Megalopolis: il “film della vita” di Coppola è Cinema ma non convince

Megalopolis
Un film che dal punto visivo coinvolge e che con un linguaggio particolare vuole lanciare un messaggio, ma lo fa con ritmo discontinuo e risultando anche “fuori tempo” Voto: 3/5

 

Megalopolis è un film del 2024 scritto, autofinanziato, prodotto e diretto da Francis Ford Coppola (regista di film come Apocalypse Now, o la trilogia de Il Padrino). È stato presentato in anteprima al Festival di Cannes tenutosi lo scorso Maggio e anche di recente, al Festival Del Cinema Di Roma, dove ha rilasciato una stupenda intervista.

Il cast è composto da Adam Driver, Giancarlo Esposito, Nathalie Emmanuel, Aubrey Plaza, Laurence Fishburne, Dustin Hoffman, Shia LaBeouf, Jon Voight.

Trama

Cesar Catilina (Adam Driver) è una delle persone più importanti di New Rome, affermato architetto che ha vinto il Premio Nobel per aver inventato il Megalon, un materiale capace di far avere una visione futura della città, che appare piuttosto rivoluzionaria. È ingiustamente accusato di aver avuto un ruolo nel suicidio della moglie dal procuratore distrettuale Franklyn Cicero (Giancarlo Esposito). Quest’ultimo è divenuto sindaco e vuole ostacolare a tutti i costi il progetto architettonico di Cesar, che consiste nell’utilizzo del Megalon per restaurare la città e costruire Megalopolis, per mantenere una visione conservatrice e non lasciare che la città progredisca. Cesar ha l’appoggio di suo zio Hamilton Crassus III (Jon Voight), mentre suo cugino Clodio (Shia LaBeouf) cerca di ostacolarlo con una campagna politica. Julia (Nathalie Emmanuel) è la figlia del sindaco, diverrà presto l’amante di Cesar e questo la porterà a ritrovarsi combattuta tra quest’ultimo e suo padre Franklyn.

In tutto questo, la città sta arrivando sempre di più verso la decadenza.

Megalopolis, osare alla maniera di Francis Ford Coppola

Nel bene e nel male, Francis sa come fare il regista e il suo tocco ha dato una svolta non indifferente alla storia del cinema. Appartenente alla categoria di registi che hanno formato la nuova Hollywood (la stessa dove si annoverano anche Steven Spielberg, Martin Scorsese, Stanley Kubrick), Coppola è sempre stato un uomo che adora fare cinema e nonostante abbia avuto diverse difficoltà nella vita e non tutti i suoi film siano stati dei successi, non si è mai arreso e ha sempre voluto osare o sperimentare alla regia, uscendo sempre a testa alta. La sua passione per il cinema si vede dai suoi prodotti e dal suo stile osmotico. I suoi film uniscono intelletto, bellezza, stile ed emozione e riescono a toccare sia la mente che il cuore, con un tocco che include sia la poetica che la drammaticità e che garantisce uno spettacolo visivo e sentimentale.

Anche nel “peggiore” dei suoi film si percepisce ciò e che non è infallibile lo ha dimostrato ora nel suo “film della vita”: Megalopolis.

Megalopolis
Veduta di New Rome.  Fonte: Eagle Pictures

 

Il Caso “Megalopolis”

In un’epoca difficile come questa, il cinema sembra che punti più sui guadagni che sulla comunicazione. Questo non sta a significare che sia un male ed è giusto che ci siano i prodotti d’intrattenimento (che possono essere anche questi di qualità), ma non si deve perdere la vera magia del cinema e l’amore per esso.

Registi come Coppola hanno un problema, ossia sono rimasti ancorati a vecchie tradizioni (nobilissime) senza adeguarsi alla contemporaneità. Ciò porta le case di distribuzioni a non scommettere tanto su di loro, il che rende assurdo che il regista de Il Padrino faccia fatica a lavorare e che debba autofinanziarsi un progetto verso cui credeva tantissimo. Investire diverso tempo e molti soldi per il “lavoro della vita” può portare ad un grande risultato, ma solo perché si parla di Coppola non significa che sia per forza un capolavoro.

Megalopolis
Cesar Catilina (Adam Driver). Fonte: Eagle Pictures

“Megalopolis” è cinema con la C maiuscola, ma capace di far discutere

Megalopolis è cinema con la C maiuscola, una di quelle pellicole che comunicano messaggi con un linguaggio non troppo semplice ed estetica ricercata. E’ palese che il regista ci tenesse a realizzare una pellicola che avesse idee sue personali da inserire nei personaggi. Una denuncia alla società contemporanea su tutti i fronti, rappresentata qui come un’antica Roma che fa fatica ad adeguarsi ai tempi che corrono. L’odissea che ha dovuto affrontare Coppola nella realizzazione del suo progetto viene raccontato con una favola metaforica. Anche il personaggio di Cesar ha delle similitudini con Coppola stesso, è un uomo che ha una grande visione che non viene compresa da tutti.  Un uomo che deve fare i conti con il tempo che scorre e con la difficoltà di adeguatezza che lo contraddistingue. Megalopolis è una pellicola che mostra una visione del futuro già passata e quindi “fuori tempo”.

La trama del film è semplice, ci si può fare un’idea sugli ideali del regista, ma è lontano dall’essere definito un capolavoro. Alcuni errori sono stati commessi, come un ritmo discontinuo e con una mancata cura nella scrittura di qualche personaggio.

Un film forse già vecchio

Se da una parte si può considerare una storia che rispecchia il regista, con la sua visione e il suo stato d’animo, dall’altra questo mancato adattamento ai tempi che corrono hanno reso Megalopolis un film già “vecchio” ancor prima che uscisse, perché la visione sul futuro è una visione già passata. Megalopolis è un film destinato a far dividere e a far discutere, perché non sarà compreso da tutti, naturalmente. C’è chi lo definirà un capolavoro e chi invece, un pasticcio confusionario con delle scene che sfiorano anche il trash, in alcuni momenti.

Ma lo si può anche considerare un film che attira l’attenzione e che riesce trasmettere qualcosa, notando tuttavia anche difetti che stonano con la pellicola, su alcuni fronti.

 

 

Giorgio Maria Aloi

 

 

 

 

 

 

 

I Dream Theater e il loro “incubo d’una notte di mezza estate”

Night Terror dei Dream Theater è una cavalcata musicale da brivido catturata in poco meno di dieci minuti di ascolto. Voto UVM: 5/5

I Dream Theater, band progressive metal vincitrice di un Grammy, hanno rilasciato il loro nuovo singolo Night Terror, tratto dall’album Parasomnia. Il disco, – il primo dopo 15 anni con l’iconica formazione originale composta dal cantante James LaBrie, dal chitarrista John Petrucci, dal bassista John Myung, dal tastierista Jordan Rudess e dal batterista Mike Portnoy dopo Black Clouds & Silver Linings del 2009, – è stato prodotto dal chitarrista John Petrucci, progettato da James “Jimmy T” Meslin e mixato da Andy Sneap, con Hugh Syme nuovamente alla direzione creativa della copertina. “Parasomnia” è un termine che indica disturbi del sonno dirompenti, tra cui sonnambulismo, paralisi del sonno e terrori notturni. Il nuovo singolo si presenta, infatti, come un viaggio sonoro che affronta il tema della paralisi, un’esperienza che molti di noi hanno vissuto almeno una volta nella vita.

Parasomnia: il ritorno alle origini dei Dream Theater

Il ritorno di Mike Portnoy ha suscitato grande entusiasmo tra i fan, – per la prima volta, dopo anni, la band suonerà in formazione originale questo 26 ottobre al Palazzo dello Sport di Roma. È forte la presenza di Mike in Night Terror, dove la sua batteria potente e precisa si intreccia perfettamente con le complesse linee di chitarra di John Petrucci e le tastiere atmosferiche di Jordan Rudess, mentre la voce di James LaBrie, sempre espressiva e dinamica, guida l’ascoltatore attraverso un paesaggio sonoro ricco di emozioni contrastanti. Il testo di Night Terror è un’immersione profonda nei meandri dell’inconscio. La canzone inizia con immagini vivide di ragni che cercano riparo e svaniscono con l’alba, simboli di paure che si dissolvono alla luce del giorno. Tuttavia, il sollievo è solo temporaneo, poiché il protagonista si ritrova intrappolato in un ciclo di angoscia notturna.

La canzone descrive una serie di torture fisiche e mentali, con riferimenti a martiri sacrificali e processi notturni col fuoco. Tutte immagini che evocano un senso di impotenza e disperazione, mentre il protagonista lotta per liberarsi da un incubo senza fine.

“Night terror, hysteria, nocturnal trial by fire”

È attraverso la continua ripetizione di questa frase nel ritornello che la band sottolinea la natura ciclica e inesorabile di questi terrori notturni.

Dream Theater
Dream Theater: la band al completo. Fonte: vice.com

L’architettura onirica di Night Terror

Musicalmente, Night Terror è un capolavoro di progressive metal. La canzone si apre con un’introduzione strumentale che crea un’atmosfera inquietante, seguita da un crescendo di intensità che culmina in un assolo di chitarra mozzafiato di Petrucci. La sezione ritmica di Portnoy e il basso di John Myung forniscono una base solida e dinamica mentre le tastiere di Rudess aggiungono strati di complessità armonica.

I Dream Theater non sono nuovi nell’esplorare temi oscuri e complessi. Night Terror richiama alla mente brani come A Nightmare to Remember e The Dark Eternal Night, che trattano anch’essi di esperienze traumatiche del sonno. Ma questo singolo, in questo momento, rappresenta un qualcosa di più per la band: è una testimonianza della continua evoluzione dei Dream Theater e della loro capacità di creare musica che non solo intrattiene ma sfida e ispira. Con il ritorno di Mike Portnoy, la band sembra aver ritrovato una nuova energia e un rinnovato senso di unità. Questo brano è un must per tutti i fan del progressive metal e un’aggiunta preziosa al già ricco repertorio dei Dream Theater. Buon ascolto e, per chi li ascolterà il 26 ottobre a Roma, buon concerto!

 

Domenico Leonello

Se vorrai

Se vuoi guardarmi negli occhi
Ci penseranno le stelle
E se vorrai il mio sorriso aspetta
Che la luna sorge presto

Un abbraccio si perde nei passi
Ma ricorda, hai il vento
E se mai soffrirai troppo il freddo
Hai mille raggi di sole

Se vorrai darmi la mano
Ci penserà a toccarti la pioggia
Se troppa, avrai un ombrello
Come fosse una mia giacca

-Sole

 

Poesia di Helios Gentile
Illustrazione di Marco Castiglia

“Iddu”: Fotografia dell’ultimo latitante

"Iddu"
Un film che vuole scavare a fondo nella psiche di Matteo Messina Denaro e lasciare una riflessione sulla dinamica sociale presente, anche sfiorando l’immaginazione – Voto UVM: 3/5

 

Iddu – L’ultimo Padrino è un film del 2024, diretto da Fabio Grassadonia e Antonio Piazza, con protagonisti Elio Germano e Toni Servillo. Distribuito da 01 Distribution e prodotto da Rai Cinema e Indigo Film , è ispirato a un momento specifico della latitanza del boss mafioso Matteo Messina Denaro. E’ stato presentato in anteprima lo scorso 5 Settembre alla 81° Mostra d’arte cinematografica di Venezia ed è arrivato nelle sale il 10 Ottobre.

Trama di “Iddu”

Sicilia, primi anni 2000, Catello Palumbo (interpretato da Toni Servillo), condannato per concorso esterno ad associazione di tipo mafioso, esce dal carcere dopo aver pagato il suo debito con la giustizia. Ritornato a casa dalla sua famiglia, viene messo in contatto con i servizi segreti che gli propongono di collaborare alla cattura del suo figlioccio, ovvero Matteo Messina Denaro (interpretato da Elio Germano), che è in latitanza da diversi anni.

Di conseguenza, Catello inizia a scambiarsi dei pizzini con lui (quest’ultimo stanco della sua vita da latitante) e spera che in uno di questi venga rivelato per sbaglio il suo nascondiglio o che riesca a proporgli un incontro, in modo da farlo uscire allo scoperto e permetterne la cattura.

“Iddu”: un insolito film di mafia

Questo film non vuole rappresentare la verità assoluta, anzi non lo è affatto. È una possibile chiave di lettura che riesce a raccontare degli avvenimenti accaduti, mostrati con uno stile romanzato. Proprio per questo si consiglia, prima o dopo la visione di informarsi su questo personaggio e su tutto ciò che lo riguarda.

I due registi hanno deciso di prendere un momento specifico della vita di Messina Denaro per mettere in risalto la psicologia del noto criminale e capire cosa l’ha spinto a compiere quelle azioni. Un film ispirato a fatti realmente accaduti ma narrati con un tono autoriale e a tratti fantasioso trova anche spazio per la “possibile” umanità di questo personaggio.

“Bisogna stare attenti ai valori trasmessi. Dietro ogni azione maligna c’è un essere umano” – Elio Germano all’81ª edizione del Festival di Venezia

Inoltre pone anche un aspetto riflessivo sulla condizione sociale di oggi e, guardando al passato, ci si rende conto che la situazione non è così differente.

“Uno dovrebbe domandarsi com’è possibile che da questo universo così miserabile, da questi narcisismi così squallidi, nasca un potere che tiene in scacco un isola intera, una regione intera e un intero paese”. – Toni Servillo nell’intervista al podcast “ArteSettima”

 

 

"Iddu"
Toni Servillo nei panni di Catello Palumbo Fonte: AGENsir

 

I Due Pilastri

Una carta vincente di questa pellicola è sicuramente l’incredibile performance dei due attori protagonisti, appunto Elio Germano e Toni Servillo.

Germano fin dagli inizi ha dimostrato di avere delle capacità che gli permettono di entrare nel profondo dei personaggi che interpreta. Peraltro questa sua capacità gli ha consentito di interpretare nel corso della sua carriera diversi personaggi realmente esistiti (come ad esempio Giacomo Leopardi ne “Il giovane favoloso”, Nino Manfredi ne “In arte Nino”, Giorgio Rosa ne “L’incredibile storia dell’isola delle rose”, Antonio Ligabue in “Volevo nascondermi” ed Enrico Berlinguer ne “Berlinguer – La grande ambizione” che uscirà al cinema il 31 ottobre). Nel caso specifico di “Iddu”, la sua abilità mimica e il suo impegno nell’apprendere il dialetto trapanese ha reso l’interpretazione molto convincente.

Stesso discorso si può fare anche per Servillo che riesce anche lui, con una modalità differente, ad essere impeccabile in ogni ruolo. Anche nella sua filmografia troviamo interpretazioni su personaggi realmente esistiti (ad esempio Giulio Andreotti ne “Il Divo”, Silvio Berlusconi in “Loro”, Luigi Pirandello ne “La Stranezza” e prossimamente Giuseppe Garibaldi ne “L’abbaglio”).

Attraverso due metodi differenti (quelli di Stanislavskij e Brecht), Germano e Servillo riescono ad immedesimarsi nei due personaggi che, seppur distanti fisicamente per buona parte del film, sono comunque uniti da un filo conduttore che si manifesta con lo scambio dei pizzini. La pellicola trova spazio per entrambi gli archi narrativi: da un lato un uomo stanco della sua condizione di vita e che mostra la sua umanità, dall’altra un uomo mosso dalla paura di perdere tutto quello che ha.

Inoltre questo film può vantare la presenza di altri comprimari come Barbora Bobulova, Fausto Russo Alesi, Tommaso Ragno, Vincenzo Ferrara, Betty Pedrazzi e Maurizio Bologna.

Iddu
Catello Palumbo(Toni Servillo) e Mattia Messina Denaro (Elio Germano). Fonte: La Biennale di Venezia

Lo Scopo sociale del Film

Al di là di tutto, questo film non ha lo scopo di raccontare verità assolute sulla mafia, esso non ne rappresenta. Con un ritmo ben serrato e una sfumatura vicina alla commedia, accompagnata dalla colonna sonora del cantautore siciliano Colapesce, la pellicola riesce tuttavia a portare lo spettatore ad una riflessione profonda su un fenomeno che è come un cancro che non si riesce a estirpare del tutto. La mafia è come un’ombra: anche senza vederla è sempre in mezzo a noi.

 

Rosanna Bonfiglio

Giorgio Maria Aloi

Stretto-Art, il primo evento artistico siglato StrettoCrea

Messina si prepara ad accogliere la prima edizione di Stretto-Art, progetto che chiuderà il ciclo dei grandi eventi promossi dall’Associazione StrettoCrea. Dopo il successo di StrettoGames e MessinaCon, i locali del PalaCultura ospiteranno l’11 e il 12 ottobre un evento che promette di ridefinire il concetto di arte nella città dello Stretto.

Ma cos’è, nello specifico, Stretto-Art? A spiegarlo è Giuseppe Mulfari, Presidente di StrettoCrea e organizzatore dell’evento: “È il primo evento artistico fatto da Stretto Crea. Nasce dalla necessità di creare un contatto diretto tra arte e fruitore con uno sguardo alla tecnologia e all’architettura. Vogliamo far pensare alle persone che l’arte si può fare anche in una maniera diversa”.

Stratto-Art
Locandina Stretto-Art 2024 – Fonte: StrettoCrea

Un nuovo modo di vivere l’arte

Contrariamente alle mostre convenzionali, Stretto-Art offrirà agli artisti uno “spazio dedicato” in cui potranno esprimersi liberamente, creando un’interazione più diretta con il pubblico.

L’evento vedrà la partecipazione di 20 artisti che avranno dunque la possibilità di esibirsi dal vivo per tutta la durata del festival. Tra questi, spiccano nomi importanti come un celebre tatuatore e pittore, insieme a un esperto che terrà una conferenza su un tema di grande attualità: l’arte e la realtà aumentata. Questo intervento sottolinea l’intento di StrettoCrea di fondere arte e tecnologia, aprendo le porte a nuove forme espressive. Ospite d’eccezione della prima edizione sarà Murubutu, noto rapper emiliano e ideatore del cosiddetto “rap didattico”.

Questa prima edizione di Stretto-Art è stata pensata come una sorta di betaper vedere come il pubblico recepisce” e raccogliere suggerimenti utili per le prossime edizioni. Mulfari avrebbe già preannunciato grandi piani per il futuro. Nonostante la natura sperimentale di Stretto-Art, i primi riscontri, anche sui social, lasciano ben presagire sul futuro del progetto.

Di seguito, l’elenco degli artisti partecipanti e il programma completo:

 

GLI ARTISTI

  • Sam Levi
  • Magda De Benedetto
  • Eleonora Roxanne Cali
  • Dario Tavormina
  • Giuseppe Orlando
  • Kintsugi
  • Antro Incantato
  • Aniram Arts
  • Martina Karamazov
  • Xander 3D
  • Zeudi Art
  • Giulia Moschella
  • Fabio Alibrandi
  • Mariella Bellantone
  • Benedetto Norcia
  • Antonella Bambino
  • Mirella Migliorato
  • Miriana De Luca
  • Starlight Studio
  • Simone Ventura
  • Marco Pavone
  • Spiralware
  • Liceo Artistico “Basile” Design Arte della Moda

 

PROGRAMMAZIONE WORKSHOP E TALK

11 OTTOBRE, apertura ore 11:00

Sala Palumbo, ore 11:30:

Lectio Magistralis dell’Architetto Francesco Ferla “Accessibilità e Realtà virtuale”

Sala Palumbo, ore 17:00:

“Compagnia Carullo-Minasi” e “Teatro delle Perle di Vetro” presentano “Appunti di drammaturgia: Workshop di introduzione e perfezionamento sulla drammaturgia teatrale”

 

12 OTTOBRE, apertura ore 10:00

Sala Palumbo, ore 10:30:

Workshop sulla raffigurazione dell’anatonima umana nel disegno a cura Sam Levi

Sala Palumbo, ore 16:30:

Workshop a cura di Terremoti di carte ed Eriador “Chi ha paura dell’eroe?” con Nancy Antonazzo e Marco Boncoddo

Sala Palumbo, ore 19:30:

Talk “LettaratuRap” con Murubutu. Modera UniversoMe. Seguirà firmacopie a cura di Fumetteria La Torre Nera.

 

*I biglietti sono acquistabili presso postoriservato.it o alla biglietteria durante i giorni dell’evento.

 

Giusy Lanzafame

Sud Innovation Summit: un Ponte verso il Futuro

Il 3 e il 4 ottobre Messina ha accolto il Sud Innovation Summit, un evento che ha riunito professionisti, studenti e accademici in un’atmosfera vibrante di musica e luci. L’evento ha visto la partecipazione di esperti e rappresentanti delle università del Sud Italia, con l’obiettivo di creare un ecosistema di aggregazione e collaborazione.

Apertura Ispiratrice

Il Dott. Roberto Ruggeri, organizzatore e presidente dell’evento, ha aperto i lavori sottolineando la necessità di valorizzare il Meridione:

“Un Sud non da buttare, ma ricco di opportunità”

La sua visione di un’aggregazione universitaria come strumento imprescindibile per la formazione ha trovato eco in interventi come quello di Barbara Carfagna. La giornalista ha tracciato un percorso dall’era analogica a quella digitale, evidenziando il ruolo strategico della Sicilia nel Mediterraneo. L’intervento del Sindaco di Messina , Federico Basile ha mostrato l’interesse del primo cittadino verso la nuova tecnologia e la volontà di rendere Messina un hub per le aziende.

Federico Basile ha enfatizzato la trasformazione da ispirazione a innovazione, evidenziando gli sforzi di Messina per diventare un hub tecnologico nazionale. Black Rock e Microsoft hanno annunciato investimenti significativi, con l’obiettivo di sviluppare data center e potenziare le infrastrutture digitali in Italia. Matteo Mille, responsabile degli investimenti di Microsoft, ha delineato come l’intelligenza artificiale (AI) possa generare oltre 312 miliardi di euro, ponendo l’accento sulla necessità di formare competenze adeguate.

Il Ruolo dell’Università e delle Startup

Il summit ha messo in luce il ruolo cruciale delle università nel trasferimento tecnologico e nella creazione di startup. Diversi esperti, come Nunzio Abbate e Giorgio Scarpelli, hanno parlato dell’importanza dell’innovazione aperta e della formazione delle competenze per affrontare le sfide future. Antonio Valenza ha sottolineato la necessità di un dialogo attivo tra università e aziende per valorizzare le idee e le invenzioni.

Sud Innovation Summit
Sud Innovation Summit. Foto di Marco Prestipino

Il Settore Turistico e le Nuove Opportunità

Il Sud si sta rivelando un’area sempre più attrattiva per il turismo internazionale. Relatori come Carmelo Pappalardo e Maurizio La Rocca hanno evidenziato come il turismo possa essere un motore di sviluppo economico, a patto di gestirne l’impatto attraverso pratiche sostenibili e innovative.

Isadora Azzalin, community manager italo-brasiliana, ha organizzato la sala hackathon. Tale evento, nell’ambito dello startup weekend, è finalizzato alla creazione di una startup. Durante questo weekend, i partecipanti, suddivisi in team, hanno l’opportunità di sviluppare una startup a partire da un’idea innovativa, con il supporto di mentori che offrono il loro aiuto su base volontaria. L’obiettivo principale dell’hackathon è trovare una soluzione concreta a un problema reale, semplificando la vita degli utenti. I team lavorano intensamente per ideare, sviluppare e presentare un prototipo o un modello di business funzionale entro la fine dell’evento.

Sfide e Futuro dell’AI: un impegno collettivo

Il summit ha anche affrontato il tema dell’intelligenza artificiale, analizzando le sue implicazioni per il mondo del lavoro. Gli esperti hanno rilevato come l’AI possa migliorare l’efficienza, ma al contempo non delegarle completamente le capacità intellettive. In particolare, la discussione si è concentrata sulla necessità di formare le nuove generazioni per utilizzare efficacemente l’AI.

Sud Innovation Summit
Sud Innovation Summit. Foto di Marco Prestipino

Il Sud Innovation Summit ha rappresentato un’importante occasione di riflessione e di scambio di idee su come il Sud Italia possa emergere come leader nell’innovazione e nella tecnologia. Con una comunità di professionisti, studenti e imprenditori motivati, l’augurio è che i risultati di questo evento possano estendersi ben oltre le due giornate di conferenze, alimentando un movimento di cambiamento e crescita per il Meridione.

 

Marco Prestipino

 

Vermiglio, antica poesia tra amore e guerra

Vermiglio
Vermiglio: un piccolo capolavoro in grado di catapultarci indietro nel tempo, laddove sono collocate le radici stesse della Storia del nostro Paese. – Voto UVM: 5/5

 

Si è conclusa da poche settimane l’ottantunesima edizione del Festival del Cinema di Venezia, un edizione che ha visto come protagonisti nuove straordinarie proposte e grandi titoli come l’attesissimo sequel del Joker di Joaquin Phoenix Joker Folie a Deux o come Iddu di Fabio Grassadonia e Antonio Piazza che vedrà il ritorno di Toni Servillo sul grande schermo. Tra tutti però anche una piccola perla è riuscita a spiccare aggiudicandosi non solo un enorme successo di pubblico e critica ma anche due premi di grande importanza, sto parlando di Vermiglio di Maura Delpero, un piccolo capolavoro in grado di catapultarci indietro nel tempo in atmosfere antiche e rurali laddove sono collocate le radici stesse della Storia del nostro Paese.

Una profonda storia d’amore in tempo di guerra

Siamo nelle fredde lande del Trentino e nel mondo echeggia il boato agghiacciante della Seconda Guerra Mondiale ormai però sul punto di concludersi, nel piccolo villaggio di Vermiglio la vita in ogni caso scorre lentamente finché due giovani soldati acciaccati dalla guerra, i siciliani Pietro, interpretato dal messinese Giuseppe De Domenico, e Attilio giungono sotto l’occhio critico di gran parte degli abitanti, sarà in quel momento che la vita di Pietro si incrocerà con quella di Lucia (Martina Scrinzi) e della sua numerosissima famiglia dalla quale ne nascerà una profonda storia d’amore

La storia che Maura Delpero costruisce si dimostra dunque uno
scrigno prezioso dove anche gli elementi più distanti e diversi riescono magicamente a coesistere; guerra e amore, morte e vita, e si manifesta alla perfezione nel momento in cui il maestro del paese e padre di famiglia interpretato da uno straordinario Tommaso Ragno ascolta e invita ad ascoltare i suoi brani di musica classica mentre nel resto dell’Europa impera la guerra, oppure nel momento in cui nonostante tutto il villaggio si riunisce in festa per celebrare Santa Lucia e soprattutto nel momento in cui Pietro, un uomo afflitto fisicamente ed emotivamente dall’orrore della guerra riesce a trovare la forza per tornare ad amare, regalandoci dunque una meravigliosa unione sensibile e romantica tra nord e sud Italia, anche questo aspetto estremamente difficile a quel tempo.
Pietro e Lucia in una scena del film
Pietro e Lucia in una scena del film

Un sogno proveniente dal passato

Appare evidente come nessun dettaglio sia stato lasciato al caso, si riesce a percepire alla perfezione il gelo delle montagne trentine innevate così come la brezza marina nel mare di Sicilia, ma soprattutto l’atmosfera antica e rustica che si riesce a respirare dall’inizio alla fine del film, e non è un caso perché è da quella realtà che viene Maura Delpero, dal profondo Trentino, nel dopoguerra e da una famiglia molto numerosa.
Ci troviamo, infatti, davanti ad uno speciale racconto ispirato alla sua infanzia, non una storia vera ma una storia ispirata da un sogno che, a detta della stessa regista l’ha portata indietro nel tempo a riscoprire la sua famiglia sotto un altro aspetto, un sogno felice in un momento di tristezza a seguito del lutto del padre (anch’egli maestro del paese) e di conseguenza una storia proveniente direttamente dal cuore e dai ricordi della straordinaria Delpero. 

Un orgoglio messinese al Festival di Venezia 2024
Giuseppe De Domenico nei panni del silenzioso e sensibile Pietro ha rappresentato poi un orgoglio tutto messinese prendendo parte in maniera rilevante a questo straordinario progetto, nel ruolo per altro complesso di un personaggio dal passato nefasto e dal futuro incerto che non può far altro che vivere il presente comunicando e manifestando il suo amore per Lucia quasi esclusivamente con gesti ed espressioni.
 L’attore messinese, per altro, ci ha dato il privilegio della sua presenza venendo alle proiezioni di Domenica 22 al cinema Iris per presentare il film e per donarci anche qualche piccola preziosa chicca sulla sua interpretazione, sul backstage in generale e sull’esperienza al Festival del Cinema di Venezia.
L’attore Giuseppe De Domenico con il direttore del cinema Iris Umberto Parlagreco
L’attore Giuseppe De Domenico con il direttore del cinema Iris Umberto Parlagreco

Vermiglio: una storia preziosa dagli echi neorealisti

È un opera tanto emozionante quanto originale e particolare quella che Maura Delpero porta sul grande schermo, la scelta di attori per lo più non professionisti e l’abbondante presenza di bambini tutti ovviamente trentini e l’uso esclusivo del dialetto stretto del posto che ha portato addirittura all’esigenza dell’aggiunta dei sottotitoli fa di questo film un opera che riesce quasi a rimandare ai grandi capolavori del Neorealismo, non a caso dunque aggiudicandosi il Gran premio della giuria e il Green Drop Award al Festival del Cinema di Venezia scaturendo già alla prima visione l’entusiasmo della critica.
È un opera preziosa, una piccola perla del cinema italiano contemporaneo che ha visto per altro sbocciare una nuova figura femminile alla regia di un grande capolavoro, un viaggio delicato e intrigante nell’Italia che fu che merita assolutamente di essere visto!
Marco Castiglia

Prof.ssa Nadia Urbinati: ieri la Cerimonia di Dottorato Honoris Causa all’Università di Messina

Si è tenuta questa mattina nell’Aula Magna del rettorato di Piazza Pugliatti, la Lectio Magistralis della Prof.ssa Nadia Urbinati, a cui la nostra università ha avuto il piacere di conferire il dottorato honoris causa in Scienze Umanistiche.

Chi è Nadia Urbinati?

Politologa, storica della filosofia e giornalista, ha conseguito la maturità all’istituto magistrale di Rimini, per poi laurearsi in filosofia a Bologna. È titolare della cattedra di scienze politiche e “Kyriakos Tsakopoulous Professor of Political Theory” presso il Department of Political Science della Columbia University (New York). È stata inoltre visiting professor presso la Scuola Superiore Sant’Anna di Pisa e l’Università Bocconi di Milano.

Figura tra i fondatori della rivista Reset, è collaboratrice di periodici nazionali quali La Repubblica, Il Manifesto, Left e Domani. L’8 marzo 2008, Nadia Urbinati ha ricevuto dal Presidente della Repubblica l’onorificenza di Commendatore della Repubblica Italiana.

La Magnifica Rettrice Giovanna Spatari e la Prof.ssa Nadia Urbinati. ©UniVersoMe

La cerimonia di Dottorato

Dopo una breve introduzione, è stata data la parola per la laudatio alla Prof.ssa Rita Fulco, associata di Filosofia Teoretica. La Professoressa ha elogiato i meriti della Docente e sottolineato l’importanza dei finanziamenti per lo sviluppo della ricerca accademica.

A seguire, è stato letto l’ordine del giorno della seduta del Senato Accademico in cui è stato decretato il conferimento del dottorato honoris causa in Scienze Umanistiche. La proposta è stata approvata all’unanimità e motivata dal Prof. Giuseppe Ucciardello, direttore del dipartimento DiCAM: “per l’autorevolezza dei suoi studi nella filosofia moderna e nella diffusione del pensiero politico italiano all’estero”.  Presenti anche la Prof.ssa Caterina Malta, l’Avv. Francesco Bonanno e gli studenti dei licei La Farina e Maurolico.

La Prof.ssa Urbinati è stata poi invitata a ritirare il dottorato. Inizia quindi la sua Lectio Doctoralis, dal titolo “Individualismo e solitudine sociale. Alle origini della crisi della democrazia”. La Professoressa ha inoltre ringraziato l’Università di Messina per il conferimento del premio e ricordato piacevolmente il suo precedente intervento nella nostra università, nell’A.A.2021/2022.

Crisi della democrazia: la Lectio Doctoralis è anche un appello ai giovani

La sua lezione è partita da un assunto fondamentale: se generalmente l’attenzione è rivolta ai partiti, “è invece necessario leggere la crisi a partire dall’intermediazione sociale e dalla presa debole della politica, oggi più reattiva e meno responsabile, sulla società.”

Uno dei fattori della crisi democratica parte, dunque, dalla società poiché la democrazia si compone di singoli cittadini i quali devono riscoprire la necessità di associarsi. Mi rivolgo ai ragazzi che vedo in aula chiedendo loro di studiare il rapporto tra politica e società […] in questa fase critica lo scollamento dei giovani dalla politica va a discapito della loro vita e del loro benessere”.

La Prof.ssa Nadia Urbinati durante la lectio dottoralis. ©UniVersoMe

Nella sua trattazione sottolinea anche il ruolo dei corpi intermedi, il disallineamento dei partiti rispetto alla società, la loro presa debole sul popolo e la loro inettitudine nell’intermediazione. Definisce inoltre il tema della solitudine sociale come l’assenza di una rete di sostegno associativo. Essa, dichiara la Professoressa, umilia le progettazioni di vita e impedisce l’ascesa sociale, incoraggiando la diffusione dell’assenteismo elettorale. “I principi di uguaglianza del potere politico primario e i diritti civili” afferma infine “sono la condizione affinché il dissenso possa esprimersi liberamente, garantendo l’equilibrio di un sistema democratico che oggi è in fase di decadenza.”

Tra scroscianti applausi dei presenti, tutti in piedi per la Professoressa, si è quindi conclusa la cerimonia. Essa ha rappresentato – secondo le parole della Rettrice Spatari – “un’occasione importante per tutti i nostri giovani, che hanno potuto ascoltare le parole di chi rappresenta un profilo scientifico eccellente per i suoi studi sul pensiero democratico, la coscienza sociale e sulla politica a più livelli”.

Carla Fiorentino

The Crow – Il Corvo: l’eroe simbolo dell’underground può diventare mainstream?

The Crow - Il Corvo
Rupert Sanders con “The Crow” prende una direzione del tutto nuova. Ha saputo individuare e perfezionare le falle del film precedente ma, in quanto interpretazione originale, ha i propri punti deboli. – Voto UVM 4/5

 

Bill Skarsgård (IT, John Wick 4) è The Crow, il leggendario personaggio della graphic novel di James O’Barr, rivisitato in questa nuova versione cinematografica diretta da Rupert Sanders, nelle sale dallo scorso 28 agosto.

Sinossi

Eric Draven e Shelly Webster vengono brutalmente assassinati da una banda di criminali. Avendo la possibilità di salvarla dagli inferi sacrificando se stesso, Eric cerca vendetta, attraversando il mondo dei vivi e quello dei morti per “rimettere a posto le cose sbagliate”.

Il Corvo
Bill Skarsgård in The Crow – Il Corvo (2024) Larry Horricks/Lionsgate

Un remake necessario?

Eric Draven (Skarsgård) e Shelly Webster (FKA Twigs) ci sono ormai familiari con i volti di Brandon Lee e Sofia Shinas per la loro celebre performance nella versione della pellicola del 1994, un vero e proprio cult senza tempo.

Siamo però di fronte a un’arma a doppio taglio: se la fama che li precede stuzzica la curiosità degli appassionati, un remake si presta a inevitabili paragoni e basse aspettative.

C’è da tenere in conto che l’adattamento precedente, parlando specialmente ad un pubblico underground, risultava perfettamente inserito in una fetta della cultura della sua epoca. A chi si rivolge oggi il remake? La risposta è la Gen Z, ma stavolta si punta più al mainstream.

Un eroe “meravigliosamente a pezzi”

Interessante scelta d’interprete, che si accosta bene all’idea originale di O’Barr: il fumettista si era ispirato al volto di Peter Murphy e al corpo di Iggy Pop per caratterizzare Eric con tratti marcati.  Skarsgård poi, si è sempre distinto per ruoli psicologicamente complessi e sfaccettati, e l’ultimo non è da meno.

Il tenebroso vendicatore dal fascino gotico a cui ci ha abituati Brandon Lee ha lasciato il posto a un anti-eroe più contemporaneo, vulnerabile e pessimista. Il Non può piovere per sempre adesso si trasforma in un Piangi ora, piangi dopo.

Eric è “meravigliosamente a pezzi”, come lo definirà Shelly. Anche lei, spogliata della sua perfezione eterea e resa una donna moderna, incontra Eric in un centro di recupero.

The Crow - Il Corvo
Bill Skarsgård in The Crow – Il Corvo (2024) Larry Horricks/Lionsgate

Il male ha un nuovo volto

Ecco uno dei grandi meriti di questa versione: gli antagonisti, Vincent e Marian, non sono più una coppia di vampireschi delinquenti con il gusto per il macabro. Sono ricchi malavitosi, con una vera e propria armata di scagnozzi al loro servizio. C’è poi del soprannaturale: parliamo di un patto col diavolo. La vita eterna di Vincent in cambio della dannazione degli innocenti che uccide.

La melodia della vendetta

Largo spazio allo splatter, al sangue sulla cinepresa, ad organi in vista e a spettacolari scene d’azione. Il film raggiunge il suo acme in una sequenza pulp altamente “teatrale”. Ci troviamo, infatti, proprio all’interno di un teatro, in cui un massacro si alterna con l’opera  in atto sul palcoscenico.

Riuscitissimo l’uso del sonoro: l’orchestra, diegetica all’interno della scena, segue per intensità le dinamiche del combattimento. Si tratta di una tecnica che avevamo già visto nel film precedente, ma in un contesto meno scenografico e più sommesso: un night club con musica dal vivo, che in realtà era il covo segreto degli assassini.

The Crow
Bill Skarsgård in The Crow – Il Corvo (2024) Larry Horricks/Lionsgate

Nella colonna sonora, a cura del compositore tedesco Volker Bertelmann, è sempre presente il goth rock come omaggio alla cultura underground anni ‘90, in particolare della scena alternative rock e goth metal, di cui sia il fumetto che il primo film erano diventati i “manifesti”. Invece per le scenografie si tende più all’urban, con le immagini a vincere sui dialoghi.

È shitstorm per “Il Corvo”: quali sono i punti deboli?

La morale si è ribaltata: i sentimenti assoluti di amore e vendetta del Corvo del ’94, più favolistici, vengono corrotti dal peso del dubbio. Così tutto diventa relativo e incerto, in un certo senso anche più umano.

Questo dettaglio inedito risulta un po’ forzato per un personaggio che è l’incarnazione della vendetta, eppure aggiunge un tocco di realtà che facilita il rispecchiarsi nel personaggio. Passa però come un timido tentativo di sviluppo psicologico che, a conti fatti, resta abbastanza superficiale.

Ciò che lascia perplessi, è il suo continuo via-vai tra il nostro mondo e un aldilà dal gusto quasi distopico. Ad aspettarlo una guida, che gli chiede vendetta promettendogli in cambio il ritorno di Shelly. Questo compromesso sminuisce, se non addirittura cancella, l’elemento ossessivo e disturbante della storia, tipico sia delle le tavole di O’Barr che del primo film. Quello era il vero movente: trent’anni di inquietudine e dolore, di cui solo alla fine riesce veramente a liberarsi, restituendoli direttamente al mittente.

Insomma, si tratta di una produzione su cui si è puntato molto, che non ha preteso di riproporre al pubblico la copia carbone di una storia già fatta e finita. Invece ha preferito riesaminarla, proponendone una lettura tutta nuova.

Carla Fiorentino

L’eternità di J.R.R. Tolkien al MessinaCon 2024

Esattamente cinquantuno anni fa, il 2 settembre del 1973, moriva John Ronald Reuel Tolkien lasciando ai
posteri un patrimonio letterale di valore inestimabile.

Il professore di Oxford, filologo, glottoteta, linguista e scrittore, è ricordato ancora oggi, a distanza di
settant’anni dalla prima pubblicazione de Il Signore degli Anelli, come autore di uno dei più grandi cicli
narrativi del XX secolo.

Ma per quale motivo la materia tolkeniana è stata a lungo una tematica spinosa da affrontare nel nostro Paese?

In occasione del MessinaCon24 ne abbiamo discusso con Stefano Giorgianni, linguista di formazione,
traduttore dall’inglese e dal russo, caporedattore di Metal Hammer Italia e presidente e socio-fondatore
dell’Associazione Italiana Studi Tolkeniani.

«Diciamo che il discorso parte da molti, molti anni fa. È stata una tematica complessa da affrontare non dal punto di vista letterario, ovviamente, ma da un punto di vista socio-politico, se vogliamo metterla in questi termini. Come sappiamo, un po’ di anni fa Tolkien era stato preso come uno degli autori alfieri di una certa particolare destra, che lo aveva un po’ “strumentalizzato.

Per fortuna quegli anni sono passati e molti studiosi si sono impegnati per tirare fuori Tolkien da quel calderone; siamo riusciti a portarlo un po’ ovunque, e senza alcun pregiudizio. Ti racconto una curiosità: quando nel 2017 ho tentato di organizzare un convegno tolkeniano a Verona, me l’hanno respinto, perché pensavo fosse un autore collocato politicamente. Ed è stato pochi anni fa! Per fortuna il nostro lavoro come Associazione Italiana Studi Tolkeniani, ma anche di molti studiosi esterni, ha aiutato a riportare Tolkien dove deve essere, ovvero in un ambiente assolutamente neutrale. Per chi vuole leggerlo, amarlo ed approfondirlo in tutte le salse… però solo da un punto di vista letterario, ecco!»

Le opere di Tolkien, un classico da riconoscere

Sin dalla sua fondazione l’AIST (Associazione Italiana Studi Tolkeniani) pone al centro del proprio operato il riconoscimento delle opere di Tolkien come classici della letteratura, battendosi affinché esse arrivino a divenir parte della formazione degli studenti italiani.

«Se vogliamo ricordare i classici che ci propinano a scuola continuamente» ci ha detto Giorgianni «Possiamo far rifermento a “I Promessi Sposi”: tu arrivi ad odiarlo, quel libro, perché continuano ad importelo per forza… però se lo leggi a distanza di anni, vedi che ha delle caratteristiche perfettamente applicabili anche ad un tempo contemporaneo. Questa è, secondo me, anche la lingua immortale di Tolkien.»

Sono proprio quelle caratteristiche presenti all’interno de Il Signore degli Anelli – quegli eterni valori di lealtà, amicizia e coraggio – che lo rendono un classico della letteratura.

«Ci è servita da questo punto di vista la traduzione di Fatica, uscita ormai da qualche anno.» ha continuato il presidente AIST «È stata una rivisitazione utile a rinfrescare un po’ l’opera, anche se molti, essendo cresciuti con i film di Jackson, erano affezionati alla traduzione vecchia. Ma cosa fa una traduzione? Una traduzione serve anche per rivisitare il messaggio dell’originale, non serve soltanto a scatenare battaglie inutili, che non servono a nulla da un punto di vista socio-letterario.»

Stefano Giorgianni ci parla di Tolkien ai nostri microfoni. © UniVersoMe

Il caso delle traduzioni tolkeniane

Alla luce delle polemiche inerenti alla nuova traduzione di Ottavio Fatica, abbiamo chiesto a Giorgianni, nonché traduttore della History of Middle-earth edita da Bompiani, se nel suo operato temesse il giudizio dei lettori più “conservatori”.

«Non è che l’ho temuto, lo abbiamo ricevuto quando è uscito il sesto volume.» ci ha raccontato. «Noi siamo vincolati alle scelte di Bompiani da un punto di vista dell’onomastica, della toponomastica, eccetera, perché dobbiamo usare per forza quello che è stato deciso in riferimento alle scelte di Fatica. Noi non possiamo
inventarci ex novo delle cose, dobbiamo usare quello che c’è, ed in più tradurre quello che manca, ma dobbiamo partire da quello è già in commercio. Anche perché è necessaria un’uniformità da un punto di vista editoriale, cosa che è sempre mancata. Adesso uscirà la nuova traduzione de “Lo Hobbit” di Wu Ming 4 e sappiamo che ci saranno delle polemiche: è inevitabile. Il problema è – quello che dico sempre – non bisogna lasciare per troppi anni una traduzione in commercio, perché sennò poi la gente pensa che quello sia il libro originale.

Una traduzione, bene o male, è sempre un’interpretazione del traduttore, qualcosa che dipende dai tempi che corrono in quel momento, quando viene tradotto, ed il linguaggio che viene usato. Sempre nel rispetto del linguaggio dell’autore. Però il testo originale rimane. Puoi esserci attaccato affettivamente, perché ci sei cresciuto, ma la nuova traduzione è un nuovo capitolo. E fra quindici anni ce ne sarà un’altra e la generazione che cresce adesso, con la traduzione di Fatica, fra quindici anni magari protesterà…ma il libro di Tolkien resterà quello. Quindi la traduzione non deve essere un feticcio da adorare. Bisogna sempre far riferimento al testo originale.»

 

Tolkien
Il linguista Stefano Giorgianni con la redattrice Valeria Giorgianni. © UniVersoMe

L’opera di Tolkien, un saggio di estetica linguistica?

Nel parlarci della nuova traduzione de Il Signore degli Anelli, Stefano Giorgianni ci ha anche spiegato i motivi per cui la più celebre opera di Tolkien è, a tutti gli effetti, un saggio di estetica linguistica.

«Una cosa di cui ci ha fatto accorgere Ottavio Fatica durante la traduzione è che, ad esempio, quella di Tolkien non è una vera e propria prosa, ma è quasi sempre una poesia. Tolkien non viene mai considerato un poeta, invece – questo si vede soprattutto attraverso la History – lui era fondamentalmente un poeta. Se tu vai a leggerlo in inglese – cosa che Fatica ha tentato di riportare in italiano – c’è un metro anche nella prosa. Oltretutto Tolkien ha inventato delle lingue, quindi è anche un trattato linguistico. Ha inventato delle razze che parlassero quelle lingue. Ci sono diversi strati. Il Signore degli Anelli da questo punto di vista ha un livello di analisi che è molto stratificato e prima che si arrivi alla fine manca ancora molto.

La profondità e le sfaccettature dell’opera di Tolkien, da un punto di vista filologico e linguistico, lo portano assolutamente alla definizione di saggio di estetica linguistica.»

Ma cosa significa concretamente creare una lingua, come ha fatto Tolkien?

Ci ha risposto il presidente AIST:

«C’è da dire che, quello che ha fatto Tolkien, secondo me è abbastanza irripetibile. Si sono visti spesso, in altri romanzi fantasy, dei popoli che parlano delle lingue, ma spesso è la lingua funzionale al popolo. In Tolkien è accaduto un po’ l’inverso. La potenza di Tolkien è quella di essere riuscito, da filologo e linguista, ad applicare quello che noi potremmo chiamare un mondo scientifico delle lingue in un romanzo. Perché le lingue di Tolkien – non tutte sono così particolareggiate, però linguisti successivamente le hanno comunque approfondite – hanno una struttura che è veramente da lingua artificiale vera e propria.

Se leggi la History hai un profilo dei primi vocabolari che sono approntati da Tolkien. È difficile trovare questo in un altro universo che non sia il suo. Per non dire che le lingue di Tolkien si possono anche parlare, se si vuole. Per dirti: analizzando soprattutto il linguaggio nero, che non è tra quelli di cui abbiamo più informazioni, si scorgono anche tante doti ed influenze glottologiche e linguistiche di un Tolkien accademico. Non è sicuramente una cosa “rapportabile” ad un autore che non avesse la sua formazione linguistica, secondo me. Questo lo porta ad un livello superiore rispetto agli altri, ancora adesso.»

Ed è così che J. R. R. Tolkien continua ancora oggi ad emozionare e stupire i propri lettori che, di generazione in generazione, testimoniano l’unicità di questo eterno autore che non si smette mai di (ri)scoprire.

 

Valeria Giorgianni

 

  • L’intervista è stata effettuata durante l’evento organizzato da Eriador Messina durante il MessinaCon 2024.