Violenza: è l’ora di dire BASTA

 

adesso-basta1

 

Imagine all the people, living life in peace

 

Se vi chiedessi: “quali sono i maggiori problemi esistenti nel mondo?”, voi cosa rispondereste? La fame, ovviamente, la povertà, i politici disonesti, la guerra, le malattie. Ma, secondo me, una delle più imponenti piaghe sociali è la violenza.

Noi siamo esseri umani e, come tali, siamo caratterizzati dal lume della ragione. Quel lume che si perde in alcune occasioni, quel lume perso che ci fa diventare aggressivi, cattivi, impetuosi. Quante volte si dice “è come se avesse perso il lume della ragione”?Scatta qualcosa, si perdono le inibizioni, i freni ed ecco che diventiamo feroci, che ci avvaliamo della violenza per imporci su altri esseri umani.

Sassari, Roma, Orlando, Santa Monica, Francia. Cosa accomuna questi cinque luoghi? Li accomuna il fatto che, nelle ultime ore degli ultimi giorni, sono stati sbattuti in prima pagina per atti di violenza. E così entriamo in campi molto delicati quali il femminicidio, l’omofobia, fino ad una delle più stupide motivazioni per cui ci si avvale di questa “arma”: il calcio. E poi, ancora: bullismo, terrorismo. Violenza psicologica, violenza fisica.

Siamo liberi di NON parlare, siamo liberi ma con dei limiti, siamo liberi dietro metaforiche sbarre. Gli uomini nascono liberi di poter vivere la propria vita come vogliono e, per mano di altri uomini, finiscono per non poterlo realmente fare.

In questi giorni sono ricominciate le campagne che dicono stop alla violenza sulle donne. Si legge sui giornali ”Sassari: ragazzo picchia la sua fidanzata, arrestato e rilasciato, torna da lei per vendicarsi a SPRANGATE o ”Roma: marito ammazza moglie perché non le ha sorriso quando lui desiderava”. Giorno dopo giorno si sentono storie di uomini che, imbestialiti da non si sa cosa, ammazzano una di noi. Una di noi: perché non importa se è una ragazza nata dall’altra parte del mondo, è una di noi, una sorella, una moglie, una figlia, un’amica. Sembrano storie così lontane da noi che non ci accorgiamo che, invece, sono così vicine. Oggi potrebbe toccare a me, solo perché mi sono fidata di dire “sì” a un caffè, solo perché ho detto “ti amo”, solo perché ho voluto costruire con te qualcosa.

Tutto questo, cento volte è stato detto a ognuna di noi, non è amore. E, se lo è, è un amore malato e bisogna dirlo, bisogna denunciarlo per salvarsi. Gli schiaffi, i pugni non sono amore. Questo NON È AMORE. Invece, per chissà quale motivo, quello che non viene reputato Amore (con la A maiuscola) è il sentimento che si instaura tra due persone dello stesso sesso. Due persone che si amano normalmente, senza schiaffi, senza coltelli, con qualche litigata fisiologica, se appartengono allo stesso sesso non sono normali. È contro natura. La sentite pure voi? Si chiama Omofobia.

Ed è così che ti ritrovi ucciso. Perché sei andato in un locale a festeggiare con il tuo ragazzo, con il tuo amore, a ballare, a divertirti e un pazzo entra e ti spara. E ti spara non perché, secondo alcune dichiarazioni, è facente parte dell’Isis (l’emblema contemporaneo del terrorismo e della violenza) ma perché ha visto due ragazzi omosessuali baciarsi e si è arrabbiato. Capite? Si è arrabbiato. Ah, ma non era l’unico: un uomo, diretto al Gay Pride di Los Angeles, è stato fermato, il 12 giugno scorso, a Santa Monica dove gli sono stati sequestrati fucili d’assalto ed esplosivi che, come da lui dichiarato, voleva utilizzare a quell’evento.

Ma se anche lo Sport, simbolo dell’unione tra i popoli e le persone, viene umiliato con notizie di tifosi che si picchiano tra di loro, dove arriveremo? Se anche questi Europei 2016, che dovrebbero rappresentare il mondo unito IN FRANCIA contro il terrorismo, vengono macchiati così, con queste disgustose notizie?

Il lume della ragione. Ma dove lo abbiamo lasciato, signori miei? Chi ci ha fatto credere che abbiamo il permesso di alzarci la mattina e andare a violare la libertà delle persone? Chi ci ha fatto credere che abbiamo il potere di giudicare qualcuno, di fargli del male se non è come noi o se non si comporta come vogliamo noi? Con quale sangue freddo riusciamo ad alzare le mani su un altro essere umano, a ucciderlo o a portarlo al suicidio?

Oggi è lunedì e io ho voluto iniziare la settimana con una parola: basta.

Adesso basta.

Elena Anna Andronico

Earthset: quattro chiacchiere con la Band

13323298_1188447794507359_5226127352571964116_o

Provenienti da varie parti d’Italia, formatisi nell’ambiente musicale dell’underground bolognese durante gli anni universitari e reduci dal loro primo tour, Ezio Romano (chitarra e voce principale), Luigi Varanese (basso e cori), Costantino Mazzoccoli (chitarra e cori) e Emanuele Orsini (batteria e percussioni), hanno presentato al pubblico italiano il loro LP “In A State Of Altered Uncosciousness”.

Nella musica degli Earthset c’è davvero di tutto. Era vero quello che mi disse Luigi il bassista quando parlammo prima della loro esibizione nell’anfiteatro della cittadella universitaria: “noi abbiamo smesso da tempo di chiederci che genere facciamo” e, d’altra parte, che importa catalogare, dare un’etichetta.

Loro punto di forza è una musica instancabile, innovatrice figlia della tradizione, un’energia che percorre ogni loro pezzo e un senso di panico, come se questo mondo, come se la loro stessa musica stesse stretto agli Earthset. Proprio questo mi porta a profetizzare una rapida ascesa di cui questo punto di partenza, questo loro primo lavoro, ha posto le basi.

Già dall’intro “Ouverture” si intuiscono atmosfere intimiste che faranno eco in tutto l’album; segue una sezione di ballads progressive e fortemente melodiche: “Drop”, “The absence theory” e “rEvolution of the Species”, in cui si incontrano atmosfere Gothic, Post-Punk e Brit Pop.

Le sonorità mutano invece in “Epiphany” che si apre con un lungo arpeggio di Ezio ed un cantato romantico e travolgente, fino alla potente scarica finale. Sentirete un grande riff di basso che aprirà l’unico pezzo cantato quasi interamente da Luigi, “So What”: un punk sbronzo e caotico, che ricorda Dead Kennedys, il movimento anarchico anni ’80, e la New Wave degli Smiths. E’ il pezzo più accattivante e che mi ha fatto pensare di definirli “gli Hendrix del Punk”. Ma il pezzo non finisce in un silenzio imbarazzante, bensì in due note dissonanti di basso che saranno poi l’intro di “Skizofonia”, personalmente il mio pezzo preferito, una prova di maturità incredibile per una band appena al primo album.

Sicuramente è anche il pezzo più sperimentale, un vero “stato di alterata incoscienza”. Sviluppato sopra l’atmosfera oscura di un basso distorto e del delay martellante della chitarra, dall’acustico al noise vibrato e potente, per poi chiudere nel caos puro di uno splendido riff di basso su un tappeto indefinito e ipnotico, splendidamente ritmato da una lenta batteria, e da due voci di chitarra e i “canti dell’anima” che tanto ricordano “the Great Gig in the Sky”.aa

Gone è invece il pezzo più Hard Rock, dalle sonorità dei Guns ‘n Roses al Pop Punk, pur non disdegnando la consueta composizione multiforme, giovanile e rivoluzionaria, che chiude con complesse parti in dispari, per lasciar spazio al lungo arpeggio di apertura di A.S.T.R.A.Y., in cui Ezio può dar prova delle sue eccellenti capacità canore e chitarristiche, in uno splendido assolo finale. Non  a caso è un pezzo di cui è spesso stato richiesto il bis live. Pezzo impreziosito da stacchi “rumorosi” e acustici, prodigiosamente scanditi dalla predominanza del rullante di Emanuele, e di crescendo di batteria sempre al posto giusto.

E chi pensa al rock e alla letteratura horror come può non pensare a “the Call of Chtulu” del secondo album dei Metallica. Ebbene dimenticatelo, perché l’iniziale piano riverberato di chitarra, è ancora più precisamente in linea con le atmosfere orride e bizzarre di Lovecraft. Ed è proprio questo il nome della perla espressionista degli Earthset; una vera chicca di progressione ritmica claustrofobica e ossessionante, con seconde voci disturbanti di Costantino nel sottofondo della voce piangente e disperante di Ezio. Qui Emanuele e Luigi sembrano in trance musicale, grandi interpreti degli arpeggi che risuonano in tutto il pezzo, per poi alla fine lasciare lo spazio a Costantino per uno dei Riff-Solo più azzeccati che mi sia mai capitato di sentire.

Un viaggio nel sentiero della follia che porta all’addio struggente di “In A State Of Altered Uncosciousness”, una ballata dissonante e tormentata di nome “Circle Sea”, dimostrazione di maturità musicale e di scrittura nella perfetta metrica del testo, inscindibile dall’apparato musicale. Sognante e spaziale al contempo. Una poesia in musica, che come suggerisce il nome “mangia se stessa” nel finale, confuso e melodico al contempo. Nel perfetto gioco circolare del serpente che si morde la coda e rimanda all’ Ouverture iniziale.

xx

Ma adesso è tempo di parlare direttamente con loro.

R: Ciao a tutti ragazzacci!

D: Siete in tour per la promo del vostro primo lavoro in studio. Avete suonato avete già avuto 4 date in Sicilia, tra cui una all’Horcynus Orca ed una a Giardini Naxos. Ezio è messinese, quindi già ha avuto a che fare con la realtà siciliana: che impressione ha lasciato invece su voi tre questa Sicilia e il suo contesto musicale? E quali differenze notate col la vostra Bologna, in genere l’Emilia e il resto d’Italia?

Luigi: Beh dal punto  di vista estetico, sicuramente un’isola splendida, una regione bellissima in cui non ero mai stato. Dal punto di vista musicale invece delle realtà interessanti esistono e si sente buona musica. Bologna ha una scena musicale fin troppo attiva per certi versi, che rischia di divenire dispersiva.

Costantino: Possiamo infatti citare il Music House 17 a Trecastagni, che è una piccola realtà, nata da poco, molto interessante sia come sala Prove, che di registrazione, che di negozio di strumentazione, oltre che come Live House.

Emanuele: invece al nord di posti come questo è più immediato trovarne, non sono così tanti come a Bologna, che è una città dove si fa e si respira molta cultura, ma se si cerca bene si possono trovare ovunque. Qua ho notato tanti ragazzi che hanno voglia di cambiare e conoscere cose nuove rispetto al quotidiano. Molto attivi. È la prima cosa che ho notato.

Ezio: Concordo, la realtà che ho lasciato quando me ne andai da qui si è evoluta. Vi ho ritrovato Giovani propositivi che tentano di portare avanti un discorso musicale non prettamente commerciale.

 

D: “The place where grows this kind of tune

And you can see the Earth-set from the moon…”

“Il luogo dove cresce questo tipo di tonalità e puoi vedere la terra tramontare dalla luna” : recita così uno dei versi più belli della vostra “A.S.T.R.A.Y.” , nona traccia del vostro “In A State Of Altered Uncosciousness”.

Il paragone è d’obbligo con Floyd, che amarono prendere un frammento di Brain Damage per dare un nome ad uno degli album più importanti della storia: Dark side of the moon.

E la prima cosa che si nota ascoltando il vostro album, è che c’è di tutto: dai Tool, ai Floyd, ai Muse, ai Rush, senza però mai ridursi ad un semplice copia incolla di altri artisti. Tutto ha sapore di nuovo e di “antico”. Gli Earthset sono qualcosa di nuovo. Mi chiedo dunque cosa significhi per voi “Earthset”, cosa “In a State of Altered Uncosciousness”?

Ezio:  Earthset è un’immagine che viene da quella lirica citata che è in sé un omaggio ai Pink Floyd ed utilizza la stessa rima di Eclipse, perché è un brano sull’ispirazione artistica, e chi più dei Floyd ha ispirato le generazioni successive. Anche questa rappresentazione di trovarsi sul suolo lunare a vedere la terra che tramonta è tutto una meta-citazione di Dark Side Of The Moon.

Earthset raccoglie in una sola parola quello che per noi è l’esperienza artistica, cioè il porsi in una prospettiva diametralmente opposta rispetto a quella ordinaria. E’ la nostra prospettiva sul mondo, sulla musica, sull’arte.

“In A State Of Altered Uncosciousness” è invece un verso di “rEvolution of the species” , anche per questa nostra voglia di dare una coerenza ai nostri lavori e non essere un’accozzaglia di canzoni, come può essere in certe produzioni più commerciali. E’ il concept dell’album: lo stato di alterata incoscienza che esprime lo stato in cui molti di noi vivono le proprie esistenze sia in positivo che in negativo, una vox media. Ti trovi in questo stato nel momento in cui vivi in modo apparentemente cosciente alla società, ma sei incosciente verso te stesso e viceversa. Un concetto anche un po’ psicoanalitico di contrapposizione tra Sé e Collettività. Bisogna avere il coraggio di mettere in dubbio le proprie certezze, le recite della società, per svelare le sovrastrutture che sembrano il tuo Io, ma che in realtà non ti ritraggono e ti ingabbiano, incosciente a te stesso.

D: oltre al lavoro strettamente musicale, c’è una ricerca anche cinematografica (lo si può vedere dai vostri Videoclip, reperibili su youtube ) e poetica nei vostri testi, misto di esistenzialismo e ermetismo. Come la musica si fonde ai vostri testi per creare un prodotto così composto? E da dove nasce l’ispirazione per scriverli?

Luigi: Un testo sicuramente può nascere da ogni cosa, filtrata però attraverso l’esperienza personale. Così come Ezio racconta in “the Absence Theory” un suo momento privato, la canzone dove canto io, “so What”, è un racconto stilizzato di una mia serata di sbronza un po’ presa a male. Inoltre in quel periodo ero in fissa con un libro russo, un viaggio nell’estasi alcolica, un racconto tragicomico, per cui ci sono sicuramente influenze letterarie e musicali. Prendi “Lovecraft” ad esempio, dedicato all’omonimo scrittore, che è una trasposizione della novella “i Sogni Nella Casa Stregata”, che vi consiglio di leggere.

Emanuele: “rEvolution Of the Species” fa riferimento al periodo politico che stavamo vivendo, il governo Monti. Ci dava fastidio l’idea che se il sistema capitalistico fallisce e dimostra di essere pesantemente in crisi, vi sia la pigrizia mentale di non provare a trovare delle soluzioni,  ma si cerchi in tutti i modi di salvare il sistema coi suoi propri mezzi che già hanno dimostrato di essere fallaci.

Costantino: Dobbiamo metterlo in discussione questo sistema. Ed è proprio durante le nostre discussioni che ci facciamo i viaggioni e scriviamo i testi. Insomma la nostra musica nasce dal dialogo.

D: State già lavorando ad un nuovo Progetto?

Costantino: si,  abbiamo già prodotto del materiale che sarà condensato in un EP sul quale stiamo già lavorando. La produzione artistica sarà sempre di Carlo Marrone, Enrico Capalbo e Claudio Adamo. Per le batterie avremo alla produzione un altro produttore. Dovrebbe essere un EP a 4-5 Tracce, con brani che già suoniamo anche dal vivo.13442489_1195250337160438_1578367912385154853_o

D: cosa vedete nel futuro del panorama musicale italiano? Si va sempre più verso un sterilizzazione musicale, che porta alla celebrità burattini senza idee o sentite vento di cambiamento nell’aria?

Ezio: l’Italia è un mercato estremamente difficile, è un mercato in cui c’è poca attenzione verso le produzioni indipendenti a livello di grande pubblico. Il grande pubblico è quello del mainstream, dei talent, delle Major e purtroppo questo nei prossimi anni non lo vedo come una cosa in mutamento. Certo la scena indipendente sta crescendo anche se rimane in una cerchia ancora ristretta e appannaggio per lo più di certa critica del settore e appassionati del genere.

Luigi: purtroppo sono i sistemi di informazione principali ad avere il controllo, fin da piccoli siamo influenzati da quelli.

Costantino: Si infatti! Quello che interessa alle major è avere un ritorno economico, vendere. Quindi che loro abbiano uno o due artisti, anche se dureranno solo un anno, loro sanno che per quell’album rientreranno nelle spese e ci guadagneranno pesantemente, anche se poi scomparirà nel nulla.

Ezio: non vorrei buttarla sulla critica ai talent, ma si sa che sono il canale principale delle nuove proposte, per cui un ambiente indie, come quello in cui ci muoviamo noi arranca. La rete spezza molto e aiuta le realtà indipendenti, ma ancora non è abbastanza forte per supportare un mercato rivale di quello delle major, come magari avviene all’estero, prendi il caso di Grimes, artista canadese, a livello internazionale conosciutissima.

Luigi: si parla comunque di un tipo di prodotto più facilmente accostabile a quello che viene mandato dalle major, per cui è anche più facile. Comunque l’epoca delle rockstar col jet privato è bello e finito, non tornerà più. Dimenticatela.

Emanuele: un piccolo inciso, Alan Moore diceva che tutto ciò che ha un pubblico è classificabile, ma non fa sempre massa. L’underground non vuole essere troppo ristretto a livello di pubblico, anzi ha un pubblico molto vasto e non parlo solo di musicisti, ma di artisti, writers, DJ, non quelli da discoteca, ma i grandi producer. Certamente il mainstream è più visibile, ma la proporzione rimane su 60 e 40.

Luigi: io ho una teoria su questa cosa e penso che ogni 30 anni ci sia una rivoluzione musicale. La prima l’hanno fatta i Beatles, la seconda i Nirvana, fra un’altra decina di anni ne aspetto un’altra.

Ezio: dobbiamo essere pronti!

Luigi: eh, noi saremo già bell’e vecchi…

Emanuele: …ma soprattutto belli!

Luigi: insomma se uno pensa agli anni 90 per cui una scena indie minuscola diventa commerciale, grazie all’esplosione dei Nirvana a caso, e non si sa come siano arrivati a vendere così tanto. Però sono essenzialmente i nuovi Beatles. Hanno cambiato anche le sonorità pop che venne dopo. Fu una cosa imprevedibile, alla fine erano tre che nemmeno sapevano suonare bene, con dei suoni cacofonici, anche se degli ottimi interpreti.

D: se poteste salvare un pezzo ciascuno (o più di uno) quali salvereste?

Emanuele: lo so! “Maquiladora” dei Radiohead. È un pezzo bellissimo che non conosce nessuno! L’ho conosciuto da un loro live del ’94. Poi per ora lo ascolto ogni giorno, più volte, e siccome scegliere un pezzo in assoluto è impossibile, tanto vale scegliere quello con cui sei in fissa al momento.

Ezio: Non mi uccidete, ma io salverei Bach il corale della cantata 147, “Jesus Bleibet Meine Freude”. Costantino?

Costantino: Se dovessi salvare qualcosa dalla catastrofe universale, io devo andare per forza sui Pink Floyd. Lo prendo come un unico brano, ma per me è come se lo fosse: The Wall, nella sua integrità.

Luigi: io salvo “When the Music is Over” dei The Doors perché è il mio pezzo preferito che conosco da quando ero  bambino perché lo ascoltava mio padre e rimane nel mio cuore.

Ezio: posso aggiungere le “Variazioni Goldberg” sempre di Bach?

Costantino: sottoscrivo!

D: ho voluto fare questa intervista perché credo davvero nelle vostra capacità ed è sempre bello parlare con qualcuno della propria passione, i propri sogni. Earthset è un nome di cui spero sentiremo parlare, e consiglio a tutti gli amanti della musica l’ascolto di “In A State Of Altered Uncosciousness”. Questo spazio finale lo lascio a voi, per dire qualsiasi cosa vi salti in mente, dalla citazione alla confessione, alla lista della spesa.

Luigi: posso dire una cosa seria? Noi ci siamo conosciuti in ambito musicale, un consiglio che mi sento di dare a te e a tutti i musicisti è di sforzarsi di fare pezzi propri, di non aver paura. Anche da soli, a caso, ormai si riesce a registrare anche in camera! Non importa se i suoni fanno cagare, è il processo creativo che è importante. Quello che sta succedendo è che si scinde il processo creativo dal concetto di musica, cosa sbagliata.

Ezio: la musica è creatività! Anche se il mercato vi dice che facendo musica di altri riuscite a fare qualche serata in più, mettete in moto la  vostra creatività anche per una questione di soddisfazione personale.

Luigi: anche io ho iniziato da autodidatta in un gruppo cover e mi divertivo tantissimo, ma la soddisfazione che hai dopo che scrivi un tuo album, anche se poi i pezzi fanno schifo, è qualcosa in più.

Costantino: Perché è tua, semplicemente.

Ezio: Non fermate la musica, grazie di cuore a tutti.

Angelo Scuderi

 

 

Abbatti lo Stereotipo: la nuova rubrica di UniVersoMe

6gc3d1Il nostro ruolo non è quello di essere per o contro; è di girare la penna nella piaga.

 

Questa ve la devo raccontare.

Era una graziosa mattina di maggio quando mi sono trovata catapultata in una città nordica. Beh, in realtà ci sono andata per cambiare aria prima della reclusione da sessione estiva. Adoro il nord e l’Europa, sapete perché? Perché non vengo reputata una persona “strana”. Alternativa magari, o, semplicemente, una banana di niente, considerando che ognuno si fa i fatti suoi.

E quindi, durante questa graziosa mattina, ho mandato un messaggio vocale al mio amico vegetariano per raccontargli di come ero contenta di essere là e se lui stesse coccolando le sue carote. Perché, giustamente, essendo vegetariano, DEVE (nella mia, forse, mente perversa) coccolare le sue carote.

Così è cominciato tutto, così è nata l’idea di ‘’Abbatti lo Stereotipo’’. Due stereotipi viventi che si dicevano frasi stereotipate. Si è accesa la lampadina: siamo degli pseudo scrittori in un contesto un tantinello medioevale, quindi perché non cercare di abbattere tutti gli stereotipi dai quali siamo circondati? Cambiamo il mondo. Ok, magari non esattamente IL MONDO, ma mettiamo le cose in chiaro, strappiamo queste inutili etichette.

Via, bando alle ciance, cominciamo.

Il primo stereotipo che voglio abbattere con l’inaugurazione di questa rubrica è quello secondo cui il taglio di capelli esplica per forza chi sei o chi non sei nella vita. Il taglio di capelli, il colore o l’acconciatura possono dare un input sul mio stile, ma niente di più. I punkabbestia hanno i capelli alti e con il gel fino al soffitto, gli emo il ciuffo davanti, le barbie la paglia bruciata. Sono stili, mode, correnti che vogliono un determinato modo di vestire, di fare.

E quindi, ecco le 5 cose che i capelli NON vogliono dire:

1-    Se sono un uomo ed ho i dreadlock posso essere o non essere un raggea. Questo non implica per forza che io sia un drogato o che io non sia una persona capace di intendere e volere. Magari sono un drogato, ma potrei anche essere laureato per quanto vi riguarda. Stessa cosa per le donne: non sono per forza un’eroinomane. E non sono una persona sporca, giuro. I dreads si lavano, semplicemente si usano shampoo che non siano schiumogeni. Un ragazzo italiano in erasmus a Madrid, signori a MADRID, non è stato fatto entrare in discoteca perché reputato PERICOLOSO solo per i suoi dreads.

 

2-    Se sono uomo ed ho i capelli lunghi, lunghissimi, non sono per forza un barbone o un poveraccio. No, veramente. Un mio collega se li dovette tagliare perché il professore era convinto venisse dalla Caritas. Vi è mai passato per la mente che sono semplicemente un pigro di pupù o un tirchio che si secca spendere soldi dal barbiere? Allo stesso tempo non vuol dire che io sia un selvaggio alla tarzan, padre natura o un artista bohèmien: magari sono solo un morto di fig…

 

 

3-    Passiamo alle gradazioni di colore. Se sono bionda non sono per forza stupida e oca, non sono una prostituta. Se ho i capelli biondi e gli occhi azzurri non sono un angelo misericordioso. Se sono castana e occhialuta non sono scontatamente intelligente come Rita Levi di Montalcini. Se sono mora e porto il rossetto rosso non ho velleità da bocca di rosa. Se sono con la mia amica bionda non siamo rispettivamente lei il bene e io il male. Se sono rossa non sono un irascibile e inaffidabile diavolo assetato di sangue e vendetta.

 

4-    Parliamo delle donne con i capelli a spazzola. Allora, che io abbia i capelli a spazzola non implica per forza la parola CANCRO. Anni fa una modella, tale Stefania Ferrario (potete trovare il video su youtube), dovette smentire la malattia mortale di cui si diceva fosse affetta sui social. Semplicemente lavoro, campagne di sensibilizzazione, i suoi gran c***i, le hanno fatto decidere di tagliarseli a zero. Similmente, un uomo con i capelli a zero non ha il cancro, non è un militare. Magari è semplicemente calvo, o magari no, magari vuole recuperare 10 minuti la mattina per dormire un altro po’.

 

5-    Dulcis in fundo, la categoria a cui tengo di più: le ragazze con i capelli corti. Tutte noi con i capelli corti siamo lesbiche. Ma, dio santo, perché mai questa idea malsana? Partendo dal presupposto che ognuno di noi è liberissimo di fare, sotto le proprie lenzuola o nel sedile posteriore dalla propria macchina, il cavolo che gli pare con chi e con cosa gli pare… Esattamente, i capelli, con tutto questo, cosa c’entrano? Me lo dovete spiegare. Perché una ragazza omosessuale, che magari ha dei meravigliosi capelli neri, ricci e lunghissimi, dovrebbe andare a tagliarsi i capelli a maschio giusto per fare sapere, A VOI, che è omosessuale? O, al contrario, perché una ragazza eterosessuale non dovrebbe andare a tagliare i propri capelli, magari rovinati da anni di piastra e cloro, solo perché, sempre VOI SIMPATICONI, andate a pensare che sia omosessuale? Io, veramente, non comprendo. Considerando che non possiamo girare con un cartello al collo con scritto ‘’MI PIACE IL PENE’’ (e, probabilmente, pensereste che lo usiamo solo per coprire, a maggior ragione, il nostro orientamento sessuale), potreste, ad esempio, pensare di rivalutare un po’ tutta la vostra mentalità? Un abbraccio.

 

 

Elena Anna Andronico

 

 

 

 

 

Death note: uno sguardo al mondo degli Anime!

Death-Note-death-note-10054111-1280-1024

Insoddisfazione, noia, disgusto, verso un mondo distrutto dalla criminalità e dalle ingiustizie: sono questi i sentimenti che dominano l’animo di Light Yagami. Bello, desiderato da tutte le ragazze e il miglior studente della scuola, eppure per nulla contento della sua vita, tanto perfetta quanto vuota. Ben presto, la svolta: un quaderno nero con la scritta “Death Note”. Uno scherzo? Una trovata geniale?  Chissà, nel dubbio Light lo raccoglie ed è così che fa la conoscenza di Ryuk, uno shinigami (dio della morte) che, animato dalla stessa noia del protagonista, ha deciso di far cadere il suo quaderno sulla terra per divertirsi. Un po’ per curiosità, un po’ per mettersi alla prova, Light quindi decide di usare il quaderno della morte per scrivere i nomi dei più grandi criminali del Giappone; di cui deve necessariamente conoscere il nome ed il volto.

Pian piano imparerà a usare sempre meglio questo strumento, sperimenterà nuove regole riguardo le condizioni e le modalità dei suoi omicidi. Quella che inizialmente doveva essere una piccola missione, ovvero ripulire il mondo dai criminali, diventa per Light una vera e propria impresa. Solo lui può eliminare il male dal mondo, solo lui può essere giudice delle ingiustizie, tanto da arrivare a credersi una sorta di divinità.

Tuttavia, il suo lavoro è ostacolato prima dall’intervento della polizia Giapponese, poi dall’istituzione di una squadra speciale incaricata di indicare su Kira (“assassino”, soprannome assunto da Light), di cui fa parte anche il suo stesso padre, Soichiro Yagami, sovrintendente della polizia giapponese ed Elle, giovane detective dalle strabilianti capacità. Proprio Elle si rivela essere l’immagine speculare di Light. Entrambi eccessivamente intelligenti, sicuri di sé, ciascuno con un proprio senso della giustizia ma con un obiettivo comune: battere l’altro per portare avanti il proprio ideale. Light per divenire il giustiziere di questo mondo malato, Elle per combattere proprio ciò che lui giudica il sommo male.

Sarà una lotta assolutamente pari, con colpi bassi, acute rivelazioni e sorprese da parte di entrambi. “Death note” è una serie interessante, complessa oserei dire, perché sdogana il classico concetto di bene e male, di giusto e sbagliato. Riesce a tenere con il fiato sospeso a ogni puntata, nonostante le scene d’azione siano quasi inesistenti, in quanto sono proprio le elucubrazioni, le macchinazioni e l’introspezione psicologica dei protagonisti che tengono le fila della trama e che ci portano a capire ed a immedesimarci nei loro pensieri, fino a giustificare o addirittura a supportare le loro decisioni, non sempre edificabili.

E voi, da che parte state?

Edvige Attivissimo

10 Cose da Scroccare al tuo Collega

Meme-Face-Wallpaper-HD

Una delle tecniche che si affina di più all’università non è, purtroppo, il metodo di studio ma è il metodo di scrocco. E noi, da veri specialisti dello scroccare, ne abbiamo voluto parlare con voi. NB: a tutte le presenti e future matricole raccomandiamo di fare buon uso di questo vademecum di stron… cose intelligenti.

#1 Le Sigarette. Dall’alba dei tempi l’esempio di sigaretta ed accendino come beni complementari ha condizionato la tua vita; ecco perché se te ne manca uno probabilmente non avrai neanche l’altro. Capita a tutti di uscire in ritardo da casa e sapere di dover comprare le sigarette perchè la sera prima, con gli amici, le hai finite tutte. Ma sei in ritardo per la lezione, quindi ti si pone davanti un dilemma: arrivare tardi a lezione e comprare le sigarette oppure arrivare in orario a lezione e scroccare le sigarette a un collega? Se dovessi essere un abile scroccatore la risposta già la sai. Così con la tua “faccia tosta” ( perchè lo scroccatore DEVE avere la “faccia tosta”) chiedi con nonchalance, e quasi sempre allo stesso collega (il collega va puntato, non si può scroccare a chiunque) ” senti ma hai per caso una sigaretta?” e lui che, con la faccia da ” perennemente scroccato” c’è nato, te la offre. Ma durante la giornata non chiederai mai soltanto una sigaretta, così utilizzerai le solite frasi per poter evitare che tu possa essere etichettato come scroccatore: ” poi, la prossima volta te le compro io!”, oppure ” dimmi quanto hai speso così facciamo a metà!”. Solitamente chi dice queste frasi spera anche che dall’altro lato si dia una risposta negativa, perchè probabilmente, in quel momento, non avrai neanche soldi con te! PS: Ma, peggio di chi chiede una sigaretta, c’è solo chi chiede di fare un tiro o lasciargli due tiri e sta lì, vicino a te come un avvoltoio.

#2 Gli Accendini. Ovviamente alla frase ” senti ma ce l’hai una sigaretta per me?”, segue sempre “…e l’accendino?”. Chiedere un accendino non richiede una particolare abilità, è molto più semplice rispetto al chiedere una sigaretta, ma è anche un’arma a doppio taglio. Nel momento in cui ti passano un accendino, potrebbe essere amore a prima vista. Tutto rallenta, spunta il sole e un coro di angeli fa da sottofondo al vostro primo incontro. Se dovessi aver preso in mano “l’accendino della vita” è tuo DOVERE scoccarlo. Quindi c’è chi lo mette abilmente in tasca per poi dire, una volta scoperto:” ah scusa! mi viene automatico!” oppure chi approfitta della confusione al bar e la disattenzione del proprietario (un mix perfetto) per mettere in atto il colpo. Chiaramente non potrai mai mostrare questo tuo trofeo in pubblico, vivendo con il costante timore di essere scoperto.

#3 I Passaggi. Capita, nella vita, che tu scelga di studiare in una città che non è la tua. Capita, sempre nella vita, che tu scelga di vivere nella suddetta città perché ti sembra “più comodo così”. Capita, bisogna proprio essere dei geni nella vita, di riuscire a trovare una casa situata in una via senza nome a due passi da quel paesino chiamato “IN CULO AL MONDO” (esiste, cercate nella cartina, mi vedrete salutare dalla finestra). Ora quando logisticamente sei fuori dal mondo, non hai una macchina e neanche gli autobus più lerci della città hanno il coraggio di venirti a trovare, sorge un problema: “ma… non è che mi daresti un passaggio?”. Volente o nolente ti ritrovi a scroccare passaggi anche per andare in bagno e sai che trovare il collega che ti assicura sempre il passaggio equivale a trovare l’amico più fedele. Altro che Frodo e Sam.

#4 Il Caffè. Il giorno che scegli di immatricolarti tu ancora non lo sai che la caffeina ti salverà la vita. Il giorno dopo sì, lo hai già scoperto. Nella desolazione della tua università, tra lezioni infrequentabili e libri illeggibili, ti sentirai sempre Gatto Silvestro che prova a tenere gli occhi aperti con gli stuzzicadenti. Sarà allora che ti farai una nuova amica: la macchinetta del caffè. Diventerai un sommelier, saprai individuare quella che fa il caffè più disgustoso e quello che lo fa un po’ meno disgustoso, vagliando con attenzione il quantitativo di zucchero perfetto. Poi, un giorno, per caso, ti capiterà una disgrazia: ti accorgerai di non avere spicci. Così, inizierà la tua carriera da scroccatore di caffè: ‘’ collega, me lo offri un caffè? Ricambio domani’’. Quel domani non è mai arrivato.

#5 Il Cibo. Tutto ha inizio al momento della fecondazione (o giù di li) quando, accartocciato nel grembo di tua madre, comincia la tua carriera da ciucciatore di cordone ombelicale. E, si sa, una volta provate certe sensazioni non ti abbandonano più. Passi dunque dal livello BASE di scroccatore di merendine scolastiche, a quello PRINCIPIANTE da raccattatore di panini da ricreazione: “sì, ma prima dagli almeno un morso”. Quando la posta in gioco aumenta, raggiungi il livello AVANZATO (che prevede uno scambio di tessere e identità) e ti ritrovi ad affermare di essere la nuova Platinette, ma di aver lasciato a casa il costume da donna, pur di mangiare sulle spalle della tua collega fuori sede che ha fatto la tessera alla mensa universitaria (ah, chiaramente in tutto ciò, tu hai una barba folta e rigogliosa). Il livello ESPERTO lo raggiungi quando, dopo anni di file ai buffet delle conferenze più disparate, i tuoi amici decidono di farti la spesa e sistemartela direttamente in frigo (e tu ti ostinerai, per declinazione professionale ormai, a chiedere al vicino un pasto caldo). Ps: Il livello MAESTRO è il piú nobile del curriculum: specializzato nel furto della punta del cornetto. Ecco, li puoi considerarti un professionista (dell’incitazione all’omicidio volontario).

malena

#6 Gli appunti. Qui si parla di sopravvivenza. Immagina: è una fredda serata di gennaio, ti guardi intorno in camera tua. È buio, ma hai paura di accendere la luce. Vedresti montagne di libri intorno a te che ti ricordano l’imminente appello. Sei in trincea. Non hai via di scampo: 700 pagine non le fai neanche pagato. In quel momento ti tornano alla mente le lezioni. Succede sempre. Tu, ignaro, eri lì in classe, di fronte al professore che parlava. Ma non hai preso appunti. Hai preferito dormire. Ti senti una merda. Poi l’illuminazione. Viene subito dopo lo sconforto e l’autocommiserazione. Pensi al tuo collega. Facciamo che di solito è una ragazza, quella brava che sotto al 30 non è mai scesa. Lei gli appunti li ha presi. Le chiedi in ginocchio di salvarti, ti fidi di lei, dovrebbe apprezzarlo. E lo fa. Accetta. La vita torna a scorrere nelle tue vene. È una sensazione strana. Sì, è la speranza. Superi l’esame. 30. Lei prende il suo primo 28. Ti senti una merda nuovamente. È il ciclo della vita. Lo accetti.

#7 Le “Masticanti”. Cicles, cicca, gingomma, chewing gum. Insomma, qualsiasi sia la tua provenienza geografica, qualunque sia il modo in cui la chiami, TU SEI DI CERTO UNO SCROCCATORE SERIALE DI MASTICANTI. Nel momento esatto in cui un pacchetto di gomme da masticare viene aperto o mostrato in tua presenza, il tuo cervello attiva un meccanismo grazie al quale gli occhi ti si illuminano e le mani si posizionano autonomamente, come se avessi appena finito di lavare il vetro di un’auto e stessi aspettando la tua sudata ricompensa. Ti ritrovi dunque ad elemosinare quell’impasto gommoso che ti trasforma in un ruminante soddisfatto e felice, chiedendoti dopo pochi minuti: “ma che schifo ho in bocca? Colla?” . Sono aperte, inoltre, le iscrizioni al campionato di “gomme sotto al banco” (sai bene che sotto al banco, non ci mettevi le gomme da cancellare).

#8 La penna. Se sei uno di quegli studenti svogliati e sempre di corsa, che vanno a lezione trascinati dalla forza gravitazionale che move il sole e l’altre stelle (ah no?!), allora sei uno di quelli che parcheggia alle 8.59, con tutto lo stress che questo può comportare, e corre alla ricerca dell’aula nella quale dovrà subire le varie torture del caso. Sono già le 9.10. La lezione cominciava alle 9.00 ma vabbè, il prof ritarda. Entri, ti guardano tutti. Trovi posto. Ti stanno ancora fissando tutti, dopo aver alzato la testa dal foglio sul quale stanno freneticamente prendendo appunti. Dissimuli. Provi a confonderti in mezzo agli altri. Trovi un pezzo di carta ma… NON HAI LA PENNA“. Cominci a bisbigliare: “Compare, hai una penna in piú?”. Nessuno ti accontenta. Sudi freddo. Continui la tua opera di ricerca, finché il prof si ammutolisce e poi esclama: “tenga signor Rossi, gliela presto io la penna”. Hai perso la dignità oramai, non sei nemmeno convinto di restituirgliela e, finita la lezione, scappi furtivo e torni a casa. Finalmente la tua collezione di penne scroccate è completa (magari, se sei uno di quelli simpatici, gliela riporti all’esame per farti segnare il 18 che gli hai ulteriormente scroccato).

#9 Il carica batterie. Nell’era dell’aifon e degli smartfon, li vedi tutti che camminano con la testa piegata su degli schermi illuminati: siamo noi, studenti allo sbando. Tu stai là, in quel posto oscuro detto Università, 45 ore su 24 e l’unica cosa in grado di farti avere ancora una vita (a)sociale è la tua piccola scatola luminosa. Tu, studente, ogni mattina ti svegli e sai che devi correre più veloce della gazzella, del leone e di tutta la settima generazione, se vuoi arrivare in aula prima che la tua batteria sia passata da un meraviglioso 100% a un deprimente 2%.  Così tu, sempre tu studente alla deriva, prendi l’abitudine di portarti dietro il carica batterie. Anzi, non tu, ma l’altro, quel tuo collega accucciato accanto alla presa che neanche Gollum mentre sussurra ‘’il mio tesssssoooooro’’. Ecco che entri in gioco tu: ‘’scusa, non è che me lo presteresti per 5 minuti?’’. Non tutti ne escono vivi.

#10 Il Perennemente Scroccato. Tu con la faccia da “perennemente scroccato”. Sì, proprio tu, mi rivolgo a te in quest’ultimo punto. Tu che non sai, non puoi e non vuoi dire mai di no, tu che esageri con la gentilezza, tu sei il migliore amico dello scroccatore. A te a cui viene chiesto di tutto e con il sorriso sulle labbra dici sempre di ‘’sì’’, per poi pentirtene l’attimo dopo. Solitamente sei quello che non chiede mai nulla e quello provvisto di qualunque cosa che possa essere chiesto, perciò sei perfetto. Hai la macchina, le sigarette, l’accendino, i soldi, il cibo, le masticanti, gli appunti, le penne e il carica batterie. Sei un elemento raro e quindi vai custodito. Gente che non sapevi neanche frequentasse il tuo stesso corso ti chiede: “senti non è che potresti darmi un passaggio?”, e tu che, dall’inizio della giornata, non hai fatto altro che pensare al momento in cui saresti tornato subito a casa, dopo quella domanda, realizzi che va tutto in frantumi. Perché? Perché ovviamente il passaggio da dare non ti verrà mai di strada, perché tu abiti a due passi dall’università! Ma sei buono e solitamente lo fai volentieri. Un consiglio? Per evitare di restare in mutande, un giorno, comincia ad attuare delle “tattiche di sopravvivenza” per aggirare il destino: ti chiedono una sigaretta? Rispondi dicendo: ” questa che sto fumando era l’ultima!”, ti chiedono l’accendino? Non darlo mai in mano a loro, offriti di accenderla tu. Il mondo è bello perché è vario, ma c’è una regola che governa il mondo: per ogni ” perennemente scroccato” ci saranno almeno dieci scroccatori pronti ad amarlo!

 

Elena Anna Andronico

Elisia Lo Schiavo

Vanessa Munaò

Nicola Ripepi

Amerigo Vespucci: quando un veliero diventa la tua casa

IMG_0769Arrivai alla terra degli Antipodi, e riconobbi di essere al cospetto della quarta parte della Terra. Scoprii il continente abitato da una moltitudine di popoli e animali, più della nostra Europa, dell’Asia o della stessa Africa.

 

Negli ultimi tre giorni, esattamente dall’1 giugno al 3 giugno, nel porto di Messina ha attraccato lo storico veliero ‘’Amerigo Vespucci’’. Con i suoi altissimi alberi e l’obiettiva imponenza, ha incuriosito varie centinaia di persone che hanno potuto visitarlo dalle 14:30 alle 17:30 e dalle 20:00 alle 21:30 nei giorni di mercoledì e giovedì appena trascorsi.

Il Vespucci è stato progettato nel 1930 dall’ingegnere Francesco Rotundi e fu varato, per la prima volta, il 22 febbraio 1931. Da quell’anno, a parte qualche periodo durante il quale sono stati fatti lavori di manutenzione, assolve il compito di nave-scuola per l’addestramento degli allievi ufficiali dei ruoli normali dell’Accademia Navale.

Quando mi sono recata al porto per dare un’occhiata sono rimasta incantata. A vederlo da fuori ricorda quasi una nave dei pirati, ti aspetteresti da un momento all’altro di veder spuntare Peter Pan e Capitan Uncino, insieme a Trilli, Wendy e tutti i Bambini Sperduti. Si porta dietro un’aura quasi magica, quando si è molto vicini non si può fare a meno di alzare la testa e sospirare un ‘’uao’’.

Ma com’è vivere e lavorare su una nave del genere, un veliero così antico ed elegante? Di certo non è tutto oro ciò che luccica, però c’è un certo orgoglio nel cuore dei ragazzi che, giorno e notte, vivono le loro vite tra quelle assi, sballottolate dal mare. Me ne parla F., un mio amico facente parte dell’equipaggio.

All’inizio non sono riuscita a trascinarlo con l’entusiasmo della mia curiosità, piuttosto ha iniziato descrivendomi tutti i difetti di quella che effettivamente, in questo momento, è casa sua. Divide una stanza con altre 59 persone, ci sono 4 bagni per tutti loro, privacy zero. E poi i classici orari da militare: sveglia alle 6 del mattino con stacco alle 23, turni faticosi, compiti difficili. A 22 anni passare dal lusso di casa propria (e non si parla prettamente di lusso materiale, quanto della mamma che ti accudisce in tutto e per tutto) a questo stile di vita non è di certo una passeggiata.

Mi ha raccontato molto del suo distacco da casa, dagli amici, dalla famiglia, ‘’come se stessi partendo per non tornare’’. Molti di noi sono studenti fuori sede, ma questo è sicuramente un distacco diverso. Devi imparare subito e in fretta a saper fare tutto e anche di più. Piano piano, però, il mio amico si è sciolto ed ha cominciato a raccontarmi la parte bella di questo suo viaggio.

Così, ha iniziato spiegandomi i vari ruoli che ognuno di loro ha, da quello più ‘’infame’’ a quello del comandante. Mi ha spiegato con quali figure lui si rapporta ogni giorno, dei suoi compiti e dei luoghi in cui li svolge. Ridendo mi ha detto di come sia incredibile vedere i nocchieri arrampicarsi sui pennoni degli alberi e aprire le vele (confermandomi che lui soffre di vertigini al solo pensiero).

Presi dall’entusiasmo siamo saliti insieme a visitare la nave che, se da fuori è meravigliosa, dentro è uno spettacolo. Ogni zona in cui mi portava aveva due storie da raccontare, una per i turisti e una per chi ci vive come lui. Mentre passeggiavo sui ponti, entravo nelle stanze e scendevo quelle scalette di ferro ripidissime e strettissime per passare da un reparto all’altro (da cui sono, ovviamente, scivolata, ed ho, altrettanto ovviamente, sbattuto la testa, con lui che invece saliva e scendeva con una naturalezza odiosa), lui era il mio cicerone, la mia guida turistica e, al contempo, un amico che si perdeva in aneddoti da ragazzino facendomi ridere con lui.

Dopo la prima settimana di vero disagio, di immobilizzazione data dal mal di mare e di fedeli sacchetti per il vomito, di ‘’ non posso vivere qua sopra sei mesi’’, semplicemente ti abitui. Ti godi il mare calmo e ti abitui al mare mosso tanto che diventa un dolce dondolio la notte, tanto da conciliare il sonno. Ti abitui al fatto che il cellulare non prende, ti scordi di averlo e non ne senti più il bisogno. Ti abitui a stare con i tuoi pensieri, con molti pochi svaghi, ma un ponte meraviglioso dove, la notte, puoi fumarti una sigaretta e vedere le stelle come non le hai mai viste, libere dalla luce artificiale. Mi ha anche confermato il fatto che il ‘’mal di terra’’ esiste davvero, una volta sceso barcolli per un momento.

È una vita abbastanza peculiare ma, per una civile come me, ha un fascino particolare. Più lui raccontava, più io trovavo altre domande da porgli. Mi ha confessato che spesso si sente frustato ma quando racconta la sua storia e poi si gira e vede il Vespucci illuminato, di notte, dal tricolore, non può non sentirsi un italiano fiero di quello che fa, scordandosi della stanchezza.

Alla fine della nostra lunga chiacchierata, una domanda mi premeva più di tutte: se dovessi tornare indietro, sceglieresti lo stesso di fare questa esperienza?

La risposta è stata ”sì”.

Elena Anna Andronico

I tre motivi per cui non puoi non conoscere il FabLab Messina se sei uno studente universitario

Nella città dello Stretto ci sono molto ottime iniziative di cui nessuno (o quasi) ne sa niente. Particolari eventi che ridanno valenza culturale al territorio, associazioni che operano a contatto con il tessuto sociale più a rischio e tante altre ottime realtà che hanno difficoltà a portare il loro messaggio ai messinesi.

Una di queste splendide iniziative che spesso ingiustamente passa in sordina è quella del FabLab Messina. Il nome, per i meno addetti ai lavori, potrebbe dire nulla o quasi. La domanda sorge quindi spontanea: cosa sono i FabLab? 

“I FabLab sono dei laboratori locali connessi tra loro in un network globale, che permettono la realizzazione di progetti o invenzioni dando l’accesso a strumenti per la fabbricazione digitale” (definizione riadattata dal “The Fab Charter”)

Questa è una definizione, per così dire, ufficiale anche se forse un poco troppo rigida. In parole più povere un FabLab è uno spazio in cui le persone che hanno un oggetto, un progetto materiale da voler realizzare possono farlo. Come? I FabLab sono dotati di numerosi macchinari che spaziano da stampanti 3D a Laser Cut.

Non a caso quelli che frequentano i FabLab vengono definiti artigiani 2.0 o makers, poiché sfruttano le tecnologie digitali per creare qualcosa di materiale che può essere una scultura, un sistema di video sorveglianza e chi più ne ha più ne metta.

Sarebbe però riduttivo parlare solo di questi aspetti. I FabLab infatti non mettono solo a disposizione i macchinari, ma creano reti e comunità al cui interno si possono trovare le più disparate competenze e conoscenze. Gli associati ai FabLab spaziano da fotografi e designer a ingegneri meccanici, tutte persone con voglia di fare e di buttarsi su nuove idee da realizzare.

citazione-open-source

La filosofia che fa muovere tutto è quella del DIY (Do It Yourself), ma anche quella dell’Open Source. Sono molti infatti i learning group che poi vengono condivisi anche con i non associati. Oltre a questi gruppi di apprendimento spesso si organizzano anche workshop su argomenti vari. Uno degli ultimi che è stato realizzato dal FabLab Messina verteva sul visual mapping. Avete presente quando quest’estate c’è stato il Kernel Festival dove venivano proiettate cose fantastiche sul Duomo della nostra città? Ecco, quei pazzi del FabLab Messina hanno fatto un workshop in cui insegnavano a farlo.
Ma quindi perché non si può non conoscere il FabLab Messina?

1) Perché è un luogo in cui puoi migliorarti. Chi si ferma è perduto, a maggior ragione nel 2016 dove chi rimane nella propria nicchia starà a galla per poco. Qualunque siano le tue competenze e le tue conoscenze al FabLab puoi migliorarne, acquisirne di nuove e perché no, condividere quelle che già hai acquisito. Tutto questo non stando sui libri, ma mettendo tutto in pratica su cose concrete.

2) Perché potrai “toccare” le tue idee. Come detto al FabLab Messina ci sono persone dai più differenti background, con cui confrontarsi, con cui scambiare idee e pareri, con cui crescere come individuo e magari anche a livello lavorativo. Attraverso questo incontro e grazie ai macchinari messi a disposizione dal FabLab (sono tanti e di molti non ne conosco manco il nome) potrai realizzare qualsiasi, o quasi, oggetto che ti passa per la testa!

3) Perché collaborano con UniMe. Il FabLab Messina è fortemente addentrato nel territorio messinese e certo non potevano non aver collaborato in qualche modo con la nostra università. In particolare hanno collaborato con #SmartMe, uno spin-off di UniMe che, detto banalmente, si occupa di rendere la nostra città di più intelligente attraverso l’erogazione di tutta una serie di servizi.

 

sensore-smartme

 

Per saperne di più vi invito a passare dalla loro pagina facebook o a fare un salto direttamente al FabLab in Via S.Paolo dei disciplinanti 21!

 

Pietro Di Chio

Veloce Come Il Vento: Adrenalina e Sensibilità nell’ultimo film di Matteo Rovere

 standard_d99f28d4-69c9-49bb-9ad2-2a6ff9194d31

 

«Disperati veri si è rimasti in pochi», dice Loris, nell’ultimo film di Matteo Rovere Veloce come il vento, viaggio a tavoletta nel mondo del campionato italiano GT e delle corse clandestine, in sala dal 7 aprile.

E se la disperazione predomina da anni in Italia, tra registi e spettatori, Veloce come il vento, insieme ad altri titoli come Lo chiamavano Jeeg Robot, Suburra o Non essere cattivo, sembra illuminare il fondo di quel vaso di Pandora rimasto aperto dagli anni ’80, in un 2016 insolitamente felice. Sì perché negli anni ’80 inizia forse un gap tra il cinema italiano e quello internazionale, in cui gli Stati Uniti la facevano e la fanno tutt’ora da padrone, grazie all’arrivo della computer grafica e degli effetti speciali ad alto budget.

 

Rovere centra in pieno il problema e affonda le mani, con determinazione e (metaforica) disperazione, nelle risorse, rimaste neglette ma non per questo prive di forza ed impatto visivo(un po’ come la vecchia auto da corsa di Loris), e che appartenevano al nostro cinema di genere, nello specifico quello dei “film di macchine”. Se l’espressione – alquanto infelice, invero – vi fa pensare solo all’ennesimo Fast and Furious o, andando a ritroso nel tempo, a Driver – l’imprendibile, allora dovreste dare un’occhiata a Le Mans – Scorciatoia per l’inferno, Speed Driver e Velocità massima (solo per citarne alcuni), tutti film italiani e tutti, tra i più e meno riusciti, appartenenti al filone in cui Rovere ha deciso, per dichiarata passione personale, di lanciarsi.

 

La trama, vagamente ispirata alla vera storia del pilota Carlo Capone, vede la giovane pilota Giulia (un’esordiente e promettente Matilda de Angelis), gareggiare nel campionato GT per mantenere la casa di famiglia, dopo l’abbandono da parte della madre e la morte del padre. La situazione, già precaria, è complicata dal ritorno del fratello maggiore di Giulia, Loris (Stefano Accorsi), ex pilota tossicodipendente abbandonato a se stesso, che decide di aiutarla.

 

Rovere è qui alle prese con un film completamente diverso dai suoi precedenti, basato su un soggetto verso cui nutre un interesse innegabile, sensibile al fascino del soggetto macchina nelle sue forme, rumori, colori, movimenti. Il rumore e l’immagine diventano di fatti vitali, in un film sulle corse automobilistiche: il montaggio sonoro è eseguito in maniera impeccabile, mentre l’occhio cinematografico del regista mostra un apprezzamento quasi voyeuristico per il rallenty, in svariate inquadrature, che però non mirano alla spettacolarità volgare viziosa americana di una sequenza, quanto piuttosto alla poesia del particolare, al piacere puro di contemplare la ghiaia smossa dagli pneumatici, evitando perciò la morbosità. L’uso dell’effetto digitale rimane marginale, tirato fuori alla sola occorrenza.

Piccole cose, insomma. Nugae di stile, che pure sono parte di una ricetta fatta di ingredienti che funzionano, come le musiche di Andrea Farri (già collaboratore di Rovere), tappeto elettronico sotto impalcatura indie rock, che accompagnano una sceneggiatura atta a fondere (parole del regista) la sensibilità di un dramma familiare ed il rombo dei motori, riuscendovi con perfetta armonia.

Il personaggio di Accorsi è decisamente il punto forte della sceneggiatura, raffigurando un’idea di tossicodipendente lontana dallo stereotipo, una combinazione di realismo sporco e stoner comedy che il pubblico italiano ha potuto vedere raramente, finora. L’attore bolognese si è calato perfettamente nella parte, libero di arricchire il personaggio con regionalismi emiliani spinti e, diete drasticamente hollywoodiane a parte, ha espresso al meglio momenti già promettenti sulla carta, come quelli che lo vedono in cortile con la sorella o in vasca da bagno con la fidanzata – anch’essa tossicodipendente – intento a sciogliere o complicare i nodi della sgangherata matassa familiare; momenti che rendono proprio quella vasca da bagno e quel cortile riconducibili, in qualche modo, da una parte a Paura e delirio a Las Vegas, in cui un lisergico Benicio del Toro delirava con Johnny Depp nel bagno di una camera d’hotel, dall’altra ai letti fassbinderiani, luoghi di riflessione e confronto intimo.

 

Veloce come il vento risulta dunque l’opera più riuscita di Matteo Rovere, presentando una formula che non ha solo gli ottani come carta vincente e che è già pronta per essere esportata nelle sale straniere. Un piccolo successo, squisitamente italiano, in grado di farsi apprezzare anche dai non amanti dei motori (come, del resto, chi scrive).

 

 

Andrea Donato

”Seconda Primavera” di Francesco Calogero: intervista al regista

kkk

Francesco Calogero è nato a Messina nel 1957 ed è uno dei registi che potremmo annoverare nell’ambito underground del cinema italiano, quello cioè che risulta ad oggi più vivo, più interessante e più intenso della sua controparte mainstream, colpevole di avere invece affossato un’industria e un’arte prima valide a livello internazionale.

Il 4 febbraio 2016, a sedici anni dall’ultimo lungometraggio Metronotte, è uscito nelle sale Seconda Primavera, toccante sesta prova della sensibilità da cui la filmografia di Calogero è attraversata. Stato, pochi mesi fa, nelle sale, Seconda Primavera racconta, nell’arco di sei stagioni, le storie incrociate di quattro personaggi, ciascuno rappresentativo di una diversa età della vita.

 

Lo abbiamo intervistato per via telematica per parlare con lui di Seconda Primavera e di cinema.

 

  1. Come nasce l’idea per Seconda Primavera?

 

Credo che tutto sia partito da una visita casuale alla villa che costituisce il set principale del film, in un plumbeo giorno d’autunno. Quel giardino, di cui avevo apprezzato la magnificenza in estate o in primavera, si presentava ostile, il suolo cosparso di foglie secche, i rovi cresciuti a dismisura, quasi a voler impedire l’ingresso ai visitatori, sferzati dal vento e dalla pioggia. In una villa lontana dal centro abitato, a rischio isolamento perché raggiungibile solo attraverso una strada sterrata sulla riva del mare, pronto a inghiottirla, è piacevole stare solo nella bella stagione: col cattivo tempo i suoi occupanti possono passare giorni rinchiusi dentro, in perenne stato di esasperazione. Ho provato a immaginare come potessero cambiare i rapporti tra alcuni personaggi, stagione dopo stagione, confinati in una casa piccola come quella, in una situazione in cui è stata data più importanza al giardino, alla vita all’aria aperta. Da lì, tra vita vissuta e numi tutelari di turno, è cominciata la consueta stratificazione: voci diverse alla Thomas Stearns Eliot, potrei dire, sottolineando così quanto io gli debba in termini distruttura sinfonica, o per le associazioni di temi e simboli. L’inizio dei Quattro quartetti sembra offrirci anche lo scenario, lo specchio d’acqua dove si alzano i fiori del loto alla luce del sole, ed il celebre giardino delle rose, quello a cui si accede attraverso la porta che non abbiamo mai aperto: in Seconda primavera è testimone di un abbraccio, dopo un divertito inseguimento, che nasconde il reciproco turbamento di Andrea e Hikma (due dei personaggi principali). Lo raccontiamo già nel manifesto del film, in cui la grafica Katia Donato rende brillantemente tali temi.

 

  1. Nel tuo film c’è tanto (buon) gusto per la citazione. Non solo T. S. Eliot, come riferisci adesso, ma anche Philip K. Dick, e poi Shakespeare e Bellini… e soprattutto, è impossibile vedere il personaggio di Hikma (interpretata da Desirée Noferini) senza pensare a La donna che visse due volte.Da cosa è derivato il bisogno di questi riferimenti?

 

Non è un vero e proprio bisogno, ma forse solo un desiderio di conforto, necessario per vincere le insicurezze che ti assalgono nel corso della tua ricerca: ti aiuta molto avvertire certe assonanze, rendersi conto che già qualcuno prima di te si è soffermato allo stesso modo sul medesimo dettaglio. Del resto, chi pensa di star creando qualcosa di inedito e rivoluzionario, è un illuso: i grandi libri sono stati scritti, e i grandi detti sono stati pronunciati. Per quanto riguarda Shakespeare, la vicenda del Sogno ci mostra anch’essa coppie che si scompongono e ricompongono, e un andirivieni tra città e campagna. Se seguiamo la suggestione di alcuni critici, e lo guardiamo dal punto di vista di Hikma, questo movimento dalla corte di Atene alla foresta rappresenta il passaggio dall’istintività giovanile alla razionalità della vita adulta: Seconda primavera non è soltanto la storia di una senilità, intesa in senso sveviano, ma anche un coming-of-age movie. In realtà tutto il Sogno, con i suoi continui richiami alla trasformazione – vedi quel che accade a Puck e Bottom, non a caso presenti entrambi nelle due scene esplicitamente citate nel film – rappresenta un’allegoria delle metamorfosi che avvengono nella vita di ognuno: dunque il discorso riguarda anche Andrea, e i ripetuti cambiamenti della sua vita nel teatro del suo giardino, piccola foresta incantata… E come il Sogno, anche Seconda primavera è una storia d’amore in tutte le sue forme, in cui si spazia da un sentimento irrazionale a quello frutto di calcolo; dall’amore platonico, in qualche misura rispettoso delle convenzioni sociali, a quello infedele, disgregatore di equilibri. In questo senso Riccardo è ora costruttore, ora sabotatore di una razionalità in perenne conflitto con la sua parte più oscura. Se si vuol leggere la vicenda in chiave psicoanalitica, c’è infatti un’ulteriore corrispondenza con il Sogno: laddove i due luoghi nei quali si svolge quella storia, la corte di Atene e la foresta, diventano per noi la città con tutte le sue pastoie giornaliere, dove bisogna rispettare le leggi (anche quelle edilizie), e dunque è la ragione a comandare (il Super-Io); e in opposizione c’è il giardino, l’Es, il nostro lato oscuro, la parte subconscia e irrazionale, il luogo notturno e magico dove a regnare sono i desideri e gli istinti. Tutti i personaggi della commedia, allo spuntar del sole, affermano di aver sognato: e in qualche modo lo fa anche Hikma, che sembra voler rinnegare la sua esperienza d’amore in quella notte (chiedendosi, “Forse ero sonnambula”). La citazione belliniana parte da qui, ma non solo. Quando ho messo in scena La sonnambula, alcuni anni fa, già meditando su Seconda primavera, avevo appuntato l’attenzione sul pericoloso percorso finale di Amina, imposto dal libretto, un camminamento alto e infido che da noi era diventato un ponte mobile. Ma prima di allora, ritrovare sul nostro set un ponte simile aveva fatto sì che mi imponessi di utilizzarlo a scopi narrativi. Parliamo di un elemento largamente simbolico: basti pensare all’etimo della parola “pontifex”, i sacerdoti sono coloro che costruiscono il ponte, che aiutano il passaggio tra la terra dei vivi e il regno dei morti. L’idea forte c’era già, il ponte era stato chiesto all’architetto Andrea dalla moglie Sofia, dopo la scoperta quasi casuale della terrazza, da quel giorno diventata il suo regno: così ho immaginato Andrea impossibilitato a tornare in quello spazio, a cui è legato da troppi ricordi dolorosi. Ammesso che non sia soltanto una sua immaginazione, ci riuscirà solo nel finale, come attratto da Sofia, ma anche commosso e suggestionato dal percorso rischioso di Amina, che sta ammirando a teatro. Anche l’eroina belliniana vive una condizione di revenante, quando il conte Rodolfo si turba nel rivedere nei suoi occhi quelli della donna profondamente amata nel passato. In realtà il tema dell’eterno ritorno è certamente più decadente e tardoromantico, e anche più anglosassone – pensiamo, per dire, a tanti personaggi di Edgar Allan Poe – rispetto al milieu in cui agivano il librettista Felice Romani e lo stesso Bellini. La verità è che un libretto dalla genesi tormentata aveva costretto il conte ad atteggiamenti contraddittori: così, caduta l’ipotesi che la fanciulla potesse essere sua figlia, non restava che accettare l’idea del Doppelgänger. E quando Amina, in stato di sonnambulismo, praticamente gli si offre, il conte resiste: insomma, anche lì la soppressione del sentimento erotico, vuoi per la situazione, vuoi per la notevole differenza d’età, vuoi soprattutto per quell’impressionante somiglianza che turba e blocca… Già, siamo giunti a Hitchcock. Ovviamente è un paragone che temo: Vertigo (La donna che visse due volte) è uno dei film più importanti della storia del cinema. In realtà, considerati i punti di contatto tra le due storie, mi sono limitato a mandare leggeri segnali, giocando sul filo dell’ironia. Parlando prima di camminamenti a rischio, di altezze, di equilibri precari, ho già fatto riferimento al tema dell’acrofobia, centrale nell’intrigo hitchcockiano. E così di seguito, mi è venuto naturale chiamare Scottie – utilizzando dunque il nomignolo del personaggio di James Stewart nel film – il nostro Jack Russell Terrier, scelto perché abile a scavare buche nel giardino: un aggancio al delirio di Riccardo, che nota il disappunto di Andrea per l’azione del cagnetto, e lo sospetta di aver occultato il cadavere della moglie (e dunque di temere un’eventuale involontaria riesumazione), infilando una suggestione simile nella revisione del suo romanzo. Se il racconto di un animale che rivela la presenza di un cadavere fa nuovamente pensare a Poe e al suo Gatto nero, in realtà qui ritorniamo alla Terra desolata, al monito rivolto a Stetson – che è un uomo d’affari della City misteriosamente associato alla battaglia navale di Mylae (cioè Capo Milazzo, un luogo molto vicino al nostro set di Acqualadroni) – a badare al cane che vorrebbe dissotterrare il cadavere da lui seppellito in giardino. Anche se il racconto fatto dal cane è verosimilmente rubato da Riccardo a Roog, il primo racconto che Philip K. Dick riuscì a vendere, ispirato dall’animale posseduto dal suo vicino… Tornando a Hitchcock, mi è sembrato pertinente chiamare “La moda che visse due volte” il negozio di abiti vintage appartenuti a Sofia: lo intravediamo nella foto custodita nel baule. Ma certamente i vestiti dell’una che finiscono addosso all’altra è un riferimento non da poco, e la scena dello chignon una citazione diretta, anche se con una netta differenza temporale: Kim Novak/Judy oppone una piccola resistenza a James Stewart sulla richiesta di raccogliere i capelli in uno chignon, esattamente come faceva la defunta Madeleine, perché teme che la macchinazione sia scoperta, ma poi rientra in bagno, e lo accontenta; Hikma si rifiuta recisamente, quasi a muso duro, anche lei impaurita dal fatto che Andrea la stia troppo pericolosamente assimilando a Sofia, ma poi ci pensa su, e la sera dopo decide di sfoggiarlo durante la cena, sente di doverglielo… Andrea appare poi inizialmente depresso perché si sente anche lui responsabile della morte della moglie, e da lì affetto da una sorta di necrofilia “per fedeltà”: esattamente come Scottie Ferguson “vuole andare a letto con una morta” (Hitch dixit). Lo stesso regista chiama “sesso psicologico” questo desiderio di ricreare un’immagine sessuale impossibile: è il sottile crinale su abbiamo deciso di far camminare il personaggio di Andrea, preparando il film con Claudio Botosso, che lo interpreta in maniera assai partecipata. Per quanto riguarda i sensi di colpa, il tormento per il ricordo di Sofia lo avvicina anche al personaggio di Laurence Olivier in Rebecca, la prima moglie, giusto per restare su Hitchcock. Anche per quel sospetto di omicidio che Riccardo getta su di lui…

 

  1. Personalmente ho sempre trovato difficile inquadrare la tua filmografia come quella di un cineasta di genere o d’essai. Alla luce dei dibattiti sulla validità di queste etichette, dobbiamo pensare ad un tuo rifiuto di esse, oppure pensi di farne parte?

Parlare di cineasta d’essai mi suona strano… in fondo, i miei film non sono così estremi, di quelli che piacciono solo ai critici o ai selezionatori dei festival. Anzi, direi che sono addirittura più contento, rispetto alla lettura delle recensioni favorevoli, quando percepisco chiaramente l’emozione provocata nel pubblico delle sale. E per fortuna è accaduto spesso, soprattutto con quest’ultimo film. Se parliamo di generi, l’ambito in cui mi muovo è sempre quello del dramedy, la commedia drammatica, a volte più carica di toni foschi, come accade in Seconda primavera, in altre circostanze più incline alla leggerezza. Un termine che mi fa pensare al mio primo film professionale, La gentilezza del tocco, il cui titolo fu spesso storpiato: erano gli anni della celebre Insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. A questo proposito, ricordo che quando scrisse la prefazione al volume che racchiudeva le mie prime tre sceneggiature – si chiamava appunto anch’esso La gentilezza del tocco, fu pubblicato da Sellerio nel 1994 – Enrico Ghezzi definì i miei film “polizieschi del cuore”. Io mi ci ritrovo, mi accorgo che continuo a scrivere storie in cui il tema della quest, lievemente avvolta nel mistero (come avviene anche in Seconda primavera), è solo un pretesto per un’analisi amorosa, ed esistenziale lato sensu. Uno dei cineasti che ammiro maggiormente,l’americano John Cassavetes, dichiarava in un’intervista che nessuno può vivere senza filosofia. Ma lui attribuiva al termine filosofia un’accezione… come posso dire, rovesciata. L’amore per la saggezza, secondo l’etimo greco, era diventato per lui anche la sapienza, lo studio dell’amore. Come dire, ogni cineasta non può girare film senza analizzare l’amore. Ecco, direi che il mio genere – sempre senza mai perdere di vista il contesto sociale in cui si muovono i personaggi – sono i film filosofici d’amore.

 

  1. Un’ultima domanda.Seconda Primavera è uscito in un anno particolarmente prolifico per il cinema italiano. Oltre ai film di autori già affermati, come Sorrentino o Tornatore, l’opera ultima del compianto Claudio Caligari, Non essere cattivo, sono arrivati nelle sale giovani registi come Gabriele Mainetti ed il suo Lo chiamavano Jeeg Robot, premiato ai David di Donatello e Matteo Rovere, al suo terzo film con Veloce come il vento, che sembrerebbero promettere bene, in un panorama cinematografico da tempo artisticamente sterile. Hai dei nomi, tra i giovani registi nostrani, in cui riponi speranze concrete per risollevare le sorti del cinema nostrano?

 

Ovviamente per me non ha senso qui citare nomi fin troppo conosciuti. Io ripongo speranza nei giovani cineasti che si allontanano dal mainstream, spinti da un’ispirazione autentica, senza mirare ad épater le bourgeois, come si diceva un tempo, ma assumendosi dei rischi, e accettando la loro marginalità nei confronti di un sistema marcio – vedi quel che è successo al succitato Caligari, osteggiato in vita e celebrato solo dopo morto – come il nostro. Se faccio i nomi dei gemelli De Serio, o di Michelangelo Frammartino, sono certo che al grosso pubblico dicano poco, e questo racconta bene come sia irrimediabilmente compromessa la situazione italiana…

 

 

 

 

Angelo Scuderi e Andrea Donato

10 INCREDIBILI SCUSE PER NON STUDIARE

non-so-se-mi-conviene-iniziare-a-studiare-300x225

Non importa quanti anni tu abbia. Non importa se davanti hai un manuale scritto da filosofi tedeschi depressi che parlano di quanto tu sia inutile o un sussidiario delle medie con cui puoi studiare geografia, storia e educazione civica senza capire nulla (mamma mia quanto sono vecchio). L’unica cosa che conta è trovare una scusa plausibile (o anche no) per chiudere quel libro e fare altro. E credetemi, ragazzi e ragazze, avete di fronte uno che procrastina l’impossibile. Per farvi un esempio… in questo momento dovrei tipo studiare ma preferisco scrivere questo articolo. Bene. E allora ecco le 10 migliori scuse per non studiare.

#1 YouTube. Chiunque abbia, almeno una volta nella vita, aperto un video su YouTube mentre stava studiando sa di cosa parlo. In un primo momento sei lì a guardare l’ultima intervista di Hannah Arendt per sentirti una persona super acculturata e l’attimo dopo stai guardando un corso online per imparare a ballare il tango. Maledetti suggerimenti.

#2 Faccende domestiche. Ebbene sì, per non studiare faremmo proprio di tutto. Anche lavare quei piatti sporchi che stagnano nel lavandino dallo scorso Natale ed hanno uno spirito natalizio ancora vivo e vegeto.

#3 Candy Crush & co. Personalmente non sono un amante di questi “giochini drogosi per smartphone che ti risucchiano lentamente e inesorabilmente l’anima” (termine scientifico, ndr). Tuttavia non posso non ammettere che una delle scuse migliori per non studiare è decidere fare una partitina di 5 minutini. Salvo poi trovarsi 3 ore dopo non solo ad aver finito tutte le vite del gioco ma anche la tua vita, ergo una giornata di studio.

#4 Serie Tv e Film. Ecco forse questa è la mia preferita. Questa scusa colpisce 1 studente su 3 (statistiche inventante da me) ed è una delle più efficaci e deleterie. Perché dovrei buttare la mia vita su quel mattone, che per convenzione chiameremo libro di diritto, quando potrei spararmi una maratona di Law & Order o guardare un bel film come Il Caso Thomas Crawford? Ah come dici? Civil Law e Common Law? Ah l’America ha un sistema giuridico diverso da quello italiano e quindi non imparerò niente guardando quella roba di Hollywood? Ok.

#5 Fissare il vuoto. Non ne sono sicuro ma questo potrebbe essere un ottimo sport olimpico. Più che una scusa questo è uno stile di vita. Perché sì, tu che stai leggendo e pensi a tutte le volte che hai fissato il vuoto piuttosto che studiare, hai un po’ la testa tra le nuvole. Ma non ti preoccupare non è un dramma. Perché buttare sangue su uno sporco libro quando posso fissare un punto non definito e pensare a come risolvere i misteri della vita? Ah e anche a pensare cosa può esserci di buono per cena. È importante.

voglia-di-studiare-fb2

#6 La conta delle pagine. E a proposito di sport olimpici come non menzionare “La conta delle pagine”. Di fronte a un libro di 500 pagine le cose da fare sono due: o ti metti a contare le pagine e programmare di leggerne un tot al giorno per arrivare preparato al giorno dell’esame o inizi a strapparle in preda ad una crisi di nervi sperando che così diminuiscano. Comunicazione di servizio: entrambe le soluzioni non sono valide.

#7 Gruppi studio. L’uomo per natura è spinto a vivere in comunità. Lo studente disperato non fa differenza. I gruppi studio possono essere un ottimo modo per imparare in compagnia tutti allegri e felici, ma nella vita vera sono una delle migliori scuse per non studiare. Perché quando vi riunite tu e i tuoi compagni di studio per discutere di quale sia tra il pensare e il volere la facoltà della mente più nobile (e sembrate un circolo di taglio e cucito), alla fine vi ritroverete a parlare di Emily Ratajkowski (tratto da una triste storia vera).

#8 Il Calcetto. Non ho sbagliato a scrivere Calcetto con la C maiuscola. Eh no, perché qui siamo di fronte ad una signora scusa. Anche lo studente più diligente manderebbe all’aria un pomeriggio di studio per una partita a Calcetto. Il Calcetto è un momento unico nella settimana dello studente che ha l’opportunità di chiudere i libri e svagarsi un po’. Peccato che l’impegno, a livello di tempo, non si limiti all’ora e mezza di partita: 2 giorni servono per prenotare il campo e cercare uomini validi per giocare, 1 giorno per capire che uomini validi non ce ne sono ed è meglio ripiegare sull’amico grassottello che ha il tocco di Ronaldinho,1 giorno per la partita (sì, un giorno intero per entrare in clima serve) e, infine, 3 giorni per riprenderti dai dolori che dalla partita derivano e per capire che sei vecchio. Ed un’altra settimana è passata.

#9 Fare i compiti degli altri. Questa scusa colpisce soprattutto chi ha un fratello o cugino più piccolo. Non posso che comprendere tali individui. Dopo che passi ore e ore su un libro di anatomia, che personalmente mi farebbe rigettare il pranzo di Pasqua, e arriva il tuo bel cuginetto con i compiti di matematica da fare che consistono nel fare delle difficilissime divisioni in colonna, capisci che è il momento di mollare anatomia e buttarti ad aiutarlo per diventare il suo eroe e sentirti realizzato per un pomeriggio. Tranne quando deve fare l’analisi grammaticale. Quella mi secco a farla anche ora.

#10 UniVersoMe. Ma naturalmente la scusa migliore, se non anche la più bella, è quella di perdersi nel sito di UniVersoMe (ammicco, ammicco). Perché solo su UniVersoMe potrai imparare tante cose belle e leggere articoli stupendi come questo che ho scritto io (ammicco, ammicco e lancio sguardo che incute sicurezza). Per poi non parlare della stupenda Radio di UniVersoMe che ti terrà compagnia proprio nel momento in cui decidi di aprire il libro (alzo le sopracciglia in segno di figaggine e intanto ammicco). Cosa aspetti allora? Posa quel libro che proprio non vuole sapere di entrare nella tua bella testolina e scegli il divertimento di UniVersoMe.

Nicola Ripepi