + Juliet (1996), fin dagli esordi si è contraddistinto per un uso frenetico del montaggio.

Irriverenza ed eccentricità: sono queste le parole chiave del cinema di Luhrmann che potrebbe essere paragonato ad un saggio di danza fatto di scenografie enfatizzate e una fotografia brillante e colorata.

Chi ha ucciso Elvis?

Ma a volte anche i migliori fanno cilecca. E Baz arriva a “dopare” tutto a colpi di trovate che, anziché attualizzare la storia, finiscono solo per appesantirla.

“Chi è abituato come me a sperimentare e pensare fuori dagli schemi è destinato a essere criticato.” (Baz Luhrmann in un’intervista)

Si Baz, ok, però anche tu attento a non esagerare troppo con il “think outside the box”, sennò finisci per accennare sullo schermo a un mucchio di cose senza svilupparne nemmeno una!

Perché se la storia di Elvis non può essere cambiata, di certo cambia il modo in cui viene raccontata.
E va bene scegliere il colonnello Parker come narratore, ma va meno bene accennare appena a tutto ciò che accadeva nel frattempo. Eventi come l’eccidio di Cielo Drive – l’omicidio condotto dalla “Famiglia Manson” che ha visto come vittima l’attrice Sharon Tate -, le uccisioni dei Kennedy o di Martin Luther King hanno dovuto lasciare spazio, anche fin troppo, alle infinite variazioni del claustrofobico “universo” di Elvis.

Elvis: The Enhanced Album

Solo quando partono le musiche ci ricordiamo davvero perché siamo andati a guardare un film su Elvis. Un plauso anche ai brani anacronistici presenti nella colonna sonora che vanno ad innalzare l’asticella del film. Come l’inedito di Eminem The King & I, prodotto da Dr. Dre in collaborazione con CeeLo Green, o la rivisitata Vegas di Doja Cat. Devastante è anche la cover di If I can dream riletta magistralmente dai Maneskin.

 

In definitiva, il film di Luhrmann riesce a “pizzicare” tutte le corde della personalità del divo. Mostra il suo dolore, la solitudine e il forte attaccamento alla black music. Ma ad emergere è purtroppo la crisi di un certo modo di fare cinema. Ormai da troppo tempo storie fragili, che vogliono disperatamente catturare l’attenzione del pubblico, degenerano in pellicole esibizioniste e patinate.

Eppure, con una storia come quella di Elvis il regista avrebbe potuto fare molto di più!

 

Domenico Leonello

Disclosure: la storia della transessualità nei media

Un documentario appassionante che offre una prospettiva molto dettagliata sulla transessualità nei media. – Voto UVM: 5/5

 

Il mondo è cambiato parecchio negli ultimi decenni. Questioni come l’identità di genere, l’orientamento sessuale o i diritti delle minoranze sono entrate a viva forza nel dibattito collettivo.
In questo contesto, una manifestazione come il Pride Month rappresenta un’opportunità: non solo per celebrare i progressi in ambito civile acquisiti dalla comunità LGBTQ+ nel suo complesso, ma anche e soprattutto per diffondere consapevolezza su quelle minoranze poco conosciute o ancora fortemente stigmatizzate persino dallo stesso movimento LGBT+, in primis quella transgender.
Disclosure, un docufilm diretto da Sam Feder e distribuito da Netflix il 19 giugno 2020, si propone di fare proprio questo.

La locandina del documentario. Fonte: Netflix

Vecchi stereotipi duri a morire

La narrazione procede tramite l’alternanza tra spezzoni di film e serie tv e le considerazioni delle personalità transgender più eminenti del cinema e della serialità televisiva. I partecipanti vengono coinvolti in un dibattito sulla rappresentazione della transessualità nei mass-media, che si rivela problematica fin dagli esordi del cinema americano.

Nel 1914 il regista D.W.Griffith nel suo film Giuditta di Betulia (1914) – uno dei primi ad aver impiegato l’invenzione del taglio per far progredire la narrazione – inserì un personaggio trans o di genere non binario: l’eunuco evirato, infatti, in quanto figura “tagliata”, richiamava alla mente l’idea del taglio cinematografico.
Un espediente che, a causa del vestiario del personaggio, associato per stereotipo alla femminilità, diede origine alla percezione collettiva dei transessuali come uomini travestiti da donne che si prestavano al crossdressing solo per essere scherniti da un pubblico, piuttosto che come esseri umani con una specifica identità di genere. Ma questa, purtroppo, non è l’unica immagine ingannevole contro cui i trans hanno dovuto lottare. Psycho, pellicola cult di Alfred Hitchcock del 1960, diede vita ad un’altra narrativa fuorviante che associava la transessualità alla psicopatia; un’interpretazione ripresa ed ampiamente alimentata da altri film usciti nei decenni successivi.
Racconta la scrittrice ed attrice transgender Jen Richards in proposito:

Mancava poco alla mia transizione e avevo trovato il coraggio di dirlo a una collega. Lei mi guardò e mi chiese: – Come Buffalo Bill? –

Perché l’unica figura di riferimento trans presente nella mente dell’amica era Jame Gumb, l’antagonista principale de Il silenzio degli innocenti (1991), soprannominato Buffalo Bill: un serial killer psicopatico che uccideva le donne per scuoiarle ed indossare la loro pelle.

Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti. Fonte: rollingstone.com

Come se non bastasse, un’altra convinzione perpetratasi fin oltre i primi anni duemila ha contribuito a far ritrarre i personaggi trans femminili come sole prostitute. E’ il caso di Sex and the City, andata in onda dal 1998 al 2004. Infatti, negli spezzoni di questa serie tv inseriti nel documentario, viene veicolato il messaggio che si prostituiscano per seguire una moda e divertirsi. Un immaginario ripreso anche da altri prodotti televisivi, senza che abbiano mai menzionato il vero drammatico motivo dietro questa realtà: le donne trans, discriminate in quanto tali, in media hanno una probabilità molto più bassa di trovare lavoro rispetto agli altri individui della società, quindi molte di loro si danno alla prostituzione per sopravvivere.

Primi significativi cambiamenti

Per fortuna, col passare del tempo, l’approccio alla rappresentazione delle persone transessuali sta lentamente cambiando.
Nella seconda decade degli anni duemila si assiste ai primi veri tentativi di normalizzare la loro presenza sugli schermi televisivi: succede in Sense8, uscita tra il 2015 ed il 2018, dove lo sviluppo del personaggio transgender Nomi Marks e la sua relazione romantica con Amanita Caplan prescindono dalla sua identità di genere. O, ancora, con Pose, ambientata nella New York tra gli anni ottanta e novanta ed uscita in America per FX dal 2018 al 2021.

“Pose” è diversa, perché racconta storie incentrate su donne trans nere su una rete televisiva commerciale
(Laverne Cox)

La presenza di questa serie tv, ideata da Ryan Murphy e scritta e diretta da persone trans, è fondamentale: non solo consente al pubblico transessuale di sentirsi, finalmente, preso sul serio e parte di una comunità unita; ma permette anche a chi non ne fa parte di comprendere meglio la Ballroom Culture, una subcultura statunitense che rappresenta un pezzo di storia molto significativo, sia per il movimento transgender che per il resto della comunità LGBTQ+.

La locandina della prima stagione di Pose. Fonte: silmarien.it (blog di Irene Podestà)

Perché guardarlo?

Durante tutto il percorso narrativo del documentario le emozioni di attori, produttori e sceneggiatori sono palpabili. Lo spettatore si immedesima nella loro frustrazione, nel dolore per aver subito anni ed anni di politiche discriminanti e narrative colpevolizzanti; le stesse che, con ogni probabilità, aveva interiorizzato anche Cloe Bianco, l’insegnante transgender morta suicida appena qualche giorno fa. Un fatto di cronaca che dimostra chiaramente la necessità di continuare a proporre storie con modelli di riferimento eterogenei e positivi. Una corretta rappresentazione, infatti, non è che uno strumento per raggiungere un fine più grande: migliorare le condizioni di vita di tutte quelle persone trans che conducono esistenze normali fuori dallo schermo ed assicurare loro il supporto di quanti le circondano.

Rita Gaia Asti

Fantasy: dalla carta al cinema e alla tv

Il fantasy è stato in grado nel corso degli anni, molto più di altri generi, di attrarre pubblico in sala. Film come Il mondo perduto o King Kong scioccarono le sale dell’epoca e così come nel pioneristico Fantasia della Disney (solo per citarne alcuni) furono portatori di grandi innovazioni tecniche nel Cinema. Anche Harry Potter fu di fatto un fenomeno generazionale, che ha coinvolto sia spettatori in sala che lettori per più di un decennio.

Ma quali sono, secondo noi, alcune tra le migliori trasposizioni fantasy da libro a pellicola?

L’unico anello: il fantasy per eccellenza

Quando si parla di fantasy al cinema il primo nome che viene subito alla mente è Il Signore degli Anelli (di cui abbiamo parlato in occasione del suo ultimo anniversario). Si tratta di un film che ha conquistato il pubblico, portando per la prima volta un fantasy epico al cinema come blockbuster. Si distacca dal romanzo di Tolkien avendo un ritmo ed un linguaggio per forza di cose più moderno e meno lirico.

Su carta i protagonisti vengono seguiti per ogni campo, per ogni valle ed ognuno di questi passaggi è descritto con estremo amore. C’è poi il viaggio dentro ai protagonisti: vediamo sempre la poca fiducia che il protagonista Frodo ha in sé stesso e nella sua capacità di portare a termine il suo compito.

È un racconto adatto a chiunque di ogni genere ed età, in grado di narrare qualcosa che parla all’animo di tutti noi.

Una classica casa nella contea degli hobbit (Original public domain image from Wikimedia Commons)

La magia dell’infanzia: La storia infinita e le Cronache di Narnia

L’opera sorella a questo primo racconto sono le Cronache di Narnia di C.S. Lewis, raccolta di sette libri da cui è stata tratta una sfortunata trilogia di film. Il leone, la strega e l’armadio (2005), primo dei tre film incantò molti con le sue atmosfere fiabesche e quella sua storia a tratti struggente; la trilogia è poi continuata con un secondo capitolo che cercava di avere una trama più adulta più spiccatamente dedita all’azione, senza rimanere fedele all’originale; il terzo film è poi tornato alle radici del primo senza però ottenere gli effetti sperati sul pubblico.

La maggior parte dei racconti è quindi rimasta solo dentro ai romanzi, compreso il suo finale. I sette libri narrano le avventure di vari protagonisti e dei loro viaggi dentro e fuori dalle terre di Narnia. Le storie sono raccontate per un pubblico di giovanissimi, dentro ad un mondo che ti trasporta al suo interno, narrando le imprese eroiche dei bambini protagonisti. Ciò che più risalta in questo libro è la sua capacità di inserire metafore all’interno del racconto, servendosi di immagini ed atmosfere.

Un racconto simile a quest’ultimo è la Storia Infinita di Michael Ende, dove i mondi immaginari la fanno da padrone e la fantasia stessa è la vera protagonista. Anche questo romanzo ha avuto una trasposizione in film negli anni ’80, con una pellicola che ha segnato molti della generazione millennial. Il film viene oggi ricordato soprattutto per il drago Falkor e per la scena con in groppa il protagonista Bastian. La storia, come nel libro, risulta evocativa e speciale, capace di parlare ad ogni appassionato divoratore di libri.

Il libro ed il film hanno quindi molto in comune, tranne il risvolto più maturo della trama nel primo: a metà romanzo, la storia prende infatti una piega diversa, con una grande metafora sulla crescita e sul rapporto tra il nostro mondo e quello fantastico.

I libri delle Cronache di Narnia

La rinascita in TV: Il trono di spade e The Witcher

La televisione ci ha poi regalato Il trono di spade, considerata ancora oggi la serie che ha fatto comprendere come in tv si possa davvero competere coi colossal al cinema in termini sia di pubblico che di qualità. Le prime stagioni hanno fatto rimanere incollati gli spettatori allo schermo  e aspettare con ansia le altre puntate. Un vero fenomeno globale che ha fatto appassionare un enorme pubblico di neofiti al genere fantasy, grazie alla suspense e ai colpi di scena.

La serie traspone però solo una minima parte della trama e non ha potuto inserire i dettagli presenti nei libri di George R.R. Martin ( continenti distanti, misteriose forze magiche all’opera). L’unico, vero, difetto dell’opera, in stand-by da ben undici anni, è però legato ai suoi misteri che rimarrannno perciò irrisolti: probabilmente il più grande “blocco dello scrittore” di sempre.

Il trend del fantasy è poi continuato in streaming con l’arrivo della saga dello Strigo Geralt di Rivia su Netflix con The Witcher. La serie, ispirata ai racconti di Andrzej Sapkowski, ha all’attivo due stagioni e, tra alti e bassi, è riuscita a convincere il pubblico riprendendo un fantasy fiabesco in un contesto però adulto e cruento. In questo mondo, un contadino costretto a lavorare il campo si ritrova attaccato dai mostri e Geralt, il protagonista, è chiamato a cacciarli utilizzando i suoi poteri da “strigo” (un umano modificato geneticamente attraverso la magia per cacciare mostri su  commisione), mentre sogna di trovarsi altrove. Si ritrova spesso, contro la sua volontà, in mezzo ad intrighi politici su cui pende il destino di interi popoli.

La serie ha reso ciò che di più intrigante per il grande pubblico era presente nei romanzi, tralasciando i racconti in cui il protagonista si contende con un altro uomo l’amore di una donna.

I romanzi, invece, hanno un intento diverso e spesso la risoluzione del racconto non è la sconfitta dal cattivo, ma la sua resa spirituale ed etica prima di essere passato a fil di spada!

Matteo Mangano

Pride Month: coppie arcobaleno nelle serie tv

Le serie tv sono ormai un’espressione dell’arte visiva e cinematografica sempre più affermata; ne esistono veramente di tutti i tipi e per tutti i gusti. Ultimamente anche grandi registi e star di Hollywood tendono a cimentarsi maggiormente nella realizzazione di serie tv. Queste divengono quindi un nuovo strumento di diffusione e di sensibilizzazione per tutte quelle tematiche d’attualità che si vanno affermando nella nostra società: prima fra tutti, la tutela della comunità LGBT+. E quale momento migliore per celebrare l’amore in tutte le sue forme se non durante il Pride Month! A tal proposito, negli ultimi anni è aumentata la rappresentanza di questo gruppo sociale anche nelle serie tv. Andiamo dunque a ricordare alcune delle più note coppie LGBT+ del mondo seriale!

Glee: Kurt e Blaine / Santana e Brittany

Una delle serie tv, a mio parere, più inclusive è Glee. Questa, pur essendo ormai più datata di altre (la prima stagione è uscita nel 2009), affronta in maniera molto aperta il tema della diversità. La serie racconta le vicende del glee club, il gruppo corale della McKinley High. Tra i personaggi principali, specialmente delle prime stagioni, ritroviamo due coppie gay: si tratta di Kurt Hummel (Chris Colfer) Blaine Anderson (Darren Criss), e di Brittany S. Pierce (Heather Morris) e Santana Lopez (Naya Rivera). I Klaine si conoscono alla Dalton, dove Kurt si intrufola per spiare una delle squadre rivali del glee club; qui, tra tutti gli studenti che lo accolgono calorosamente, conosce Blaine e tra i due si crea subito un legame particolare. La relazione tra Santana e Brittany è un po’ differente. Le due sono molto amiche da sempre, entrambe cheerleader, ma Santana ha delle difficoltà ad aprirsi e riesce a fare coming out solamente durante l’ultimo anno di liceo, quando inizia una relazione con Brittany.

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Logo del glee club. Fonte: wikimediacommons.org

Modern family: Mitch e Cam

Modern family è una nota sitcom, lanciata nel 2009 e conclusasi solamente nel 2020. Tratta le vicende di una famiglia americana e di come le loro vite si evolvano negli anni. Due dei personaggi principali sono Mitchell Pritchett (Jesse Tyler Ferguson) e Cameron Tucker (Jesse Tyler Ferguson). I due si rivelano una coppia stabile, pur essendo molto diversi tra loro: Mitch è sicuramente più riservato ed apatico, mentre Cam è molto sentimentale ed affettuoso, e tende spesso ad incentrare tutte le attenzioni su di sé. Fin dal primo episodio adottano una bambina dal Vietnam, Lily (Aubrey Anderson-Emmons), che cresce circondata dall’amore dei due genitori e da tutte le cure possibili.

Sex education: Eric e Adam / Lily e Ola

Sex education (di cui abbiamo già parlato qui) è senza alcun dubbio una delle serie più conosciute e più discusse fin dalla sua uscita, sulla piattaforma Netflix, nel gennaio del 2019. La serie, infatti, ponendosi come strumento per sensibilizzare maggiormente i giovani, affronta in maniera chiara ed esplicita il tema della sessualità. Nel corso delle vicende ritroviamo due coppie LGBT: si tratta di Eric (Ncuti Gatwa) e Adam (Connor Swindells) e di Lily (Tanya Reynolds) e Ola (Patricia Allison). I primi riscontrano da subito diversi problemi, legati alla difficoltà di Adam a vivere la propria omosessualità in maniera serena e ad esprimere i propri sentimenti. Lily ed Ola, invece, vivono la propria relazione in modo più sano, senza vergognarsi delle proprie fantasie.

Grey’s anatomy: Callie e Arizona

Grey’s anatomy è uno degli show medical drama più conosciuto in assoluto. Uscito per la prima volta nel 2005, oggi conta ben 18 stagioni dense di intrighi amorosi e strabilianti colpi di scena. La serie, segue le vicende dei medici del Seattle Grace Hospital e specialmente della dottoressa Meredith Grey (Ellen Pompeo). Tra i personaggi principali ritroviamo anche Callie Torres (Sara Ramirez), chirurgo ortopedico, che dalla quinta stagione intraprende una relazione col chirurgo pediatrico Arizona Robbins (Jessica Capshaw). Pur avendo inizialmente un rapporto difficile, dovuto anche ai contrasti del padre di Callie, le due avranno una relazione duratura nelle successive stagioni, fino a sposarsi.

Black Mirror: San Junipero

Last but not least, troviamo nella nota serie tv distopica Black mirror un intero episodio della terza stagione dedicato alla storia d’amore tra Yorkie (Mackenzie Davis) e Kelly (Denise Burse). Black mirror tratta in ogni episodio una storia differente, ambientata in un ipotetico futuro tecnologico e anti-utopico. San Junipero però non presenta quell’ansia e quel terrore catartico che caratterizzano molti altri episodi della serie. In questo, vengono raccontate le vicende di due ragazze, Kelly, molto estroversa, e Yorkie, più timida ed impacciata, a San Junipero, una sorta di realtà parallela. Per quanto Kelly, spaventata dall’idea di una relazione, cerchi di scappare da Yorkie, le due sono però destinate a stare insieme.

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Logo di Black mirror. Fonte: commons.wikimedia.org

La presenza di qualche personaggio LGBT+ potrebbe sembrare irrilevante per molti: sicuramente non può da solo risolvere problemi di omo-bi-transfobia nella nostra società. Ciononostante può sensibilizzare e normalizzare qualsiasi relazione; ed in più, permette a tutti di potersi immedesimare nei personaggi, di sentirsi rappresentati, anche se solo in una serie tv o in un film. Si tratta di piccoli gesti che però possono avere una grande importanza.

Ilaria Denaro

10 canzoni degli anni ’80 che amiamo (anche) grazie a opere moderne

Gli anni ’80 stanno tornando! Va bene, forse non per quanto riguarda le capigliature eccentriche e le tutine fluo, ma dal punto di vista musicale siamo assolutamente dentro la future nostalgia tanto decantata da Dua Lipa. E tanto più la nostalgia si fa sentire, a livello cinematografico e televisivo, con un numero sempre maggiore di trasmissioni ambientate nei “favolosi anni ‘80” (esempio facile facile).

Per questa ragione, noi di UniVersoMe abbiamo deciso di proporvi dieci brani degli anni ’80 riscoperti – anche – grazie ad opere dei nostri giorni. Preparate il vostro walkman!

Alcune delle seguenti clip potrebbero contenere degli spoiler  sulle opere da cui sono tratte.

1. Angel of the Morning (1981) – Deadpool

Questo brano di Juice Newton è stato scelto come opening del primo film della saga di Deadpool, prodotto dalla 20th Century Fox, che vede protagonista il simpatico Ryan Reynolds. La scena ha dell’epico: una canzone così delicata e sentimentale che entra in assoluto contrasto con le immagini di un violento combattimento messo in atto dal nostro scorrettissimo antieroe.

2. Running Up That Hill (A Deal With God) (1985) – Stranger Things 4

Una delle scene preferite in assoluto dal pubblico di Stranger Things, resa iconica anche grazie all’impiego del brano dell’artista Kate Bush… Tanto da far scalare a quest’ultimo le classifiche di diversi Paesi a distanza di 37 anni dalla pubblicazione!

Psst! Clicca qui per leggere la nostra recensione della quarta stagione di Stranger Things.

3. We Belong (1984) – Pitch Perfect 2

La canzone di Pat Benatar riprende vita grazie alla serenata di Ciccia Amy (Rebel Wilson) al suo ragazzo Bumper (Adam DeVine), in una delle scene più esilaranti della saga di Pitch Perfect.

4. Take On Me (1984) – The Last of Us II

C’è chi durante questa parte del gameplay ha pianto e chi mente. Sostanzialmente, durante le scene di Ellie con la chitarra regalatale da Joel piangere è un “dovere civico”. Resta estremamente dolce e nostalgica questa cover del brano degli a-ha, così facile da plasmare che ogni versione (anche la più lenta e malinconica) sembra una canzone totalmente a sé, originale e bellissima.

5. Notte prima degli esami (1985) – Notte prima degli esami

Un intramontabile Venditti che fa da cornice alla notte prima degli esami di cinque ragazzi nell’omonimo film del 2006. Un pezzo cult, a cui la pellicola ha restituito la propria magia (mai davvero svanita), ormai d’obbligo per i maturandi di tutta Italia – quasi un vero e proprio portafortuna!

6. Time After Time (1983) – This Is Us

La canzone di Cyndi Lauper viene ripresa dalla protagonista Kate (Chrissy Metz) che, a discapito della propria timidezza, riesce a mettere in mostra tutto il proprio talento. Il pezzo è diventato subito una delle colonne portanti della serie anche grazie al profondo significato del suo testo.

7. I’m Gonna Be (500 miles) (1987) – How I Met Your Mother

I cultori di questa serie ricorderanno sicuramente l’episodio dedicato alla vecchia auto di Marshall (Jason Segel), grazie alla quale lui e il protagonista Ted (Josh Radnor) hanno vissuto alcune delle loro avventure dei tempi dell’università, intonando per lunghi tragitti questo brano dei The Proclaimers (anche per via della cassetta inceppatasi nello stereo).

And I would roll five hundred miles, and I would roll five hundred more

8. Centro di gravità permanente (1981) – La Casa di Carta

Questo  successo planetario targato Netflix aveva già avuto l’occasione di sperimentare con la musica italiana (basti pensare alla loro Bella Ciao), ma i produttori proprio non riescono a fare a meno di pescare dalla nostra discografia! Ecco una rivisitazione del famosissimo brano di Franco Battiato, a noi italiani sicuramente ben noto, ma che ha rappresentato all’estero una grande scoperta.

9. There Is a Light That Never Goes Out (1986) – 500 Days Of Summer

To die by your side is such an heavenly way to die

È il verso che canticchia Summer (Zoey Deschanel) nella celebre scena in ascensore di questa pellicola del 2009, conquistando all’istante il cuore del protagonista Tom (Joseph Gordon-Levitt). Insomma, coi The Smiths si va sempre sul sicuro.

 

10. Hallelujah (1984) – Shrek

Ultimo ma non meno importante: Hallelujah. Impossibile, quando si ascolta questa canzone (la cui versione originale risale all’artista Leonard Cohen), non pensare alla scena di Shrek che, col cuore spezzato, sente la mancanza di Fiona.

Un brano declinato in tantissime versioni ( vi consigliamo quella di Jeff Buckley), ma che rimarrà sempre celebre grazie alla sua intensa musicalità, a un testo immacolato (ma anche a Shrek!).

 

La lista certamente non si esaurirebbe qui! Gli anni ’80 furono un periodo coloritissimo e ricco di creatività, che ha visto la nascita di innumerevoli generi musicali in tutto il mondo. Fu un periodo di sperimentazione, un’era grazie alla quale tantissimi giovani trovarono il proprio posto nel mondo e il punto di partenza di tanti astri nascenti. Gli anni di Michael Jackson, dell’Italia che vince i Mondiali, del primo telefono, della nascita degli effetti speciali e molto altro. Anni che, nel bene o nel male, guarderemo sempre con un malinconico sorriso.

Valeria Bonaccorso

Stranger Things 4 parte I: tra realtà e fantascienza

      Una serie avvincente che lega fantascienza e realtà ad un unico filo – Voto UvM: 5/5

 

Esser felici dura il tempo di un ballo
Fra Dustin e Nancy
(La Storia Infinita – PTN)

Una strana atmosfera avvolge Netflix, i colori si sono spenti, è tutto sotto sopra, giochi da tavolo come Dungeons & Dragons vengono rispolverati. Strane cose avvengono sulla piattaforma streaming.

Dopo tre anni finalmente ritorna Stranger Things con la prima parte della quarta stagione. Ritardo dovuto soprattutto all’emergenza pandemica che ha più volte costretto il regista a rimandare le riprese. La seconda parte della stagione debutterà il 1 luglio 2022 con altri due episodi ma non sarà l’ultima! Netflix ha infatti già annunciato una quinta stagione per il gran finale.

Con l’annuncio di questa quarta stagione internet è esploso. I fan ormai aspettavano l’uscita della serie, il 27 maggio, più di ogni altra cosa. Non saranno mancati i rewatch di una terza stagione che ci aveva lasciati col fiato sospeso, del duetto di Dustin e Suzy sulle note di Neverending Story, canzone tratta da La Storia Infinitafilm che ha ispirato i Pinguini Tattici Nucleari nella realizzazione dell’omonimo brano. Abbiamo capito che la serie TV è entrata nei cuori di molte persone. E per i più nostalgici sarà un colpo al cuore vedere i protagonisti che da teneri bambini sono diventati dei veri e propri adolescenti isterici. È proprio in casi come questi che la vecchia che è in te penserà: “Ai miei tempi queste cose io non le facevo”.

Da sinistra verso destra gli attori: Caleb McLaughlin (Lucas), Gaten Matarazzo (Dustin), Finn Wolfhard (Mike),  Milly Bobby Brown (Unidici). Fonte: Netflix

Un tuffo nel passato

Ritorniamo indietro nel tempo: con le stagioni precedenti abbiamo avuto modo di conoscere tutti i personaggi. Li abbiamo visti scappare in bici dai “cattivi” che trattavano Undici come un topo da laboratorio. E abbiamo visto nascere i primi amori, come quello tra “Undi” e Mike o quello tra Max e Lucas. E poi, chi non ha mai desiderato creare l’alfabeto, costruito da Joyce nella prima stagione, per ritrovare Will?

“Gli amici non mentono”

Ci siamo innamorati di Stranger Things per la sua storia avvincente che lega fantascienza e realtà ad un unico filo. Autentico, perché ci mostra l’interiorità di ogni personaggio. Ci fa scoprire il mondo del Sottosopra, una dimensione alternativa, “arredata” di flora e fauna. Sono quest’ultime ad allevare e controllare il Mind Flayer, un super organismo e villain principale della serie, che produce i Demogorgoni, creature alte 3 metri, con corpi antropomorfi e con una “carnagione” verdastra – che nemmeno con un po’ di sole di Agosto si può rimediare – e una testa che sembra un simpatico fiore di tulipano.

Undici che combatte contro il Demogorgone. Fonte: Netflix

Il Ritorno

Stranger Things con la sua storia avvincente ha affascinato tutti – nerd e non – rendendola una delle serie TV più amate di tutti i tempi. L’opera tiene lo spettatore incollato allo schermo anche grazie ai tanti temi trattati: amore, amicizia, mistero, ecc…

“Solo l’amore ti rende così folle e così dannatamente stupido”

La quarta parte è composta da 7 episodi e il Sottosopra ritorna a minacciare gli abitanti di Hawkins. Nuovo mostro, nuova avventura!
I ragazzi come dei segugi cercheranno di risolvere il mistero, per salvare la loro cittadina, che sembra essere diventata la nuova Salem – ma con i Demogorgoni al posto delle streghe! In questa stagione un nuovo cattivo fa il suo debutto. Stiamo parlando di Vecna, un “demone” che minaccia i cittadini.

La nuova stagione è come un puzzle: all’inizio lo spettatore si sente confuso e non capisce cosa sta accadendo ma andando avanti, pian piano, riceve delle risposte.

The Hellfire Club. Fonte: SmartWorld

Stagione nuova, personaggi nuovi

Nel cast troviamo delle new entry, come l’affascinante Jamie Campbell Bower, che interpreta Peter Ballard, un uomo empatico che lavora come assistente nel laboratorio del Dottore Martin Brenner, (Matthew Modine) colui che tiene sotto osservazione i bambini e i ragazzi come Undici (Milly Bobby Brown). Ci sarà poi  Joseph Quinn, a vestire i panni di Eddie Munson, un liceale, leader del Hellfire Club.

I protagonisti principali sono ormai cresciuti, sono cambiati, e anche il gruppo questa volta non sarà unito “fisicamente” come nelle stagioni precedenti. Ognuno di loro affronterà un’avventura diversa. Ma anche se in Stati diversi, tutti lotteranno per lo stesso scopo.

Joyce, interpretata dalla bellissima Winona Ryder, volerà in direzione Alaska, assieme a Murray Bauman (Brett Gelman), per salvare Hopper (David Harbour). Nancy, Lucas, Steve, Dustin, Max e Robin, rimasti ad Hawkins, cercheranno indizi per salvare la loro città. Mentre Mike, Will e Jonathan, saranno alla ricerca di … non ve lo dico, dovrete guardare la serie!

Alla fine abbiamo Undici, che tornerà nel laboratorio, da cui in passato era scappata, per cercare di riacquistare i propri poteri. Tre gruppi, tra cui Undici che sarà sola, dovranno affrontare mille avventure accomunate dallo stesso obiettivo.

“Non avevano bisogno di me. Avevo bisogno di loro”

Caleb McLaughlin (Lucas Sinclair), Priah Ferguson (Erica Sinclair), Sadie Sink (Max Mayfield) e Gaten Matarazzo (Dustin Henderson). Fonte: Netflix

Musiche

L’opera è amata per tante ragioni, a partire dall’ambientazione: i mitici anni ’80, un’era di capigliature eccentriche, outifit stravaganti ma sempre alla moda, e una musica che ha creato leggende. È proprio grazie a Stranger Things che sono tornate alla ribalta canzoni come “Every Breath You Take” dei The Police, “Beat It” di Michael Jackson, “Girls Just Wanna Have Fun” di Cyndi Lauper o “Should I Stay Or Should I Go” del mitico gruppo The Clash , vere e proprie colonne sonore dei mitici anni ’80 che ci fanno alzare dalla sedia e ballare. Con la quarta stagione la canzone Running Up that Hill di Kate Bush, si è posizionata al primo posto tra i brani più ascoltati sulle piattaforme digitali.

Darling you got to let me know
Should I stay or should I go?
If you say that you are mine…
(“Shoul I Stay Or Sholud I Go” -The Clash)

Una serie TV che riesce a dare spazio a tutti i suoi personaggi, anche a quelli secondari, mostrandoci le loro fragilità e paure. Dopo un’attesa durata tre anni, noi fan possiamo ritenerci soddisfatti e pronti a rivedere, fra un paio di settimane, le avventure dei ragazzi di Hawkins.

Alessia Orsa

Da un estremo all’altro della follia. Cosa sta succedendo nel MCU?

Dopo ormai 14 anni di MCU, c’era bisogno di una nuova corrente creativa che portasse un po’ di innovazione nel genere supereroistico.

Figli di questa nuovo “filone” sono senza dubbio Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia e la serie basata sul personaggio di Moon Knight.

Filo comune tra i due prodotti è il diverso modo di raccontare e sviluppare l’elemento della follia.

Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia

La pellicola diretta da Sam Raimi è indubbiamente il film più particolare mai prodotto e apparso all’interno di una cinematografia Marvel finora sempre fedele ai propri schemi.

Descrivere questo prodotto è tutt’altro che semplice, in quanto la trama risulta essere molto lineare e quasi elemento di secondo piano nell’insieme del film.

Il film riparte esattamente dalla fine di Spider-Man No Way Home, continuando a narrare anche gli eventi accaduti in Wanda/Vision.

                                                                                                                                     

Viene introdotto il personaggio di America Chavez (Xochitl Gomez), fulcro degli avvenimenti narrati in quanto ha il potere di aprire portali che conducono in altri universi. Ed è per merito/a causa di questo potere che si ritroverà nell’universo 616 (lo stesso numero utilizzato all’interno dei fumetti per descrivere l’universo principale) dove incontrerà Doctor Strange (Benedict Cumberbatch).

Il regista però è poco interessato agli eventi che deve narrare: lo è molto di più a ciò che deve far vedere allo spettatore e a come lo vuole far vedere.

Attraverso un ritmo incessante, Raimi riesce a realizzare sequenze che raccontano il suo cinema da tutti i punti di vista: quel gore alle volte così diretto da spiazzare lo spettatore, altre camuffato ma impattante al tempo stesso; transizioni così maestose ma anche folli e straordinariamente creative, e citazioni che galvanizzano come non mai i fan delle opere a fumetti (e non solo).

La nuova pellicola sullo stregone supremo risulta avere una trama un po’ soffocata dal ritmo frenetico datogli dal regista, che aggiunge pochi tasselli all’enorme puzzle narrativo del MCU. Ma dato l’estro e l’autorialità di Raimi che confeziona un prodotto eccellente, per una volta ( e ci auguriamo molte altre) va bene così.

Moon Knight

L’ultimo prodotto seriale confezionato in casa Marvel era uno di quelli più attesi dal pubblico, data l’enorme potenzialità del personaggio.

Steven Grant (Oscar Isaac) è un timido ed impacciato addetto ai souvenir nel British Museum, la cui vita verrà presto sconvolta quando il mercenario Marc Spector e la divinità egizia della luna Konshu irromperanno nella sua quotidianità cambiandola per sempre.

Per analizzare la serie possiamo concentrarci su due aspetti: trama e protagonista.

Parlando della prima, all’interno del MCU si sta cercando di dare una scossa agli ormai più che decennali schemi narrativi o di infrangere alcuni dogmi.

Moon Knight riesce parzialmente in ciò, in quanto all’epoca della sua presentazione fu descritta come la serie più dark e violenta vista finora sulla piattaforma Disney. Le aspettative sono state soddisfatte per quanto riguarda la violenza, ma in tutto ciò ancora una volta è la narrazione a risentirne.

 

                                                                                                                    

Si ha una premessa narrativa interessante nei primi due episodi, che però va pian piano scemando nel corso della serie per chiudere con un finale davvero molto debole e che non lascia nulla allo spettatore – che sia qualche emozione o la curiosità di sapere l’evoluzione futura del personaggio.

Ben altro discorso va fatto per la prova attoriale di Oscar Isaac, il quale riesce con una naturalezza disarmante ad interpretare le varie personalità del personaggio protagonista della serie. Una performance che lo eleva a migliore attore protagonista di un prodotto seriale Marvel. La follia connaturata in Moon Knight e nella sua controparte Steven Grant/Marc Spector riesce a trovare la sua massima espressione proprio grazie alla sua interpretazione.

Insomma, Moon Knight si rivela un’enorme occasione sprecata dal punto di vista narrativo ma che è riuscita a cristallizzare l’ormai affermato talento di Oscar Isaac.

La follia è l’elemento centrale attorno a cui ruotano queste due nuove produzioni. Da un lato abbiamo quella visiva esaltata da Raimi, dall’altro quella mentale perfettamente interpretata da Oscar Isaac. Entrambi riescono egregiamente nel trattare con due modi diversi – ma entrambi validi -un tema tanto difficile.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

 Giuseppe Catanzaro

 

FRU22. La radio si evolve ma resta evergreen

Il Festival delle Radio Universitarie, conosciuto anche come FRU, è un evento molto speciale per i radiofonici universitari, un appuntamento fisso ogni anno dal 2007 che permette a tantissimi ragazzi, sparsi per tutta l’Italia, di poter si ritrovare e coltivare insieme una grande passione: quella per la radio.

Lo scopo del Festival è quello di analizzare attraverso dibattiti e panel l’esperienza della radiofonia italiana, lasciando la parola agli esperti del settore, che individuano nella comunicazione multimediale un valido strumento per la diffusione di valori culturali. Un Festival che non si rivolge solo agli universitari, ma coinvolge tutti coloro che sono interessati al mondo della radio e della comunicazione.

I tre inviati di UVM al FRU di quest’anno. Da sinistra: Roberto Fortugno, Sarah Tandurella e Carmen Nicolino. Foto di Carmen Nicolino

FRU22: si riparte da Catania

L’edizione di quest’anno ha avuto tutto un altro sapore: è stata la prima in presenza dopo due anni di pandemia e si è svolta a Catania per la seconda volta. La manifestazione, tenutasi dal 19 al 22 maggio e organizzata grazie alla sinergia delle radio universitarie che fanno parte del circuito RadUni, ha avuto come sede l’Università degli Studi di Catania, permettendo a tutti i suoi partecipanti di trascorrere un divertentissimo weekend all’insegna della musica, con un’atmosfera tipicamente siciliana. Il capoluogo etneo è stato invaso da oltre 150 giovani che per tre giorni sono stati immersi in momenti di approfondimento, workshop, musica e socializzazione.

Il badge dell’edizione del Festival delle Radio universitarie di quest’anno. Foto di Sarah Tandurella

L’appuntamento più atteso è stato quello della Speaker Challenge: 22 ragazze e ragazzi provenienti da varie radio universitarie si sono sfidati a colpi di sketch radiofonici per eleggere la miglior voce dell’anno. Ad avere la meglio è stato Flebs, nome d’arte di Marco Fleba, studente universitario radiofonico proveniente da Radio 6023, la radio dell’Università del Piemonte Orientale. È stato poi assegnato un secondo premio, quello per il Miglior Format Radiofonico 2022, alla trasmissione Dietro Le Quinte di Unica Radio dell’Università di Cagliari.

 I temi dell’edizione

Temi centrali del FRU di quest’anno sono stati la sostenibilità, l’evoluzione della radio, il ruolo dei giornalisti e ovviamente la musica. I tantissimi panel organizzati da RadUni hanno avuto come moderatori illustri professionisti.

La professoressa Tricomi dell’Università di Catania ha spiegato la necessità di trattare argomenti scientifici anche in radio nonostante la difficoltà di non poter usare immagini, utilizzando un linguaggio semplice, in modo che il pubblico percepisca l’utilità di tali informazioni. Angelo Di Benedetto di RTL 102.5 e il giornalista Stefano Rossini (Gruppo Icaro) hanno affrontato il tema della sostenibilità, riassunto nel concetto di “consumare meglio, non meno”.

Il giornalista Danilo De Biasio ha costruito un dibattito sull’obbligo morale del giornalista di essere imparziale ma – allo stesso tempo – di riuscire ad imporsi con “un intervistato che dice la cosa sbagliata al momento sbagliato”.

Infine il giornalista e fondatore di Igers Roma, Matteo Acitelli, ha illustrato come utilizzare i vari social per fare informazione.

L’inviata e redattrice di UniVersoMe Sarah Tandurella. Foto di Roberto Fortugno

Tra informazione e intrattenimento: un mezzo antico e moderno

Ma la vera, unica e indiscussa protagonista del FRU rimane la radio: potente mezzo di comunicazione, che molti danno per scontato, ma che continua ad essere fonte di informazione e di intrattenimento. Come ogni altro medium, anche la radio si sta evolvendo, dal punto di vista uditivo attraverso i podcast, ma anche attraverso un punto di vista visivo con l’uso di immagini.

La radio continua ad essere uno strumento che si affida esclusivamente alla voce ma – come dicono lo speaker radiofonico Wad e la producer Marta Boffelli di Radio Deejay, ospiti anche loro del festival – «nulla vieta di spostare il materiale su altre piattaforme e diffondere ulteriormente il messaggio che si vuole trasmettere». Basti pensare che ormai da tempo è possibile “ascoltare” un programma radiofonico in televisione, guardando quello che accade dentro uno studio radiofonico durante una puntata, e sono in molti ormai a repostare contenuti radiofonici su social network come Instagram e Tiktok.

Una parte dei partecipanti al FRU e gli ospiti Wad e Marta Boffelli di Radio Deejay. Foto di Radio Frequenza Libera (Politecnico di Bari)

I momenti migliori sono quelli di conoscenza, di confronto e di scambio di idee con gli altri partecipanti. Il FRU permette di apprendere nuovi concetti o di perfezionare quelli che già sono stati assimilati, di accrescere le proprie competenze e di confrontarsi con gli altri. Per questo motivo, per noi studentesse e studenti di Radio UniVersoMe è stato facile conoscere gente con le stesse passioni, con gli stessi sogni e soprattutto con la stessa voglia di fare radio.

Non si tratta di accendere un microfono e parlare, ma di voler comunicare un messaggio importante e di cambiare il mondo attraverso uno strumento che è allo stesso tempo antico e moderno. Ecco cosa trasmette veramente il FRU: un’energia che ti invoglia a dare tutto ciò che sei in un continuo flusso di creatività e innovazione.

Sarah Tandurella

* Articolo pubblicato su Gazzetta del Sud nell’inserto Noi Magazine il 26/05/2022

3 canzoni “rubate” da Jeff Buckley

Come diceva il grande Massimo Troisi ne Il Postino? «La poesia non è di chi la scrive, ma di chi se ne serve». Una massima che apre anche a noi comuni mortali – che poeti non siamo – il privilegio di attingere alla bellezza dell’universale poetico. Possiamo dire lo stesso di una canzone? Non è forse vero che certe melodie eterne, a dispetto del genio di chi le ha composte, sono piuttosto di chi riesce a portarne alla luce l’anima nascosta? Di chi riesce a rivelarne la bellezza incompresa, di chi presta corde vocali e talento a quell’arte che in quanto tale non ha diritti d’autore ma appartiene ad ogni uomo?

E’ questa la poesia di voci come quella di Jeff Buckley, cantautore degli anni ’90 morto a soli 30 anni, figlio di un altro grande artista: Tim Buckley. A 25 anni dalla sua tragica morte, avvenuta per annegamento il 29 maggio 1997, non vogliamo fare un torto al Buckley cantautore raffinatissimo, compositore di canzoni delicate e allo stesso tempo potenti come Forget Her, Everybody here wants you, Lover you should’ve come over. Preferiamo però ricordare il Buckley grande interprete – tra gli altri – di successi di mostri sacri come Led Zeppelin, Bob Dylan, Edith Piaf ( penso alla sua commoventissima rivisitazione di Je n’en connais pas la fin).

Ecco a voi 3 canzoni ( e potevamo sceglierne tante altre!) che il nostro ha meravigliosamente “rubato” ad altri artisti portandole sulle vette del capolavoro.

1) Mama you been on my mind: più di un tributo al grande Dylan

Ogni cantautore americano che si rispetti non può non misurarsi col grande Bob Dylan. Diversi sono i classici che Buckley ha reinterpretato nel corso della sua carriera anche durante i live, ma ce n’è uno della discografia dylaniana, inciso nel ’64 e rimasto inedito fino al ’91, che ha davvero fatto suo. Mama you been on my mind è una folk ballad su cui l’orecchio subito si adagia e si fa cullare, una melodia semplice e leggera nel tipico stile del menestrello.

La voce flautata e quasi sussurrata di Buckley e il riff acustico dell’intro, nella versione pubblicata su Grace Legacy Edition (2004), traghettano questa canzone del ‘64 fuori da ogni tempo, portandone a galla la delicatezza nascosta, quella che forse nemmeno Dylan che l’ha composta era riuscito ad afferrare

2)  I know it’s over: quando una rock ballad diventa poesia

Si può soffrire per una storia d’amore finita se in fondo non era mai davvero cominciata? E a chi confessare il nostro dolore quando non sappiamo in quale altro posto andare?

Se avessimo il talento di Johnny Marr e Steven Morrisey, rispettivamente voce e chitarra degli Smiths, gruppo rock degli anni ’80, comporremmo una canzone per ammettere “I know it’s over”. Rock ballad uscita nell’86,   l’omonimo brano del gruppo britannico è un mantello di note che avvolge l’ascoltatore col suo sound vellutato, in cui il basso fa da padrone, e lo trascina nel mood di chi si rassegna sentendo «il terreno cadere sopra la propria testa».

A dispetto delle parole cupe, nella versione degli Smiths ( per quanto bellissima) non avvertiamo realmente il “crac” del cuore spezzato.

Doveva arrivare Jeff Buckley per infondere al pezzo una malinconia inedita, quasi dark, nella sua versione live ai Sony Studios di New York. L’arpeggio di chitarra in stile Hallelujah apre qui una confessione sincera sostenuta dalla voce pulita e più acuta di Buckley, una confessione poetica che arriva più diretta alle orecchie di chi ascolta.

Il finale rabbioso, quasi urlato, sembra suggerire, a differenza della versione originale, che chi canta non vuole rassegnarsi e lasciarsi andare al corso delle cose.

3) Hallelujah: l’apoteosi di Buckley

Se vi diciamo che Jeff Buckley era di Orange County a cosa pensate? Ci siamo intesi: ad O.C., il teen drama per eccellenza che tra gli altri meriti ventava una colonna sonora alternative e indie rock d’eccezione.

Punta di diamante della soundtrack e canzone simbolo dell’amore tragico Ryan/Marissa, era proprio l’Hallelujah di Buckley, canzone che non a caso è un inno solenne all’unione tanto cercata e sperata con la donna amata.

Dire di Buckley e non di Cohen che è il vero autore ( e molti non lo sanno!) non è un caso. Perché quella dell’album Grace (1994) è a tutti gli effetti un’altra canzone che ancor meglio dell’originale – cantata su un tono più grave – trasmette la spiritualità con cui viene trasfigurata l’unione fisica tra i due amanti. E’ quel ritornello sussurrato, le corde della Telecaster che suonano prepotenti e cristalline ad una ad una che ci elevano in un sublime crescendo.

E poi l’esplosione commovente della voce di Buckley nel verso più bello: «l’amore non è una marcia vittoriosa, ma una fredda e spezzata Halleluja».

Quindi ciliegina sulla torta non poteva che essere lei: Hallelujah, la canzone che più di ogni altra appartiene veramente a Buckley. Dobbiamo forse ringraziare O.C. se la nostra generazione conosce questo classico di Cohen.

O forse dobbiamo ringraziare proprio lui: Jeff Buckley, una voce angelica, “messaggera” appunto della musica dei grandi all’alba dei primi 2000. A metà strada tra Robert Plant e Nina Simone, tra semplicità e sperimentazione, tra il folk “chitarra e voce” dei nostri nonni e il punk potente dei nostri padri, la musica di Jeff sembrava davvero provenire da un altro mondo, ineffabile, etereo: non trovava definizione. Useremo perciò le parole di Bono degli U2, che disse di lui:

“Era una goccia pura in un oceano di rumore.”

 

Angelica Rocca

 

 

Unime ricorda Giovanni Falcone, a 30 anni da quel terribile 23 Maggio

“Ninetta mia, crepare di maggio
Ci vuole tanto, troppo coraggio”

Era una mattina come le altre, nell’autostrada sopra Capaci:  le macchine percorrevano le strade come sempre e il rumore degli pneumatici veniva interrotto ogni tanto da un colpo di clacson. Ad un tratto il tempo venne spezzato da una bomba. Un semplice click aveva creato una nube di polvere, il rumore dei veicoli lasciò il posto alle urla e ai pianti dei passeggeri e degli autisti; l’artefice di tale orrore si chiamava Totò Rina. Un omuncolo piccolo piccolo aveva appena tolto la vita a Giovanni Falcone, un uomo dai grandi valori, morto per il proprio lavoro e per l’amore del proprio Paese.

Murales dedicato a Falcone e Borsellino a Palermo. Dall’archivio UVM

Sono passati 30 anni da quel 23 Maggio del 1992. Dopo nemmeno due mesi, anche il suo collega Paolo Borsellino venne assassinato. In quell’anno perdemmo due grandi uomini, uccisi per mano della codardia.

“Il ricordo e la memoria di Giovanni Falcone”: l’incontro organizzato da Unime

A trent’anni esatti dalla Strage di Capaci, nella giornata del 23 Maggio 2022, presso l’aula magna del Rettorato di Messina, si è tenuta la celebrazione del ricordo di Giovanni Falcone, assassinato dall’organizzazione criminale Cosa Nostra. Nell’attentato perse la vita pure  la scorta, che era diventata ormai l’ombra del giudice, e  Francesca Morvillo,  anche ella magistrato e moglie di Falcone. L’incontro è stato organizzato dall’Università di Messina, assieme al Consiglio degli Ordini degli Avvocati e l’Ufficio Scolastico Provinciale.

Da sinistra verso destra: Domenico Santoro, il Rettore Cuzzocrea, Laura Romeo, Stello Vadalà. © Gianluca Carbone 

Dopo i saluti istituzionali del Rettore, prof. Salvatore Cuzzocrea, del Presidente dell’Ordine degli Avvocati di Messina Domenico Santoro, della Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati sez. Messina Laura Romeo e del dirigente Scolastico Provinciale di Messina Stello Vadalà, ha aperto la conferenza il Prorettore Vicario, prof. Giovanni Moschella.

Gli ospiti che sono intervenuti sono stati: il Procuratore della Repubblica Maurizio de Lucia, la Studentessa Unime Noemi Munter, il componente del Consiglio Nazionale Forense Francesco Pizzuto, il Procuratore  della Repubblica di Reggio Emilia Gaetano Paci, la Studentessa Unime Simona Calabrese e Angela Nicotra dell’Ordine di Diritto Costituzionale dell’Università degli Studi di Catania. La cerimonia si è conclusa con un dibattito portato avanti dai liceali di Messina.

Il giorno in cui l’Italia capì cos’è la mafia

Ad aprire la cerimonia dedicata a Falcone è stato proprio il ricordo del Magnifico. Ci ha confessato che trenta anni fa era diretto verso Capaci, quando la sua macchina fu fermata: no ne capiva il motivo, nell’aria avvertiva confusione e notava nei volti delle persone un’espressione interrogatoria. Dopo un po’ gli giunse la notizia della strage, e in quel preciso momento comprese fino a che punto potesse arrivare la mafia, in quel momento tutta Italia intuì cosa fosse veramente.

Ha ricordato inoltre a tutti noi studenti, che questo morbo va combattuto ogni giorno e la vera libertà è scegliere, come la scorta di Falcone, che ha deciso di rischiare la propria vita, rimanendo accanto a lui e a tutta la Sicilia.  Proprio per questo, dobbiamo essere orgogliosi e grati a tutti coloro che hanno combattuto la mafia, e che continuano farlo. Falcone e Borsellino ci hanno insegnato che non dobbiamo mai voltarci indietro.

«Falcone è un punto di riferimento per tutti noi magistrati.» Queste sono state poi le parole della dott.ssa Laura Romeo, che ci ha spiegato che solo grazie a Falcone e a Borsellino l’Italia ha una Procura Nazionale, l’organo che dirige la Direzione nazionale antimafia e antiterrorismo, fondato il 20 Gennaio del 1992. Ogni ente dell’antimafia è nato grazie ai due magistrati.

Il pubblico presente alla commemorazione nell’Aula Magna del Rettorato. © Gianluca Carbone

Parole che hanno colpito il pubblico sono state anche quelle del Dirigente Scolastico e Provveditore agli Studi di Messina, il prof. Stello Vadalà, che ha accompagnato i suoi studenti alla commemorazione in onore di Falcone.

“Pure chi salta la fila ha una mentalità mafiosa. Chi ha l’aria da prepotente, chi se la prende con i più deboli. La mafia sarà sconfitta, solo quando lo Stato stesso e i cittadini saranno la scorta “

Buttare la carta a terra, non avere rispetto per il prossimo o semplicemente saltare la fila denota un senso di prepotenza, che è intrinseco all’essere umano  ma è anche il primo credo della mafia. Le parole del professore, ci fanno capire che pure noi a volte sbagliamo, non curandoci della nostra comunità e delle persone. Parole non banali che invitano al coraggio di ricordare tutte le vittime di mafia, non solo durante i loro anniversari.

Sono stati tanti i discorsi pronunciati durante l’evento da voci che hanno ridato anima non solo alla memoria di Falcone ma anche a tutti noi. Viviamo in un Paese in cui la mafia ancora detiene un potere, anche se non come quello di una volta. Falcone e Borsellino sono stati sconfitti, ma il loro agire e il loro pensiero ancora restano e continuano a combattere quel morbo. Per una prospettiva nuova, per le generazioni sedute nei banchi scolastici perché siano testimoni loro stessi di queste memorie in modo che la mafia un giorno diventi solo una storia da film horror.

Murales dedicato a Falcone a Palermo. Dall’archivio UVM

Vorrei concludere, rivolgendo due parole direttamente al giudice che perse la vita nella strage di Capaci. Dimmi Falcone, non avevi paura assieme al tuo collega e amico Paolo Borsellino?  Vedevamo il timore nei vostri occhi, lo spavento di non rientrare più a casa, di non rivedere più la vostra amata, di non tornare al vostro lavoro. Il vostro terrore, però, lo  assopivate con la voglia di virtù e di giustizia.

Alessia Orsa