Goodbye, Eri: tra narrazione e memoria

Goodbye, Eri
“Goodbye, Eri” di Tatsuki Fujimoto – Voto UVM: 5/5

 

Goodbye, Eri è un volume unico scritto e disegnato da Tatsuki Fujimoto, già autore di altri fortunati manga come Fire Punch o il più famoso Chainsaw man, e pubblicato in Italia nel 2023 dalla casa editrice Star Comics.

L’autore e le sue passioni

Il fumettista, nato a Nikaho nel 1993, è un grande appassionato sia del disegno, che coltiva sin da bambino frequentando i corsi a cui prendevano parte anche i suoi nonni, sia di cinema, tanto orientale quanto occidentale, e nelle sue opere non mancano riferimenti visivi tanto ad un’arte quanto all’altra: basti pensare che già nell’opening dell’anime Chainsaw man, tratto dalla sua serie più recente, è presente un riferimento a Pulp Fiction di Quentin Tarantino, regista amato da Fujimoto, e pochi anni fa l’autore ha pubblicato un altro volume unico, Look Back, interamente dedicato al suo amore per il disegno.

Goodbye, Eri
Cover “Goodbye, Eri”

Lo stile

Proprio lo stile di disegno merita qualche parola a parte. Fujimoto presenta uno stile particolare e molto caratteristico, impossibile da confondere: grezzo, graffiato, all’apparenza semplice e superficiale, ma molto complesso. Uno stile già presente nel suo Chainsaw man, divenuto famoso anche per questo disegno così particolare, e riproposto in Look Back. Ma lo stile si riconosce anche per l’espressività che sa imprimere ai volti: i sorrisi sono dolci e scaldano il petto del lettore, così come i pianti che vengono raffigurati non solo con le classiche lacrime, ma anche con vere e proprie smorfie che rendono grotteschi i personaggi, e un discorso analogo vale per le altre emozioni, che Fujimoto sa bene come rendere in maniera realistica, quasi straniante, personalmente.

Da sottolineare poi i perfetti intervalli tra scene con battute anche molto serrate, e vignette vuote e senza una parola, quasi contemplative, preparatorie per qualche colpo di scena o per una reazione dei personaggi a qualcosa che è appena successo, e che fanno tenere anche a noi lettori il fiato sospeso, mentre ammiriamo le tavolo del fumettista.

Goodbye, Eri
Tavola “Goodbye, Eri”.

Punto di vista…

Già nella sua premessa Goodbye, Eri potrebbe stranire: una madre gravemente malata chiede al figlio di registrare col cellulare ogni momento fino alla di lei morte. E così fa Yuta, il nostro protagonista, che accumulerà numerosissime ore di filmato che poi monterà in uno strano film per una mostra scolastica. Purtroppo però, il lavoro non verrà apprezzato da nessuno, e Yuta pensa di farla finita, salvo poi incontrare la sola persona che sembra aver visto del buono nel suo lavoro: l’Eri che compare sin dal titolo.

Inizia così la storia del rapporto tra i due adolescenti, che noi lettori vedremo sempre dal punto di vista del cellulare di Yuta, come viene lasciato intendere già dallo stile di disegno e di disposizione delle vignette: sempre strisce orizzontali, alle volte anche sfocate, proprio come se stessimo filmando tenendo in orizzontale il cellulare.

…e punti di vista

Ma tramite le innumerevoli ore di registrazioni dal cellulare noi non conosciamo tutta la realtà, ma solo il punto di vista di chi quelle registrazioni le monta e le riordina, ossia lo stesso Yuta: lui è il regista assoluto, è lui che ha il potere di superare la linea che c’è tra la realtà effettiva e la memoria, il come vogliamo ricordare qualcuno e la persona reale. Yuta ci narra così quello che è il suo punto di vista, filtrato dal cellulare, e diverso tanto da altri punti di vista quanto dall’effettiva realtà.

E in fondo, l’arte in generale non è proprio questo, cioè narrazione di un punto di vista che è sempre personale ed interiore? Forse è proprio questo quello che, tra una citazione e l’altra che i cinefili si divertiranno a cogliere, e gli altri a scoprire, voleva ricordarci Fujimoto.

 

Alberto Albanese

Il festival “Amadeus V”

Amadeus a quota cinque: come Pippo e Mike

Siamo nel vivo della settantaquattresima edizione del festival della canzone italiana, anche quest’anno presentata dalla Rai con il fidatissimo Amadeus. Una volta riconfermato, lo showman e presentatore originario di Ravenna si è trovato ad avere la possibilità di porsi al pari dei grandissimi Pippo Baudo e Mike Bongiorno, come conduttore di 5 festival di Sanremo. Un onore di proporzioni enormi, ma che a detta sua segna il punto di arrivo della sua annuale esperienza in quanto sua ultima conduzione prevista.

Amadeus può però definirsi ormai di casa all’Ariston essendo riuscito a ricollegare le nuove generazioni a una tradizione italiana che aveva bisogno di essere svecchiata.

Sanremo sempre sul pezzo anche nel 2024

L’innovazione radicale che ha saputo portare ogni anno è sempre stata genitrice di polemiche sul web e sui giornali, ma è altresì sempre riuscito a conviverci, e gestirle, conquistandosi il favore di una grandissima parte dello share televisivo serale.

Già da novembre qualche punto del suo Sanremo 2024 era chiaro: tra i 30 “Big” grande partecipazione di giovani promesse esordienti al festival, oltre i tre vincitori di Sanremo Giovani; ospiti di spicco; zero spazio per questioni politiche sul palco. L’importante per Amadeus sono le canzoni e gli artisti, che sceglie senza curarsi di passare chiunque sotto esame ideologico, soffermandosi invece su chi possa avere un bel progetto musicale da proporre.

Tra più di quattrocento canzoni candidate, la selezione delle trenta partecipanti sembra regalare delle potenziali chicche per il pubblico italiano.

Gli ospiti previsti a Sanremo.
Gli ospiti previsti a Sanremo.

Cantanti e canzoni di tutti i colori

I temi che si possono trovare sono molto variegati: dalle solite e italianissime canzoni d’amore come possono essere Un Ragazzo Una Ragazza dei The Kolors e gli importanti ritorni dei Ricchi e Poveri e dei Negramaro con, rispettivamente, Ma Non Tutta La Vita e Ricominciamo Tutto, ma può anche parlare di intime fragilità come Fragili del rapper romano Il Tre, giovane promessa portata per la prima volta sull’Ariston.

Dal tema dei classici amori nati e finiti ci si può subito spostare ad ascoltare canzoni che trattino di autoconsapevolezza come Pazza di Loredana Bertè o rabbia giovanile come La Sad con Autodistruttivo o i Bnkr44, vincitori insieme ai Santi Francesi e Clara, con Governo Punk. È chiaro e più che mai evidente il salto generazionale che l’Ariston ci propone, mettendo in gara giganti del pop italiano addirittura di 40 anni fa e gruppi di giovani artisti ancora nella loro gavetta musicale.

Inoltre, anche dal lato dei generi musicali siamo davanti a una grande tavolata imbastita: rock, punk e pop, pop più tradizionale, anche indie-pop grazie alle partecipazioni di Gazzelle, Maninni, e Diodato; belcanto con Il Volo; hip hop della “nuova scuola” italiana, romana milanese e partenopea più nello specifico con Il Tre, Ghali, e Geolier.

Il migliore dei cinque di Amadeus?

Il Sanremo V di Amadeus è in tutto e per tutto quello che definisce meglio lo scenario musicale attuale e anche generale italiano, scomponendo e mostrando il gusto musicale degli ascoltatori italiani mediante una selezione variegata ma omogenea di artisti e riuscendo a dividere i favori e i giudizi del pubblico e della giuria.

Amadeus, tuttavia, non si limita a rinnovare il festival con una carrellata di nuove facce ancora più imponente degli anni passati, un altro punto del suo “Amadeus V” è un’importante modifica del programma delle serate: la prima serata sarà dedicata a presentare tutte e trenta le canzoni e ciascun loro interprete; durante la seconda e la terza invece si esibiranno solo in quindici partecipanti per ognuna delle due, con i restanti quindici facenti da co-conduttori agli altri concorrenti.

Un’innovazione interessante sul lato scenico, che “non fa fronte a eventuali spese di budget impreviste” a detta del conduttore stesso.

Amadeus sul palco dell'Ariston
Amadeus sul palco dell’Ariston.

Sanremo 2024, una gigantesca campagna pubblicitaria

Arrivano anche i prima e i dopo-festival, grazie a nuovi programmi rai e talk-show come “Incontri sull’Onda Alta” un’idea del duo Tlon, composto da Maura Gancitano e Andrea Colamedici, con la personale collaborazione di Dargen d’Amico, partecipante al festival e già viso familiare all’Ariston grazie alla sua Dove si Balla, portata al festival nell’edizione del duemilaventidue. Un’idea molto originale che prevede discussioni pomeridiane su temi di forte attualità e la distribuzione di un fumetto presso l’Edicola Dargen, aperta da d’Amico per l’occasione, che ospiterà gli incontri.

Insomma, sembra essere stato tirato su davvero un grande progetto in questa edizione, con trovate pubblicitarie che puntano ad aiutare grandemente il festival a trovare un volto sempre nuovo ogni anno, canzoni e partecipanti che possono portare una ventata d’aria fresca anche quest’anno, magari provocando meno polemiche, si spera.

Il ritorno del grande duo di Rai1 per finire in bellezza

Come se tutto ciò non bastasse, si è riusciti a convincere anche Fiorello, almeno per un’ultima edizione, a dare manforte all’amico sul palco dell’Ariston, riottenendo per un ulteriore anno la gioia dei fan del binomio vincente di Rai1, tra improvvisazioni e sketch comici che sanno ormai bene come rubare sorrisi anche a chi Sanremo magari non lo segue più da un bel po’.

Giovanni Calabrò

 

*Articolo pubblicato sull’inserto NoiMagazine di Gazzetta del Sud il giorno 08/02/2024

 

 

Aspettando Sanremo: la storia di sette insoliti vincitori

Finalmente il Festival di Sanremo è alle porte, è l’aria si riempie già di frenesia e musica, in attesa di sentire i 30 artisti che calcheranno il palcoscenico della 74° edizione della kermesse più attesa d’Italia. Nel corso della storia sono state tantissime le canzoni vincitrici che hanno fatto successo e segnato la storia dell’immaginario musicale italiano, ma sono altrettante le canzoni che sono state meteore, vincitrici subito cadute nel dimenticatoio collettivo.

E noi, nel nostro piccolo, vogliamo ripercorrere la storia del Festival di Sanremo, scegliendo sette brani, uno per decennio, alternati tra canzoni più celebri ad alcune chicche di nicchia.

Sanremo 1951/1959: Modugno – Piove (ciao ciao bambina) (1959)

Il primo decennio del Festival di Sanremo viene caratterizzato dalla presenza di canzoni che si rifanno alla musica lirica della tradizione italiana. Infatti, i protagonisti sono per lo più cantanti dalla voce possente e da canzoni tristi dai toni i drammatici ma, per questo decennio, la scelta ricade su quello che potrebbe definirsi il fautore di un nuovo modo di fare musica, più leggera e melodica, stiamo parlando dell’intramontabile Domenico Modugno. Già vincitore nel 1958 con la famosa nel Blu dipinto di blu, vince anche l’anno successivo con Piove (ciao ciao bambina), sempre in coppia con Johnny Dorelli. La canzone in gara parla di un amore al capolinea dove, nonostante il sentimento sia forte, non si può che fare altro che dirsi addio.

Come una fiaba, l’amore passa:C’era una volta poi non c’è più

Canzone commovente che fa ancora scendere parecchie lacrime.

Sanremo 1960/1969: Sergio Endrigo – Canzone per te (1968)

Per gli anni ’60, più precisamente per gli anni della Rivoluzione, la scelta è caduta su Sergio Endrigo e la sua Canzone per te. Il brano portato Sanremo e, accompagnato da Roberto Carlos, ci parla, con toni struggenti, di una storia d’amore finita ma dove il sentimento resiste.

È stato tanto grande e ormai non sa morire

Anche qui, nonostante la poco profondità del testo, ci lascia con l’amaro in bocca e con la tristezza nel cuore.

Sanremo 1970/1979: Peppino di capri – Un grande amore e niente più (1973)

Negli anni del boom economico e, come amava definirli Pasolini, gli anni del neo-edonismo consumistico, dove l’Italia andava via via perdendo la propria identità culturale a favore di uniformazione di massa, Sanremo si mantiene sempre vivo e uguale, con un unico comune denominatore: è sempre l’amore a trionfare. Quell’amore cantato in tutte le sue sfaccettature, così la scelta è caduta su una poesia tenue, leggera che ti sfiora la pelle ed è Un grande amore e niente più di Peppino di Capri. Anche qui non è andata proprio bene, ma è il racconto di quel tempo d’amore vissuto a pieno, tra ricordi teneri e struggenti che, una volta andati, non tornano più.

Ma non risale l’acqua di un fiumeE nemmeno il tuo amore ritorna da me

 

Sanremo 1980/1989: Tiziana Rivale – Sarà quel che sarà  (1983)

Spesso confusa con la più famosa Che sarà dei Ricchi e Poveri, è il grido di un amore che nonostante le innumerevoli difficoltà che la vita possa porci davanti, tra cui l’incertezza del futuro, si ha la consapevolezza che è l’altro il fattore salvifico e che, nonostante tutto, bisogna saper prendere l’amore per come è, senza idealizzazioni.

Se anche l’acqua poi andasse all’insù
Ci crederei perché ci credi anche tu
Una storia siamo noi
Con i miei problemi e i tuoi
Che risolveremo e poi

Il brano appena descritto è di Tiziana Rivale, vincitrice dell’edizione del 1983, con questa canzone purtroppo poco conosciuta e ancor di più lei, un’altra meteora del panorama musicale italiano.

Sanremo 1990/1999: Riccardo Cocciante – Se stiamo insieme ci sarà un perché (1991)

Cosa succede quando Riccardo Cocciante incontra un pianoforte? Nasce poesia!

Se stiamo insieme ci sarà un perché, ci racconta di quell’amore vissuto, dove ad un certo punto tutto sembra logorarsi, in quel momento in cui ci si scorda perché si sta insieme, in cui è necessario riscoprirsi e riscoprire, per non lasciare morire quel fiore. E Cocciante ci ricorda che al lasciare morire quel sogno sognato insieme, c’è sempre un’altra via fatta di dialogo, cura e tanta pazienza.

Non è quel sogno che sognavamo insieme, fa piangereEppure io non credo questa sia l’unica via per noi

 

 

Sanremo 2000/2009: Giò di Tonno e Lola Ponce – Colpo di fulmine (2008)

Da molti considerata una delle canzone vincitrici più brutte di sempre, cantata dai protagonisti dello spettacolo  Notre-Dame de Paris, scritto da Luc Plamondon con le musiche di Riccardo Cocciante. Con questo brano, cantato appunto da Giò di Tonno (Quasimodo) e Lola Ponce (Esmeralda), veniamo riportati ad una musica più scenica, più teatrale, che ci apre alla potenza dell’amore, fulmine a ciel sereno che si abbatte furioso su di noi e che ci fa vivere, a volte, in una favola che sembra non finire mai

D’amore e d’incoscienzaPrendimi sotto la pioggiaStringimi sotto la pioggiaLa vita ti darò

 

Sanremo 2010/2019: Roberto Vecchioni – Chiamami ancora amore (2011)

La classe non è acqua, lo sa di certo l’edizione del Festival di Sanremo del 2011, che ha visto calcare e trionfare una delle divinità della musica cantautoriale italiana, il grande prof. Roberto Vecchioni. Chiamami ancora amore è una preghiera all’umanità, ricordandoci che  è l’amore a renderci umani e che non bisogna mai avere paura di amare e di lottare per ciò che si ama, che sia una persona, un pensiero o per la vita in sé. 

Chiamami sempre amoreIn questo disperato sognoTra il silenzio e il tuonoDifendi questa umanitàAnche restasse un solo uomo

Sanremo 2020/2023: Diodato – Fai Rumore (2020)

Nell’anno che segna un cambiamento epocale, in cui tutto il mondo si è fermato nel silenzio più assoluto, è stato il “Rumore” di Diodato a riecheggiare, colpendo dritto al cuore di ognuno di noi. Il brano scritto è una carezza che riconcilia l’anima, un rumore che diventa musica e ci scalda il cuore, quel rumore prodotto nella nostra vita dalla persona amata, perché possiamo finalmente guardare negli occhi quel qualcuno e dirgli:

E non ne voglio fare a meno oramai
Di quel bellissimo rumore che fai

 

Chiudiamo così questo Aspettando Sanremo, con la voce di Diodato che ci accompagna nel rumore della quotidianità. 

Gaetano Aspa

Precedi e procedi. La filosofia di Past Lives

Past Lives è un esordio sorprendente. Voto UVM 4/5

Past Lives è il primo film della regista sudcoreana Celine Song, candidato a cinque Golden Globes e a due premi Oscar, come miglior film, accanto a grandi pellicole quali Killers of the flower moon e Oppenheimer, e miglior sceneggiatura originale. Il film racconta tramite la personale esperienza da emigrata della stessa regista, una storia alternativa e diversa da quello che definiamo oggi un cliché.
Attuale e molto moderno, Past Lives apre le porte a una serie di interpretazioni per il pubblico, in modo tale da creare la giusta atmosfera e forse anche un po’ di suspense. In maniera intraprendente e originale, si percepisce fin da subito come l’obiettivo principale sia probabilmente quello di non risultare banale e scontato.

Past lives: “Ciao…”

Almeno una volta nella vita è capitato a tutti noi di chiedersi cosa voglia significare veramente dirsi “ciao”. Past lives ci offre qualche prospettiva in più: il tempo passa, si cresce, si fa spazio alle esperienze, ma il passato è qualcosa di ancorato a noi. Ci insegue, a volte si nasconde, altre invece torna quando meno te lo aspetti. Paradossalmente sembra di vivere numerose esistenze, perché la metamorfosi della vita non appartiene solo a noi come soggetti, ma anche a ciò che circonda.
Il film si presenta inizialmente come un inno alla memoria che cancella, ma ricorda che per natura noi individui siamo insistenti. L’ovvietà è data dalla condizione che vivere nel passato non è fattibile e, dunque, bisogna avere il coraggio di voltare pagina.

Past lives: in-yun

Past lives è un film d’amore, ma non del tutto e diverso da quello che si è abituati a vedere.
La protagonista Nora (Greta Lee) utilizza un termine coreano, ovvero “In-yun” , letteralmente “destino” o “provvidenza”, per spiegarci in breve la connessione instaurata tra persone e cose nel corso della vita. Una parola che può manifestarsi nel momento in cui due persone si scontrano e si sfiorano per strada, rappresentando così l’esistenza passata di un rapporto tra i due.
Una pellicola che abbraccia sicuramente la malinconia raccontandoci una storia che inizia tra i banchi di scuola a Seoul e che purtroppo è destinata a mettere non un punto, ma un punto e virgola.

Past lives
© CJ ENM

Un tanto atteso rendez-vous tra due persone che ormai sono adulte ma che in qualche modo, nonostante la distanza e il modo di approcciarsi alla vita, li spinge a cercarsi a vicenda. Nora (Greta Lee) e Hae Sung (Teo Yoo) ormai hanno vite diverse, ciò che li accomuna sembrano essere solo le loro origini, il resto è cambiato, tranne il bene che provano l’una per l’altra malgrado gli anni passati senza vedersi, toccarsi e parlarsi.
Il rincorrersi e rivedersi dopo anni permette loro di confrontarsi su ciò che sarebbe potuto accadere se le cose fossero andate in maniera diversa. Un dialogo faccia a faccia permette loro di porsi delle domande; dopo una giusta riflessione e l’ascolto reciproco di entrambi, i due si lasciano nuovamente alle loro vite.

Accettare per superare

Past lives
© CJ ENM

Il messaggio finale di questa storia che si chiude con le note di “Quiet eyes” di Sharon Van Etten, non è per forza una triste realtà. Più precisamente la chiave di lettura va colta nell’accettazione per qualcosa o qualcuno che ormai è andato.
La fine non è indice di un’eclissi bensì la possibilità di una serie di inizi infiniti in cui noi, come individui, ci scontriamo casualmente; questo racconto non serve a rendere il pubblico appagato per l’ennesimo lieto fine, ma forse a cercare di renderci consapevoli del fatto che è necessario accettare il presente ed il passato, vivendo quasi in simbiosi con entrambi. Accettare questo è il primo passo per andare avanti senza dimenticare le vite passate.

Asia Origlia

La città sull’acqua

Era la città sul mare,

non aveva un nome

se non quello della nave

 

Era di strade galleggianti fatta

si ballava, si beveva e si mangiava

ondeggiando sulla marea più alta

 

Era la città sull’acqua,

non esisteva nulla intorno

nemmeno un’isola di terra astratta

 

Era piccola in confronto a qualunque ammiraglia

tredici piani all’interno tra la prua e la poppa,

gonfiava le sue vele immaginarie all’aria

e danzava sull’oceano di tappa in tappa

 

Una sinfonia sciabordante di schiuma

lascia una scia che si vede dall’alto

mille e una notte trascorrei dondolando

su una città che di sale profuma

 

Alessandra Cutrupia

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Fino a che punto ci si spinge per essere amati? Tanizaki e la sua Croce Buddista

La Croce Buddista: il dramma di un amore distruttivo e distruttore. Voto UVM – 4/5

 

Regione del Kantō, Giappone, annus horribilis 1923. Un devastante sisma di magnitudo 7,9 della scala Richter devasta Tokyo, Yokohama e tutte le restanti prefetture della regione. Uno scrittore trentasettenne ribelle ed ex enfant prodige ormai precipitato in un’infinita spirale di dissolutezza e disagio chiamato Tanizaki Jun’ichirō (rispettando l’onomastica giapponese il cognome precede sempre il nome) si vede obbligato a rifugiarsi a Osaka, nella regione del Kansai, per provare a ricostruire la sua vita già in pezzi e ulteriormente polverizzata dal sisma. È dall’incrocio di questa tragedia col dramma di Tanizaki che La Croce Buddista prende forma come romanzo a puntate nel 1928 per poi giungere ai lettori italiani attraverso i tipi di Guanda e grazie alla brillante traduzione di Lydia Origlia nel 1999.

“Oggi sono venuta a trovarla, Maestro, con l’intenzione di narrarle ogni cosa”

Esordisce così sul punto di piangere Sonoko, protagonista dell’opera, d’innanzi al suo stimato Maestro; ha finalmente deciso di rompere il silenzio sull’incredibile storia di come la sua vita e il suo matrimonio sono andati in frantumi. Il titolo originale de La Croce Buddista è 卍 (manji) e a partire dal simbolo della croce uncinata, tristemente noto in Occidente per gli orrori del Terzo Reich ma importante nella cultura buddista in quanto simbolo di pace e armonia, Tanizaki intesse attraverso le sue quattro braccia altrettante relazioni d’amore morboso tutte riconducibili a un unico e folle centro: la seducente Mitsuko.

Scrittura in calligrafia giapponese del carattere “manji”

Una rete di bugie non ci salverà

Il fil rouge dell’intera opera è la dipendenza. Un’emozione funesta, manifestazione di un amore crudele e “intarsiato di segreti” orchestrato da Mistuko in una rete di bugie che non fa altro che auto-alimentarsi. L’infedeltà nell’opera nasce dal pettegolezzo; Sonoko è felicemente sposata con Kotaro e frequenta con regolarità e dedizione un’accademia d’arte femminile. Il quieto vivere della donna è funestato da una voce di corridoio che la vedrebbe protagonista di una relazione saffica con la giovane compagna Mitsuko. Le due non si conoscono ma sodalizzano sino a rendere il pettegolezzo realtà. La menzogna diviene lungo tutto il romanzo un elemento multiforme, e il suo confine con la verità è reso impalpabile dalla disobbediente penna di Tanizaki.

L’intreccio dell’opera è complesso, anzi complessissimo, la narrazione di Sonoko è febbricitante ma impeccabile nella cura del dettaglio; porta con sé documenti, scritti e carteggi che rendono l’intero racconto una paradossale indagine sul desiderio umano di essere amati a tutti i costi.

Tanizaki Jun’ichirō

Come l’amore può distruggerci

“Certamente si divertiva solo per vanità ad accaparrarsi l’amore che riservavo a mio marito […] lei aveva potuto indovinare il mio punto debole: benché mi chiamasse «sorella maggiore», avevo finito con l’agire come una premurosa e sottomessa sorella minore”

“Sorella maggiore”, è così che Mitsuko si riferisce a Sonoko; con un termine usato nella cultura omossessuale nipponica per indicare l’individuo dominante all’interno di una coppia. La giovane amante nascondendosi dietro la conveniente etichetta di “sorella minore” regala alla narratrice una sensazione prima d’imbarazzo e poi di lusinga che muterà in un’irrefrenabile rabbia quando la più grande menzogna di Mitsuko verrà scoperta (o forse rivelata come estremo segno di onnipotenza?).

La Croce Buddista è un romanzo notturno di un sole di mezzanotte che non teme di nascondere la verità lì dove è più che visibile. Prende per mano il lettore trascinandolo in una serie infinita d’intrighi dal tipico gusto nipponico. Le note della traduttrice, puntuali ma non prolisse, illuminano e districano i riferimenti culturali più complessi rendendo il romanzo di Tanizaki godibile ad un pubblico che va ben oltre quello degli appassionati della cultura del Sol Levante.

Giuseppe Cangemi

Si può vivere un amore distanti? La teoria di Tondelli sulle “Camere separate”

Camere separate districa il confuso intreccio che è l’amore tra Leo e Thomas in un modo che non potrà che incantare chi lo legge! Voto UVM: 5/5

 

È il 1989 quando Pier Vittorio Tondelli manda in stampa per Bompiani Camere separate, il suo ultimo romanzo e testamento spirituale. Morirà soltanto due anni più tardi, a soli 36 anni, a causa dell’AIDS.

Il protagonista, Leo, è per certi versi l’alter ego dello stesso Tondelli, sebbene l’autore non abbia mai dichiaratamente parlato delle sue relazioni. Camere separate racconta di un amore tragico tra due giovani legati dal binomio amor-mors fondamentale nell’ars scribendi. Leo, uno scrittore trentenne, è alle prese con l’elaborazione del lutto di Thomas, un giovane musicista; il libro inizia con la notizia della morte del giovane amante e da lì parte per ripercorrere la storia di un amore folle diviso in tre “movimenti”.

Pier Vittorio Tondelli. Fonte: Mondadori Portfolio

Camere separate: amore a piccole dosi

Siamo di fronte a due uomini che girano il mondo e vivono il loro amore in “camere separate”, sempre lontani, incontrandosi ora qua ora là in giro per l’Europa. In particolare Leo, per quanto provi un amore bruciante per Thomas, si lascia sempre una via di scampo, vivendo giorni di passione con l’amante per poi sparire nuovamente a migliaia di chilometri di distanza.

Eppure, Jeanette Winterson nel suo Scritto sul corpo diceva “Perché è la perdita la dimensione dell’amore?” Leo è distrutto quando scopre della morte dell’amante nonostante fosse lo stesso che voleva sapere di potere fuggire da lui. Eppure, non ha più via di scelta: il giovane amante è morto.

“Abbiamo bisogno di molto tempo per accettare la brutalità del fatto di non essere più soli.”

Leo vive in una relazione, ma vive comunque una solitaria vita in questa o in quella città d’Europa. Ma per vivere ciò bisogna essere in due a volerlo… e a Thomas non andava più bene essere la parentesi di passione in mezzo a una vita di tempesta, lui aveva bisogno di un amore che fosse presenza.

Camere separate
Citazione da “Camere separate” di Pier Vittorio Tondelli

Vivere per eccessi, vivere un romanzo

“Tu mi vuoi tenere lontano per potermi scrivere. Se io vivessi con te, non scriveresti le tue lettere. E non mi potresti pensare come un personaggio della tua messinscena. […] C’è una voracità, che hai con le persone che ti vivono intorno, che mi spaventa.”

Per Leo la vita deve essere adrenalina, così da potere essere scritta e poter diventare romanzo, assumendo così un atteggiamento di smodato egoismo nei confronti del compagno, che desiderava soltanto amare ed essere riamato.

Il romanzo torna anche come citazione nella scena indie italiana grazie al gruppo Le Luci Della Centrale Elettrica, che nel brano Cara catastrofe canta “Che poi ci metteremo a tremare come la California, amore, nelle nostre camere separate/ A inchiodare le stelle/ A dichiarare guerre/ A scrivere sui muri che mi pensi raramente.” 

E quando si arriverà  alla fine della lettura di Camere separate probabilmente la domanda sarà: “ma è davvero una relazione?”. Le risposte potrebbero essere delle più diverse tra loro, ma è bello pensare che l’amore possa avere tante forme e tante modalità e che quindi il concetto di “camere separate” possa per alcuni essere assurdo e per altri la quotidianità. Credo che però il cuore della faccenda stia in una frase scritta da Tondelli nel libro:

“Nessuno può tenere distanti due persone che si appartengono”.

Camere separate è un turbine travolgente, uno zoom sulla vita di un solitario amante che fa arrabbiare il lettore e che fa parteggiare ora per l’uno ora per l’altro giovane, finendo con la vittoria dell’unica e ineluttabile morte.

Giulia Cavallaro

I Subsonica sbarcano sulla terra e nasce “Realtà Aumentata”

uvm 4 stelle
Le sonorità del rock elettronico dei Subsonica si scontrano con i grandi temi dell’attualità come disastri umanitari, catastrofi climatiche e guerre. – Voto UVM: 4/5

 

Non sono tempi semplici quelli in cui viviamo, lo sappiamo tutti: su di noi incombono numerose ombre come quella della crisi climatica e delle guerre in corso, solo per citarne qualcuna. Per non parlare poi di tutti quei temi ed eventi che scaldano  e polarizzano l’opinione pubblica, in particolar modo quella italiana (il verso d’apertura del disco recita In un covo di rancore, ben descrivendo il contesto socio-culturale italiano di oggi), come immigrazione, calo demografico, carovita e perdita del senso di comunità.

Sono sempre più numerosi gli artisti che, giustamente, sentono l’urgenza di parlare di attualità. Non è più possibile contenersi, la cronaca travalica i confini dei media e travolge così i suoni e le parole dei dischi, come Realtà aumentata. Ed effettivamente, rispetto al ’96, anno di formazione dei Subsonica, la realtà è davvero “aumentata” e non è più possibile abitarla come si vuole, è lei che abita noi: “la realtà è aumentata quando l’utopia si è arresa”, scrivono in Africa su Marte.

La band, nata all’ombra del quartiere Murazzi di Torino, storico epicentro piemontese di subculture e correnti artistico-musicali d’avanguardia, ha sicuramente avvertito questo passaggio d’epoca.
Dalle sperimentazioni di Mentale Strumentale, i Subsonica decidono di ritornare sui loro passi con un progetto uniforme che ricorda i lavori delle origini lasciando però spazio alla scorrevolezza del mainstream, un’unione che fu proprio da loro consacrata all’inizio degli anni 2000. 

Esplorazione e composizione musicale

Si torna a essere “esploratori nel proprio pianeta“: così si definiscono Samuel (voce e chitarra), Casacci (chitarra), Boosta (tastiere), Ninja (batteria) e Vicio (basso) nella presentazione all’album che pubblicano sul profilo Instagram della band.

La cover (realizzata dal designer Marino Capitanio) ritrae infatti un astronauta (o meglio un “afronauta” come scrivono in Africa su Marte) intento a percorrere il pianeta Terra ed assorbirne le vibrazioni da trasformare in prodotti sonici.

La tensione dello sbarco è ben rappresentata dal brano d’apertura Cani umani, i cui ritmi elettronici sincopati descrivono la disumanizzazione dei nostri tempi dove orrore e terrore sono a portata di click. Segue Mattino di Luce (terzo singolo estratto), un incontro fra synthwave retro e sonorità cosmiche che pone in parallelo eventi astronomici come la formazione di stelle da nebulose con la liberazione di se stessi dalle gabbie del conformismo.

In Pugno di Sabbia (primo singolo estratto) è chiaro il riferimento al trattamento riservato dalle istituzioni nei confronti delle seconde generazioni di immigrati regolari (vittime del loro passato e privati della possibilità di costruirsi un futuro):

“Non sono i cani di razza che
Urlano in piazza gridando che
Qui c’è un passato che non passa mai
Ed un futuro che non troverai”

Ritorna il tema in Nessuna colpa, dove l’invettiva non solo si fa più critica ma diventa una vera e propria accusa nei confronti del governo ritenuto responsabile delle stragi di migranti in mare:

“Se il mare affonda nella gola di un bambino
Se nello specchio si nasconde l’assassino
E in fondo quella presunzione tossica
Di essere eterni come solo la plastica
Conquistatori senza sensi di colpa
Neanche una volta, neanche una volta”

Ma in mezzo a temi così divisivi c’è anche spazio per l’emotività e i sentimenti: Universo è la vera gemma dell’album, una sapiente composizione di tastiere, archi, riverberi e viaggi cosmici.

La docile rassegnazione dei Subsonica

In alcuni momenti del disco gli elevati bpm lasciano spazio anche a commoventi ballads come Missili e droni. Proprio in canzoni come questa le parole vengono sfruttate per esprimere quella naturale rassegnazione e percezione di piccolezza di sé rispetto agli eventi del mondo:

“Vorrei dissolvermi
In giorni pacifici”

L’album si chiude infine sulle note di Adagio. Quest’ultima, un calmo epilogo di ripetute tastiere distorte e parte della colonna sonora dell’omonimo film di Stefano Solima.

E con queste sonorità soffuse si chiude un lavoro che probabilmente rappresenterà uno dei migliori dischi italiani dell’anno. Con Realtà Aumentata si ha davanti un disco musicalmente uniforme, in grado di portarci in diverse dimensioni sonore e tematiche. E in fondo questo i Subsonica l’hanno sempre fatto.

 

Francesco D’Anna

Intervista a Marco Bellocchio: maestro del cinema italiano moderno

Dagli studi al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma, alla sua attenzione sul vasto promontorio
della narratività intermediale. È una lunga storia quella del regista italiano Marco Bellocchio che lo scorso 7 dicembre ‘23 ha ricevuto, nell’Aula Magna del Rettorato dell’Università degli Studi di Messina, il Dottorato Honoris Causa in Scienze Cognitive, curriculum “Teorie e tecnologie sociali, territoriali, dei media e delle arti performative”. Durante la cerimonia, la laudatio tenuta dal professore di Storia del cinema, Federico Vitella, si è rivelata un ottimo modo per ripercorrere nel dettaglio la lunga ed affascinante carriera del regista:

“Abbiamo l’onore di consegnare il dottorato al più grande regista italiano vivente. Esponente del nuovo cinema italiano degli anni Sessanta ha saputo rinnovare l’arte cinematografica, svecchiandone la narrazione e spalancando le porte al cinema moderno”.

Sono state queste alcune delle parole pronunciate dal professore nel presentare minuziosamente la figura di Bellocchio. Difatti, per quanto il cinema moderno abbia provato a sottrarsi alla narratività, l’ha solamente resa più multiforme, ramificata e complessa. E la filmografia di Marco Bellocchio ne è la prova. Proprio lui che nel corso della sua carriera si è spesso trovato a fare i conti con la letteratura, in particolar modo con quella del ‘900, è stato capace di coniugare organicamente, nella sua cinematografia, i due modi del racconto scritturale: il mostrare e il raccontare. Un vero e proprio rinnovatore della forma, proprio come i suoi maestri. E noi di UniVersoMe non potevamo farci scappare l’occasione di conoscere un po’ più da vicino uno dei più grandi autori della storia del cinema italiano!

Bellocchio
Domenico Leonello intervista il regista italiano Marco Bellocchio. @ Ilaria Denaro


Dott. Marco Bellocchio, durante la sua Lectio Doctoralis ha citato autori che, come lei, hanno fatto la
storia del cinema. Ha parlato di espressionismo tedesco, di realismo francese. Ma da quale corrente cinematografica o, meglio, da quale autore lei sente di aver appreso di più?

È passato molto tempo. Io parlo della mia formazione. A quei tempi l’espressionismo tedesco o il grande
cinema sovietico avevano dei risultati straordinari. Naturalmente da quel momento ad oggi sono passati dei
grandissimi maestri. Si pensi ad Antonioni, a Fellini, a Rossellini o a Ferreri. Tutti grandi registi italiani che mi hanno condizionato. Si pensi anche al rapporto con Bernardo Bertolucci. Insomma, una lunga storia!

Immagino anche i principali autori della Nouvelle Vague: Godard e Truffaut. Come ricordava il professore di Storia del cinema, Federico Vitella, sono stati loro i primi a “tagliare i ponti” con il “cinéma de papa”, il “cinema di papà”.

La Nouvelle Vague è stata molto importante. Erano gli anni in cui io frequentavo il Centro Sperimentale di
Cinematografia di Roma. E loro, Godard, Truffaut, Chabrol e René, erano i grandi rinnovatori della forma!
In questo senso si, anche questi maestri sono stati sicuramente preziosi, utili, nel mio lavoro.

Nella sua laudatio, il professore di Storia del cinema, Federico Vitella, ha ricordato il modo in cui lei si è destreggiato nel mondo dell’intermedialità, della transmedialità e della virtualità. Restando, dunque, sempre nel campo delle “narrazioni espanse”, qual è la sua opinione sugli adattamenti cinematografici?

Sicuramente tutto quello che lei ha citato entra nel cinema e chiunque faccia cinema ne può essere
arricchito. Noi oggi usiamo tutte queste nuove tecniche che, in fondo, entrano naturalmente nella nostra
immaginazione e, di conseguenza, finiamo per ritrovarle anche nelle risposte che noi stessi diamo. In
passato, ad esempio, quando ho iniziato, non esisteva il discorso sul repertorio. Adesso invece i vari tipi di
immagini possono combinarsi, possono fondersi, e diventare un racconto del tutto nuovo.

Cosa consiglia ai giovani che desiderano intraprendere la sua stessa carriera o, comunque, entrare nel fantastico mondo del cinema?

(Sorride) Non so! È impossibile dare una risposta. Potrei farlo con qualcuno che conosco, di cui ho visto
qualcosa. Ma così, genericamente, io non posso dare una risposta poiché sarebbe del tutto superficiale.


Domenico Leonello

Caporedattore UniVersoMe


*Articolo pubblicato il 21/12/2023 sull’inserto Noi Magazine di Gazzetta del Sud

Scavo limbico

Leggerti è stato difficile

Una mente violata come una capsula del tempo 

Sepolta in giardino.

Ma non ti diseppellirò più

perché il passato merita il silenzio 

anche se le chete grida dei tuoi ricordi 

Si fanno sentire.

                  

               Carla Mascianà