Aspettando Sanremo: la storia di sette insoliti vincitori

Finalmente il Festival di Sanremo è alle porte, è l’aria si riempie già di frenesia e musica, in attesa di sentire i 30 artisti che calcheranno il palcoscenico della 74° edizione della kermesse più attesa d’Italia. Nel corso della storia sono state tantissime le canzoni vincitrici che hanno fatto successo e segnato la storia dell’immaginario musicale italiano, ma sono altrettante le canzoni che sono state meteore, vincitrici subito cadute nel dimenticatoio collettivo.

E noi, nel nostro piccolo, vogliamo ripercorrere la storia del Festival di Sanremo, scegliendo sette brani, uno per decennio, alternati tra canzoni più celebri ad alcune chicche di nicchia.

Sanremo 1951/1959: Modugno – Piove (ciao ciao bambina) (1959)

Il primo decennio del Festival di Sanremo viene caratterizzato dalla presenza di canzoni che si rifanno alla musica lirica della tradizione italiana. Infatti, i protagonisti sono per lo più cantanti dalla voce possente e da canzoni tristi dai toni i drammatici ma, per questo decennio, la scelta ricade su quello che potrebbe definirsi il fautore di un nuovo modo di fare musica, più leggera e melodica, stiamo parlando dell’intramontabile Domenico Modugno. Già vincitore nel 1958 con la famosa nel Blu dipinto di blu, vince anche l’anno successivo con Piove (ciao ciao bambina), sempre in coppia con Johnny Dorelli. La canzone in gara parla di un amore al capolinea dove, nonostante il sentimento sia forte, non si può che fare altro che dirsi addio.

Come una fiaba, l’amore passa:C’era una volta poi non c’è più

Canzone commovente che fa ancora scendere parecchie lacrime.

Sanremo 1960/1969: Sergio Endrigo – Canzone per te (1968)

Per gli anni ’60, più precisamente per gli anni della Rivoluzione, la scelta è caduta su Sergio Endrigo e la sua Canzone per te. Il brano portato Sanremo e, accompagnato da Roberto Carlos, ci parla, con toni struggenti, di una storia d’amore finita ma dove il sentimento resiste.

È stato tanto grande e ormai non sa morire

Anche qui, nonostante la poco profondità del testo, ci lascia con l’amaro in bocca e con la tristezza nel cuore.

Sanremo 1970/1979: Peppino di capri – Un grande amore e niente più (1973)

Negli anni del boom economico e, come amava definirli Pasolini, gli anni del neo-edonismo consumistico, dove l’Italia andava via via perdendo la propria identità culturale a favore di uniformazione di massa, Sanremo si mantiene sempre vivo e uguale, con un unico comune denominatore: è sempre l’amore a trionfare. Quell’amore cantato in tutte le sue sfaccettature, così la scelta è caduta su una poesia tenue, leggera che ti sfiora la pelle ed è Un grande amore e niente più di Peppino di Capri. Anche qui non è andata proprio bene, ma è il racconto di quel tempo d’amore vissuto a pieno, tra ricordi teneri e struggenti che, una volta andati, non tornano più.

Ma non risale l’acqua di un fiumeE nemmeno il tuo amore ritorna da me

 

Sanremo 1980/1989: Tiziana Rivale – Sarà quel che sarà  (1983)

Spesso confusa con la più famosa Che sarà dei Ricchi e Poveri, è il grido di un amore che nonostante le innumerevoli difficoltà che la vita possa porci davanti, tra cui l’incertezza del futuro, si ha la consapevolezza che è l’altro il fattore salvifico e che, nonostante tutto, bisogna saper prendere l’amore per come è, senza idealizzazioni.

Se anche l’acqua poi andasse all’insù
Ci crederei perché ci credi anche tu
Una storia siamo noi
Con i miei problemi e i tuoi
Che risolveremo e poi

Il brano appena descritto è di Tiziana Rivale, vincitrice dell’edizione del 1983, con questa canzone purtroppo poco conosciuta e ancor di più lei, un’altra meteora del panorama musicale italiano.

Sanremo 1990/1999: Riccardo Cocciante – Se stiamo insieme ci sarà un perché (1991)

Cosa succede quando Riccardo Cocciante incontra un pianoforte? Nasce poesia!

Se stiamo insieme ci sarà un perché, ci racconta di quell’amore vissuto, dove ad un certo punto tutto sembra logorarsi, in quel momento in cui ci si scorda perché si sta insieme, in cui è necessario riscoprirsi e riscoprire, per non lasciare morire quel fiore. E Cocciante ci ricorda che al lasciare morire quel sogno sognato insieme, c’è sempre un’altra via fatta di dialogo, cura e tanta pazienza.

Non è quel sogno che sognavamo insieme, fa piangereEppure io non credo questa sia l’unica via per noi

 

 

Sanremo 2000/2009: Giò di Tonno e Lola Ponce – Colpo di fulmine (2008)

Da molti considerata una delle canzone vincitrici più brutte di sempre, cantata dai protagonisti dello spettacolo  Notre-Dame de Paris, scritto da Luc Plamondon con le musiche di Riccardo Cocciante. Con questo brano, cantato appunto da Giò di Tonno (Quasimodo) e Lola Ponce (Esmeralda), veniamo riportati ad una musica più scenica, più teatrale, che ci apre alla potenza dell’amore, fulmine a ciel sereno che si abbatte furioso su di noi e che ci fa vivere, a volte, in una favola che sembra non finire mai

D’amore e d’incoscienzaPrendimi sotto la pioggiaStringimi sotto la pioggiaLa vita ti darò

 

Sanremo 2010/2019: Roberto Vecchioni – Chiamami ancora amore (2011)

La classe non è acqua, lo sa di certo l’edizione del Festival di Sanremo del 2011, che ha visto calcare e trionfare una delle divinità della musica cantautoriale italiana, il grande prof. Roberto Vecchioni. Chiamami ancora amore è una preghiera all’umanità, ricordandoci che  è l’amore a renderci umani e che non bisogna mai avere paura di amare e di lottare per ciò che si ama, che sia una persona, un pensiero o per la vita in sé. 

Chiamami sempre amoreIn questo disperato sognoTra il silenzio e il tuonoDifendi questa umanitàAnche restasse un solo uomo

Sanremo 2020/2023: Diodato – Fai Rumore (2020)

Nell’anno che segna un cambiamento epocale, in cui tutto il mondo si è fermato nel silenzio più assoluto, è stato il “Rumore” di Diodato a riecheggiare, colpendo dritto al cuore di ognuno di noi. Il brano scritto è una carezza che riconcilia l’anima, un rumore che diventa musica e ci scalda il cuore, quel rumore prodotto nella nostra vita dalla persona amata, perché possiamo finalmente guardare negli occhi quel qualcuno e dirgli:

E non ne voglio fare a meno oramai
Di quel bellissimo rumore che fai

 

Chiudiamo così questo Aspettando Sanremo, con la voce di Diodato che ci accompagna nel rumore della quotidianità. 

Gaetano Aspa

Precedi e procedi. La filosofia di Past Lives

Past Lives è un esordio sorprendente. Voto UVM 4/5

Past Lives è il primo film della regista sudcoreana Celine Song, candidato a cinque Golden Globes e a due premi Oscar, come miglior film, accanto a grandi pellicole quali Killers of the flower moon e Oppenheimer, e miglior sceneggiatura originale. Il film racconta tramite la personale esperienza da emigrata della stessa regista, una storia alternativa e diversa da quello che definiamo oggi un cliché.
Attuale e molto moderno, Past Lives apre le porte a una serie di interpretazioni per il pubblico, in modo tale da creare la giusta atmosfera e forse anche un po’ di suspense. In maniera intraprendente e originale, si percepisce fin da subito come l’obiettivo principale sia probabilmente quello di non risultare banale e scontato.

Past lives: “Ciao…”

Almeno una volta nella vita è capitato a tutti noi di chiedersi cosa voglia significare veramente dirsi “ciao”. Past lives ci offre qualche prospettiva in più: il tempo passa, si cresce, si fa spazio alle esperienze, ma il passato è qualcosa di ancorato a noi. Ci insegue, a volte si nasconde, altre invece torna quando meno te lo aspetti. Paradossalmente sembra di vivere numerose esistenze, perché la metamorfosi della vita non appartiene solo a noi come soggetti, ma anche a ciò che circonda.
Il film si presenta inizialmente come un inno alla memoria che cancella, ma ricorda che per natura noi individui siamo insistenti. L’ovvietà è data dalla condizione che vivere nel passato non è fattibile e, dunque, bisogna avere il coraggio di voltare pagina.

Past lives: in-yun

Past lives è un film d’amore, ma non del tutto e diverso da quello che si è abituati a vedere.
La protagonista Nora (Greta Lee) utilizza un termine coreano, ovvero “In-yun” , letteralmente “destino” o “provvidenza”, per spiegarci in breve la connessione instaurata tra persone e cose nel corso della vita. Una parola che può manifestarsi nel momento in cui due persone si scontrano e si sfiorano per strada, rappresentando così l’esistenza passata di un rapporto tra i due.
Una pellicola che abbraccia sicuramente la malinconia raccontandoci una storia che inizia tra i banchi di scuola a Seoul e che purtroppo è destinata a mettere non un punto, ma un punto e virgola.

Past lives
© CJ ENM

Un tanto atteso rendez-vous tra due persone che ormai sono adulte ma che in qualche modo, nonostante la distanza e il modo di approcciarsi alla vita, li spinge a cercarsi a vicenda. Nora (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo) ormai hanno vite diverse, ciò che li accomuna sembrano essere solo le loro origini, il resto è cambiato, tranne il bene che provano l’una per l’altra malgrado gli anni passati senza vedersi, toccarsi e parlarsi.
Il rincorrersi e rivedersi dopo anni permette loro di confrontarsi su ciò che sarebbe potuto accadere se le cose fossero andate in maniera diversa. Un dialogo faccia a faccia permette loro di porsi delle domande; dopo una giusta riflessione e l’ascolto reciproco di entrambi, i due si lasciano nuovamente alle loro vite.

Accettare per superare

Past lives
© CJ ENM

Il messaggio finale di questa storia che si chiude con le note di “Quiet eyes” di Sharon Van Etten, non è per forza una triste realtà. Più precisamente la chiave di lettura va colta nell’accettazione per qualcosa o qualcuno che ormai è andato.
La fine non è indice di un’eclissi bensì la possibilità di una serie di inizi infiniti in cui noi, come individui, ci scontriamo casualmente; questo racconto non serve a rendere il pubblico appagato per l’ennesimo lieto fine, ma forse a cercare di renderci consapevoli del fatto che è necessario accettare il presente ed il passato, vivendo quasi in simbiosi con entrambi. Accettare questo è il primo passo per andare avanti senza dimenticare le vite passate.

Asia Origlia

La città sull’acqua

Era la città sul mare,

non aveva un nome

se non quello della nave

 

Era di strade galleggianti fatta

si ballava, si beveva e si mangiava

ondeggiando sulla marea più alta

 

Era la città sull’acqua,

non esisteva nulla intorno

nemmeno un’isola di terra astratta

 

Era piccola in confronto a qualunque ammiraglia

tredici piani all’interno tra la prua e la poppa,

gonfiava le sue vele immaginarie all’aria

e danzava sull’oceano di tappa in tappa

 

Una sinfonia sciabordante di schiuma

lascia una scia che si vede dall’alto

mille e una notte trascorrei dondolando

su una città che di sale profuma

 

Alessandra Cutrupia

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Fino a che punto ci si spinge per essere amati? Tanizaki e la sua Croce Buddista

La Croce Buddista: il dramma di un amore distruttivo e distruttore. Voto UVM – 4/5

 

Regione del Kantō, Giappone, annus horribilis 1923. Un devastante sisma di magnitudo 7,9 della scala Richter devasta Tokyo, Yokohama e tutte le restanti prefetture della regione. Uno scrittore trentasettenne ribelle ed ex enfant prodige ormai precipitato in un’infinita spirale di dissolutezza e disagio chiamato Tanizaki Jun’ichirō (rispettando l’onomastica giapponese il cognome precede sempre il nome) si vede obbligato a rifugiarsi a Osaka, nella regione del Kansai, per provare a ricostruire la sua vita già in pezzi e ulteriormente polverizzata dal sisma. È dall’incrocio di questa tragedia col dramma di Tanizaki che La Croce Buddista prende forma come romanzo a puntate nel 1928 per poi giungere ai lettori italiani attraverso i tipi di Guanda e grazie alla brillante traduzione di Lydia Origlia nel 1999.

“Oggi sono venuta a trovarla, Maestro, con l’intenzione di narrarle ogni cosa”

Esordisce così sul punto di piangere Sonoko, protagonista dell’opera, d’innanzi al suo stimato Maestro; ha finalmente deciso di rompere il silenzio sull’incredibile storia di come la sua vita e il suo matrimonio sono andati in frantumi. Il titolo originale de La Croce Buddista è 卍 (manji) e a partire dal simbolo della croce uncinata, tristemente noto in Occidente per gli orrori del Terzo Reich ma importante nella cultura buddista in quanto simbolo di pace e armonia, Tanizaki intesse attraverso le sue quattro braccia altrettante relazioni d’amore morboso tutte riconducibili a un unico e folle centro: la seducente Mitsuko.

Scrittura in calligrafia giapponese del carattere “manji”

Una rete di bugie non ci salverà

Il fil rouge dell’intera opera è la dipendenza. Un’emozione funesta, manifestazione di un amore crudele e “intarsiato di segreti” orchestrato da Mistuko in una rete di bugie che non fa altro che auto-alimentarsi. L’infedeltà nell’opera nasce dal pettegolezzo; Sonoko è felicemente sposata con Kotaro e frequenta con regolarità e dedizione un’accademia d’arte femminile. Il quieto vivere della donna è funestato da una voce di corridoio che la vedrebbe protagonista di una relazione saffica con la giovane compagna Mitsuko. Le due non si conoscono ma sodalizzano sino a rendere il pettegolezzo realtà. La menzogna diviene lungo tutto il romanzo un elemento multiforme, e il suo confine con la verità è reso impalpabile dalla disobbediente penna di Tanizaki.

L’intreccio dell’opera è complesso, anzi complessissimo, la narrazione di Sonoko è febbricitante ma impeccabile nella cura del dettaglio; porta con sé documenti, scritti e carteggi che rendono l’intero racconto una paradossale indagine sul desiderio umano di essere amati a tutti i costi.

Tanizaki Jun’ichirō

Come l’amore può distruggerci

“Certamente si divertiva solo per vanità ad accaparrarsi l’amore che riservavo a mio marito […] lei aveva potuto indovinare il mio punto debole: benché mi chiamasse «sorella maggiore», avevo finito con l’agire come una premurosa e sottomessa sorella minore”

“Sorella maggiore”, è così che Mitsuko si riferisce a Sonoko; con un termine usato nella cultura omossessuale nipponica per indicare l’individuo dominante all’interno di una coppia. La giovane amante nascondendosi dietro la conveniente etichetta di “sorella minore” regala alla narratrice una sensazione prima d’imbarazzo e poi di lusinga che muterà in un’irrefrenabile rabbia quando la più grande menzogna di Mitsuko verrà scoperta (o forse rivelata come estremo segno di onnipotenza?).

La Croce Buddista è un romanzo notturno di un sole di mezzanotte che non teme di nascondere la verità lì dove è più che visibile. Prende per mano il lettore trascinandolo in una serie infinita d’intrighi dal tipico gusto nipponico. Le note della traduttrice, puntuali ma non prolisse, illuminano e districano i riferimenti culturali più complessi rendendo il romanzo di Tanizaki godibile ad un pubblico che va ben oltre quello degli appassionati della cultura del Sol Levante.

Giuseppe Cangemi

Si può vivere un amore distanti? La teoria di Tondelli sulle “Camere separate”

Camere separate districa il confuso intreccio che è l’amore tra Leo e Thomas in un modo che non potrà che incantare chi lo legge! Voto UVM: 5/5

 

È il 1989 quando Pier Vittorio Tondelli manda in stampa per Bompiani Camere separate, il suo ultimo romanzo e testamento spirituale. Morirà soltanto due anni più tardi, a soli 36 anni, a causa dell’AIDS.

Il protagonista, Leo, è per certi versi l’alter ego dello stesso Tondelli, sebbene l’autore non abbia mai dichiaratamente parlato delle sue relazioni. Camere separate racconta di un amore tragico tra due giovani legati dal binomio amor-mors fondamentale nell’ars scribendi. Leo, uno scrittore trentenne, è alle prese con l’elaborazione del lutto di Thomas, un giovane musicista; il libro inizia con la notizia della morte del giovane amante e da lì parte per ripercorrere la storia di un amore folle diviso in tre “movimenti”.

Pier Vittorio Tondelli. Fonte: Mondadori Portfolio

Camere separate: amore a piccole dosi

Siamo di fronte a due uomini che girano il mondo e vivono il loro amore in “camere separate”, sempre lontani, incontrandosi ora qua ora là in giro per l’Europa. In particolare Leo, per quanto provi un amore bruciante per Thomas, si lascia sempre una via di scampo, vivendo giorni di passione con l’amante per poi sparire nuovamente a migliaia di chilometri di distanza.

Eppure, Jeanette Winterson nel suo Scritto sul corpo diceva “Perché è la perdita la dimensione dell’amore?” Leo è distrutto quando scopre della morte dell’amante nonostante fosse lo stesso che voleva sapere di potere fuggire da lui. Eppure, non ha più via di scelta: il giovane amante è morto.

“Abbiamo bisogno di molto tempo per accettare la brutalità del fatto di non essere più soli.”

Leo vive in una relazione, ma vive comunque una solitaria vita in questa o in quella città d’Europa. Ma per vivere ciò bisogna essere in due a volerlo… e a Thomas non andava più bene essere la parentesi di passione in mezzo a una vita di tempesta, lui aveva bisogno di un amore che fosse presenza.

Camere separate
Citazione da “Camere separate” di Pier Vittorio Tondelli

Vivere per eccessi, vivere un romanzo

“Tu mi vuoi tenere lontano per potermi scrivere. Se io vivessi con te, non scriveresti le tue lettere. E non mi potresti pensare come un personaggio della tua messinscena. […] C’è una voracità, che hai con le persone che ti vivono intorno, che mi spaventa.”

Per Leo la vita deve essere adrenalina, così da potere essere scritta e poter diventare romanzo, assumendo così un atteggiamento di smodato egoismo nei confronti del compagno, che desiderava soltanto amare ed essere riamato.

Il romanzo torna anche come citazione nella scena indie italiana grazie al gruppo Le Luci Della Centrale Elettrica, che nel brano Cara catastrofe canta “Che poi ci metteremo a tremare come la California, amore, nelle nostre camere separate/ A inchiodare le stelle/ A dichiarare guerre/ A scrivere sui muri che mi pensi raramente.” 

E quando si arriverà  alla fine della lettura di Camere separate probabilmente la domanda sarà: “ma è davvero una relazione?”. Le risposte potrebbero essere delle più diverse tra loro, ma è bello pensare che l’amore possa avere tante forme e tante modalità e che quindi il concetto di “camere separate” possa per alcuni essere assurdo e per altri la quotidianità. Credo che però il cuore della faccenda stia in una frase scritta da Tondelli nel libro:

“Nessuno può tenere distanti due persone che si appartengono”.

Camere separate è un turbine travolgente, uno zoom sulla vita di un solitario amante che fa arrabbiare il lettore e che fa parteggiare ora per l’uno ora per l’altro giovane, finendo con la vittoria dell’unica e ineluttabile morte.

Giulia Cavallaro

I Subsonica sbarcano sulla terra e nasce “Realtà Aumentata”

uvm 4 stelle
Le sonorità del rock elettronico dei Subsonica si scontrano con i grandi temi dell’attualità come disastri umanitari, catastrofi climatiche e guerre. – Voto UVM: 4/5

 

Non sono tempi semplici quelli in cui viviamo, lo sappiamo tutti: su di noi incombono numerose ombre come quella della crisi climatica e delle guerre in corso, solo per citarne qualcuna. Per non parlare poi di tutti quei temi ed eventi che scaldano  e polarizzano l’opinione pubblica, in particolar modo quella italiana (il verso d’apertura del disco recita In un covo di rancore, ben descrivendo il contesto socio-culturale italiano di oggi), come immigrazione, calo demografico, carovita e perdita del senso di comunità.

Sono sempre più numerosi gli artisti che, giustamente, sentono l’urgenza di parlare di attualità. Non è più possibile contenersi, la cronaca travalica i confini dei media e travolge così i suoni e le parole dei dischi, come Realtà aumentata. Ed effettivamente, rispetto al ’96, anno di formazione dei Subsonica, la realtà è davvero “aumentata” e non è più possibile abitarla come si vuole, è lei che abita noi: “la realtà è aumentata quando l’utopia si è arresa”, scrivono in Africa su Marte.

La band, nata all’ombra del quartiere Murazzi di Torino, storico epicentro piemontese di subculture e correnti artistico-musicali d’avanguardia, ha sicuramente avvertito questo passaggio d’epoca.
Dalle sperimentazioni di Mentale Strumentale, i Subsonica decidono di ritornare sui loro passi con un progetto uniforme che ricorda i lavori delle origini lasciando però spazio alla scorrevolezza del mainstream, un’unione che fu proprio da loro consacrata all’inizio degli anni 2000. 

Esplorazione e composizione musicale

Si torna a essere “esploratori nel proprio pianeta“: così si definiscono Samuel (voce e chitarra), Casacci (chitarra), Boosta (tastiere), Ninja (batteria) e Vicio (basso) nella presentazione all’album che pubblicano sul profilo Instagram della band.

La cover (realizzata dal designer Marino Capitanio) ritrae infatti un astronauta (o meglio un “afronauta” come scrivono in Africa su Marte) intento a percorrere il pianeta Terra ed assorbirne le vibrazioni da trasformare in prodotti sonici.

La tensione dello sbarco è ben rappresentata dal brano d’apertura Cani umani, i cui ritmi elettronici sincopati descrivono la disumanizzazione dei nostri tempi dove orrore e terrore sono a portata di click. Segue Mattino di Luce (terzo singolo estratto), un incontro fra synthwave retro e sonorità cosmiche che pone in parallelo eventi astronomici come la formazione di stelle da nebulose con la liberazione di se stessi dalle gabbie del conformismo.

In Pugno di Sabbia (primo singolo estratto) è chiaro il riferimento al trattamento riservato dalle istituzioni nei confronti delle seconde generazioni di immigrati regolari (vittime del loro passato e privati della possibilità di costruirsi un futuro):

“Non sono i cani di razza che
Urlano in piazza gridando che
Qui c’è un passato che non passa mai
Ed un futuro che non troverai”

Ritorna il tema in Nessuna colpa, dove l’invettiva non solo si fa più critica ma diventa una vera e propria accusa nei confronti del governo ritenuto responsabile delle stragi di migranti in mare:

“Se il mare affonda nella gola di un bambino
Se nello specchio si nasconde l’assassino
E in fondo quella presunzione tossica
Di essere eterni come solo la plastica
Conquistatori senza sensi di colpa
Neanche una volta, neanche una volta”

Ma in mezzo a temi così divisivi c’è anche spazio per l’emotività e i sentimenti: Universo è la vera gemma dell’album, una sapiente composizione di tastiere, archi, riverberi e viaggi cosmici.

La docile rassegnazione dei Subsonica

In alcuni momenti del disco gli elevati bpm lasciano spazio anche a commoventi ballads come Missili e droni. Proprio in canzoni come questa le parole vengono sfruttate per esprimere quella naturale rassegnazione e percezione di piccolezza di sé rispetto agli eventi del mondo:

“Vorrei dissolvermi
In giorni pacifici”

L’album si chiude infine sulle note di Adagio. Quest’ultima, un calmo epilogo di ripetute tastiere distorte e parte della colonna sonora dell’omonimo film di Stefano Solima.

E con queste sonorità soffuse si chiude un lavoro che probabilmente rappresenterà uno dei migliori dischi italiani dell’anno. Con Realtà Aumentata si ha davanti un disco musicalmente uniforme, in grado di portarci in diverse dimensioni sonore e tematiche. E in fondo questo i Subsonica l’hanno sempre fatto.

 

Francesco D’Anna

Intervista a Marco Bellocchio: maestro del cinema italiano moderno

Dagli studi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, alla sua attenzione sul vasto promontorio
della narratività intermediale. È una lunga storia quella del regista italiano Marco Bellocchio che lo scorso 7 dicembre ‘23 ha ricevuto, nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università degli Studi di Messina, il Dottorato Honoris Causa in Scienze Cognitive, curriculum “Teorie e tecnologie sociali, territoriali, dei media e delle arti performative”. Durante la cerimonia, la laudatio tenuta dal professore di Storia del cinema, Federico Vitella, si è rivelata un ottimo modo per ripercorrere nel dettaglio la lunga ed affascinante carriera del regista:

“Abbiamo l’onore di consegnare il dottorato al più grande regista italiano vivente. Esponente del nuovo cinema italiano degli anni Sessanta ha saputo rinnovare l’arte cinematografica, svecchiandone la narrazione e spalancando le porte al cinema moderno”.

Sono state queste alcune delle parole pronunciate dal professore nel presentare minuziosamente la figura di Bellocchio. Difatti, per quanto il cinema moderno abbia provato a sottrarsi alla narratività, l’ha solamente resa più multiforme, ramificata e complessa. E la filmografia di Marco Bellocchio ne è la prova. Proprio lui che nel corso della sua carriera si è spesso trovato a fare i conti con la letteratura, in particolar modo con quella del ‘900, è stato capace di coniugare organicamente, nella sua cinematografia, i due modi del racconto scritturale: il mostrare e il raccontare. Un vero e proprio rinnovatore della forma, proprio come i suoi maestri. E noi di UniVersoMe non potevamo farci scappare l’occasione di conoscere un po’ più da vicino uno dei più grandi autori della storia del cinema italiano!

Bellocchio
Domenico Leonello intervista il regista italiano Marco Bellocchio. @ Ilaria Denaro


Dott. Marco Bellocchio, durante la sua Lectio Doctoralis ha citato autori che, come lei, hanno fatto la
storia del cinema. Ha parlato di espressionismo tedesco, di realismo francese. Ma da quale corrente cinematografica o, meglio, da quale autore lei sente di aver appreso di più?

È passato molto tempo. Io parlo della mia formazione. A quei tempi l’espressionismo tedesco o il grande
cinema sovietico avevano dei risultati straordinari. Naturalmente da quel momento ad oggi sono passati dei
grandissimi maestri. Si pensi ad Antonioni, a Fellini, a Rossellini o a Ferreri. Tutti grandi registi italiani che mi hanno condizionato. Si pensi anche al rapporto con Bernardo Bertolucci. Insomma, una lunga storia!

Immagino anche i principali autori della Nouvelle Vague: Godard e Truffaut. Come ricordava il professore di Storia del cinema, Federico Vitella, sono stati loro i primi a “tagliare i ponti” con il “cinéma de papa”, il “cinema di papà”.

La Nouvelle Vague è stata molto importante. Erano gli anni in cui io frequentavo il Centro Sperimentale di
Cinematografia di Roma. E loro, Godard, Truffaut, Chabrol e René, erano i grandi rinnovatori della forma!
In questo senso si, anche questi maestri sono stati sicuramente preziosi, utili, nel mio lavoro.

Nella sua laudatio, il professore di Storia del cinema, Federico Vitella, ha ricordato il modo in cui lei si è destreggiato nel mondo dell’intermedialità, della transmedialità e della virtualità. Restando, dunque, sempre nel campo delle “narrazioni espanse”, qual è la sua opinione sugli adattamenti cinematografici?

Sicuramente tutto quello che lei ha citato entra nel cinema e chiunque faccia cinema ne può essere
arricchito. Noi oggi usiamo tutte queste nuove tecniche che, in fondo, entrano naturalmente nella nostra
immaginazione e, di conseguenza, finiamo per ritrovarle anche nelle risposte che noi stessi diamo. In
passato, ad esempio, quando ho iniziato, non esisteva il discorso sul repertorio. Adesso invece i vari tipi di
immagini possono combinarsi, possono fondersi, e diventare un racconto del tutto nuovo.

Cosa consiglia ai giovani che desiderano intraprendere la sua stessa carriera o, comunque, entrare nel fantastico mondo del cinema?

(Sorride) Non so! È impossibile dare una risposta. Potrei farlo con qualcuno che conosco, di cui ho visto
qualcosa. Ma così, genericamente, io non posso dare una risposta poiché sarebbe del tutto superficiale.


Domenico Leonello

Caporedattore UniVersoMe


*Articolo pubblicato il 21/12/2023 sull’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud

Scavo limbico

Leggerti è stato difficile

Una mente violata come una capsula del tempo 

Sepolta in giardino.

Ma non ti diseppellirò più

perché il passato merita il silenzio 

anche se le chete grida dei tuoi ricordi 

Si fanno sentire.

                  

               Carla Mascianà

Club Dogo, i capi sono tornati a casa!

Un album che letteralmente urla “Siamo Tornati Zio” – Voto UVM: 5/5

Come ci hanno lasciato i Club Dogo?

Sarebbe stato facile dire, fino a qualche anno fa, che non avremmo più sentito parlare del trio musicale più famoso di Milano, dopo Non siamo più quelli di Mi Fist. Titolo che suona come un epitaffio, un album che rivela l’evoluzione finale dei Club Dogo, collettivo che nel tempo gradualmente perdeva il suo scopo. In 13 anni si sono appollaiati sugli allori, sapendo di essere i migliori hanno deciso di dare il loro peggio per guadagnare di più, ed è cosi che dalle importanti Cronache di Resistenza (Mi Fist) siamo passati a Minc*ia Boh!

Tuttavia anche perdendo il peso liricistico, sono diventati con gli anni un simbolo del gangsta/coca rap italiano, dove alla denuncia sociale si sostituiva l’esaltazione dell’alcool, delle discoteche, dei soldi e la musica da club e da piazza.

Cover di “Club Dogo”. Casa discografica: Universal Music Italia Srl

La speranza è l’ultima a morire

Nel 2015 si è chiusa anche quella fase con un’apparente rottura tra i tre membri dei Club Dogo, di cui si sa tutt’ora molto poco. Rimane un dato di fatto che da allora non abbiamo mai assistito a un lavoro che contenesse tutti e tre i membri insieme. Eppure dopo tanto silenzio, tra interviste e citazioni nei pezzi, è venuto fuori che effettivamente l’affetto e la stima erano ancora vivi tra Guè Pequeño (Cosimo Fini), Jake La Furia (Francesco Vigorelli) e Don Joe (Luigi Florio).

In un’intervista di un paio di anni fa scopriamo che Jake ha sempre voluto tornare a lavorare con entrambi insieme ma a patto che fosse per riportare effettivamente il gruppo in gioco. Inoltre esigeva che fosse fatto per conto del gruppo e non sul disco di qualcun altro. A detta sua, Guè, che ha preso molto seriamente la sua carriera solista negli anni dopo l’ultimo lavoro fatto insieme, lo aveva contattato per farlo comparire nei suoi lavori personali, e ha sempre rifiutato. Fortunatamente questo fatto non è stato ragione di astio fra i due. Anzi è stato il meccanismo di riflessione che ha portato all’attesissimo ritorno del 2024 dei Club Dogo.

Come siamo arrivati a questo punto?

Guè ha avuto alti e bassi dal 2015 fino ad ora, iniziando la sua carriera solista quando i Dogo erano ancora insieme. La sua anima da rapper megalomane, rimasta ancora nei primi lavori (Il Ragazzo d’Oro, Vero) ha conosciuto l’avvento della trap, mutandosi in modo non molto decente in quella di un trapper di mezza età (se mi sentisse mi insulterebbe la madre), evento visibile in Sinatra e Gelida Estate EP. Ma ha anche ritrovato qualità e decenza con gli ultimi lavori (Mr.Fini, Fastlife 4, Gvesus, Madreperla) e con apparizioni in dischi di altri artisti e producers.

Jake, dal canto suo, subito dopo lo ‘scioglimento’ si è buttato sul commerciale in qualsiasi modo possibile, cimentandosi in qualsiasi stile andasse di moda in quel periodo. Addirittura è riuscito a fare lavori reggaeton e da discoteche in spiaggia, causando l’amarezza dei fan di una vita. Soltanto nell’ultimo paio di anni sembra essersi stancato di essere usato per i balletti su TikTok, tornando prima con un joint-album con Emis Killa (17) che fa tirare un sospiro di sollievo agli amanti del rap, e poi con un disco solista molto carino: Ferro del mestiere. Quest’ultimo segna il suo ritorno alle rime e alle barre hip-hop.

Infine Don Joe tra silenzi e sporadiche produzioni personali, si è reso artefice di diverse produzioni per tantissimi artisti della scena rap old e new-school e anche di quella pop italiana, ma più recentemente un producer album molto bello: Milano Soprano.

I Dogo durante una sessione di registrazione del nuovo album.

Come li ritroviamo adesso?

L’annuncio è arrivato completamente dal nulla, avevamo smesso tutti di pensarci e sperarci, ma è arrivato nel momento più ideale delle carriere dei tre membri. Tutti e tre hanno solo in testa l’hip-hop, le basi vecchia scuola col boom-bap, gli scratches, e l’autoreferenzialità. I Dogo si sentono i supereroi del rap, direttamente da Milano per l’intera Italia, tanto che prima ancora dell’album, la campagna pubblicitaria si è rivelata iconica e demenziale al punto giusto. Testimone il simpatico sketch con Claudio Santamaria e Beppe Sala.

“Club Dogo”, come suona?

L’album Club Dogo si presenta come un decentissimo ritorno, praticamente tendente ai primi album come Mi Fist o Penna Capitale. Manca purtroppo il peso sociale di quegli album ma compensa con l’attitudine e il volersi riportare al proprio posto nell’Olimpo del genere in Italia. E’ la conseguenza diretta dei diversi stili evoluti dei membri del gruppo. Sovverte completamente l’album con cui ci hanno lasciato nel 2015 e probabilmente anche quei due-tre prima di lui. I temi sono principalmente di critica al rap odierno, fatta anche con molto divertimento e ironia. I featuring sono ben selezionati, Marracash, Elodie e anche Sfera Ebbasta, hanno scritto strofe e ritornelli azzeccati per l’occasione.

A primo ascolto potrebbe sembrare un album un po’ piatto dove ogni canzone sembra quasi sullo stesso piano, senza una canzone che spicchi. Serve tuttavia almeno un altro ascolto per discernere bene la qualità di ogni singola traccia. Le prime quattro soprattutto, sono quelle che danno una botta di nostalgia difficile da gestire all’ascoltatore dogofiero storico. Un’altra di queste è Tu Non Sei Lei, la traccia più scura, sorprendente sia per il lavoro strumentale di Don Joe, sia per il tema. Una canzone che parla di amore marcio paragonato al male delle droghe pesanti.

“Club Dogo”, il come-back di Milano con la ‘M’ maiuscola

Una caratteristica molto particolare di questo album è che non ha tracce da radio. Incredibile a dirsi, anche i pezzi con i featuring non hanno un sound commerciale. Certo potrebbero essere passati in radio, ma mai come i loro pezzi più famosi e cantati. Questo non vuol dire che sia un brutto album, ma anzi che sia un disco ben mirato. Di sicuro è mancato poter ballare su una canzone come Pes, anche se King Of the Jungle si avvicina molto a quelle vibes estive e reggae.

E’ un disco che ha un target e uno scopo: è stato scritto per rieducare, per riabituare l’orecchio dell’adolescente al rap di qualità, o comunque davvero di strada (di piazza, nel caso dei Dogo). Ma anche per esaudire tutti noi che li aspettavamo cantando Puro Bogotà.

 

Giovanni Calabrò

André 3000 è tornato ma non è più quello di prima

uvm 4 stelle
L’intenzione dell’artista è quella di “sospenderci” fra le note del suo flauto, alla ricerca di una nostra interpretazione emotiva, senza concentrarci troppo sulla qualità tecnica del lavoro in sé. – Voto UVM: 4/5

 

Dopo 17 anni di silenzio musicale dal rilascio di Idlewild, ultimo album degli OutKast, leggendario duo hip-hop di Atlanta, André 3000 fa il suo debutto da solista con un album new age dove è il flauto a fare da padrone.

Capita molto spesso nel mondo della musica di fare delle previsioni sulle uscite imminenti ma, quando si parla di un nome come quello di André Benjamin (in arte André 3000), è difficile pensare che avrebbe suonato qualcosa non hip-hop. Il duo da cui proviene infatti, gli Outkast, ha dominato la scena a cavallo fra gli anni ’90 e i 2000 con un successo difficile da eguagliare: Stankonia e Speakerboxxx/The Love Below sono fra gli album più venduti nella storia del genere. Oltre ai grandi numeri gli Outkast hanno anche plasmato un’eredità musicale da trasmettere, influenzando numerose generazioni successive di rappers – uno fra tutti, Tyler, the Creator – e aprendo, con il southern hip-hop, un nuovo fronte musicale in una scena che in quegli anni era culturalmente dominata dalla West ed East coast statunitensi.

Eppure, nonostante André 3000 avesse potuto vivere di rendita sulla scorta della fama e del nome creatosi con il compagno Big Boi, ha deciso di imbracciare il flauto e suonare “indisturbato” per le strade di Los Angeles. Da questa esperienza viene fuori New Blue Sun, un album a metà fra l’ambient jazz e la new age, completamente strumentale e realizzato insieme al musicista e produttore Carlos Niño.

Un lavoro di improvvisazione

Come André stesso ha dichiarato, il suo lavoro non nasce da uno studio e da una preparazione metodici. È un flusso di coscienza musicale dove le parole sono sostituite dal suo flauto, accompagnato da altri strumenti come gong, bastoni della pioggia, sintetizzatori, tastiere, violini, la cui organizzazione armonica è affidata al producer Carlos Niño. Persino la lunghezza e i refusi voluti dei titoli delle tracce rendono l’album “non intenzionale”.

Con il brano d’apertura I Swear, I Really Wanted to Make a ‘Rap’ Album but This Is Literally the Way the Wind Blew Me This Time (“Lo giuro, volevo davvero fare un album rap ma questo è letteralmente il modo in cui stavolta sono stato trasportato dal vento”) l’artista sembra quasi volersi giustificare con il suo pubblico per la sua scelta inaspettata, facendo subito intendere quale sarà il leitmotiv dell’intero lavoro, ovvero il flauto. In Ninety Three ‘Till Infinity and Beyoncé, dove la storpiatura della parola “beyond” lascia all’ascoltatore una certa libertà di interpetazione, le sonorità ambient elettroniche di Matthewdavid ci trasportano in un viaggio dai caratteri atavici e un po’ tribali.

Un’accoglienza incerta per André 3000

Non è certamente un album facile da comprendere, André 3000 lo sa bene e non si aspetta di certo un’acclamazione unanime. I critici si sono infatti divisi subito fra chi ci ha visto il coraggio di un artista in fuga dalla fama e alla ricerca della normalità e fra chi invece la solita solfa new age neanche molto ambiziosa. L’intenzione dell’artista non è comunque quella di lanciare un messaggio ben preciso, è più quella di sospenderci fra le note del suo flauto alla ricerca di una nostra interpretazione emotiva, senza concentrarci troppo sulla qualità tecnica del lavoro in sé.

E a chi lamenta il suo mancato ritorno nel mondo dell’hip-hop l’artista ha affermato in un’intervista a GQ (intento a fare il bucato in una lavanderia a gettoni):

Come posso aspettarmi che tu sia
eccitato riguardo a un mio lavoro
se io stesso non lo sono?

 

Francesco D’Anna