Club Dogo, i capi sono tornati a casa!

Un album che letteralmente urla “Siamo Tornati Zio” – Voto UVM: 5/5

Come ci hanno lasciato i Club Dogo?

Sarebbe stato facile dire, fino a qualche anno fa, che non avremmo più sentito parlare del trio musicale più famoso di Milano, dopo Non siamo più quelli di Mi Fist. Titolo che suona come un epitaffio, un album che rivela l’evoluzione finale dei Club Dogo, collettivo che nel tempo gradualmente perdeva il suo scopo. In 13 anni si sono appollaiati sugli allori, sapendo di essere i migliori hanno deciso di dare il loro peggio per guadagnare di più, ed è cosi che dalle importanti Cronache di Resistenza (Mi Fist) siamo passati a Minc*ia Boh!

Tuttavia anche perdendo il peso liricistico, sono diventati con gli anni un simbolo del gangsta/coca rap italiano, dove alla denuncia sociale si sostituiva l’esaltazione dell’alcool, delle discoteche, dei soldi e la musica da club e da piazza.

Cover di “Club Dogo”. Casa discografica: Universal Music Italia Srl

La speranza è l’ultima a morire

Nel 2015 si è chiusa anche quella fase con un’apparente rottura tra i tre membri dei Club Dogo, di cui si sa tutt’ora molto poco. Rimane un dato di fatto che da allora non abbiamo mai assistito a un lavoro che contenesse tutti e tre i membri insieme. Eppure dopo tanto silenzio, tra interviste e citazioni nei pezzi, è venuto fuori che effettivamente l’affetto e la stima erano ancora vivi tra Guè Pequeño (Cosimo Fini), Jake La Furia (Francesco Vigorelli) e Don Joe (Luigi Florio).

In un’intervista di un paio di anni fa scopriamo che Jake ha sempre voluto tornare a lavorare con entrambi insieme ma a patto che fosse per riportare effettivamente il gruppo in gioco. Inoltre esigeva che fosse fatto per conto del gruppo e non sul disco di qualcun altro. A detta sua, Guè, che ha preso molto seriamente la sua carriera solista negli anni dopo l’ultimo lavoro fatto insieme, lo aveva contattato per farlo comparire nei suoi lavori personali, e ha sempre rifiutato. Fortunatamente questo fatto non è stato ragione di astio fra i due. Anzi è stato il meccanismo di riflessione che ha portato all’attesissimo ritorno del 2024 dei Club Dogo.

Come siamo arrivati a questo punto?

Guè ha avuto alti e bassi dal 2015 fino ad ora, iniziando la sua carriera solista quando i Dogo erano ancora insieme. La sua anima da rapper megalomane, rimasta ancora nei primi lavori (Il Ragazzo d’Oro, Vero) ha conosciuto l’avvento della trap, mutandosi in modo non molto decente in quella di un trapper di mezza età (se mi sentisse mi insulterebbe la madre), evento visibile in Sinatra e Gelida Estate EP. Ma ha anche ritrovato qualità e decenza con gli ultimi lavori (Mr.Fini, Fastlife 4, Gvesus, Madreperla) e con apparizioni in dischi di altri artisti e producers.

Jake, dal canto suo, subito dopo lo ‘scioglimento’ si è buttato sul commerciale in qualsiasi modo possibile, cimentandosi in qualsiasi stile andasse di moda in quel periodo. Addirittura è riuscito a fare lavori reggaeton e da discoteche in spiaggia, causando l’amarezza dei fan di una vita. Soltanto nell’ultimo paio di anni sembra essersi stancato di essere usato per i balletti su TikTok, tornando prima con un joint-album con Emis Killa (17) che fa tirare un sospiro di sollievo agli amanti del rap, e poi con un disco solista molto carino: Ferro del mestiere. Quest’ultimo segna il suo ritorno alle rime e alle barre hip-hop.

Infine Don Joe tra silenzi e sporadiche produzioni personali, si è reso artefice di diverse produzioni per tantissimi artisti della scena rap old e new-school e anche di quella pop italiana, ma più recentemente un producer album molto bello: Milano Soprano.

I Dogo durante una sessione di registrazione del nuovo album.

Come li ritroviamo adesso?

L’annuncio è arrivato completamente dal nulla, avevamo smesso tutti di pensarci e sperarci, ma è arrivato nel momento più ideale delle carriere dei tre membri. Tutti e tre hanno solo in testa l’hip-hop, le basi vecchia scuola col boom-bap, gli scratches, e l’autoreferenzialità. I Dogo si sentono i supereroi del rap, direttamente da Milano per l’intera Italia, tanto che prima ancora dell’album, la campagna pubblicitaria si è rivelata iconica e demenziale al punto giusto. Testimone il simpatico sketch con Claudio Santamaria e Beppe Sala.

“Club Dogo”, come suona?

L’album Club Dogo si presenta come un decentissimo ritorno, praticamente tendente ai primi album come Mi Fist o Penna Capitale. Manca purtroppo il peso sociale di quegli album ma compensa con l’attitudine e il volersi riportare al proprio posto nell’Olimpo del genere in Italia. E’ la conseguenza diretta dei diversi stili evoluti dei membri del gruppo. Sovverte completamente l’album con cui ci hanno lasciato nel 2015 e probabilmente anche quei due-tre prima di lui. I temi sono principalmente di critica al rap odierno, fatta anche con molto divertimento e ironia. I featuring sono ben selezionati, Marracash, Elodie e anche Sfera Ebbasta, hanno scritto strofe e ritornelli azzeccati per l’occasione.

A primo ascolto potrebbe sembrare un album un po’ piatto dove ogni canzone sembra quasi sullo stesso piano, senza una canzone che spicchi. Serve tuttavia almeno un altro ascolto per discernere bene la qualità di ogni singola traccia. Le prime quattro soprattutto, sono quelle che danno una botta di nostalgia difficile da gestire all’ascoltatore dogofiero storico. Un’altra di queste è Tu Non Sei Lei, la traccia più scura, sorprendente sia per il lavoro strumentale di Don Joe, sia per il tema. Una canzone che parla di amore marcio paragonato al male delle droghe pesanti.

“Club Dogo”, il come-back di Milano con la ‘M’ maiuscola

Una caratteristica molto particolare di questo album è che non ha tracce da radio. Incredibile a dirsi, anche i pezzi con i featuring non hanno un sound commerciale. Certo potrebbero essere passati in radio, ma mai come i loro pezzi più famosi e cantati. Questo non vuol dire che sia un brutto album, ma anzi che sia un disco ben mirato. Di sicuro è mancato poter ballare su una canzone come Pes, anche se King Of the Jungle si avvicina molto a quelle vibes estive e reggae.

E’ un disco che ha un target e uno scopo: è stato scritto per rieducare, per riabituare l’orecchio dell’adolescente al rap di qualità, o comunque davvero di strada (di piazza, nel caso dei Dogo). Ma anche per esaudire tutti noi che li aspettavamo cantando Puro Bogotà.

 

Giovanni Calabrò

André 3000 è tornato ma non è più quello di prima

uvm 4 stelle
L’intenzione dell’artista è quella di “sospenderci” fra le note del suo flauto, alla ricerca di una nostra interpretazione emotiva, senza concentrarci troppo sulla qualità tecnica del lavoro in sé. – Voto UVM: 4/5

 

Dopo 17 anni di silenzio musicale dal rilascio di Idlewild, ultimo album degli OutKast, leggendario duo hip-hop di Atlanta, André 3000 fa il suo debutto da solista con un album new age dove è il flauto a fare da padrone.

Capita molto spesso nel mondo della musica di fare delle previsioni sulle uscite imminenti ma, quando si parla di un nome come quello di André Benjamin (in arte André 3000), è difficile pensare che avrebbe suonato qualcosa non hip-hop. Il duo da cui proviene infatti, gli Outkast, ha dominato la scena a cavallo fra gli anni ’90 e i 2000 con un successo difficile da eguagliare: Stankonia e Speakerboxxx/The Love Below sono fra gli album più venduti nella storia del genere. Oltre ai grandi numeri gli Outkast hanno anche plasmato un’eredità musicale da trasmettere, influenzando numerose generazioni successive di rappers – uno fra tutti, Tyler, the Creator – e aprendo, con il southern hip-hop, un nuovo fronte musicale in una scena che in quegli anni era culturalmente dominata dalla West ed East coast statunitensi.

Eppure, nonostante André 3000 avesse potuto vivere di rendita sulla scorta della fama e del nome creatosi con il compagno Big Boi, ha deciso di imbracciare il flauto e suonare “indisturbato” per le strade di Los Angeles. Da questa esperienza viene fuori New Blue Sun, un album a metà fra l’ambient jazz e la new age, completamente strumentale e realizzato insieme al musicista e produttore Carlos Niño.

Un lavoro di improvvisazione

Come André stesso ha dichiarato, il suo lavoro non nasce da uno studio e da una preparazione metodici. È un flusso di coscienza musicale dove le parole sono sostituite dal suo flauto, accompagnato da altri strumenti come gong, bastoni della pioggia, sintetizzatori, tastiere, violini, la cui organizzazione armonica è affidata al producer Carlos Niño. Persino la lunghezza e i refusi voluti dei titoli delle tracce rendono l’album “non intenzionale”.

Con il brano d’apertura I Swear, I Really Wanted to Make a ‘Rap’ Album but This Is Literally the Way the Wind Blew Me This Time (“Lo giuro, volevo davvero fare un album rap ma questo è letteralmente il modo in cui stavolta sono stato trasportato dal vento”) l’artista sembra quasi volersi giustificare con il suo pubblico per la sua scelta inaspettata, facendo subito intendere quale sarà il leitmotiv dell’intero lavoro, ovvero il flauto. In Ninety Three ‘Till Infinity and Beyoncé, dove la storpiatura della parola “beyond” lascia all’ascoltatore una certa libertà di interpetazione, le sonorità ambient elettroniche di Matthewdavid ci trasportano in un viaggio dai caratteri atavici e un po’ tribali.

Un’accoglienza incerta per André 3000

Non è certamente un album facile da comprendere, André 3000 lo sa bene e non si aspetta di certo un’acclamazione unanime. I critici si sono infatti divisi subito fra chi ci ha visto il coraggio di un artista in fuga dalla fama e alla ricerca della normalità e fra chi invece la solita solfa new age neanche molto ambiziosa. L’intenzione dell’artista non è comunque quella di lanciare un messaggio ben preciso, è più quella di sospenderci fra le note del suo flauto alla ricerca di una nostra interpretazione emotiva, senza concentrarci troppo sulla qualità tecnica del lavoro in sé.

E a chi lamenta il suo mancato ritorno nel mondo dell’hip-hop l’artista ha affermato in un’intervista a GQ (intento a fare il bucato in una lavanderia a gettoni):

Come posso aspettarmi che tu sia
eccitato riguardo a un mio lavoro
se io stesso non lo sono?

 

Francesco D’Anna

Saltburn: la nuova grande opera di Emerald Fennel

Saltburn
Saltburn, arrivato di recente su Prime Video, sta facendo discutere e ha diviso l’opinione pubblica. Merita una visione. Voto UVM: 4/5

 

Saltburn è un film del 2023 prodotto da Margot Robbie (Babylon) ed è scritto e diretto da Emerald Fennell (Una Donna Promettente). È stato presentato in anteprima a vari Festival del cinema ed è stato poi distribuito direttamente su Prime Video, qualche settimana fa. Nel cast sono presenti Barry Keoghan (Gli spiriti dell’isola), Jacob Elordi, Rosamund Pike, Richard E. Grant, Alison Oliver e Carey Mulligan.

Saltburn: trama

2006. Oliver Quick (Barry Keoghan) frequenta l’Università di Oxford ma non riesce a integrarsi con gli altri studenti, per via del fatto che non appartiene alle loro stesse classi sociali. Un giorno conosce il popolare Felix Catton (Jacob Elordi) e il loro rapporto nasce poco a poco. Felix decide di invitare Oliver a trascorrere l’estate con la sua famiglia, a Saltburn. Lì conosce la sua eccentrica famiglia che riesce gradualmente a conquistare e trascorrerà un’indimenticabile estate. Ma poco a poco, cominceranno ad accadere cose strane e scandalose.

Saltburn
Jacob Elordi nel ruolo di Felix. Fonte: eaglescry.net

Emerald Fennell: una stella nascente nella regia

Emerald Fennell ha un futuro radioso che le aspetta, perché finora ha realizzato solo due pellicole molto particolari ed ha fatto centro in entrambe le occasioni. Ha tutte le potenzialità per unirsi alla schiera di registe donne affermate e contemporanee come Greta Gerwig o Sofia Coppola. Ha ancora molta strada da fare, però con due sole pellicole è riuscita a trovare un suo stile personalizzato che rende i suoi film non facili da dimenticare.

Fennell ha adottato uno stile pop che si manifesta con una fotografia coloratissima, con una luminosità camaleontica ogni tanto altalenante in base alla scena mostrata, ed una colonna sonora capace di entrare nella testa dello spettatore e rimanere impressa nella mente, anche nei giorni seguenti dopo la visione. A proposito di quest’ultimo effetto consequenziale, ciò avviene anche per il modus operandi adottato per la narrazione delle storie (originali e non tratte da opere) e per il messaggio che vuole trasmettere, inciampando ogni tanto sul didascalico.

L’attenzione ai dettagli

Fennell ha dimostrato una regia molto calma e curata nei dettagli,  ed ogni particolare è fondamentale nella storia che vuole raccontare. Il cinema è sempre un’arte e viene usata, oltre per raccontare una storia, per fare propaganda o semplicemente per diffondere un messaggio. La differenza sta nel come si vuole fare ciò e Fennell ha aggiunto al suo stile un tocco thriller molto crudo, tanto che lo spettatore rimane angosciato ed ancorato ad una riflessione che lo accompagna per giorni.

Nei due film di Fennell, si percepisce un ritmo lento ed una complessità narrativa, in cui ci si gira un po’ attorno per arrivare al movente prefissato ma al momento opportuno, spunta un plot twist inaspettato e viene fuori all’improvviso l’intento della regista. E si deve ammettere che funziona, sia dal punto di vista tecnico che in quello narrativo.

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Barry Keoghan in una scena del film. Fonte: movieplayer.it

Di cosa parla Saltburn?

Con Promising Young Woman (Una Donna Promettente), Fennell ha analizzato tutte le dinamiche incentrate sullo stupro e degli effetti che sta portando alla società contemporanea (soprattutto, quelli che non si notano o peggio, si fa finta di non vedere). Stavolta, con Saltburn si sposta su un altro contesto e vuole mettere a nudo un’altra realtà che si nasconde dietro l’ipocrisia delle classi sociali più alte e sulla differenza tra tutte quelle che si collocano, nella scala gerarchica sociale.

L’ispirazione cinematografica e la solitudine

Il comparto tecnico è ben strutturato anche qui ed è simile a quello visto nel suo precedente film, solo che qui è leggermente un po’ più didascalico e la trama non è del tutto originale, perché prende spunto da qualche pellicola vista nel corso degli anni. Ad esempio, se si guarda il rapporto che si crea tra i due protagonisti, escludendo la mancata fisicità, ricorda quello visto in Chiamami Col Tuo Nome; oppure l’ipocrisia dei ricchi che si cerca di nascondere come la polvere sotto il tappeto ricorda Cruel Intentions. Però, è un difetto a cui ci si passa sopra e l’obiettivo della regista è stato raggiunto. E’ riuscita anche a far parlare di sé, perché ha diviso l’opinione pubblica e se ne sta parlando da giorni.

Saltburn non parla solo di differenze di classi sociali e dell’ipocrisia e dello scandalo che si cela dietro alcuni contesti, ma anche della continua ricerca di accettazione dagli altri e della solitudine. I due protagonisti, apparentemente diversi tra loro e provenienti da mondi diversi, in realtà sono molto simili e sono alla continua ricerca dell’accettazione altrui, solo che lo fanno in modo diverso. Tutto sommato, sono anche due poli opposti che hanno lo stesso problema: la solitudine. La differenza sta nel come la gestiscono e nella maschera che portano entrambi.

Un Barry Keoghan da Oscar

A proposito dei due personaggi, non si può ignorare l’incredibile performance dei due attori: Barry Keoghan e Jacob Elordi. Entrambi hanno un talento naturale e finora non hanno fatto altro che dimostrarlo, soprattutto Keoghan. Quest’ultimo fa un’interpretazione da Oscar, mentre Jacob Elordi sembra uscito da Euphoria e quindi, mantiene lo stesso carisma. Anche gli attori comprimari hanno fatto egregiamente la loro parte, al di là del proprio minutaggio.

Barry Keoghan in una scena del film. Fonte: manofmany.com

Saltburn: il finale

Anche qui, Fennell ha usato il tocco thriller, con l’aggiunta dello scandalo per rendere il film angosciante e al momento opportuno, c’è un incredibile plot twist che colpisce lo spettatore e ci sono delle scene che stanno facendo discutere e portare poi, ad una riflessione perenne.

Giorgio Maria Aloi

Il ragazzo e l’airone: una fantasia terrena

Napoleon
Miyazaki continua il suo cammino di artista. Un film come pochi al mondo. Una poetica unica, ed una visione dell’arte eccezionale. – Voto UVM: 5/5

Hayao Miyazaki è uno dei più grandi artisti viventi al mondo, che torna nelle sale a dieci anni dal suo ultimo lavoro, quello che aveva segnato il suo decennio da artista. Il tono di Si alza il vento era conclusivo, e sembrava che il regista avesse messo il punto sulla sua carriera. Cosa possiamo dire allora dell’arrivo di un nuovo film nel 2023?

A partire dai suoi primissimi lavori, Miyazaki ha sempre messo un po’ di sé all’interno dei suoi film, a partire da tematiche come inquinamento, guerra affrontate già a partire dagli anni ottanta quando non era scontato. Accanto a queste un’altra costante era stata l’ammirazione per il cielo, che fin da bambino lo aveva accompagnato come una certezza: interi suoi film, come Porco rosso, sono costruiti attorno al volo e agli areoplani.

Ma non questo film, che prende una strada molto diversa anche con la tematica del sogno. Il ragazzo e l’airone (“How do you live” in originale) è forse il film più terreno di Miyazaki.

Mahito e l’airone. Fonte: Mowmag.com

Tra traumi, pericoli e meraviglie visive

La premessa del film è simile a quella de La città incantata con un bimbo in viaggio verso un luogo isolato del Giappone: un racconto metaforico a spirale, con tanti significati celati. Qui, invece, le immagini sono inequivocabili. Rimane poco spazio all’interpretazione.
Mentre nella pellicola già sopra citata come in altri cartoni di Miyazaki, quale Il castello errante di Howl, c’era sempre qualche detto non detto, qui il film è spietatamente chiaro.

Mahito, il protagonista del film, è un bimbo pieno di vizi, paure ed imperfezioni. Fa a botte con gli altri bambini a scuola, non accetta la nuova compagna del padre e si procura ferite solo per farsi notare in casa, in un miscuglio di vittimismo e ricerca di attenzioni.
È un personaggio perfettamente coerente con una trama dura, che prende a piene mani dal classico immaginario Ghibli, citandolo apertamente, ma che allo stesso tempo tratta quelle immagini fiabesche e colorate come anche imperfette. Persino l’airone, “mascotte” del film, è un personaggio estremamente patetico e fastidioso.

Questo è in poche parole, un film disilluso, di un Miyazaki che fa abbracciare le armi al protagonista non per difendersi ma per cacciare un nemico, con sullo sfondo una seconda guerra mondiale che viene quasi accettata.
Il viaggio metaforico di Mahito lo porterà ad affrontare un viaggio di crescita interiore, ma come detto non sarà pieno di immagini idilliache, ma di traumi che il protagonista dovrà accettare come inevitabili.
Imparerà ad accettare sé stesso ed il mondo, ma senza fanfare e con fredda onestà.
Il finale soprattutto sarà estremamente schietto in questo, lasciando allo spettatore una fastidiosa sensazione di incompletezza.

il ragazzo e l'airone
Collage di alcune scenedel film. Fonte: Dagospia

Il ragazzo e l’airone: un capolavoro senza tempo

L’arte del film è superba come sempre, la regia regala ad ogni scena qualcosa di unico ed anche l’implementazione della computer grafica è perfetta nella costruzione di carrelli ed effetti aggiunti ai disegni: mai posticcia e usata sempre efficacemente.
Il doppiaggio italiano, rispetta perfettamente lo stile austero e formale dello studio e del regista, ma senza  le storture che si possono riscontrare negli ultimi film Ghibli, divenute oggi famose ed oggetto di meme sul web.

Per concludere diciamo questo: Il ragazzo e l’airone si inserisce nella filmografia di Miyazaki come il lavoro di un regista che va verso un nuovo capitolo della sua vita e verso un nuovo modo di vedere il mondo. E riesce a trasmettere questo in una maniera in cui pochi artisti al mondo sanno comunicare. Una vera opera d’arte di cui non si smetterà mai di parlare.

Matteo Mangano

Samir e il mare

Samir non era più Erik da qualche mese ormai. La primavera precedente, infatti, aveva avviato le procedure per il cambio di nome. Avrebbe descritto quel momento come l’istante in cui si era concesso una vita nuova.
La verità, però, era che di quel fatto non parlava. Era un uomo senza passato, come coloro che lo accompagnavano in quella che era ormai diventata la sua quotidianità.

Le giornate si susseguivano celeri e il sudore si mischiava alla salsedine del mare.
Samir voleva fare questo da tutta la vita. Da bambino aveva visto un documentario sui pescatori del mare del Nord e da allora quell’immagine era rimasta nella sua mente. Quegli uomini gli apparivano come qualcuno da imitare. Ne vedeva la forza di coloro che vanno contro la natura.
Crescendo, però, aveva preferito scegliere la sicurezza di una vita normale. Aveva studiato col solo obiettivo di trovare un buon lavoro e avviare una famiglia. Si era innamorato e sposato.
Ben presto, però, si era accorto che qualcosa non andava. Lui e sua moglie litigavano in continuazione e, passato appena un semestre, si guardavano già l’un l’altro con noia.
Dopo il secondo anno fu il silenzio. Non avevano più voglia di addentrarsi nella mente dell’altro, quindi si parlava solo della normale amministrazione della vita familiare.
Nei mesi successivi perse il lavoro e sua moglie.
Lei abbandonò la sua vita in seguito a un divorzio consensuale. Erano ancora giovani e non aveva senso combattere per qualcosa che non funzionava.
La ditta per cui lavorava fallì qualche tempo dopo lasciando che lui e gli altri dipendenti perdessero l’unica sicurezza che avevano.
Iniziò il periodo incerto del lancio del curriculum, ma dopo qualche mese questo non era stato afferrato da nessuno.
Fu in quei giorni che passando dalla via del mare si diresse verso il molo a guardare le onde della tempesta. Si accorse di aver perso qualcosa: in lui non c’era più l’oceano. Non vi era più un tumulto che riuscisse a scuoterlo. Sarebbe andata bene anche una piccola scintilla negli occhi a causa di un gabbiano che gli volava accanto. Il vuoto, invece, sembrava ricoprirlo.
Un moto di rabbia si diramò nel suo corpo. Dove aveva sbagliato? Quando esattamente si era autosomministrato la pillola che lo aveva reso un’ombra vivente?
Rimase sul molo fin al tramonto e decise di ricominciare dal mare.
Abbandonò quel poco che gli era rimasto della sua squallida esistenza e divenne il nuovo membro di un peschereccio.
Credeva di aver dato la svolta definitiva alla sua vita. A distanza di qualche mese dal giorno dell’assunzione, invece, si pentiva di nuovo di una sua scelta.

Sulla nave non vi era una netta distinzione tra giorno e notte. Si lavorava quando si doveva e nelle poche ore rimaste ci si abbandonava a un sonno galleggiante e tumultuoso.
Vi erano giorni in cui Samir sentiva gli occhi ardere e guardandosi allo specchio vedeva come questi lo osservavano rossi e pieni di vene. In compenso, però, non soffriva più la nausea.
La prima volta che aveva messo piede su quella nave non si aspettava che quel continuo oscillare gli avrebbe dato chissà quanto fastidio. Era bastata qualche ora e il primo maleodorante pescato perché si ricredesse. Lo avevano mandato nella stiva a pulire le interiora di quanto raccolto. I suoi colleghi erano svelti: un taglio netto, una mano nelle budella e il pesce risultava già pulito. Lui aveva provato a imitarli e per un po’ di tempo era anche andata bene. Il problema più grande era l’olezzo che si levava da quella massa di cadaveri squartati. Dopo appena un quarto d’ora aveva chiesto che gli fossero concessi cinque minuti fuori, all’aria aperta, e mai aveva respirato con così tanta gratitudine.
Adesso si sentiva solo stanco, i ricordi infantili dei pescatori del Nord erano persi.
Con le mani insanguinate e puzzolenti si chiedeva se fosse questa la vita che desiderava; tirando le reti con tutta la forza che aveva in corpo si diceva di non poter accettare di aver sbagliato ancora.
“Mettete in sicurezza la stiva e la cabina di comando” urlò il capitano dell’imbarcazione. Samir guardò di fronte a sé, pronto ad osservare il cielo scuro e il mare agitato. Gli ordini del comandante, infatti, erano quelli da mettere in atto in caso di bufera. In ciò che osservava, però, non ve ne era traccia. A parte qualche nuvola sembrava una bella giornata.
“Deve aver sentito qualcosa nel vento” pensò e si adoperò a fare quanto gli era stato detto. La nave tornò indietro, verso il porto.
Nella loro calma frettolosa stavano cercando di fare tutto e al meglio. Samir mal sopportava l’ansia di quel cielo che di minuto in minuto si chiudeva ai raggi del sole. Il mare iniziava a gonfiarsi. Di contro assaporava rapido la sua adrenalina. Questa sensazione nuova lo inebriava, era una prova concreta della sua esistenza.
Giunsero alla terra ferma quando quell’ammasso d’onde cominciava a diventare insaziabile e, borbottando, divorava il cielo a morsi d’acqua e sale.
Ormeggiarono la barca in un posto diverso da quello della loro partenza e balzarono via a toccare di nuovo terra.
Al sicuro, con solo la pioggia a bagnarli, osservarono la loro nave combattere contro quel gigantesco mostro. Ogni onda che la colpiva era uno schiaffo che la spostava da un lato. Galleggiava, lasciandosi avvolgere a tratti dall’acqua, eppure rimaneva intatta. Proprio quando sembrava che l’onda l’avrebbe inghiottita la nave la divideva: una parte gli passava sotto, mentre l’altra la copriva. Lei rimaneva quasi integra, al centro della tormenta.
“Siamo stati fortunati a trovare un posto dove attraccare, ma in futuro capiterà di dover affrontare il maltempo in mare aperto” disse il capitano a Samir, unico novizio dell’equipaggio.
Samir si chiedeva se fosse questa la fortuna. In quei giorni non avevano pescato praticamente nulla ed era un miracolo che la nave non fosse ancora affondata mentre loro inermi la guardavano. I soldi del carburante sprecato, gli stipendi di tutta la truppa e le riparazioni che adesso andavano fatte sembravano impossibili da sostenere.
Passò circa un’ora e il cielo si riaprì in un processo inverso al precedente, il mare si acquietò, come se avesse finito l’ira che prima lo scuoteva. Tornarono a casa.

Quando la nave tornò a squarciare le onde Samir osservò come l’acqua rifletteva il sole, il vento gli scuoteva i capelli. Avrebbero raccolto un buon pescato, ne era certo. Nei suoi occhi c’era la speranza che avrebbero raccolto pesce a sufficienza anche per ripagare i danni della volta precedente.
Adesso le domande sul suo futuro erano sparite. Rimanevano lui e il mare a osservarsi da vicino, a specchiarsi l’uno nell’altro. Doveva guadagnarsi questa nuova giornata e prepararsi alla prossima tempesta.

Alessia Sturniolo

*immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia*

Al Cinema Lux la Stagione Cinematografica 2024

Wim Wenders, Alfred Hitchock, Park Chan-wook: questi sono solo alcuni dei grandi nomi presenti nel programma della Stagione Cinematografica 2024 del Cineforum Don Orione al Cinema Lux (Largo Seggiola is. 168) di Messina.

Film di qualità e quasi tutte prime visioni per la città, eccetto qualche titolo rimasto un po’ indietro nei vari circuiti commerciali, come Miracle (Corea del Sud 2021) di Jang Hoon Lee, vincitore del Premio del Pubblico al Far East Film Festival, Maigret di Patricie Leconte, e Decision To Leave (Corea del Sud 2021) di Park Chan-wook (regista di Old Boy), Premio Miglior Regia al Festival di Cannes 2022.

A dare il via alla stagione del 2024 sarà il regista giapponese R. Nakano con Foto di famiglia (Giappone 2020), seguiranno poi una retrospettiva di tre film dedicata alle donne, “Donne… non solo un giorno all’anno”, una breve “Finestra sul cinema italiano”, e altri titoli protagonisti dei vari Film Festival di tutto il mondo. È previsto anche un incontro con l’autore per il film Un destino migliore (Italia 2023) di Gaetano Di Lorenzo, regista di A proposito di Franco, vincitore del Premio Cinceclub miglior documentario al San Giò Verona Video Festival.

Per quanto riguarda invece le modalità d’ingresso, oltre l’abbonamento ordinario all’intero ciclo di film di €60, sono previste delle riduzioni:

Junior (14 – 25 anni): €25
Studenti UniMe: €25
Senior
(over 70): €50
Convenzioni (dietro presentazione di tesserino): €50

ABBONAMENTO GENNAIO/MAGGIO 20 FILM: €45
ABBONAMENTO SOCIO SOSTENITORE: €100

SINGOLO SPETTACOLO: €7
RIDOTTO TESSERATI JUNIOR E SENIOR: €5

Per ulteriori informazioni:
www.cinemaluxmessina.com
www.cineforumdonorione.com
Tel. 090.9216093

IL PROGRAMMA:

Stagione Cinematografica 2024 – Cinema Lux

 

Redazione UniVersoMe

Il Natale

Candida neve,
frettolosi passanti
corrono per strada.
Le luci delle vetrine,
quasi soffuse,
illuminano poco
la vecchia via.
Al centro s’innalza
un albero abbellito
con colori festosi.
Profumo di vischio,
di biscotti caldi
e di aria natalizia.
Il vagito di un bimbo,
il sorriso di un anziano,
il canto delle genti.
La cometa sfugge
all’occhio nudo
di chi non sa amare.
Atmosfera tanto attesa,
il Natale è alle porte.
Nel mondo
c’è chi soffre,
c’è chi lotta
e chi non si arrende,
ma il Natale cerca
di far ritrovare
i cuori della gente.
E potrà certo arrivare
solo una volta l’anno,
ma la magia
di questa festa
vive nel ricordo
di chi sa gioire.

Alda Sgroi

*Immagine in evidenza: illustrazione di ©Marco Castiglia*

Maestro: Bradley Cooper torna alla regia

Maestro
Bradley Cooper ha curato tutto, in ogni minimo dettaglio. Se si deve trovare un difetto in Maestro, è il fatto che non riesce ad essere un film compreso da tutti. Ma era da un po’ che Netflix non distribuisse un film che arriva quasi al Capolavoro. voto UVM: 4/5

 

Maestro è un film del 2023 diretto, co-prodotto assieme a Martin Scorsese e Steven Spielberg, co-scritto ed interpretato da Bradley Cooper. E’ stato presentato in anteprima alla 80° Mostra Internazionale d’arte cinematografica di Venezia ed ora è uscito su Netflix, esattamente il 20 Dicembre.

Maestro: trama

«Un’opera d’arte non dà risposte alle domande, le suscita. Il valore sta nella tensione delle risposte contraddittorie»- Leonard Bernstein

Maestro è un film incentrato su Leonard Bernstein (Bradley Cooper), o meglio, narra la storia d’amore tra lui e l’attrice Felicia Montealegre (Carey Mulligan). Tutto inizia nel momento in cui Leonard ottiene la più grande opportunità della sua vita: dirigere per la prima volta a soli 25 anni la New York Philarmonic, al palcoscenico della Carnegie Hall. Da qui, la sua carriera decolla e si costruisce con la direzione d’orchestra, la composizione di musica, lo studio e l’insegnamento della musica. Allo stesso tempo, conosce e vive una storia d’amore con Felicia, con la quale convoleranno a nozze e metteranno su famiglia. Ma la loro storia sarà piuttosto travagliata, perché Leonard cadrà spesso in tentazioni e vivrà avventure extra-coniugali ed omosessuali.

Maestro
Bradley Cooper in una scena del film. Fonte: corriere.it

La maturità di Bradley Cooper

Bradley Cooper ha una carriera completa e di tutto rispetto, dimostrando di essere davvero un attore maturo, nel corso degli anni. Ha dimostrato il suo talento in film come la trilogia di Una Notte Da Leoni, Il Lato Positivo – Silver Linings Playbook  e Nightmare Alley – La Fiera Delle Illusioni. Per di più, ha dimostrato anche di essere poliedrico, cimentandosi nel doppiaggio (Rocket nei Guardiani Della Galassia) o addirittura mettendosi alla prova come produttore, sceneggiatore e soprattutto come regista.

E a proposito della regia, chi si ricorda di A Star Is Born? Questo film lo ha visto nel duplice ruolo di attore e regista, affiancato dalla cantante Lady Gaga. Lì ha dimostrato una regia calma e sofisticata, raccontando una storia d’amore emozionante ed abbastanza insidiosa, oltre che a motivare il prossimo a saper sfruttare il proprio talento. Già in quell’occasione, ha dimostrato anche di avere un’altra grande passione: la musica. Dopo cinque anni, torna dietro la macchina da regia in un film che rimane attinente alla musica e raccontando anche qui, una storia travagliata.

Maestro si può definire il punto più alto della sua carriera e si vede che Cooper ci teneva particolarmente alla realizzazione di questo film. Con il suo bagaglio di esperienze ha potuto ottenere lo straordinario risultato che ha ottenuto nella pellicola, rispecchiando esattamente la sua passione e il suo impegno.

Maestro
Carey Mulligan e Bradley Cooper in una scena del film. Fonte: wired.it

Di cosa parla Maestro?

Come si è dimostrato in vari biopic, ciò che conta è come si vuole raccontare quella determinata storia possibilmente vera. L’inizio è mostrato con un ritmo un po’ lento e con una fotografia in formato 4:3 e con un bianco e nero che richiama il Neorealismo. Fin quando poi si passa ad un “aggiornamento” in cui vengono mostrati i vari colori e il trucco che ha reso lo stesso Cooper identico al vero Bernstein.

Dopo l’inizio della carriera di quest’ultimo e l’incontro con Felicia, ecco che viene mostrato il reale movente di Cooper: trasformare il biopic in un film sentimentale mirato a dare il giusto spazio ad entrambi i protagonisti e a scavare in profondità nell’animo umano di Leonard Bernstein. Voleva concentrarsi di più sulla vita privata di quest’ultimo e la relazione burrascosa con la moglie, fatta di tradimenti omosessuali da parte di lui, più che sulle varie esibizioni e sulla sua carriera musicale che formavano una “maschera” destinata poi a cadere. Vedendo il film, in cui la visione è accompagnata dall’ascolto delle musiche composte dal vero Bernstein, sorge il dubbio se amasse o meno sua moglie.

Nonostante i vari traguardi raggiunti, Bernstein sentiva un enorme vuoto dentro e cercava di colmarlo con l’amore verso la gente, ma questo amore lo portava sempre più lontano da Felicia interpretata da una bravissima Carey Mulligan (Una Donna Promettente). Lei, invece, è passata da essere una donna amorevole a una moglie ostile, ma allo stesso tempo per il bene dei figli, ha continuato a sopportare. Bernstein era combattuto tra i sensi di colpa e l’amore verso la gente, tanto che questo contrasto lo ha accompagnato fino alla fine dei suoi giorni.

 

Giorgio Maria Aloi

Santocielo, che miracolo!

 

Ficarra e Picone tornano con Santocielo al cinema ancora una volta con la loro innegabile e bizzarra comicità -Voto UVM: 3/5

 

Salvatore Ficarra e Valentino Picone sono un duo comico, tra i più amati d’Italia, emerso nel 1993. La loro forza comica affonda le radici, non in campo televisivo, quanto più all’interno di pub e cabaret siciliani attraverso una formazione teatrale da autodidatti.

La loro fama è accresciuta con la partecipazione a programmi televisivi quali Zelig Circus e, in tempi più recenti, Striscia la notizia. Il loro primo film, Nati stanchi, uscì nelle sale nel 2001. Da allora, mostrarono, e tutt’oggi mostrano, una grande versatilità in vari ambiti artistici. Seguirono: La matassa, L’ora legale, il 7 e l’8 ed anche serie tv come Incastrati. Ora ritornano sul grande schermo con Santocielo!

 

Santocielo
 Valentino Picone in una scena del film. Fonte: siciliafan.it

Santocielo che inversione!

Dopo l’ultimo successo de La stranezza, Ficarra e Picone proseguono con l’uscita nelle sale cinematografiche, il 14 dicembre, del nuovo film intitolato Santocielo, dalla stravagante comicità, distribuito da Medusa Film e con la regia di Francesco Amato. Si tratta di una commedia natalizia adattata in accezione moderna dove tutto ruota intorno ad una questione riportata dagli angeli: l’egoismo e le azioni belliche da parte degli uomini. Per venire a capo ad una soluzione, gli angeli decidono di indurre una assemblea e proporre un sondaggio tra diluvio universale vs la nascita di un nuovo Messia. Con la vittoria della nuova venuta al mondo, verrà meno la portata decisionale di Dio, interpretato da Giovanni Storti del trio Aldo, Giovanni e Giacomo (Odio l’estate), evento mai accaduto prima.

Qui, per la prima volta, vedremo come figura principale Aristide (Valentino Picone) che si offrirà come volontario a questa missione per poter passare ad un livello più alto del semplice smistatore di preghiere dei fedeli. Il suo obiettivo, infatti, era arrivare al coro nel regno dei cieli.

Dio donerà ad Aristide una serie di poteri, in particolar modo, consacrerà la sua mano per poter ingravidare una donna e, in seguito la celebre frase: “vado ingravido e torno”, verrà catapultato nell’abisso terrestre. In questo luogo, ambientato a Catania e a lui sconosciuto, verrà a profilarsi un equivoco divino, dato dai vizi della società, che lo porterà a mettere incinto un uomo, Nicola Balistreri (Salvo Ficarra). Quest’ultimo è un maschilista sofferente per il divorzio dalla moglie che lo porta a scontrarsi con il rigidismo cattolico presente all’interno della scuola in cui ricopre la carica da vicepreside.

Ficarra e Picone, fonte: pagina Instagram @ficarraepicone

 

Santocielo: il potere della fede

Aristide cominciò a tener d’occhio gli sbalzi umorali di Nicola, dati dalla gravidanza, e nel frattempo si occupò di seguire un corso corale che pian piano lo porterà a legarsi ad una suora, Luisa, (Maria Chiara Giannetta). Ammaliata così tanto dalla fede emanata da Aristide, lo bacerà, mettendo in discussione inizialmente il suo percorso spirituale. Al tempo stesso, la notizia di uomo incinto cominciò a girare, costringendo Nicola e Aristide a rintanarsi in casa finché Suor Luisa non li aiutò a scappare nella ridente località di Montalbano Elicona dove risiedevano i suoi genitori. Qui trovarono un umile paese, indisposto a livello ospedaliero, ma pronto ad accoglierli e aiutarli. Al momento del parto però Nicola deciderà di non rinchiudersi nella vergogna e dare alla luce il nascituro in un ospedale pubblico.

Ma il nuovo Messia è una femmina

Ebbene, non ci saremmo mai aspettati che il nuovo Messia fosse in realtà una femmina. Aristide finalmente può, anche se a malincuore, tornare “lassù” al regno dei cieli e tutto improvvisamente prende forma nel momento in cui confessa alla suora la verità. Capisce, dunque, che il bacio con Aristide non era una perdita di spiritualità ma solo una maggiore attrazione ad essa. In sostanza, anche in questo caso assistiamo ad un rovesciamento dei canoni tradizionali in campo religioso: l’entrata di una donna Messia!

Santocielo
Ficarra e Picone, fonte: pagina Instagram @ficarraepicone

 

Uso dell’ironia dissacrante per rompere le barriere mentali

Santocielo si profila sicuramente come una commedia incentrata sul paradosso e lo stravagante, dal retrogusto amaro, ma che cerca fondamentalmente di abbattere i pregiudizi in primis sulla cristianità, senza fare la morale a nessuno. Al giorno d’oggi, la fede cristiana viene vista come una dottrina dominata da regole imprescindibili quando in realtà, come espliciterà Suor Luisa, la fede è uno strumento per sentirci meno soli dove non è importante se lassù qualcuno ci ascolta o meno. Parole che risuonano come incoraggiamento al senso di unione e comunità e di accettazione verso moderne regole. In conclusione, Santocielo inaugura un sentimento di una nuova speranza, soprattutto in questo tempo soggetto all’omologazione.

Stefy Saffioti

Dramma d’amore

Io se sbaglio,                                        sbaglio con la mia testa
come al solito mio
il cuore mi calpesta
senza ragione cado in un oblio
la mia paura diventa un meccanismo di difesa
perché grande è stata la sofferenza
di questo addio

Io Assillandoti sto sbagliando,
ma il mio cuore grida il tuo nome
come un grido assordante
si trasforma in un dolore indelebile
averti perso diventa un presente diverso
ed il futuro mi spaventa
e penso come faccio adesso?
questa vita è imprevedibile
non sono una persona perfetta come Dio
errare è umano
per questo ascolto il mio io

Eravamo due sconosciuti
Conosciuti per caso
In un compleanno di mezza estate
Ora siamo due sconosciuti
Che non si parlano
In mezzo alla gente

Ora come ora vorrei tanti cambiamenti,
ma quanto è difficile andare avanti,
dimenticare qualcuno che prima era il tuo posto nel Mondo
e ora solo uno sconosciuto a cui non importa nulla di te,
come se quei tre anni non fossero esistiti mai.
Come se esistessero solo gli errori e le scuse fossero cancellate.

Miriana Postiglione

*Immagine in evidenza: Illustrazione di Marco Castiglia