Se rimani non giudichi, se te ne vai non giudichi

Una delle poche certezze che ha Messina è la retorica di fine estate. C’è sempre il poeta polemico di turno, la scrittrice nostalgica, lo zio d’America che sentenzia, sul finir di Agosto. Molte testate dello Stretto hanno preso questa abitudine – noi forse l’abbiamo addirittura iniziata questa tradizione – di pubblicare le lettere “rendiconto” delle condizioni e delle sensazioni che si provano quando si ritorna e si parte da Messina. 
Quando si supera la soglia dei 30 giorni di permanenza in quel di Zancle, scatta l’impellente necessità delle parole di farsi spazio tra le dita.

Premetto che questo filo narrante di analisi di critica costruttiva riguardo i movimenti migratori dal Sud non era stato deciso ma si è creato da solo: già da Settembre avevo in mente di affrontare tale argomento dal punto di vista “interno”, mentre il mio collega Alessio Gugliotta, penna dell’editoriale precedente, ha riportato nero su bianco dati rilevanti e critici della nostra attuale comunità, senza esserci messi d’accordo.

Che il mio discorso non venga travisato perché riconosco esserci tanti, troppi punti di vista: chi voglio affrontare sono quei cittadini che rimangono ma puntano il dito senza fare distinzione, sostenendo che tutti coloro che se ne sono andati siano deboli. Le ragioni dell’emigrazione sono diverse e personali, chi si permette di giudicare chi rimane sbaglia, sopratutto se ha avuto l’opportunità di andarsene senza la necessità di farlo, e viceversa chi rimane pur avendo la possibilità di andarsene ma preferisce giudicare come moralmente scorretto chi riempie la valigia. Questa forma di bullismo antiquata e sempre più ancorata nel dilagante malcontento generale che sconvolge i rapporti sociali, alimenta l’aggressiva reazione di una parte di nazione che viene illusa continuamente come se fosse drogata. Ed il primo punto di riflessione che sorge spontaneo è: quanto noi giovani meridionali subiamo e soffriamo le condizioni precarie offerte dalla nostra terra? I punti di vista sono infiniti, e più che opinioni sono critiche elevate a giudizi supremi che vanno in netto contrasto tra loro.

Partendo da chi sceglie di rimanere: mi chiedo perché chi rimane è meglio di chi se ne va? L’assunto incontestabile che ognuno è artefice del proprio destino nel momento in cui prende una decisione deve essere il sottofondo di lettura di questa opinione, cari lettori.

Ho notato che chi continua a vivere al Sud è sinonimo di chi crede nel territorio, di chi non abbandona le radici, di chi lotta, di chi ha sani principi. Sono quelli del “nonostante tutto”, del “il problema non è la mia città ma i cittadini, le istituzioni”, del “io amo la mia cittàslogan che ormai hanno perso identità. Come in questa lettera l’autrice sente la necessità di dire la sua che lievemente sfocia nell’accento sulla mancata valorizzazione del territorio. Io stessa mi sono ritrovata a scrivere qualcosa su quello che di buono c’è, che può aiutarci a vivere armoniosamente un luogo indipendente e selvaggio, ma la dura verità che noi non accetteremo mai è che viviamo una terra che sta implodendo e continuerà  fino a quando non si inizierà a fare fronte comune.

Non è giusto che io mi debba sentire in colpa perché sono figlio del mondo e come tale voglio conoscerlo. Se la mia colpa è quella di scegliere di essere chi non posso essere dove sono nato, devo obbligarmi ad essere chi non sono perché altrimenti sono un disertore delle radici?

Perché deve essere visto come una sconfitta andarsene? Siamo figli di questa terra, cittadini del mondo e come tali abbiamo l’obbligo morale di conoscerlo, visitarlo, esprimere il meglio di noi stessi attraverso la conoscenza del nostro ecosistema, un luogo che stiamo pian piano distruggendo a causa di una radicalizzazione controproducente. Tutte le buone intenzioni si trasformano in ipocrisia. É una croce per tutti il prendere una valigia e partire senza sapere come andrà, con la consapevolezza che quel biglietto di andata non avrà un ritorno. 

La più grande paura dei “terroni” è il cambiamento, un cambiamento che perde di significato nel momento il cui viene bloccato in tutti i modi. Si ne sono consapevole, subiamo ingiustizie e vessazioni solo per il fatto di essere nati in un punto geograficamente troppo ricco per poter essere appieno sfruttato, è un territorio scomodo per il Mangiafuoco di turno. 

Forse c’è troppa carne sulla brace, ma ciò che vorrei “mangiaste” è solo l’atteggiamento supponente e presuntuoso che ognuno di noi ha nei confronti di novità che vediamo solo dall’esterno o che, peggio, influenziamo con le nostre esperienze elevandoli a concetti supremi. 

Il confronto è le fondamenta di una comunità che vuole crescere, migliorarsi e cambiare ciò che di male c’è. 

Proprio ieri su Repubblica di Bari è stata pubblicata questa pillola 

https://bari.repubblica.it/cronaca/2019/11/02/foto/murales-240066470/1/#1 

L’opera artistica dello street artist Daniele Geniale è stata realizzata e dedicata a chi è costretto a lasciare la propria terra per ragioni di lavoro, e solo loro riconoscono il motivo della coraggiosa decisione. 

 

 

Immagine in evidenza: fonte La Repubblica, Bari

 

Giulia Greco

Terrabruciata: tra fotografia e presa di coscienza

Quando il 9 Luglio scorso i colli messinesi hanno smesso di ardere, il paesaggio si è stravolto. Ettari di macchia mediterranea sono andati letteralmente in fumo, cumuli di macerie, scheletri di alberi e cenere governavano lo scenario.

 

 

 

Giusi Venuti, filosofa eclettica, e Gerri Gambino, fotografo per abitudine, hanno deciso di percorrere quei sentieri un po’ sbiaditi, arrivando fino al monte San Jachiddu attraverso il Sentiero dei cinghiali.

Dodici fotografie in bianco e nero che sono una presa di coscienza della situazione presentatasi subito dopo l’inferno che la natura ha subìto. Dodici fotografie che mostrano la follia dell’uomo dinanzi la bellezza estrema che non comprende e, senza ragione, distrugge. La mostra, infatti, non è un reportage, non vi è denuncia da parte degli artisti: è il riscontro della constatazione di circostanze antropologiche, culturali e territoriali, di cui tutti siamo complici.

“Non c’è stata alcuna progettazione”, dicono gli artisti, “è come se fossimo stati chiamati dalla natura. Il suo è stato un grido di disperazione, di aiuto.”

La mostra è strutturata come la narrazione della storia di questa vegetazione che è stata deturpata dalla follia e dal delirio dei suoi figli, gli uomini. Anche se si devasta c’è sempre qualcosa di più grande, e Giusi l’ha percepito nell’accarezzare una sughereta (vi sono infatti 4 foto dedicate a questo toccante momento) “Inutile che ragioniamo, c’è sempre qualcosa che ci sfugge. Credevo quell’albero fosse morto, ed invece ho sentito da dentro il tronco una forza di vita devastante e travolgente”.

Gli scatti si concentrano su contrasti tra bianco e nero, poche luci e poche ombre, il movimento era essenziale per trasmettere la realtà che vedevano i loro occhi. “Spesso dico per dispetto a Giusi che sono state eliminate le più belle, ma nel momento dello sviluppo dell’allestimento la scelta è ricaduta su queste 12 fotografie che vedete: un messaggio diretto e scarno, profondo e reale”.

Si dice che la bellezza generi benessere, ed io ne sono fermamente convinta. A volte, però, la stessa bellezza genera un benessere che non riesce a rendere personale per gli occhi che la mirano e, si sa, l’uomo quando non comprende qualcosa dice che è sbagliata. Le sensazioni e le emozioni che si provano osservando quegli attimi congelati variano in base ai movimenti raffigurati: il volto verso l’alto e così anche i rami spogli degli arbusti nello sfondo ricreano quella complicità che si era persa nell’odio e nella rabbia dell’uomo; il tocco delicato della mano di una donna sul sughero poroso rassomiglia alla dolcezza con cui una madre accarezza il frutto nato da lei; il cammino in vesti nere attraverso le sterpaglie rappresentano il percorso vitale di ognuno di noi, che sfortunatamente, molto spesso, esclude Madre Terra.

“Terrabruciata” sarà visitabile (gratuitamente) presso lo Studio Galbo-Marabello, via Ghibellina 96 b a Messina, fino al 5 novembre 2017. Orari: feriali 17-19; sabato, domenica e 1° novembre 10-13 e 17-19.

 

 

Giulia Greco