Il primo Cineforum di UniVersoMe: La storia del cinema

Giorno 5 Aprile si è tenuta la prima proiezione del primo cineforum targato UniVersoMe (qui il nostro articolo sulla Gazzetta del Sud), in collaborazione col Cinema Lux. La prima proiezione è stata 8 1/2 di Federico Fellini, pellicola introdotta dalle parole del professore Federico Vitella, ordinario di Storia e Teorie del Cinema presso l’Università di Messina.

Le sue parole sono servite a noi del pubblico per dare una migliore contestualizzazione a quello da lui descritto come uno dei capolavori dell’arte cinematografica del ‘900, la cui influenza si continua a sentire ancora oggi.

Il professore Federico Vitella, ordinario di Storia del cinema, durante la sua introduzione al film. © Salvo Donato

 

Un’opera riflessiva e fortemente autocritica dell’autore Fellini in cui Marcello Mastroianni impersona un alter ego del regista, Guido Anselmi, regista in piena crisi creativa che si ritrova a dover affrontare una corte di spasimanti costituita dall’intera produzione del suo prossimo film. Guido è, quindi, circondato per l’intera durata del film da questi personaggi e dalle sue incertezze che noi spettatori vediamo attraverso continue sequenze sognanti. In queste tutti i personaggi del film che il regista Anselmi ha in mente interagiscono tra loro e si mescolano alle persone che egli stesso ha incontrato nel corso della sua vita, fin da bambino.

Domenico Leonello, Caposervizio della rubrica Recensioni e Segretario Generale di UniVersoMe presenta il progetto del cineforum al pubblico. © Salvo Donato

 

È un opera nata da un’idea mai nata di Fellini, che dopo essersi dimenticato quale fosse l’idea vincente per il suo prossimo film decide di parlare proprio di quello: un regista senza un’idea.

Dopo questa prima proiezione il nostro Cineforum continuerà con la seguenti date:
– il 19 Aprile ore 18:00, Uccellacci e Uccellini di Pier Paolo Pasolini
– il 3 Maggio ore 18:00, Effetto Notte di Francois Truffaut
– il 17 Maggio ore 18:00, Mulholland Drive di David Lynch

Team di UniVersoMe, insieme al professore Federico Vitella e all’esercente del Cinema Lux, Francesco Torre. © Salvo Donato

 

Ringraziamo anche Francesco Torre, esercente del Cinema Lux, per l’opportunità che ha dato a noi e a tutti quelli presenti tra il pubblico di riscoprire una perla del cinema italiano ed internazionale.

Il Cinema Lux ha, in contemporanea, dato inizio al suo cineforum: “La valigia dei sogni”.
Le pellicole proiettate saranno:
Psyco, il 14 Aprile alle 20:30;
Strade perdute, il 28 Aprile alle 20:30;
The General e One week, il 12 Maggio alle 20:30;
Cantando sotto la pioggia, il 26 Maggio alle 20:30.

Matteo Mangano

Tatuaggi blu e verdi, sono stati vietati?

Se in passato i tatuaggi non erano visti di buon occhio, ora la situazione si è totalmente ribaltata. È diventato un modo comune per esprimere la propria personalità e gusto estetico, soprattutto tra i giovani. In merito a questo fenomeno, proprio quest’anno sono state aggiunte nuove norme, in particolare riguardo l’inchiostro verde e blu. Dal 4 gennaio è stato limitato il loro utilizzo, scopriamo il perché.

Indice dei contenuti

  1. La composizione dell’inchiostro
  2. Il regolamento REACH
  3. È vietato utilizzare il colore verde o blu nei tatuaggi?

La composizione dell’inchiostro

Le sostanze utilizzate per la produzione degli inchiostri sono molteplici. Ogni inchiostro per dare un determinato colore necessita di specifici composti chimici.

I due elementi principali sono i coloranti e il solvente, seguiti poi dai conservanti (che prolungano la vita dell’inchiostro) e gli agenti tixotropici, utili per mantenerlo liquido. Lo scopo di questa formula, non è solo quello di preservare il pigmento nel tempo, ma anche di evitare la formazione di microrganismi.

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I solventi, tra cui acqua, alcol isopropilico ed etanolo, permettono la penetrazione del colore al di sotto della pelle. I coloranti invece sono un insieme di sostanze inorganiche e organiche, che conferiscono le diverse colorazioni agli inchiostri. Un esempio di coloranti sono le ftalocianine, composti chimici che vanno dal blu al verde, adoperate anche nella produzione di vernici. Altre specie che conferiscono colori molto accesi agli inchiostri sono metalli come il rame, il cadmio, ma soprattutto il ferro. Il ferro infatti è responsabile del colore nero e del rosso. La maggior parte degli inchiostri sono composti azoici, che vanno incontro a decomposizione al contatto con la luce e per questo pericolosi per la salute.

Il regolamento REACH

Non è una novità, quindi, che l’inchiostro utilizzato possa scatenare delle allergie o peggio, che la sua tossicità si manifesti tramite diverse malattie anche gravi. I pigmenti sono in grado di viaggiare nel nostro corpo in forma di nanoparticelle, con il rischio che possano intaccare i nostri organi, nonché i linfonodi. Proprio per questo motivo, le ricerche riguardo la loro composizione sono in continuo sviluppo, in modo da poter garantire un’esperienza più sicura possibile.

Già nel 2022 entrò in vigore il nuovo regolamento REACH (1907/2006), che regola e monitora le sostanze chimiche da utilizzare negli inchiostri per tattoo. La necessità di cambiare la formulazione, deriva da delle analisi del 2015 dell’ECHA, la Commissione europea per le sostanze chimiche. Le analisi riportano la presenza di alcune ammine aromatiche tra cui l’anisidina, tossica per via cutanea e orale. Le norme applicate prevedevano anche l’eliminazione dei coloranti a base di isopropanolo, utilizzato nella loro sterilizzazione. Quest’ultimo, a contatto con il corpo, può provocare gravi irritazioni, secchezza della pelle, causare danni al sistema nervoso e soprattutto rivelarsi cancerogeno. Al tal proposito nel 2022 erano già stati tolti dal mercato gli inchiostri gialli e rossi per cosmesi e tatuaggi in favore di sostituiti più sicuri.

Gli ultimi due inchiostri colorati rimasti fino ai primi giorni di quest’anno sono stati il Pigment Blue 15:3 e il Pigment Green 7. Per questi due coloranti infatti, non essendo facilmente replicabili, era stata concessa una deroga fino al 4 gennaio.

Under Fire: Blue and Green Tattoo Pigments • Tattoodo
Pigment Blue 15:3 www.tattoodo.com

È vietato il colore verde o blu nei tatuaggi?

Nonostante, le nuove norme possano trarre in inganno, la risposta è no. Non sono stati banditi i colori in sé, ma la loro composizione. Grazie alle ricerche svolte durante la deroga è stata trovata una formula con concentrazione minore di sostanze nocive, rendendo gli inchiostri verde e blu più biocompatibili. L’unico disagio riscontrabile è la posticipazione degli appuntamenti con i tatuatori che ancora attendono l’arrivo dei nuovi pigmenti.

Questo non vuol dire che i coloranti precedenti non fossero sicuri, anzi, anch’essi erano stati approvati dall’Unione Europea. Le nuove norme mirano soltanto ad una maggiore salvaguardia di questa pratica, in modo da poter far esprimere al meglio e in modo sicuro chi è amante di quest’arte.

Asia Arezzio

Bibliografia

www.products.pcc.eu

www.cna.it

www.mbamutua.org

Ed Sheeran: aspettando “Substract”

Il cantante, autore e polistrumentista britannico Ed Sheeran, classe 1991, è una delle star più ascoltate di sempre a livello globale. Artista pop dai capelli rossi con un look ordinario, capace di unire al genere folk, elementi della tradizione musicale irlandese. Conosciuto per canzoni come Thinking Out Loud, Shape of You e Perfect (famosa anche la versione con Andrea Bocelli, in cui Ed canta in italiano) che su Youtube vantano miliardi di visualizzazioni ciascuna.

Nel corso della sua carriera, l’artista ha venduto più di 20 milioni di dischi in tutto il mondo. Nell’aprile del 2017 il settimanale newyorkese Time lo ha inserito tra le 100 personalità più influenti del pianeta. Fra i numerosi premi vinti, vi sono 4 Grammy Award e 6 BRIT Award.

Il vero significato di Substract

Il suo ultimo singolo Eyes closed, anticipa il nuovo album Substract (Sottrazione) in uscita il prossimo 5 maggio, ed è una dedica ad una persona a lui cara che non c’è più, strappata alla vita troppo presto:

«Per la prima volta, non sto cercando di creare un album che piaccia alla gente, sto semplicemente pubblicando qualcosa che sia onesto e fedele a dove sono nella mia vita adulta. Questo è il mio diario dello scorso febbraio e il mio modo di dargli un senso. Questo è Substract»

Dello stesso brano ha poi composto una struggente versione live, accompagnato dalla sua immancabile chitarra acustica.

Il suo omaggio ai Pokémon, un ricordo d’infanzia

Risale invece allo scorso anno Celestial, in collaborazione con The Pokémon Company, canzone che sarebbe infatti comparsa poi il 18 novembre 2022 negli attesi giochi Pokémon Scarlatto e Pokémon Violetto per Nintendo Switch.

La canzone si riferisce all’azione salvifica esercitata dalla persona di cui si è innamorati che risolleva l’anima quando tutto sembra andare male:

«Mi fai sentire come se il mio cuore tormentato fosse a un milione di miglia di distanza».  

Mentre il videoclip vuole omaggiare la serie che Ed amava fin dall’infanzia e include alcuni dei suoi Pokémon preferiti tra cui Pikachu, Squirtle e Snorlax.

Cosa è successo lo scorso anno nella sua vita?

Nel 2022 è diventato papà bis di una bambina, Jupiter, ovvero Giove, con riferimento al pianeta più grande del sistema solare (oltre a voler significare coraggio e audacia), annunciandolo a sorpresa sui social. Mentre nel settembre 2020 Ed e la moglie Cherry Seaborn avevano avuto la loro prima figlia Lyra Antarcticta (concepita durante una vacanza in Antartide), alla quale il cantante dedicò il brano Tides nel quale canta:

«Sono adulto, sono un papà adesso, tutto è cambiato»

Tuttavia, il 2022 è stato un anno che ha messo a dura prova la popstar, che ha dovuto sostenere la moglie dopo la scoperta di un tumore, ciò ha portato il cantante a dover vivere uno dei periodi più difficili della sua vita, come egli stesso ha raccontato:

«Nel giro di un mese, mia moglie incinta si è sentita dire di avere un tumore, senza possibilità di cura fino a dopo il parto»

Ed Sheeran contro il “binge eating disorder”

In una recente intervista a Rolling Stone, l’artista ha inoltre raccontato della sua battaglia con il cibo, che lo ha portato a soffrire di “binge eating disorder” o “disturbo da alimentazione incontrollata”.

Esattamente come successe ad Elton John, lo stesso Sheeran ha affermato:

«Mi sono ritrovato a fare esattamente ciò di cui parla Elton nel suo libro memoir, ossia rimpinzarmi fino allo sfinimento».

Oggi fortunatamente il suo disturbo è sotto controllo e pratica anche sport.

In attesa del suo imminente album, siamo curiosi di ascoltare i suoi prossimi singoli e guardare i suoi futuri videoclip, sicuri che lo vedremo svettare nelle posizioni più alte delle classifiche mondiali, come sempre. Buona fortuna Ed!

 

                                                                                                                                            Carmen Nicolino

Quando muore davvero un eroe?

Quasi ogni eroe che sia mai apparso sulle pagine di un fumetto ha incontrato il suo fato ultimo. Che sia per il decorso di una malattia, o per la lotta contro un acerrimo nemico, o per un eroico sacrificio. Ma qual è davvero il significato di queste morti? Perché alcune restano ancora nella storia della letteratura a fumetti e molte altre vengono spesso derise dai lettori? Cercando una risposta a questa domanda, riguardiamo assieme come è nato il concetto di morte nei fumetti supereroistici e perché siamo oggi qui a parlarne.

Tavola dal fumetto “The night Gwen Stacy died” edito da Marvel Comics.

Una delle prime morti a fumetti è quella di Gwen Stacy, compagna in pianta stabile di Spider Man. Negli anni settanta non si riteneva ancora possibile fare fuori un personaggio così importante, e farlo con la fidanzata di Peter Parker ha rappresentato una mossa inaspettata. Arrivare ad ucciderla fu, davvero, una mossa epocale, tanto che il Gwen Stacy è tra i pochi personaggi a cui viene dato, ancora oggi, un trattamento speciale, essendo rimasta morta dagli anni ’70.

Ed arriviamo qui ad uno dei punti centrali delle morti fumettistiche, ovvero il fatto che durano poco!

Morte e resurrezione

Nel 1992 fu scritta la prima vera morte utilizzata come pretesto di marketing, quella di Super Man.
L’editore DC Comics preannunciò questo arco narrativo con largo anticipo per ottenere più buzz mediatico possibile. Secondo alcuni fu questo il momento in cui la morte di un eroe cominciò a perdere di significato.

Utilizzata solo per creare trambusto tra i lettori e togliersi di mezzo scomode dinamiche che non permettono totale libertà creativa. Un esempio perfetto è la “morte” di Peter Parker, precedente alla nascita dell’uomo ragno superiore: il Dottor. Octopus ruba il corpo del tessiragnatele e ne prende il ruolo diventando un antieroe con molte poche remore. Il ragno originale non ci ha messo molto a tornare e ciò, essendo scontato per tutti, ha tolto davvero qualunque elemento di sorpresa al lettore, eliminando il peso emotivo della perdita.

È questo il motivo che spinge molti a non essere più colpiti da questi eventi, ormai considerabili davvero, solo un espediente per aumentare le vendite.

Tavola dal fumetto “La morte di Superman” edito da DC Comics. Fonte

Può essere solo banalità?

Lo abbiamo detto anche prima, esistono delle morti iconiche ancora oggi ben ricordate. Chiediamoci allora il perché. Nel momento in cui perdiamo un eroe sappiamo già che tornerà, allora, cosa ci rimane per emozionarci?

Molto banalmente, le cause dell’evento in sé: come ha incontrato la morte il nostro eroe, per mano di chi, quali erano i moventi, a cosa ha portato, qual è stata la reazione di chi aveva attorno e anche quali sono stati gli effetti sulla storia andando avanti. In una serie a fumetti del 2018 sull’incredibile Hulk ad opera di Al Ewing si affronta il tema dell’immortalità, mostrando quello che è possibile fare con un personaggio.

Facendo un esempio fuori dal fumetto ma rimanendo in casa, parliamo del film Logan – The Wolverine (2017): una pellicola straziante che ci pone davanti ad un eroe decadente e alla sua avventura accanto ad un personaggio che assume il ruolo di figlia. Si tratta di un esempio perfetto di “addio” ad un supereroe: emotivo e con un importante impatto sui personaggi e sulla storia a lui successiva.

Affrontare le conseguenze narrative e drammatiche della fine di una vita è qualcosa di molto delicato; fare fuori un personaggio può spesso risultare banale ed è per questo che ci auguriamo spesso che il mietitore di anime non lavori mai troppo in questi mondi immaginari.

Tavola del fumetto “Hulk l’immortale” edito in da Marvel comics. Fonte

Più di uno strumento di marketing

La morte è sempre più spesso un evento creato apposta per riavvicinare fan del fumetto ai negozi. Ma può in realtà rivelarsi una grande occasione per sviscerare aspetti di quel personaggio mai affrontati. Molte persone hanno sollevato lo scudo di Capitan America, ma solo dopo che questo veniva gettato da Steve Rogers e Bruce Wayne, come ben sappiamo, non è stato l’unico Batman mai esistito.

È irrealistico pensare che uno strumento narrativo così efficacie non venga più utilizzato solo perché banale. Ci auguriamo solo che non diventi ancora di più una moda e sia usato con parsimonia!

 

Matteo Mangano

Bones and all: la horror love story di Luca Guadagnino

Bones and all
Bones and all è uno dei migliori film del 2022. Se si deve trovare un difetto sta sul fatto che purtroppo, non è un film per tutti. Voto UVM: 4/5

Bones And All è un film del 2022 diretto da Luca Guadagnino (regista di film come Chiamami Col Tuo Nome,  Melissa P. , la serie TV We Are Who We Are). È l’adattamento cinematografico del romanzo Fino All’Osso scritto da Camille DeAngelis. I protagonisti sono Timothée Chalamet (che ha già collaborato con il regista in Chiamami Col Tuo Nome ed è noto anche in film come Dune, Piccole Donne di Greta Gerwig, Lady Bird) e Taylor Russell (Escape Room). Il film ha ottenuto il Leone D’Oro come Miglior Regia alla 79° Mostra Internazionale del Cinema di Venezia, avvenuta a Settembre 2022. La pellicola è  disponibile dal 27 marzo su Prime Video.

Bones and All: trama

Maren (Taylor Russell) e Lee (Timothée Chalamet) apparentemente sono due ragazzi normali, ma in realtà  sono ben diversi da ciò che sembrano. Sono due cannibali e non sono gli unici al mondo, ad esserlo. Ma la cosa che li accomuna non è solo la loro natura, ma anche il fatto che entrambi hanno avuto un passato turbolento. Lee è un ragazzo vagabondo che convive con la sua natura di cannibale, ma non vuole fare parola sul suo passato e ciò lo rende misterioso, mentre Maren è un’emarginata per via di ciò che è in realtà ed è per questo motivo che è stata abbandonata ed emarginata. I due si incontrano e decidono di viaggiare assieme, per cercare risposte sul passato di Maren e trovare la madre di lei. Durante il viaggio, condivideranno la loro natura, i loro racconti di vita ed un’appassionante storia d’amore.

Luca Guadagnino è un buon regista?

Luca Guadagnino non è un regista compreso da molti. Ha uno stile particolare nel girare i film e può vantarsi di un curriculum di tutto rispetto. Sostanzialmente, lui non vuole mirare al mero intrattenimento,  vuole spingersi oltre. Punta soprattutto nel far provare emozioni allo spettatore e ci riesce, perché nei suoi film trasmette la sua sensibilità d’animo; è sempre riuscito a circondarsi di buoni collaboratori, rendendo i suoi lavori delle vere e proprie opere d’arte e curando tutto in ogni minimo dettaglio (Musica, location, fotografia, set design, costumi, ecc.). Infatti, ogni volta riesce a coordinare tutto con cura, riuscendo a creare una combinazione ben strutturata.

Ebbene, con Bones And All ha fatto nuovamente centro, anche se non lo si considera il suo film migliore. La sua filmografia rispecchia spesso la tematica dell’amore in tutte le sue forme, anche quelle più “insolite” e non comprese da tutti. Ma è sbagliato considerare Bones And All solo una storia d’amore, perché sarebbe troppo riduttivo. Lo è, però è anche una storia che comprende un osmosi di generi, tra cui il drammatico ed anche un pizzico di horror. Ma Guadagnino ha messo un sacco di significati nascosti ed infatti, ci sono diverse metafore.

Bones and all
Una scena del film. Fonte: Metro-Goldwyn-Mayer, Vision distribution.

Bones And All è una storia di cannibalismo?

Oltre ai generi citati sopra, il film è anche un Road Movie che vede i due protagonisti fare un viaggio, mirato alla scoperta di sé stessi. O forse alla fuga da sé stessi? Ebbene, il viaggio che intraprendono è una metafora sulla fuga da sé stessi e dal proprio passato. Si cerca la verità o si cerca altro, per non fare i conti con essa? Questo è un dilemma esistenziale che riguarda sia Lee che Maren, per ragioni diverse.

Anche il cannibalismo che viene mostrato è in realtà una metafora. Sia dal punto di vista letterario che cinematografico, il cannibalismo è la metafora di una realtà molto frequente, anche oggi: ciò che è diverso e la paura di esso, perché non si riesce a comprenderlo e questo porta anche all’emarginazione di esso. C’è chi riesce ad accettarsi, come fa Lee, e chi invece vorrebbe non essere in quel modo, in questo caso Maren.

Bones and all
Una scena del film. Fonte: Metro-Goldwyn-Mayer, Vision distribution.

La storia d’amore di Lee e Maren è una storia completa a tutti gli effetti, visto che i due sono due poli opposti: uno accetta la sua natura, l’altra invece no. Ma nonostante ciò, si sono trovati e c’è una cosa che li unisce, oltre l’amore e la comune natura: il passato turbolento che hanno avuto entrambi. Forse è per questo che si accettano ed hanno bisogno l’uno dell’altra, per affrontarlo. Ed è una cosa emozionante vedere due anime tormentate che si completano e che si spogliano del tutto, mostrando la loro anima e i loro demoni interiori.

In tutto questo, quel tocco in più è stato aggiunto poi dalla fantastica performance di Timothée Chalamet e di Taylor Russell. Il giovane Chalamet ha già dimostrato di essere uno straordinario attore e con un futuro straordinario davanti; la Russell qui non è stata da meno ed è riuscita ad affiancare bene il protagonista maschile, creando una buona alchimia con esso.

Il finale (senza fare spoiler) è sconvolgente e lascia un sapore dolceamaro. Oltre ad avere un piccolo riferimento ad una tematica molto toccante come l’eutanasia, è anche una sorta di atto d’amore richiesto e in certo senso, anche trasmesso. Fa soprattutto capire il senso della traduzione letteraria del romanzo (di cui si consiglia la lettura) ed è un modo di rimanere “dentro” la persona amata, per sempre e al di là di tutto ciò che potrebbe succedere.

Giorgio Maria Aloi

Did you know that there’s a tunnel under Ocean Blvd: un nuovo capitolo

Intimo, introspettivo e meditativo: Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd è un capolavoro in cui Lana del Rey racconta se stessa. Voto UVM: 5/5

 

L’identità artistica di Lana del Rey, pseudonimo di Elizabeth Woolridge Grant, si è sempre distinta da quella delle altre celebri star della musica pop contemporanea. L’iconica diva americana da sempre rifiuta l’inseguimento di mode e tendenze, per conservare la sua vera essenza e sottrarsi a quella che oggi viene comunemente chiamata overculture”. Ciò fa di lei una cantautrice impareggiabile, dal sound unico e inconfondibile, che spesso rappresenta un punto di riferimento per le nuove generazioni di artisti.

Questa volta la cantante sembra aver abbandonato definitivamente l’aura da dark lady che finora aveva caratterizzato la sua estetica, ed essere entrata in una nuova era della sua vita, più serena e meditativa. Seguendo la scia di Blue Banister, disco uscito nel 2021, Lana questa volta sceglie di raccontarsi con Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd, il suo nono album in studio rilasciato lo scorso 24 marzo. Prodotto in collaborazione con Mike Hermosa e Jack Antonoff, il disco conta numerosi feat, tra cui Jon Batiste, SYML, Bleachers e  Tommy Genesis. 

 

L’album in cui Lana del Rey racconta se stessa

Il suo è un album molto intimo, introspettivo e riflessivo. Sedici tracce che, una dopo l’altra, come un flusso di coscienza, raccontano vicende personali dell’artista, storie di perdita, morte, spiritualità e religione. Uno dei temi ricorrenti all’interno dell’album è quello della famiglia e della perdita dei propri cari. Nella traccia di apertura The Grants, accompagnata da un coro gospel, Lana promette ai suoi cari defunti che vivranno per sempre nel suo cuore, in qualsiasi circostanza. L’impatto emotivo dei momenti preziosi trascorsi con loro rimarrà infatti vivo dentro lei in eterno.

My sister’s first-born child
I’m gonna take that too with me
My grandmother’s last smile (Ah)
I’m gonna take that too with me
It’s a beautiful life (Ah)
Remember that too for me

Riuscire a ritrovare una luce che curi le proprie ferite dopo aver subito una grave perdita non è mai facile. In Kintsugi, l’artista ci racconta come ha  superato quei periodi difficili.  Il Kintsugi è l’arte giapponese di riparare la ceramica rotta aggiustando le crepe con lacca mescolata con polvere d’oro. Lana quindi usa questa tecnica come metafora per descrivere la filosofia che adotta per affrontare il dolore: le crepe rappresentano i momenti bui che attraversiamo nel corso della nostra vita, che costituiscono parte integrante della nostra storia, e per questa ragione non vanno mascherate, bensì accettate e trasformate in qualcosa di positivo.

But I can’t say I run when things get hard

It’s just that I don’t trust myself with my heart

But I’ve had to let it break a little more

‘Cause they say that’s what it’s for

Il ricordo delle proprie radici continua poi con Grandfather Please Stand on the Shoulders of My Father While He’s Deep-Sea Fishing (feat Riopy), in cui la cantante abbraccia il suo lato spirituale, e sembra chiedere a Dio di mandarle un segno, affinché sappia che lui è vicino. Attraverso il ricordo di suo nonno, nell’aldilà, Lana prega per la protezione di suo padre.

Grandfather, please stand on the shoulders of my father

While he’s deep-sea fishing for all the things he’s wishing

God, if you’re near me, send me three white butterflies

Or a map to know your vision, impart on me your wisdom

I temi scottanti e la denuncia sociale

A&W, il secondo dei tre estratti del disco, pubblicato lo scorso 14 febbraio, è una ballad composta da due metà. La prima è orientata al folk, con la chitarra acustica, e la seconda è orientata alla trap e contiene un frammento della canzone R&B del 1959 Shimmy, Shimmy, Ko-Ko-Bop di Little Anthony and the Imperials. Il titolo sta per American Whoreed è scritta dal punto di vista dell’ “altra donna“, figura già familiare all’interno della sua discografia. In questa rant track di 7 minuti, Lana critica la malizia della società nei confronti delle donne e denuncia la rape culture, argomento a cui accenna anche in Fingertips.

Segue immediatamente la quinta traccia dell’album Judah Smith Interlude, un sermone sulla differenza tra amore e lussuria di Judah Smith, il pastore e influencer di Beverly Hills che conta Justin Bieber (e anche Lana) tra i suoi seguaci. L’interludio di quattro minuti e mezzo, accompagnato da un pianoforte malinconico, presenta in sottofondo qualche risata occasionale, forse della stessa Lana. Smith è noto per aver condiviso opinioni anti-choice ed anti-LGBTQIA+, oltre ad aver affermato che una coppia non sposata che vive insieme è un peccato. Non a caso, Lana sceglie di chiudere il brano con una critica personale:

You have made me a partner with You
I used to think my preaching was mostly about You
And you’re not gonna like this, but I’m gonna to tell you the truth
I’ve discovered my preaching is mostly about me

Ma a quale tunnel si riferisce il nome dell’album?

Il tunnel che ha dato il nome all’album esiste davvero. A Long Beach, in California, vi è il Jergins Tunnel, un sottopasso ormai abbandonato e dimenticato, che serviva ai turisti per raggiungere la spiaggia. Nella title track, Lana traccia un parallelismo tra il tunnel e se stessa, chiedendosi quando arriverà il suo turno di essere dimenticata dal pubblico.

L’artista rivela così la sua preoccupazione per la possibile scadenza della sua rilevanza nel panorama musicale. Questa paura è già stata espressa nella sua canzone del 2013 inclusa nella colonna sonora dell’adattamento di Baz Luhrmann (Elvis) de Il grande Gatsby, Young and  Beautifulin cui Lana cantava: “Will you still love me when I’m no longer young and beautiful?”.

Nel disco vi sono sparsi altri vari riferimenti al suo passato musicale: sono presenti frammenti di Norman Fucking Rockwell! in A&W, l’incipit di Cinnamon Girl apre Candy Necklace e Taco Truck x VB chiude l’album con il sample di Venice Bitch, brano del 2018.

 

Potremmo dire che Did You Know That There’s a Tunnel Under Ocean Blvd è un album che serviva in primis all’artista  per gettare fuori i propri pensieri e preoccupazioni, e che sa di libertà, grazie ai testi dal tono confidenziale che celebrano la bellezza della vita, nonostante le delusioni ed il dolore che questa spesso può riservare. Un album ricco di emotività, in cui Lana non ha paura di raccontarsi senza filtri, inaugurando così un nuovo capitolo della sua evoluzione artistica. Lana del Rey è quindi ancora una volta la dimostrazione che per scalare le classifiche e avere successo non è necessario rincorrere mode, perché l’autenticità ripaga.

 

Giulia Giaimo

Tortura, la proposta in Parlamento per l’abolizione del reato

Fratelli d’Italia, il partito guidato dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni, recentemente ha presentato una proposta di legge per abrogare il reato di tortura, con prima firmataria la deputata Imma Vietri. Nello specifico, con il provvedimento assegnato in Commissione Giustizia della Camera, si intendono di fatto abrogare gli articoli 613-bis e 613-ter del Codice penale che introducevano il reato di tortura e l’istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura.

La legge n. 110 del 14 luglio 2017

In Italia, il reato di tortura arriva solo nel 2017, dopo un lungo e complesso iter parlamentare presentato in aula dallo schieramento politico PD-AP. Venne, quindi, introdotto dalla legge n. 110 del 14 luglio 2017, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale n.166 del 18 luglio 2017.

Nello specifico, la tortura è un reato previsto e punito dall’art. 613-bis del codice penale;

Art. 613-bis (Tortura). – Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

La pena è inasprita se a commetterlo è un pubblico ufficiale:

Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni. Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti. Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo.

Non solo, la legge contempla il delitto di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura (art. 613-ter):

Art. 613-ter (Istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura). – Il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura, se l’istigazione non è accolta ovvero se l’istigazione è accolta ma il delitto non è commesso, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

Nonostante la legge di per sé presenta alcune criticità, poco dettagliata e troppo astratta, ha come motore principale la dignità umana: non è infatti giustificabile che, il fatto che una persona sia sottoposta a una limitazione della libertà personale, possa essere sottoposta a trattamenti inumani o degradanti. La legge, nella sua interezza, rappresenta difatti un reato comune, ovvero non indirizzato specificamente contro le forze dell’ordine, sebbene venga prevista un’aggravante nel caso in cui a commettere il reato siano agenti delle forze dell’ordine.

Abrogare la legge contro il reato di tortura non è la soluzione

Tale proposta di questa portata non è una novità tra le dichiarazioni del partito di destra. Infatti, Giorgia Meloni lo aveva annunciato già nel 2018, dichiarando che il reato di tortura “impedisce agli agenti di fare il proprio lavoro e per questo ne era necessaria l’abolizione.

Ora che è al governo, la proposta diviene realtà. Gli esponenti firmatari di Fratelli d’Italia spiegano le ragioni della proposta soprattutto a difesa delle Forze di polizia:

L’incertezza applicativa in cui è lasciato l’interprete potrebbe comportare la pericolosa attrazione nella nuova fattispecie penale di tutte le condotte dei soggetti preposti all’applicazione della legge, in particolare del personale delle Forze di polizia che per l’esercizio delle proprie funzioni  è autorizzato a ricorrere legittimamente anche a mezzi di coazione fisica. Se non si abrogassero gli articoli 613-bis e 613-ter, potrebbero finire nelle maglie del reato in esame comportamenti chiaramente estranei al suo ambito d’applicazione classico, tra cui un rigoroso uso della forza da parte della polizia durante un arresto o in operazioni di ordine pubblico particolarmente delicate o la collocazione di un detenuto in una cella sovraffollata.

In poche parole, il rischio di subire denunce e processi penali disincentiva e demotiva l’azione delle Forze dell’ordine, privandoli dello slancio necessario per portare avanti al meglio il loro lavoro, con conseguente arretramento dell’attività di prevenzione e repressione dei reati.

Dopo una prima ondata di polemiche, soprattutto provenienti dall’opposizione di sinistra, Tommaso Foti, capogruppo di Fratelli d’Italia alla Camera, dichiara che «non vi è volontà da parte di Fratelli d’Italia di abrogare il reato di tortura, ma di tipizzarlo in modo molto nitido così come è nelle convenzioni internazionali». A prima vista un retro-front strategico, ma non abbastanza per placare il movimento di critica…

In prima linea, la deputata di Sinistra Italiana-Alleanza Verde Ilaria Cucchi ha dichiarato che «Questo è un fatto gravissimo. Sostenere che la tortura in Italia non esista è una bugia. Più di un giudice, prima dell’introduzione di questa legge si è trovato a non poter procedere perché la legge non esisteva. Abbiamo lottato per la sua introduzione e ora rivolgo un appello a tutte le forze politiche, soprattutto al presidente della Repubblica: giù le mani dalla legge che punisce la tortura

Alfredo Bazoli, capogruppo Pd in commissione Giustizia, ritiene «Il reato di tortura c’è in tutti gli ordinamenti democratici, è richiesto dalle convenzioni internazionali a tutela dei diritti umani, siamo uno degli ultimi paesi occidentali che l’hanno introdotto. L’idea di abrogarlo rivela un’idea preoccupante e pericolosa dell’uso del potere e della forza da parte della destra. La difesa dello stato di diritto, e la difesa delle nostre forze dell’ordine, non può tollerare che lo si metta in discussione».

Cosa dice il rapporto del CPT riguardanti le carceri italiane

Solo un anno fa il Comitato Europeo per la prevenzione della tortura (CPT) aveva fatto visita nelle carceri italiane, e nello stesso giorno in cui è stata annunciata l’intenzione di abrogare il reato, è stato pubblicato il rapporto. I risultati fanno il punto della situazione sullo stato di salute degli istituti di privazione della libertà personale: violenze e intimidazioni tra detenuti sono alcune delle realtà riportate dall’organo europeo, insieme a una quota di sovraffollamento in tutte le strutture visitate, e che in particolare nella prigione di Monza, raggiunge picchi del 152%. Alla luce di quanto raccolto, Strasburgo chiede anche di migliorare le condizioni di vita dei detenuti e misure urgenti e specifiche per le donne e per le persone transessuali carcerati.

Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone, parla di una vera e propria riforma del sistema penitenziario, che guardi alla pena come elemento di risocializzazione della persona. Favorevole al sistema delle celle aperte, in cui il detenuto non passa 20 ore su 24 chiuso nella propria cella, ma, al contrario, ha la possibilità di usare il proprio tempo in attività formative ed educative, che non si limiti ad una mera «passeggiata per le sezioni senza poter far altro».

A commentare il rapporto del Cpt è stato il ministro della Giustizia Carlo Nordio: «È vero che le nostre carceri sono sovraffollate, ma abbiamo ampi progetti per ridurre questa criticità. Un progetto a lungo termine riguarda la dismissione delle vecchie carceri, come Regina Coeli che può essere venduto sul mercato, prevedendo la costruzione di nuove case, ma anche un progetto a lungo termine, soluzione più ambiziosa e definita, di utilizzare una serie di edifici, a cominciare da caserme dismesse, che hanno struttura compatibile con il carcere».

Victoria Calvo

Perché Blade Runner 2049 diventerà un cult?

Blade Runner, diretto da Ridley Scott (Alien, Legend, Il gladiatore, Sopravvissuto – The Martian) uscito nelle sale nel lontano 1982, è l’esempio di come, a volte, una visione artistica non viene compresa dalla maggioranza inizialmente.

Quando si tratta di un’idea rivoluzionaria accade che nella cultura popolare una forte influenza la stravolge e ne decostruisce i dogmi imposti – in questo caso quelli appartenenti al settore cinematografico –  ed essi vengono riscritti e rivisti dall’ideologia dell’opera cult stessa.

Nel 2017 uscì il sequel canonico, Blade Runner 2049, diretto dal regista Denis Villeneuve (La donna che canta, Enemy, Arrival).

In questo caso la critica specializzata e quella pubblica si divise in pareri contrastanti, ma noi si siamo sicuri che ben presto anche questo gioiellino riuscirà presto a mettere d’accordo tutti sul suo inestimabile valore cinematografico e vi spiegheremo perché.

Vi racconteremo di un mondo immerso nel retrowave, fatto di luci fluorescenti, macchine volanti e un oscuro cielo che non smette di piovere!

Le macchine possono pensare

“Bella esperienza vivere nel terrore, vero? In questo consiste essere uno schiavo” – Roy Betty

Fin dalla prima sequenza della pellicola, Blade Runner regala al suo pubblico una delle scenografie più d’avanguardia del suo tempo: gli effetti speciali e varie altre tecniche vengono adoperate per immedesimare lo spettatore in un mondo nuovo.

Certo, stiamo parlando di un mondo distopico dove i replicanti (androidi dalle fattezze identiche a quelle di un essere umano) sono relegati al ruolo di servitore. Qui vediamo i replicanti mostrarsi più uniti e umani degli esseri umani stessi, che piuttosto mostrano freddezza e distacco pur di portare a compimento i loro scopi.

L’idea di dare a questi replicanti una grande intelligenza ha costretto i creatori a dare loro una morte fissata a 4 anni dalla loro attivazione. Questo per impedire loro di acquisire la capacità provare emozioni e ribellarsi. L’incipit del film si concentra proprio su questo: un gruppo di 6 replicanti riesce a fuggire dai pianeti colonizzati dall’uomo, le colonie extramondo, e riesce a raggiungere la città di Los Angeles alla ricerca di una soluzione per evitare di morire precocemente. La task force instituita dalla polizia, denominata unità Blade Runner, richiama dalla pensione l’ex poliziotto Rick Deckard (Harrison Ford) per ritirare (ovvero uccidere) i suddetti replicanti ribelli.

Prys (sotto) e Roy Batty in una scena del film Blade Runner. Distribuzione: Warner Bros. Fonte: Warner Bros.

Perché Blade Runner è un cult

La narrazione si sviluppa in un’epoca assai lontana dall’anno di proiezione, oltre 40 anni dalla prima proiezione. Ci viene presentato un futuro del tutto opprimente: le strade strette affollate dai mercatini, la polizia che grazie ai loro spinner (automobili volanti) possono osservare a cielo aperto ogni movimento, i cartelloni pubblicitari che permeano ogni angolo della città.

L’ambiente cittadino è cupo e costantemente piovoso, questo perché il futuro che profetizzava era caratterizzato da un inquinamento atmosferico molto elevato, tanto da riempire i cieli di fumi e nubi.

Ripescando sempre la prima scena, ci viene riportato un occhio sul quale viene riflessa la città con tutte le sue splendide luci a neon colorate, ma immersa tra lo smog e le fiamme delle industrie. Ovviamente in una ambientazione del genere gli animali non sono sopravvissuti e la maggior parte delle creature esistenti sono artificiali. Ecco perché l’umanità ha deciso di spostarsi e andare a vivere nelle colonie extramondo. Privilegio, però, che non possono permettersi tutti: solo chi non presenta malattie e chi dispone di una salute perfetta può permettersi di partire (vedasi il personaggio di J. F. Sebastian, interpretato da un magistrale William Sanderson).

Frame del film Blade Runner. Distribuzione: Warner Bros. Fonte: Warner Bros.

Remake o sequel diretto?

Cosa c’è di meglio di un uomo che rincorre degli androidi? Un androide che rincorre altri androidi.

In questo Blade Runner 2049, il protagonista, l’agente K, è impersonato da un perfetto Ryan Gosling che grazie alla sua perfetta monoespressività (in alcuni casi è un difetto, ma non in questo caso) ci restituisce un replicante perfetto. In questa pellicola Villevenue ci presenta l’agente K che segue una routine molto rigida: vivere la maggior parte del tempo chiuso in appartamento e quando viene chiamato solo per compiere le missioni che gli vengono assegnate.

Partendo da questo, il regista vuole giocare con l’empatia del pubblico cercando di farci entrare nel volere di una macchina che sa di non poter provare emozioni, che sa di poter essere libero come potrebbero fare gli umani ma ciò non gli è possibile ottenere.

Joi: la bellezza di un amore (illuso)

L’agente K in Blade Runner 2049 trova una via di “salvezza” grazie ad una figura femminile che qui non è un replicante (come il personaggio di Rachel nel precedente film), bensì si tratta di un’ologramma, la graziosa Joi (Ana De Armas).

Ciò però che potrebbe stonare con la natura umana è il rapporto amoroso che si instaura tra K e Joi. Quest’ultima, sebbene sia mossa da una Intelligenza artificiale, prova un sentimento d’amore molto profondo per K, tale da porre dubbi su chi possa dimostrare una tale fedeltà: un prodotto commercializzato su scala globale potrebbe esprimere più amore di un essere umano?

L’agente K in auto e Joi sul riflesso del vetro. Distribuzione: Warner Bros. Produzione: Alcon Entertainment, Columbia Pictures, Bud Yorkin Productions

Chi è il protagonista?

Roy Batty ci ha insegnato che i replicanti non sono meschini o egoisti come gli esseri umani, allor più sono violenti contro i loro aggressori. Ecco perché nelle prime immagini di BR 2049 scopriamo che la Tyrell Corporation è fallita a causa delle continue rivolte dei suoi stessi replicanti. Però in questi 30 anni una nuova azienda è emersa con una nuova serie di replicanti questa volta privati delle emozioni umane.

Il regista decide quindi di giocare con le nostre emozioni nei confronti di K. Anche qui il tema dei ricordi viene ripreso e viene messo in discussione. Ci fa credere che l’eroe da empatizzare sia quello che crediamo, un replicante speciale tra gli altri, ma i ricordi della mente sono sempre assoggettati da alterazioni ed è qui che tutto viene sempre messo in discussione. K è un replicante che vorrebbe dare un senso alla sua vita, essere qualcosa di più di un “lavoro in pelle”, vorrebbe qualcosa per cui lottare, cerca un senso alla sua creazione.

Scena apocalittica tratta dal film Blade Runner 2049. Distribuzione: Warner Bros. Produzione: Alcon Entertainment, Columbia Pictures, Bud Yorkin Productions

Blade Runner 2049: un cult a parte

Sono davvero molti i concetti intrapresi in questo piccolo capolavoro di Villevenue: viene trattato l’ambientalismo, la nostalgia, l’apocalisse, le conseguenze della guerra, la deificazione e l’esistenzialismo. Tutti riguardano temi con cui ci stiamo scontrando gradualmente in questo decennio.

La cinepresa ci vuole mostra luoghi ormai perduti, la natura è sparita e non vi è alcuna traccia di verde in nessun angolo delle ambientazioni proposte. Ci propone un mondo dove ci circonderemo di tecnologia e questo cancellerà ogni tipo di colore, sarà un futuro opprimente.

Denis Villevenue vuole mostrare cosa potremmo cambiare in noi stessi per cambiare il futuro, o almeno, migliorarlo. Sappiamo che non sempre certi messaggi vengono colti nell’immediato e perciò siamo coscienti che forse quando sarà troppo tardi questi significati verranno maggiormente compresi, forse tra qualche anno o ancor peggio tra qualche decennio.

 

Salvatore Donato

Dante Alighieri: ritratto umano del Sommo Poeta

Permaloso, acuto e sempre con la battuta pronta. Tu, che hai letto e studiato il Sommo Poeta sin dai banchi di scuola, ti sei mai chiesto che carattere avesse? Come trascorresse le sue giornate al di fuori della scrittura?

Ebbene, Dante Alighieri, padre della lingua italiana a cui è dedicata la giornata del 25 Marzo, attinse al nostro ricercato dialetto per la stesura del suo capolavoro.

UniVersoMe e, in particolare la redazione di cultura locale, intende celebrarlo in maniera inedita, partendo da un racconto legato al suo spiccato senso dell’umorismo.

 

Dante e la prontezza di spirito

Un biografo del Cinquecento racconta che il poeta, quando veniva importunato da qualcuno, rispondeva con battute taglienti che lasciavano i riceventi a bocca asciutta.

Il particolare evento a cui si riferisce il biografo pare sia uno dei tanti in cui Dante perse la pazienza e rispose all’uomo che lo tempestava di interrogativi: “Avanti che io risponda alle tue domande, vorrei che tu prima mi chiarissi qual tu creda sia la maggior bestia del mondo.”

Quell’uomo rispose che egli credeva che la maggior bestia terrestre fosse l’elefante. Dunque Dante così lo apostrofò: “O elefante, adunque non mi dar noia.”

 

Ritratto allegorico di Dante Alighieri di Agnolo Bronzino. Fonte: gettyimages,it

 

 

Spiritoso quanto suscettibile…

Uno scrittore del Quattrocento, il Sercambi, racconta che quando il re di Napoli Roberto D’Angiò decise di conoscere il poeta organizzò un magnifico banchetto a corte a cui Dante si presentò vestito in maniera umile e con il volto stanco.

Il Re lo scambiò per un mendicante e lo fece accomodare al tavolo riservato ai miserabili. Dante si offese e se ne andò.

Quando il Re venne a conoscenza che colui era Dante Alighieri inviò un consigliere a porgergli le sue scuse e ad invitarlo a cena la stessa sera. Il poeta per ripicca tornò a corte vestito di tutto punto, così elegante che non era possibile scambiarlo per un uomo di umili origini!

Suscettibile il nostro Dante eh?

 

Io non ho altr’arte e tu me la guasti

A proposito di suscettibilità, un altro aneddoto questa volta fornitoci da Franco Sacchetti, scrittore del Trecento, riguarda un fabbro appassionato di canto e di versi.

Dante sentì dalla bottega del fabbro declamare i versi della sua più grande opera: La Divina Commedia. 

No, ma che orrore! Il fabbro non aveva azzeccato un verso corretto! Dante irritato, entrò impulsivamente nella bottega e cominciò a gettar via tutti gli strumenti da lavoro del fabbro che sgomento reagì:“Che diavol fate voi? Siete voi impazzito?”

Il poeta prontamente rispose: “Se tu non vuoi che io guasti le cose tue, tu non guastar le mie. Tu canti il libro, e non lo dì come io lo feci; io non ho altr’arte e tu me la guasti.”

Il fabbro, non sapendo cosa rispondere, tornò all’arte sua, questa volta cantando di Tristano e Lancillotto.

 

Dante con la Divina Commedia, dipinto di Domenico di Michelino. Fonte: gettyimages

 

 

Dante nel suo Inferno

In quale girone dell’Inferno collochereste il Sommo? Vi stupirà sapere che diversi aneddoti ci fanno pensare che potrebbe essere condannato a quello dei lussuriosi!

Sulla lussuria di Dante circolano diversi racconti. Si narra che quando egli era ospite del signore di Ravenna, Guido Novello da Polenta, si scoprì che Dante aveva trascorso la notte con una “donna di mercato” che intendeva sapere se Dante fosse bravo oltreché come poeta anche come amatore

La cortigiana confessò che “poco valeva perché avendo avuto assai buona bestia, non aveva cavalcato se non un miglio.”

Quando Dante venne a conoscenza di questa risposta si difese:“Io avrei anche calato l’asso ma non mi piacque la mazziera.”

Com’era quella storia che quando la volpe non arriva all’uva…?

 

Paradiso canto XXXI, Gustave Doré (Photo by Stefano Bianchetti/Corbis via Getty Images)

 

“Se tu segui la tua stella, non puoi fallire a Glorioso porto.”

Sebbene non si tratti di una citazione celebre come altre, da essa possiamo trarne ispirazione.

Ognuno di noi segue una passione, quella di Dante l’ha condotto al Glorioso porto, pertanto ti auguro di trovare e seguire con gioia e perseveranza la tua stella.

 

Alessandra Cutrupia

Per una tazzina di caffè: in libreria arriva “Ci vediamo per un caffè”

Una lettura fresca, come una coccola sotto i fiori di ciliegio primaverili, capace di trasportare il lettore attraverso le vite, le sfide e le conquiste di ogni personaggio, caratteristici ma specchi della realtà.– Voto UVM: 4/5

 

Dalla fortunatissima serie “Finchè il caffè è caldo”, di cui solo il primo romanzo ha totalizzato 100mila copie vendute, ritorna tra gli scaffali delle librerie italiane il 28 Febbraio con il quarto romanzo “Ci vediamo per un caffè“, edito da Garzanti per la collana Narratori moderni. Pubblicato in Giappone il 14 settembre 2021 col titolo “Prima che io possa dire addio”, Toshikazu Kawaguchi ritorna con il quarto capitolo della serie del cafè giapponese più amato dai lettori, pronto a far scoprire sempre nuove storie e nuovi viaggi da intraprendere.

“Finché il caffè è caldo”: la serie che ha conquistato l’Italia

L’autore, nato a Osaka nel 1971, inizia a lavorare come sceneggiatore e regista, per poi prendere la carriera da romanziere. Il suo romanzo d’esordio, Finché il caffè è caldo, ha venduto solo nel suo paese natale oltre 2 milioni di copie. Non solo in Giappone, anche l’Italia ha apprezzato la sua penna, diventando uno scrittore amato negli scaffali tra i romanzi di Haruki Murakami e di Banana Yoshimoto.

La serie non ha di per sé un nome ufficiale, nonostante i romanzi di Kawaguchi siano accumunati dalla stessa ambientazione e da alcuni personaggi ricorrenti. Proprio per questo, la serie prende il nome dal primo titolo pubblicato nel 2015 in Giappone, tradotto letteralmente “Prima che il caffè si raffreddi“, in Italia edito da Garzanti nel 2020 col titolo “Finché il caffè è caldo”. 

Nel 2017 viene pubblicato in Giappone il secondo volume della saga “Prima che questa bugia venga rivelata“, editato in Italia nel 2021 come “Basta un caffè per essere felici”.

Solo l’anno dopo esce il continuo “Prima che i ricordi scompaiano“, pubblicato in Italia l’anno scorso con il titolo “Il primo caffè della giornata”.

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Copertine dei quattro romanzi della serie “Finchè il caffè è caldo”, edito da Garzanti. Fonte: Garzanti.

Prima che il caffè si raffreddi

Siamo in Giappone, precisamente tra i vicoli di Tokyo, dove si trova una piccola caffetteria molto particolare, probabilmente aperta nel 1874, come ci suggerisce il suo aspetto antico e non molto curato, vicino alla stazione di Jinbocho. Il nome di questo piccolo locale è Funiculi Funicula, ed ha una curiosa caratteristica: per raggiungerlo, basta seguire l’aroma intenso del caffè, varcare la soglia della porta, dove si verrà accolti dai vecchi proprietari, sedersi in un preciso tavolino, e ordinare una tazza di caffè fumante.

Ha una peculiarità che la rende speciale: è possibile tornare indietro nel tempo, rivivendo eventi passati in cui si è, probabilmente, si è presa una scelta alla quale si continua a ripensare, in cui si è rimasto in silenzio quando si sarebbe voluto dire la verità, in cui si è dato la risposta sbagliata, con il rigido limite che non si potrà andare nel passato per cambiare il presente e il futuro. Tutto ciò, deve accadere ad una sola condizione: bisogna tornare prima che il caffè si raffreddi.

Tra di loro ci sono il professor Kadokura, che ha trascurato la famiglia per il lavoro; i coniugi Sunao e Mutsuo, addolorati per la scomparsa dell’amatissimo cane; Hikari, pentita di non aver accettato la proposta di matrimonio del fidanzato Yoji; e infine Michiko, che è tornata nel locale in cui aveva incontrato il padre. Ognuno ha una storia diversa, ma tutti hanno lo stesso sguardo rivolto all’indietro, verso il momento in cui avrebbero potuto agire diversamente.

Nella vita ci sono tanti bivi. Tutti i rimpianti derivano da ciò che è accaduto in un momento che non avremmo mai immaginato potesse accadere. Quando una nostra azione porta a un risultato inaspettato, come possiamo non provare un grande rimpianto? Dopotutto, quando mai capita di avere un’altra possibilità?

L’Italia d’ispirazione

La scelta di chiamare la caffetteria “Funiculi Funicula” è stata una decisione curiosa e particolare, che rimanda alla tradizionale canzone napoletana. Non è stato di certo, però, una casualità.

Infatti, lo scrittore, in un’intervista, dichiara che:

È una canzone che ho imparato durante le lezioni di musica quando ero alle elementari. Ed esiste una famosa parodia, che è la preferita di tutti i tempi dai bambini giapponesi, che, ovviamente, non ha nulla a che fare con il testo originale. Però, quando pensavo al nome del caffè, desideravo che fosse nostalgico, e Funiculì Funiculà è stata la risposta. Questa canzone è molto conosciuta e, se inizi a cantarla, potresti iniziare a ripensare ai ricordi d’infanzia

Inoltre, Toshikaze sembra essere anche molto legato al Bel Paese. Non solo per la canzone, ma sogna di viaggiare in Italia e visitare Napoli, fare un giro per le strade partenopee e, in particolare, scalare il Vesuvio.

Intervista dello scrittore Toshikazu Kawaguchi al salone internazionale del libro di Torino 2022. Fonte: La Stampa

La caffetteria che cambia la vita

Lasciando da parte questa chicca, possiamo dire con certezza che la penna di Kawaguchi potrebbe benissimo essere paragonata ad una carezza su un foglio. E’ un racconto di vita quotidiana, che parla di persone e non di personaggi, proprio perchè non sono tanto diversi dalla realtà. Ognuno ha la propria storia, i propri dolori e i propri dubbi, e l’autore ce li propone con gentilezza, con la delicatezza di chi non vuol far rumore ma, allo stesso tempo, irrompere con fermezza nella nostra realtà costruita piano piano a fatica e voler accompagnare tra i meandri dei nostri ricordi.

Kawaguchi racconta relazioni di amanti, coppie di fidanzati, di fratelli, coniugi, rapporti tra padri e figli; di situazioni difficili, di sensi di colpa, di malinconia, di fallimenti. Tornano indietro nel tempo, consapevoli di non poter fare la differenza, ma è anche un piccolo pretesto, un modo per riavvicinarsi agli altri anche quando ormai sono già andati via. La narrazione è secca, spontanea, ma allo stesso tempo dolce e commovente, con la capacità di poter affrontare con leggerezza, senza cadere nel banale, temi dolorosi e profondi, creando personaggi umani, sfaccettati, ricchi di vulnerabilità e difetti.

Ci si chiede a quale pro dover affrontare un viaggio nel proprio passato se poi non è possibile cambiarne il destino: una cosa è certa, è molto difficile rassegnarsi all’idea che il passato non possa cambiare. Quando ognuno affronta i problemi da solo, non si riesce ad accettare un possibile fallimento, magari causati da una parola di troppo, di qualcosa detta fuori posto, di sentimenti e pensieri nascosti nel proprio intimo. Proprio per questo, l’intervento e l’aiuto di altre persone nella vita sono la chiave per superare i rimpianti.

Kawaguchi è consapevole del fatto che è davvero difficile immaginare che siano gli altri la nostra ancora di salvezza, soprattutto in un periodo così attuale in cui è sempre più raro e difficile stare vicini. La vita è piena di fallimenti, battute d’arresto e rimpianti, ma è fermamente convinto che tutti possano essere salvati con l’aiuto degli altri.

Ci vediamo per un caffè è un romanzo di conquista, capace di catturare l’attenzione e tener ancorato il lettore alla scoperta di vite di tutti i giorni. Un viaggio che supera i confini della realtà, toccando le vette della magia, che trasmette serenità e spensieratezza, tipica dell’atmosfera narrativa giapponese nata sotto profumati fiori di ciliegio. Certo, una lettura perfetta per godersi la bellezza sfuggente della primavera appena inoltrata.

 

Victoria Calvo