Cyber warfare e diritto internazionale

Negli ultimi anni si è spesso parlato di “attacchi informatici” “cyber guerra” ecco l’occasione adatta per capire qualcosa di più a riguardo!

Lunedì 6 Marzo, presso la Sala Accademia dei Pericolanti, il IV ciclo di seminari organizzato dall’ILSA Chapter Messina sulle attualità del diritto internazionale.
Avrà inizio alle ore 10 con un intervento del prof. Marco Roscini, professore di International Law alla Westminster Law School, sul tema: “Cyber warfare e diritto internazionale”, affrontando quindi l’attualissimo tema delle guerre cibernetiche.
Interverranno i proff. Livio Scaffidi Runchella, ricercatore di Diritto internazionale dell’Università di Messina e il dottore Marco Longobardo (Università di Messina e University of Westminster, London).
I lavori saranno presieduti e moderati dalla  la prof.ssa di diritto interazione dell’Università di Messina Marcella Distefano.

Agli studenti di Giurisprudenza verranno assegnati 0,25 CFU.

 

Arianna De Arcangelis

Abbatti lo Stereotipo- Gli studenti di Chimica

Nelle sperdute periferie delle città risiedono dei poli universitari molto particolari (o, per lo meno, nella nostra periferia): i poli scientifici.

Ma non scientifici a caso, proprio scientifici scientifici. Proprio quelli che ti riportano all’era delle medie: matematica, fisica, chimica. Lì, camminano degli zombies nerd, che ripetono a bassa voce e tra sé, formule, radici, calcoli.

In mezzo a questa fauna, alcuni spiccano: hanno i capelli elettrizzati e in aria, sono sporchi in faccia, hanno i camici strappati.

Sono gli studenti in Chimica. Ta ta taaaan. Studiano in padiglioni sotterranei dove ci sono i loro laboratori segreti e, in combutta con i professori, sintetizzano droghe e sostanze che un giorno permetteranno loro di conquistare il mondo.

Ma, c’è sempre un ma, come sempre è arrivata, là dove nessun altro arriva, la rubrica di UniVersoMe Abbatti lo Stereotipo. Abbiamo preso, quindi, un esemplare abbastanza normale: altezza media, donna, bionda, non troppo intelligente (si scherza) e le abbiamo chiesto di aiutarci nell’impresa di sfatare gli stereotipi sul suo corso di laurea.

E quindi? Ci ha detto di . Per cui, ecco a voi, signori, io e la mia amica Chimica che abbattiamo i 5 stereotipi sugli studenti in chimica!

  1. Sono tutti drogati: iniziamo dal nocciolo della questione. Perché, si sa, appena il ragazzo carino di fronte a te, con cui stai prendendo una birra per la prima volta e ti sembra proprio un ammmooooreeee, ti dice che fa chimica, scatta il pensiero:’’ è un cocainomane. Chissà cosa mi ha messo dentro la birra. Aiuto’’.

Per il mondo, Bob Marley è il prototipo dello studente di chimica. Tutti fattoni, don’t worry be happy e ohi maria ti amo. Ma no ragazzi, no no. Intanto, non tutti si sfondano di crocodile sintetizzata nei laboratori universitari e poi, la vera domanda è: ma perché tu che fai giurisprudenza/medicina/agraria/sto cazzo non fumi? Da te i fattoni non ci sono? Questo stereotipo non sta proprio in piedi. Alcuni si rilassano in un modo, altri in un altro.

Ebbasta.

  1. Sono tutti geni pazzi: eeeeeh, ciuffo rosso naso all’insù camice bianco e stivaletti da schiaaaanto!

Cartoon Network docet. Chi non hai mai guardato il laboratorio segreto di Dexter? È per colpa di questo cartone che ci immaginiamo gli studenti in chimica così fiiighi come occhialini sexy e ciuffo rosso Dexter. Ho investigato. Ho buttato giù le librerie di vari amici, ho spostato sedie, cercato bottoni, scomparti segreti. Niente. Nessun laboratorio nascosto. Nessuna sorella stramba, altissima e stupida. Nessun bambino di 12 anni loro nemesi. Gli unici laboratori in cui vanno sono sempre quelli universitari dove ci sono, a malapena, mezza beuta e due palloncini per le feste.

Non sono geni. Non inventano cose strane. Sono un po’ noiosi. Quasi quasi alcuni non capiscono una ceppa di niente e parlano mezzo a rallentatore perché soffrono di disattenzione. Niente pazzia, visioni, invenzioni fuori dal normale. Un po’ di esaurimento da sessione. Che peccato. Una delusione, in realtà.

  1.  Si sentono in Breaking Bad: ovvia conseguenza dei primi due punti. Sono dei geni pazzi e fattoni, non possono che non sentirsi parte di questa serie Tv. Beh, no. È come se io andassi in giro per il Policlinico di Messina a provarci con tutti i neurochirurghi o i chirurghi plastici del policlinico (mi fa giustamente notare la mia amica Alessandra, ndr).

È chiaro che io non sono dentro grey’s anatomy e loro non sono dentro breaking bad. Non travisiamo: diciamo che per loro, questa serie tv, è l’apoteosi di quello che vorrebbero essere (e che probabilmente non saranno mai). Anche se, ad onor del vero, molti preferirebbero e si sentono di più proprio dentro Dexter che dentro Breaking Bad e tanti saluti.

  1. Si sentono Onnipotenti: PERCHE’ IO SO COME FUNZIONA LA VITA, IL MONDO, L’UNIVERSO. Siamo solo atomi, orbite, molecole. NOI CONOSCIAMO E STUDIAMO L’ESSENZA DELLA VITA, LA MATERIA.

Ecco, applauso. Dopo i 10 minuti di megalomania pouf, tornano a sbavare davanti alla play station. C’è poco da sentirsi onnipotenti nel sapere che siamo fatti di acqua e altri 4 elementi. Si puliscono il sedere con la carta igienica con la stampa della tavola periodica.

  1. Sono sporchi: sono dei selfisti anonimi anche loro e i loro selfie li ritraggono in laboratorio con gli occhialoni e i camici bianchi. No, non bianchi: grigi e bucati e schifosi. Ma questo non vuol dire che sono tutti sporchi o che sono sempre sporchi. Si sporcano a lavoro e cazzomene di pulire il camice, ma quando tornano a casa si fanno la doccia pure loro. Giurin giurello, fanno profumo. Ricordatevi pure voi di fare la doccia ogni tanto, soprattutto quando avete in programma di prendere un mezzo pubblico AD ESEMPIO.

Un abbraccio

Elena Anna Andronico

Alessandra Frisone

Da Stromboli a Idea di un’isola. La Sicilia e i siciliani per Roberto Rossellini

In occasione dei 40 anni dalla morte, la rassegna BAM – Biennale Arcipelago Mediterraneo, alla sua prima edizione, ha ospitato a Palermo nella sala dei Cantieri Culturali alla Zisa intitolata a Vittorio De Seta, una due giorni (17-18 febbraio) dedicata allo stretto legame intercorso tra il cinema di Roberto Rossellini e il soggetto che ha ispirato alcune delle sue pellicole più celebri.
Nell’incontro che ha preceduto le proiezioni sono intervenuti nel dibattito Bruno Roberti, critico ed esperto di Rossellini, il regista Franco MarescoRenzo Rossellini, figlio di Roberto e produttore cinematografico (ricordiamo, in mezzo alle centinaia di titoli famosissimi Il Marchese del Grillo di Mario Monicelli, Fanny e Alexander di Ingmar Bergman, La città delle donne e lo stralunato film a sfondo sociale Prova D’Orchestra di Federico Fellini).

Renzo Rossellini ha anche collaborato insieme al padre alla scrittura di quella che è la testimonianza diretta del suo rapporto d’elezione con la Sicilia e con la sua anima popolare: Idea di un’Isola è un documentario pensato per la TV americana con il contributo della Rai alla fine degli anni ’60 e di recente riproposto nella programmazione di Fuori Orario. Una terra sempre cara al cineasta che ha fornito una lettura attenta per raccontare in poco meno di 60 minuti i luoghi e le espressioni salienti sedimentate in secoli di storia della più grande isola del mediterraneo: “la mitica rupe di Scilla e il gorgo di Cariddi sono i pilastri dello stretto che la divide dal continente”.
A fare da raccordo a una carrellata che mette in simbiosi il teatro dei pupi, il vivo fuoco del folclore religioso, l’arte e l’islam, le saline e lo sguardo sulle industrie attive in quegli anni tra Gela e Milazzo, i tratti tipici del siciliano che quasi per abitudine secolare, costretto ad avere sempre un nuovo oppressore, ha maturato diffidenza, prudenza e segretezza: “in Sicilia certe cose non si dicono; si alludono. Per cui si è sviluppato un linguaggio più discreto di quello verbale, fatto di gesti. Più significativo”.

La voce fuori campo del palermitano Corrado Gaipa (doppiatore di Burt Lancaster nel Gattopardo) mostra uno spaccato interessante della realtà di alcuni luoghi, anche se non privo di una impostazione didattica un po’ cartolinesca, se vogliamo, del resto tipica di questo genere di produzione rosselliniana anche negli anni a venire, accompagnata a delle immagini documentarie comunque ricche di freschezza e leggerezza. Fu per effetto della forte presenza di immigrati italiani se nel ‘67 una famosa TV statunitense chiese a Rossellini di realizzare un cortometraggio che avesse come tema la Sicilia. Lui, che di Palermo conosceva ogni angolo, compresi i migliori ristoranti – ha precisato il figlio – accolse come un’opportunità irripetibile l’occasione del soggiorno nell’isola per realizzare le riprese. Alcuni critici osservarono come la rappresentazione idilliaca e pacifica di Idea di un’isola occultasse, al di là di una superficiale coloritura, ogni riferimento problematico alla mafia. Una decisione imputabile in buona misura alle direttive dell’emittente. Certo è che sono ancora lontani gli anni in cui le trattative stato-mafia, anche se già attive storicamente, sarebbero venute a galla.

Ma la Palermo tanto amata da Roberto Rossellini, città dell’accoglienza e scenario in cui civiltà diverse avevano convissuto (la Sicilia è la chiave di ogni cosa, diceva Goethe), è anche lo specchio del suo modo di operare con la cinepresa; tanto che, questa volta in tempi non sospetti, scrisse una sceneggiatura destinata a una serie in cinque puntate mai realizzata e pubblicata poi da Renzo col titolo Impariamo a conoscere il mondo musulmano (1975). Una storia dell’Islam rivolta alla televisione. Per Rossellini che nell’ultima lettera al figlio scriveva “ho cercato di fare per tutta la vita del cinema un arte utile agli uomini” il cinema doveva essere diretto non al “pubblico”, ma all’intelligenza della gente. Anche la televisione poteva quindi diventare uno strumento utile per non subire l’influsso della propaganda e per non diventare vittime di dittatori o come oggi, di politici prepotenti.
Bruno Roberti ha ricordato in proposito come il suo fosse un cinema senza uniforme: “È imprendibile, non può essere catalogato e storicizzato, per questo è attuale”.

Per molti abitanti di Stromboli l’arrivo della troupe insieme alle macchine da presa coincise con la scoperta del cinema. Il film del 1950 racconta l’incontro di una profuga con un prigioniero di guerra palermitano in un campo per stranieri alla fine della seconda guerra mondiale. Impossibilitata a tornare in Argentina la giovane decide di sposare l’uomo e, partendo da Messina, di trasferirsi con lui a Stromboli. Il tenore di vita e gli usi locali, molto lontani dalle sue abitudini, porteranno la ragazza a ripudiare il posto in cui si trova e desiderare di scappare dal giogo di un’isola primigenia e primitiva.

Stromboli – Terra di Dio (oggi in versione restaurata grazie alla cineteca di Bologna) è un film spiazzante e modernissimo, in cui polemicamente si è tentato di ravvisare un indizio di conversione al cattolicesimo ma che racchiude una spiritualità diversa, concreta e sofferente, che risiede nell’asperità selvaggia che riveste i tratti delle coste, che investe la severità del vulcano pronto ad esplodere, le case dei pescatori, e in generale l’umanità dei personaggi, cioè gli uomini e le donne dell’isola. Non traspare alcun giudizio morale o parodia macchiettistica costruita nel caratterizzare i siciliani che collaborarono a fianco di Ingrid Bergman (proprio a Stromboli nacque la sua storia d’amore con Rossellini. E per ripicca Anna Magnani lavorò a un altro film alle Eolie; Vulcano).
Prima di iniziare a girare il regista proiettò un film da mostrare abitanti di Stromboli per spiegare loro quello che stavano per fare. “Stromboli è un film sull’umanità, sulla cattiveria, e sulla capacità del cinema di redimere. Racconta delle cose vicine a quelle che viviamo oggi: un personaggio che arriva dall’estero e viene visto come un intruso. Un essere umano che viene trattato come straniero. Quello che sta succedendo un po’ oggi in Italia e in Europa”.
Così dopo il restauro è potuta riaffiorare tutta l’intensità delle immagini e la potenza feroce della natura. L’avventura di Stromboli non è soltanto quella legata a un film, e non si conclude una volta terminate le riprese, ma consiste nella capacità del cinema di entrare in contatto con un luogo e diventare parte delle memoria di una comunità.

Stromboli ha segnato un punto di svolta che non ha mancato di condizionare la Nouvelle Vogue francese.
Ma Rossellini ha inserito riferimenti alla Sicilia anche in Paisà e Viva l’Italia!. Se avesse potuto scegliere, ha detto Renzo con convinzione, avrebbe voluto essere siciliano; di loro ammirava l’intelligenza e il senso dell’umorismo: “Era anche innamorato della cucina siciliana e forse pure di qualche signora siciliana. Diceva che senza stima non si può amare. Lui stimava e si innamorava. Questa è la storia di Roberto Rossellini”.

Eulalia Cambria

Due team messinesi volano alla finale nazionale, EBEC Italy

Atomic Group”, team composto da Ambra Cancelliere, Maria Orifici, Anna Bonfiglio e Dario Morganti e “gli inCIVILI”, composto da Stellario Marra, Pietro Tripiciano, Gianmarco Amico, Rosella Audino: sono questi i componenti delle due squadre dell’ateneo messinese che hanno vinto il round locale della Competizione Ingegneristica più importante d’Europa, EBEC Messina, rispettivamente per le prove del Team Design e Case Study.

La competizione, giunta alla nona edizione, ha visto coinvolti studenti della facoltà di Ingegneria e di Scienze che si sono sfidati nel corso di due differenti prove: il Case Study, risoluzione di un problema manageriale fornito dall’azienda emergente nel territorio messinese “Innesta” (un incubatore di imprese nato per sostenere e dare nuova linfa vitale all’ecosistema imprenditoriale locale) e il Team Design, ovvero la realizzazione di un prototipo funzionante in un tempo limitato e con  risorse fornite. L’obiettivo di quest’anno è stato quello di creare una struttura usufruendo esclusivamente di pasta, scotch, colla e spago. Quattro ore di grande competizione, in cui ogni team ha messo in campo ingegno e creatività, ma non solo: tanto divertimento e lavoro di squadra hanno caratterizzato questa entusiasmante edizione di EBEC Messina.

 

A decretare i vincitori, una giuria composta da professionisti e soci dell’azienda partner: Giuseppe Arrigo, Marcello Perone e Lillo Giacobbo per Innesta, Gabriel Versaci, rappresentante delll’Ordine degli Ingegneri della provincia di Messina, Paolo Patanè dal Technology Transfer Office, Riccardo di Pietro, Candida Milone, Massimo Villari dall’ Università di Messina.

Le due squadre vincitrici parteciperanno al round nazionale presso il Politecnico di Milano, dal 31 marzo al 2 aprile. In questa occasione si sfideranno tutti i team vincitori provenienti dagli altri cinque atenei italiani coinvolti nella competizione: Roma “La Sapienza”, Roma Tor Vergata, Politecnico di Torino, Politecnico di Milano, Federico II di Napoli.

 

Grandi novità sul piano degli sponsor e partner che, quest’anno, hanno sostenuto l’iniziativa dell’Associazione studentesca; si ringraziano, in particolare: Pentel, leader sul mercato globale degli strumenti di cancelleria, MindtheGum, produttore di integratori alimentari per lo studio e anche UniVersoMe, radio ufficiale dell’ateneo messinese, che ha seguito in diretta la competizione. Ultimo ma non per importanza, si ringraziano i patrocini degli Ordini degli Ingegneri, dell’Università di Messina e del comune.


Il project manager, Giuseppe Ipsale, il presidente di BEST Messina, Francesca Callà, e l’associazione tutta, sono molto orgogliosi dei risultati ottenuti: l’evento, unico nel suo genere a Messina, ha avvolto gli studenti con puro entusiasmo in un sano clima di competizione, evadendo dalla routine universitaria.

Laura D’Amico

Cancro: i batteri patogeni come nuove armi di difesa

Era il 1901 e siamo negli USA, quando il medico chirurgo William Coley, specializzato in chirurgia ortopedica, s’imbatté in un paziente affetto da sarcoma.

Siamo all’inizio della storia del cancro: la parola stessa era stata coniata da una decina scarsa di anni e le tecniche che conosciamo oggi, quali chemio radio ed immunoterapia, non avevano ancora un nome. Il dr. Coley, però, pioniere della medicina, voleva salvare il suo paziente.

Già nell’800 si notò che alcuni tumori crescono più lentamente in concomitanza con alcune infezioni. Durante quel secolo, ovviamente, il problema risiedeva nel fatto che non esistevano cure antibiotiche e, quindi, erano proprio le infezioni batteriche a causare la morte dei pazienti.

Nei primi anni del 900, però, il dr. Coley fece quell’idea sua e fu così che, senza saperlo, buttò le basi della moderna immunoterapia: creò la tossina di Coley, a base del batterio Erisipela, agente patogeno di svariate malattie infettive cutanee, che portava la cura direttamente nel loco della lesione maligna.

Coley credette che i risultati furono scarsi e l’idea, con l’avvenire della guerra, fu abbandonata nel dimenticatoio. Non poteva sapere che una ricerca del 1999 ha comparato 128 suoi casi con oltre 1.600 pazienti trattati con le terapie più recenti, dimostrando che il vaccino del medico americano garantiva una sopravvivenza media di 8,9 anni, contro i 7 dei pazienti di oggi.

Germania, 2012. Uwe Hobohm, chimico biologo dell’università tedesca di Giessen, decide di rispolverare l’idea. In vitro si è visto come le immunoterapie batteriche (le terapie che sfruttano i batteri per attivare il sistema immunitario) sono in grado di stimolare la produzione di citochine, molecole che danno il via alla reazione del sistema immunitario, documentando inoltre la regressione del tumore del paziente.

Sud Corea, 2017. Il vitro è, finalmente, stato superato. Ora sono i nostri amici topi i nuovi protagonisti di questa stupefacente ricerca e, tra i vari batteri testati in laboratorio, un nemico trasformato in amico: il batterio della Salmonella. Cautamente modificato in laboratorio e riempito di farmaci antitumorali, è stato scelto un ceppo batterico provvisto di flagello (quindi in grado di muoversi) che, una volta iniettato nel topo malato di tumore del colon, si è visto arrivare esattamente dove si sperava: nelle zone necrotizzate dove cresce il tumore, rilasciando così il cocktail di farmaci.

Non solo: si è scatenata negli animali una potente risposta immunitaria e al controllo, dopo 4 mesi, si è potuto verificare che il tumore era scomparso in più della metà degli animali. Inoltre, e qua sta probabilmente la vera scoperta, gli animali in cui si è scatenata tale reazione sono stati solo quelli infettati proprio con il ceppo batterico provvisto di flagello. Sarebbe quindi emerso che sono esattamente le proteine batteriche del flagello a svegliare il sistema immunitario dell’ospite.

Due piccioni con una fava, si direbbe: da una parte, si cerca di sfruttare i microbi come cavalli di Troia per portare farmaci direttamente all’interno delle cellule tumorali; dall’altra, si pensa di usarli come fantocci per segnalare alle cellule del sistema immunitario di scatenare l’attacco.

 

Elena Anna Andronico

Alessandra Frisone

Sotto il cielo c’è una gran confusione.

Il caos regnava prima ed è solo aumentato col nuovo anno.

noemi554266_396001393827287_301528613_n-f7613La confusione è amica dei potenti, getta sabbia negli occhi della maggioranza e scredita gli “investigatori della verità”.
Il caos è mezzo favorito per difendersi spostando l’attenzione su fatti per i quali l’incidenza è teoricamente pesante e permettendo così di agire verso il fine reale.
Si attaccano prima i magistrati e il sistema giudiziario per poi passare alla stampa divulgatrice di falsità e costantemente opposta al potere di turno.
Lavoro non facilitato da quella cerchia di giornalisti e comuni cittadini che , un po’ per divertimento un po’ per la retribuzione , diffondono il falso e tendono alla calunnia. Questa è questione antica lo stesso Umberto Eco in una intervista con Livio Zanetti alla fine degli anni Novanta criticava certa stampa di titoli ingannevoli o falsi scoop.
C’è bisogno di buon senso di discernimento per destreggiarsi nel bombardamento di informazioni a cui siamo sottoposti quotidianamente, l’errore è comunque in agguato.

Mentre gli spettri della xenofobia e nuovi nazionalismi aumentano di forza e dilagano in Europa  in Italia c’è un’istinto di “coprirsi gli occhi”.
Il 1968, l’anno in cui Pier Paolo Pasolini teneva settimanalmente la rubrica “Il caos”  in cui documentava e rifletteva sulle questioni di quegli anni, sembra una realtà estranea da quella odierna.
La politica preferisce parlare di “scissioni” “dimissioni” “nuove elezioni” e non di compromessi in virtù di fini superiori e comuni.
Se una faccia della medaglia è l’ immobilismo politico dall’altra il caos : in mezzo mondo milioni di donne e uomini si ribellano, gridano no ai soprusi dei governi e aspirano ad un cambiamento, le piazze si riempiono e si fa politicaCrk-PPLWIAEtu4b

Hobsbawm nel suo “Secolo breve” che iniziava cronologicamente con lo scoppio della prima guerra mondiale parlava di fallimento di ideologie e presenza di uomini forti e terminava con la prima guerra del Golfo.
Il saggio si conclude con una riflessione  sulla possibilità di una implosione o esplosione della società conosciuta fino ad allora e avverte che il futuro non può essere una semplice continuazione del passato. 

Per i greci Χάος era un “immenso spazio vuoto”  l’opposto di ciò che è ora per noi, e per i filosofi il luogo in cui il si attinge per la formazione dell’ordine.
E’ in questo spazio vuoto che si inseriscono le novità.
La molteplicità può portare a soluzioni uniche ed adatte a sciogliere i nodi. Trovando i punti di contatto, eliminando il superfluo e il nocivo, tutto sta nella capacità della formazione sociale di “capare” il necessario. 

Il pluralismo può confluire in univocità : l’Europa può ridefinire gli elementi fondamentali e proporre adeguati modelli meritevoli del suo eterno (fino ad ora) soprannome  di  “patria della democrazia”.

Arianna De Arcangelis

Vivere sportivi: la passione

“Lo sport come educazione di vita sociale” è la tipica frase che il grande dice al piccolo. Il piccolo cresce, apprende e applica. Ma cosa apprende? Cosa applica?

Nella nostra Italia è oggettivamente accertato che lo sport più applicato sia il calcio, vuoi per cultura o vuoi per interazioni mediatiche. Il gioco del calcio, bellissimo e interessantissimo se si approfondiscono studi tattici o schematici, trova dal canto suo molteplici interpretazioni che talvolta possono risultare in contrasto con l’esclamazione di cui sopra.
divertimento

 

 

 

 

Il mondo del “pallone” può essere suddiviso in tre branche: professionistico, dilettantistico e amatoriale. Ognuno di questi tre rami ha valenza nella vita di uno sportivo, ma con le relative attenzioni derivanti dagli interessi propri.

Cos’hanno in comune queste tre tipologie? La risposta è molto semplice. Sono infatti due i punti in comune: le regole del gioco e la passione.

Ecco la passione. La passione è, o quantomeno dovrebbe essere, il fulcro di ogni azione (sportiva e non), ma è chiaro che il mondo politicizzato e strumentalizzato in cui viviamo ha fatto venir meno quest’essenziale prerogativa. Fortunatamente, però, non dappertutto.

Ed è proprio qui che passiamo alle differenze tra questi tre “tipi di calcio”. C’è chi è deciso nell’affermare che il calcio dilettantistico è la porta del calcio professionistico e c’è poi chi, invece, quasi disdegna il calcio dei professionisti consegnando anima e corpo a quello dei dilettanti.

Lo sport mediatico ha oggi un’importanza non banale sulla cultura di massa, in particolare nel calcio, dove diritti televisivi e sponsor hanno preso il controllo del gioco e di conseguenza delle menti di quei piccoli, i quali, nel tentare di imitare i professionisti, spesso e volentieri perdono di vista il significato dello sport in senso stretto: passione e aggregazione (…come educazione di vita sociale!)

Discorso diverso va fatto per il calcio amatoriale: probabilmente il calcio più sano e amichevole che esista, non perché non vi è competizione, bensì perché l’unico reale obiettivo di questa tipologia è lo svago, che a sua volta si può interpretare come salutare attività motoria con fini socializzanti, incentivato per lo più anche da autofinanziamenti.

È chiaro che il calcio professionistico offre molto di più dal punto di vista tecnico-tattico e se è vero che anche l’occhio vuole la sua parte non si può che avallare tutto l’audience che genera su ogni formato di pubblico, senza diversità d’età o di genere. Paradossalmente però il calcio dilettantistico offre qualcosa di più profondo in valore assoluto: la competizione non manca e in più vi è quella voglia e quell’amore per lo sport necessaria per compensare i limiti tecnici. Limiti che da sempre e per sempre impediranno di fare dello sport la propria professione, ma che mai riusciranno a ostacolare ne frenare il sentimento del dilettante.Scuola calcio: Temporary e Iper

Pertanto, qualunque tipo di calcio si preferisca può fare da esempio o stile di vita, ma solo se accolto in modo soggettivo e sempre e comunque in tutela del sentimento per lo sport.

In conclusione, il problema non sta nelle differenze tra i vari tipi di calcio, perché sia in quello professionistico che in quello dilettantistico e amatoriale, il gioco è sempre lo stesso e con le stesse regole. Il problema consiste nell’interpretazione che ognuno di noi prova a dare a queste tre realtà sportive.

L’auspicio è dunque che il piccolo, mentre cresce, apprenda i molteplici valori dello sport tanto dal punto di vista dell’attività fisica quanto da quello della competizione e dell’aggregazione, indipendentemente dalla categoria in cui lo andrà a praticare. Così da diventare egli il grande di domani che trasmetterà al “nuovo” piccolo questi essenziali principi per non tralasciare e trascurare il senso dello sport (e della vita).

Essere sportivi significa vivere sportivi. Vivere sportivi significa vivere sani e competitivi.

 

Mirko Burrascano

L’assoluta felicità

Charles-Eugène-Plourde-Se-non-trovi-la-felicità

Nel momento in cui mi chiedo quale sia la risposta alla quotidiana domanda “cos’è la felicità?” , la prima parola che riesco a scovare è, probabilmente, “utopia”; se poi, cerco nel fondo del mare di definizioni – errate o incomplete che siano – che la mia mente associa alla parola felicità, forse la accosterei ad un momento, ad un’emozione o, addirittura, ad una persona.

Altrettanto spesso, mi ritrovo ad accontentarmi della risposta quasi rapida e inevitabilmente superficiale che mi do.

Ma per il resto del tempo, nei momenti in cui non mi pongo questo interrogativo, qual è la risposta?

Tra i metafisici, coltivare la virtù più elevata era il gradino da salire per raggiungere l’ambita ed elevata eudaimonia – letteralmente, lo spirito buono o più comunemente, la felicità.

Nietzsche, d’altro canto, proporrebbe la teoria della felicità come forza vitale e lottatrice; come colei che non limita la libertà ed afferma il suo essere, senza ricadere nell’effimera condizione di pigrizia e di staticità.

È forse, quindi, il più cospicuo di un modello concettuale o è una figura da imitare?

Soffermandomi sul sorriso di un bambino che gioca, sulla mia famiglia che scherza a tavola o su un mio collega che si laurea, ogni teoria viene sbaragliata dal concetto dell’attimo.

Ritorno, allora, a trovare una soluzione diversa ad un quesito apparentemente insulso.

Ma se la felicità è un attimo, è fallace: un momento è lì e la vedi con gli occhi; la tocchi con gli angoli di bocca rivolti verso il cielo.

E per ognuno, la felicità è un istante diverso, è soggettiva.

Dunque, non solo è l’illusione di un momento ma ricade nella propria realizzazione – o per meglio dire – nelle scelte.

Ci sono.

La felicità è capire cosa vogliamo che, di per sé, rappresenta uno stato relativo di gioia e che raggiunge il suo stato assoluto nel momento in cui si ottiene quello che ci si prefissa come un obiettivo.

Magari, per quella ragazza che sta sorridendo davanti ad uno schermo di un cellulare, l’apice sarà un bacio; per quell’uomo che è stato appena licenziato, sarà un posto di lavoro; per quella donna con il pancione, sarà tenere tra le braccia la sua piccola creatura.

E dopo aver raggiunto questa vetta, cosa c’è?

Poi c’è un’altra felicità, un altro obiettivo o, piuttosto, un nuovo sogno.

Riassumendo, collegando, cercando fra i miei pensieri la risposta a “che cos’è la felicità?” credo sia questa: la felicità è un sogno, fugace ma continuo.

Jessica Cardullo

Abbatti Lo Stereotipo- Gli studenti di Professioni Sanitarie

l_46eoBentornati signori e signore su Abbatti lo Stereotipo! Questa settimana ci schieriamo in favore degli Studenti di Professioni Sanitarie: discriminati da tutti che manco Salvini quando se la prende Fedez, considerati i servetti e le brutte copie degli studenti di Medicina meritano, finalmente, giustizia!

  1. Tanto volevi fare medicina, ti sei accontentato

Oh, santa pace. Questa affermazione, per uno studente di Professioni Sanitarie, è come il mantra che i testimoni di Geova ripetono piazzati dietro la tua porta la domenica mattina: ‘’ricordati che devi morire’’.

‘’Ricorda che volevi fare medicina, ma ti sei accontentato’’.

Se possibile, verrà scritto loro sulla lapide: ‘’Voleva fare medicina, è entrato in professioni sanitarie’’.

Ma perché questa mera convinzione? Ci avete mai pensato che, magari, non volevo fare il medico? Che, magari, ho davvero il desiderio di essere una terapista dei bambini, una logopedista, un infermiere, un fisioterapista? Che, magari, 14 anni di studio se li fa tua sorella monaca chiusa in monastero e non io? Che, sempre MAGARI, la medicina mi fa schifo? No, tanto per chiedere.

E, anche se avessi provato medicina e non ho superato i test, MAGARI, mi sono innamorato lo stesso di questa altra professione?

Basta, comunque. Puoi dormire sogni tranquilli, o villico: non sono fatti che ti riguardano ma NO, non tutti volevamo fare Medicina. Fattene una ragione. L’unica che si è accontentata qua è tua mamma, rassegnata al fatto che ha partorito un mezzo imbecille.

  1. Ah, ma il test di ingresso è facile! È semplice superarlo!

Come no! Certo, con i test di medicina ci sono alcune differenze, ma la preparazione è la stessa in termini di argomenti da affrontare. E poi, sapete che i posti disponibili per l’iscrizione al corso di laura sono pochi? In fisioterapia, solamente 1 studente su 14 sarà ammesso.

Quindi, sappiate che non è semplice. No.

  1. Che fai? Ma perché, fa parte di professioni sanitarie? Ma è un lavoro quindi?

No. È uno sport. Invece che aver fatto pallavolo, io ho deciso di fare il Tecnico Radiologo. Faccio il salto ad ostacoli tra le Tc. Pratico il lancio del mezzo di contrasto contro vento.

Invece che aver iniziato a praticare nuoto, mi diletto all’allenamento dei muscoli facciali. Per questo ho scelto Logopedia: voglio diventare un body builder solo dei muscoli della faccia.

Ah, per non parlare di Fisioterapia. Sai, andare in Giappone a fare la geisha costava troppo, quindi ho deciso di ripiegare su fisioterapia.

Non è per essere antipatici però se ti dico che seguo il corso di laurea in baby-sitteraggio dei tuberi di patate, EVIDENTEMENTE, un giorno, se tutto va bene, sarà il mio mestiere. A domande retoriche come siamo?

(c’è una cosa meravigliosa che si chiama Google. Se tu scrivi parole anche a caso, trova le risposte alle tue domande.)

  1. Lo hai fatto perché non volevi nessuna responsabilità vero? Ti piace vincere facile!

Chiaramente, lavorando in un ambiente atto ad aiutare la gente a stare bene, mi sembra ovvio che io abbia deciso di fare il fisioterapista perché, mensa mai gli rompo due ossa o gli provoco uno stiramento muscolare, non mi venga detto nulla. Perché, sempre chiaramente, se io faccio male a qualcuno pace, non sono un medico, sono un ortofrutticolo.

È proprio per questo, sì. Mi sono alzato una mattina ed ho pensato:’’ Sai che ti dico? Voglio un lavoro che mi dia poche responsabilità. L’ingegnere? Nah, faccio crollare i palazzi. L’avvocato? No, poi se faccio finire qualcuno in galera… Il pescivendolo? Mhm, e se per caso vendo del pesce con il mercurio e il mio cliente muore per intossicazione?!? No, no, meglio evitare. Ah, ci sono! Faccio l’infermiere! Che se mi scappano 10 cc in più di un farmaco e quello crepa, amen, Rip, pace all’anima sua.”

  1. Ma vale lo stesso indossare il camice in reparto e usarlo per rimorchiare?

Oh, eccome se vale.

Anche se poi non sai spiegare in breve alla/o sconosciuta/o cosa studi… e rimandi l’approccio al post-laurea.

Elena Anna Andronico

Jessica Cardullo

Per un appello in più

WhatsApp-Image-2017-01-23-at-15.35.04-840x420Com’è che dice quella canzone? Ah sì “ti lamenti, ma che ti lamenti, pigghia lu bastuni e tira fora li denti”.
Uno degli obiettivi principali di ogni programma delle liste presentatesi durante le elezioni, era l’aggiunta dell’appello di Marzo che era stato eliminato per il calendario d’esami dell’A.A.2016/2017. Tanto hanno fatto e tanto hanno detto, che i neo eletti consiglieri di giurisprudenza hanno ottenuto l’aggiunta di un post-appello per la sessione invernale.
Il sit-in organizzato il 23 gennaio davanti ai cancelli della facoltà di Giurisprudenza, al grido degli hashtag #ridatecilappello e #MAVpagatoappellonegato, ha ricavato i suoi frutti per la gioia (e aggiungerei anche salvezza) di tutti gli studenti di Piazza Pugliatti.
Giorno 1 febbraio il direttore del dipartimento De Vero, in seduta di consiglio straordinaria (alla quale, però, non hanno potuto partecipare i rappresentanti degli studenti perché ancora non proclamati) ha proposto ai professori l’aggiunta di nuove date per sostenere gli esami; questi ultimi hanno deliberato a favore dell’introduzione del post-appello per tutte le materie relative alla sessione di Febbraio.
Nel comunicato ufficiale del Consiglio dei rappresentanti di Giurisprudenza, i consiglieri hanno esposto le modalità di prenotazione: “Ferme restando le date prefissate da calendario (sia per gli appelli che per i termini di prenotazione) i docenti, il giorno stesso del loro esame daranno la possibilità a tutti coloro i quali vogliano usufruire del Post-appello, di presentarsi in altra data da loro comunicata lo stesso giorno.
Sottolineamo che è necessaria comunque la presenza il giorno della prima data prevista da calendario per via delle difficoltà, da parte del sistema esse3, nella registrazione delle assenze, per cui gli studenti che vogliano usufruire del suddetto Post-appello dovranno comunque recarsi il giorno dell’esame prestabilito e comunicare la loro volontà di sfruttare la data successiva che verrà comunicata il giorno stesso (L’intervallo sarà, presumibilmente, tra i 7/10 giorni).
Purtroppo su questa situazione i docenti non possono fare altrimenti e si sono premurati di sottolineare ciò, ferma restando questa loro apertura rispetto le esigenze da noi portate avanti.”
Inoltre, chi si presenta all’appello ufficiale di Febbraio sostenendo l’esame, anche se ritirato, non potrà sostenerlo nelle date del post-appello, che dovrebbero rientrare tra il 20 ed il 28 Febbraio (salvo discrezione del professore). 
Questo risulta un grande traguardo raggiunto dagli studenti e per gli studenti. Certo non è nel mese di Marzo, nè risulta un appello ufficiale che verrà aggiunto con certezza nei calendari degli anni a venire, ma è sempre un passo avanti, che sicuramente non si fermerà qui. Come ci disse una volta il Magnifico RettoreGli studenti SONO l’Università”: che sia in concreto così. Ad maiora! 
Giulia Greco