Il primo ministro britannico Liz Truss si dimette dopo 44 giorni

È record, ma in negativo per l’Inghilterra: dopo solo 44 giorni, il primo ministro Liz Truss è il leader politico con la carica più breve della storia britannica. L’annuncio ufficiale è stato ugualmente singolare: là premier uscente ha fatto un discorso brevissimo, solo 90 secondi per lasciare la guida del governo inglese. Fino a questo momento era George Canning ad esser stato il primo ministro con il mandato più breve, perché venuto a mancare solo 119 giorni dopo la sua nomina, ma allora fu per l’imprevedibilità della vita, non per una dinamica prettamente politica come in questo caso.

Il primo ministro britannico Liz Truss ha annunciato le sue dimissioni dopo soli 44 giorni (fonte: theitaliantimes.it)

Scelta come successore di Boris Johnson, la cui uscita di scena è stata tra gli scandali, la fine del suo mandato è arrivata presto e dopo una serie di scelte di governo risultate non efficaci, né particolarmente apprezzate.

«Sono entrata in carica in un momento di grande instabilità economica e internazionale. Il nostro Paese è stato bloccato a lungo da una bassa crescita economica. Sono stata eletta con un mandato per cambiare ciò: riconosco, tuttavia, data la situazione, che non posso portare a termine il mandato. Ho quindi parlato con Sua Maestà il Re per informarlo che mi dimetto da Leader del Partito Conservatore».

La crisi è la causa. Truss è stata concisa, ma chiara: il suo mandato è imploso per le dimensioni dell’ostacolo da fronteggiare. La crisi economico ha retto i colpi del partito conservatore.

 

Il disastro Tory a partire dal “mini-budget ultra conservatore”

Non sono servite le manovre messe in atto mentre i drastici tagli alle tasse, finanziati a debito, sono stati bocciati dai mercati internazionali. Il “mini budget ultra conservatore”, 45 miliardi di sterline, poi revocato il 3 ottobre, aveva causato più peggioramenti che miglioramenti. Il passo falso, infatti, è costato innanzitutto le dimissioni del cancelliere dello Scacchiere, Kwasi Kwarteng, strettissimo collaboratore di Truss e ideatore della mini-finanziaria. Anche per lui dimissioni lampo. La Banca d’Inghilterra aveva dovuto intervenire d’emergenza per sostenere i titoli di Stato britannici — i cui rendimenti erano schizzati, superando quelli di Italia e Grecia – e aveva preannunciato un rischio realistico per la stabilità finanziaria.

Al ritorno a Londra da Washington, dove si trovava per una riunione del Fondo monetario, Kwasi si è recato subito a Downing Street da dove, dopo solo pochi minuti, ne è uscito dimissionario. Al suo posto nominato Jeremyn Hunt. I dubbi sulla resistenza del partito hanno iniziato da quel momento a farsi ancora più forti. L’uscita di scena di Kwarteng voleva essere usata per salvare il posto Truss, ma la carica del primo ministro era stata data già per spacciata e i consensi non hanno accennato a smettere di calare. Il colpo di grazia è giunto infine due giorni fa con la notizia delle dimissioni di Suella Braveman, il ministro dell’Interno e membro del partito Tory.

 

Il passato tanto discusso

Nata a Oxford, 47 anni e figlia di un professore di matematica e di un’infermiera, ha avuto una breve carriera da contabile, per poi entrare in Parlamento nel 2010. Ha scalato le gerarchie delle cariche politiche, passando da ruoli come la sottosegreteria all’Istruzione, per poi passare al ministero dell’Ambiente e poi della Giustizia. Successivamente, nel settembre 2021 era divenuta ministro degli Esteri, dove ha criticato l’operato di Dominic Raab per la gestione della crisi in Afghanistan. Infine lo scorso 5 settembre era stata eletta leader dei conservatori, succedendo a Boris Johnson sia nella guida del partito che del Paese. Figura controversa, ha attirato su di sé le attenzioni della sempre non poco invadente stampa britannica. Il suo passato è stato infatti messo al centro dell’attenzione mediatica per alcuni dettagli: le simpatie di sinistra e le critiche alla monarchia in primis, rinnegati come errori di gioventù e che l’hanno costretta a definere i reali come “la chiave” del successo del Regno Unito. Dulcis in fundo la partecipazione a manifestazioni contro Margharet Tatcher a suon di “Maggie, Maggie, Maggie, out, out, out”, mentre ora dice essere il suo idolo politico insieme a Ronald Reagan.

 

Si riapre la fase della successione

Con la ricerca del terzo inquilino di Downing Street in pochi mesi si apre un momento complicato considerando anche che sono state recentemente modificate le regole dei Tory per essere eletti primo ministro: i pretendenti devono avere il sostegno di almeno 100 dei circa 350 deputati della maggioranza Tory e a non dovranno essere più di tre.

Nel caso di una convergenza verso un unico nome, lunedì prossimo, vi sarà l’elezione direttamente a Westminister, altrimenti i due nomi indicati dai colleghi parlamentari dovranno sfidarsi per essere scelti tramite spareggio affidato agli iscritti. Tutto il processo dovrà comunque concludersi entro venerdì 28.

Tra i nomi che sembrano avere più possibilità, figura quello di Jeremy Hunt, il cancelliere gradito all’establishment, ma molto meno alla pancia Tory attuale; è stato chiamato in extremis da Truss per rassicurare i mercati.

I bookmaker vorrebbero Rishi Sunak, giovane ex cancelliere di origini indiane che a settembre era stato battuto da Liz al ballottaggio dopo aver ricevuto più consensi di lei tra i deputati; a bloccarlo è stata l’idea di presunto traditore di Johnson.

Un terzo nome è quello del ministro Penny Mordaunt, “brexiteer post-ideologica”, una delle poche figure che raccoglie simpatie trasversalmente, all’interno del caos Tory.

E se vi fosse un ritorno di BoJo? (fonte: www.spectator.co.uk)

In realtà, potrebbe entrare nel cerchio dei papabili anche “BoJo” (Boris Johnson), affossato dalla maggioranza conservatrice, ma ora rimpianto. Il Regno Unito si ritrova, dunque, a combattere per tenere insieme la solidità istituzionale.

 

 

Rita Bonaccurso

Presunti incontri segreti tra vertici Ue, Usa e Uk per giungere alla soluzione del conflitto in Ucraina

Sul conflitto Russia-Ucraina alleggia lo spettro delle ultime stime, secondo le quali esso potrebbe protrarsi ancora dai due ai sei mesi. Secondo quanto rivelato dall’emittente televisiva americana Cnn, nelle ultime settimane, si sarebbero svolti diversi incontri segretissimi tra vertici Ue, Usa e Uk, per trovare il modo di mettere la parola fine alla guerra che sta sconvolgendo l’Ucraina e, indirettamente, il resto del mondo.

Il conflitto tra Russia e Ucraina potrebbe protrarsi per altri 2-6 mesi (fonte: ANSA)

Non si sa molto, non sono neanche chiare le modalità a cui si starebbe pensando per arrivare al cessate il fuoco, per portare l’Ucraina a trattare con la Russia. Kiev, però, non sarebbe stata direttamente coinvolta nelle presunte riunioni, nonostante gli Stati Uniti avessero promesso di “non decidere nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina”.

Tra le questioni discusse, sarebbe finito sul tavolo anche il piano in quattro punti proposto dall’Italia il mese scorso. Il contenuto di questo documento era stato reso noto dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, al segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.

 

Il contenuto del documento italiano

Il suddetto documento è stato redatto dalla Farnesina e propone un percorso verso il cessate il fuoco, tramite quattro tappe. Di Maio lo aveva fatto avere al segretario dell’Onu, il 18 maggio, a New York, inoltre, anche ai diplomatici dei ministeri degli Esteri del G7 e del Quint (Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia).

Il ministro Di Maio e il segretario Onu (fonte: ANSA)

Ad ideare la proposta è stata la Farnesina, in collaborazione e con la supervisione di Palazzo Chigi, in seguito all’incontro tra il premier Mario Draghi e il presidente statunitense Joe Biden. Il presidente del consiglio italiano aveva, in quell’occasione, ribadito che l’Italia vorrebbe formare un tavolo euroatlantico per discutere delle eventuali opzioni per la guerra.

Il secondo fine sarebbe quello di portarvi, poi, l’Ucraina, lasciandole il ruolo principale nelle trattative. Dunque, ancora una volta, il dialogo tra le nazioni in guerra è ritenuto essere potenzialmente l’unico strumento utile per arrivare davvero alla fine del conflitto.

Il percorso delineato si dovrebbe svolgere sotto la supervisione di un “Gruppo internazionale di Facilitazione”. Le quattro fasi si articolerebbero in: il cessate il fuoco, la neutralità dell’Ucraina, concordare delle decisioni sulle questioni territoriali di Donbass e altre zone come la Crimea, trovare un nuovo accordo multilaterale sulla pace e la sicurezza nel continente Europeo.

Alla prima tappa si potrebbe arrivare tramite dei meccanismi di supervisione e con la smilitarizzazione della linea del fronte. Successivamente – per la realizzazione della seconda tappal’Ucraina dovrebbe dichiarare la sua neutralità a livello internazionale e, modificando il suo status, potrebbe, inoltre, conquistare una condizione che le permetterebbe di poter divenire un membro dell’Unione Europea.

La terza tappa comporterebbe ancor più difficoltà: arrivare a una soluzione che pongano fine alle controversie sui confini tra i due Stati, che vengano poi riconosciuti a livello internazionale, prevedrebbe un grande sforzo e decisioni su vari aspetti, tra cui quella su quale tipo di sovranità instaurare in queste aree. Qualora si arrivasse a tal punto, bisognerebbe anche capire cosa fare in ambito culturale, come regolare i diritti in materia di conservazione del patrimonio storico-culturale.

Il quarto e ultimo punto consisterebbe nel riorganizzare gli equilibri internazionali, elaborando un nuovo accordo multilaterale sulla pace. nel dopoguerra, si dovrebbe arrivare al ritiro delle truppe russe dai territori occupati durante il conflitto, per poi pensare di ritirare le sanzioni adottate contro la Russia.

La pace dovrebbe poi essere costruita su solide basi, prendendo misure come il disarmo e il controllo degli armamenti, per prevenire qualsiasi possibilità di conflitto.

Due esponenti statunitensi avrebbero, però, dichiarato alla stessa Cnn che gli Stati Uniti non sarebbero d’accordo con il piano proposto dall’Italia, nonostante negli scorsi giorni l’ambasciatrice americana, Linda Thomas Greenfield, aveva detto all’Onu che la proposta italiana potrebbe essere davvero una delle pochissime strade percorribili per porre fine alla guerra.

 

La questione del grano e della sicurezza alimentare

A New York, il ministro Di Maio aveva anche riportato l’attenzione sulla problematica del grano. Il tema della sicurezza alimentare era stato affrontato pure dai Paesi del G7, considerando l’iniziativa della Banca Mondiale di stanziare altri 12 miliardi di dollari per prevenire ulteriori disastri. Di Maio ha sottolineato la necessità di “costruire insieme un corridoio sicuro per provare a portare via il grano dal Paese e permettere quindi ai produttori ucraini di esportarlo e riportarlo sul mercato”.

I prezzi del grano hanno subito un rialzo a causa del conflitto, che potrebbe raggiungere picchi più alti di un ulteriore 20%, entro la fine dell’anno. Così, si verificherebbe una perdita d’acquisto sostanziale che colpirebbe anche gli italiani.

«L’Ue con i suoi progetti di cooperazione allo sviluppo ha una grande responsabilità anche perché saremo i Paesi che direttamente subiranno gli effetti di questa insicurezza alimentare».

 

L’intervista di Putin a un’emittente tv russa

Intanto, Putin ha parlato ai microfoni dell’emittente tv pubblica Rossiya 24, affrontando anche il tema delle esportazioni di grano dall’Ucraina. Il presidente russo si è detto pronto a garantire il passaggio tramite anche i porti occupati dalle sue truppe.

«I porti del Mar d’Azov, Berdyansk, Mariupol, sono sotto il nostro controllo. Siamo pronti a garantire un’esportazione senza problemi, anche del grano ucraino, attraverso questi porti – ha dichiarato il leader russo – Stiamo finendo i lavori di sminamento”, ha aggiunto, “il lavoro è in fase di completamento, creeremo la logistica necessaria, lo faremo».

Putin ha assicurato di non voler impedire l’export di grano ucraino, aggiungendo che la crisi alimentare non sia direttamente imputabile alla Russia, accusando anche per questo l’Occidente. Per il presidente, le notizie di un blocco all’esportazioni di grano dall’Ucraina, sarebbe un’invenzione dell’Occidente per coprire gli sbagli fatti proprio dai Paesi occidentali.

Inoltre, ha detto di aver invitato Kiev a rimuovere le mine poste nel territorio ora sotto il controllo russo, per rendere sicure le esportazioni del grano, aggiungendo che di tale situazione la Russia non ne approfitterebbe per sferrare attacchi dal mare.

In ogni caso, al di là delle dichiarazioni fatte dalla Russia e della questione della veridicità degli incontri tra vertici europei, statunitensi e britannici, ciò che più conta è che i protagonisti politici siano d’accordo nel tentare di trovare la via per la pace più corta.

 

 

Rita Bonaccurso

 

Disney Plus va verso il politically correct e vieta alcuni classici ai minori di sette anni. Ecco dove e perché

Disney Plus vieta la visione di alcuni cartoni ai bambini di età inferiore ai 7 anni. La casa di produzione americana applica la via del “politically correct”.

Disney Plus vieta tre Classici ai minori di sette anni –Fonte:metropolitanmagazine.it

La restrizione –per ora prevista solo nel Regno Unito- consiste nell’inserire un disclaimer che precede l’inizio del film per spiegare che alcuni contenuti sono dotati di stereotipi su popolazioni e culture minori. I “classici d’infanzia” fino ad ora segnalati sono Dumbo (1940), Le avventure di Peter Pan (1953) e Gli Aristogatti (1970).

Questi non sono stati eliminati dal catalogo, ma per poterli vedere è necessaria la presenza di un genitore, che ha la possibilità di scegliere se far guardare i suddetti cartoni ai suoi figli più piccoli.

Politically correct: cos’è e cosa comporta

La definizione della politically correct, viene fuori da un’espressione angloamericana che designa un orientamento ideologico e culturale di estremo rispetto verso tutti, nel quale si evita ogni potenziale offesa verso determinate categorie di persone. Le espressioni pertanto dovranno apparire prive, nella forma linguistica e nella sostanza, da pregiudizi razziali, etnici, religiosi, di genere, di età, di orientamento sessuale o relativi a disabilità fisiche o psichiche della persona.

Politically correct –Fonte:limonata.blogspot.com

Una maggiore attenzione su queste tematiche ebbe inizio negli Stati Uniti d’America per poi diffondersi a macchia d’olio in tutto il mondo occidentale. Nasce negli anni trenta del secolo scorso, per poi ampliarsi ottenendo posizioni più rilevanti alla fine degli anni ottanta, a seguito della sua trasformazione in una corrente d’opinione. Questa era basata sul riconoscimento dei diritti delle culture e mirante a sradicare dalle consuetudini linguistiche, usi ritenuti offensivi nei confronti di qualsiasi minoranza. Fu proprio in quella circostanza che l’espressione “Afro-americani” sostituì i precedenti appellativi black, nigger e negro per designare i neri d’America.

Per porre una disciplina del comportamento linguistico sono stati stilati dalle università americane i speech codes, volti a scoraggiare l’uso di epiteti ingiuriosi e offensivi.

Politica attuata da Disney Plus

Disney Plus e il politically correct –Fonte:staynerd.com

L’uccisione di George Floyd, le manifestazioni Black Lives Matter attive in tutto il mondo e la rimozione di Via col vento dal canale HBO MAX, hanno sicuramente sensibilizzato e fatto riflettere The Walt Disney Company sull’impatto dannoso che alcuni contenuti possono causare nella giovane mente di un fanciullo. L’azienda americana perciò ha voluto mirare la sua azione nella creazione di storie e temi ispiratori che includano la ricca diversità dell’esperienza umana.

Le produzioni incriminate

Le maggiori critiche sono suscitate dai cartoni come:

  • In Dumbo, sono presenti un gruppo di corvi rappresentati con voci nere stereotipate. Il nome Jim Crow attribuito al principale volatile, si riferisce ad una serie di leggi segregazioniste dell’epoca presenti nel Sud degli Stati Uniti. Questi pennuti infatti raffigurano un omaggio ai Mistrel Shown, ossia gli spettacoli con attori bianchi dal volto colorato di nero che impersonavano, attraverso caricature, la vita degli schiavi neri.
Disney e disclaimer –Fonte:latestamagazine.it
  • In Peter Pan, invece gli indiani sono identificati con l’appellativo di “pellerossa”, prettamente offensivo e razzista. Questo atteggiamento denigratorio non si limita solo alla loro denominazione, ma abbraccia anche i contesti e i modi in cui vivono. Questi infatti vengono ritratti come dei selvaggi vestiti con abiti barbari, inclini a usanze primordiali e privi di alcun linguaggio, che all’orecchio dell’ascoltatore risulta incomprensibile.
Disney mette il bollino “razzista” –Fonte:corriere.it
  • Sia nell’opera Gli Aristogatti che in Lilli e il Vagabondo, le vittime degli stereotipi sono i cinesi. In ambedue i film vi sono dei gatti di razza siamese, Shun Gon nel primo e Si e Am nel secondo, i quali si svagano cantando la celebre canzoneSiam Siamesi” con chiaro accento orientale mentre distruggono la casa.
Disney censura Lilli e il Vagabondo –Fonte:cinema.fanpage.it

È bene precisare che le opere sopradescritte sono figlie di un’epoca storica totalmente differente rispetto a quella che siamo soliti conoscere, i cui ideali e obiettivi di una rappresentazione per bambini risultano molto distanti da ciò che viviamo oggi. Bisogna inoltre ammettere che difficilmente un fanciullo si sofferma sul significato celato dietro le scene incriminate, poiché ancora privo di quella conoscenza e logica necessaria per comprendere a pieno determinati processi, che ancora non conosce.

 Sensibilizzazione della Disney

Il messaggio di apertura delle “opere accusate” cita

“Questo programma include rappresentazioni negative e/o maltrattamenti di persone o culture”

risulta essere innegabilmente giusto, al fine di mostrare come la Disney sia sempre stata cosciente della presenza di messaggi sbagliati. Ciò mostra la necessità delle continue lotte contro il razzismo e gli atti offensivi, che sottolineano un raccordo non con un passato lontano, bensì con un presente logorato da discriminazioni ed intolleranze che ancora oggi si affermano con grande asprezza ed amarezza.

La Disney renderà i suoi film politically correct – Fonte:drcommodore.it

L’azione di sensibilizzazione promossa eviterà all’azienda di ricevere critiche negative e perdite di pubblico, ma funge principalmente all’inserimento di scopi specifici che vanno oltre l’intrattenimento. La Walt Disney però, con gli stessi film su cui si sono mosse le principali accuse, ha insegnato ai più piccoli a rispettare e ad amare chi è diverso da noi, ad avere fiducia e rispetto nell’umanità e a credere in se stessi. Con le sue produzioni ha preparato i bambini ad essere forti e caparbi per combattere gli ideali in cui si crede, a superare le insicurezze e ad apprezzare e comprendere a pieno il senso di famiglia; risorse necessarie per compiere al meglio il complesso progetto di crescita personale.

Inclusività

Nel corso degli anni la casa di produzione americana non si è solo impegnata a filtrare i contenuti attraverso l’uso dalla politically correct, bensì sulla base del progresso della società si è sempre più focalizzata nella realizzazione di opere inclusive che rispecchino la società attuale. Vi sono innumerevoli esempi:

  • Il film Zootropolis, in cui si affronta il tema odierno dell’uso della paura come strumento di governo
  • La creazione nel 2009 di una principessa di colore nel cartone La Principessa e il Ranocchio
  • La scelta dell’attrice Halle Bailey per il live action de La Sirenetta che dà avvio ad una nuova politica multirazziale.
Disney Plus –Fonte:mondotv24.it

“Non possiamo cambiare il passato, ma possiamo riconoscerlo, imparare da esso e andare avanti insieme per creare un domani che oggi possiamo solo sognare”

Si evidenzia così la necessità di un’evoluzione sociale, che si cela dietro il cambiamento, al fine di evitare di ripetere gli stessi errori che nel corso della storia hanno lasciato macchie indelebili nel tessuto collettivo.

Giovanna Sgarlata

 

Coronavirus in Uk: immunità di gregge e misure sui generis

Grande subbuglio e preoccupata polemica, queste le caratteristiche del clima che si respira in Gran Bretagna per la strategia del Governo di “ritardare” l’impatto del coronavirus evitando le disposizioni drastiche imposte in altri Paesi.

L’esecutivo inglese non minimizza affatto la dimensione di gravità della situazione socio-politica, ma ha comunque deciso di intervenire con modalità diverse.

Il premier Boris Johnson ha avvertito bruscamente le famiglie inglesi di prepararsi a vedere “molti dei loro cari morire prima che sia giunta la loro ora”, e ha detto che:” 10mila persone potrebbero già avere contratto il virus in Gran Bretagna”.

Il bilancio attuale non è severissimo: i morti nel Regno Unito sono 24 e i casi accertati sono quasi 1000.

Le autorità inglesi ammettono di aver eseguito, per il momento, pochi tamponi sulla popolazione, e che la situazione potrebbe rivelarsi molto più drammatica rispetto alle previsoni statistiche ufficiali.

Il Regno Unito, in questo delicato momento, si divide tra il classico fanatismo british da “keep calm and carry on” e tra chi invece critica la mancanza di trasparenza delle capacità reattive delle istituzioni politiche inglesi.

 

Le scuole, le università e gli istituti d’istruzione rimangono aperti, anche in seguito al forte attacco del PM inglese Boris Johnson rivoltosi ad alcuni atenei:

” Dovreste smetterla di adottare misure per vostro conto e seguire le indicazioni del governo e degli esperti.
Vorrei esortare qualsiasi istituto di educazione, scuole, asili, università e college ad attenersi alle indicazioni mediche e scientifiche, non c’è motivo di chiudere gli istituti in questo momento”.

Sono infatti sempre più numerose le università che si ribellano alla presunta mancanza di responsabilità da parte delle autorità britanniche, prima fra tutte la celebre Oxford che ha dichiarato:” Non siamo cavie del Governo”.

Il piano attuale per il contenimento del virus è che sia essenziale sviluppare una presunta immunità nella popolazione in riferimento all’ormai famosa definizione del consigliere scientifico del governo Sir Patrick Vallance di “l’immunità del gregge”.

Affinché si ottenga questa immunità è necessario, paradossalmente, che il 60% della popolazione contragga il Covid-19.

Questa leggerezza politica significherebbe che di una popolazione composta da circa 60 milioni di persone, 36 milioni di cittadini potrebbero contrarre il virus, dunque prevedendo un tasso di mortalità al 3% si rischierebbe di produrre 1,08 milioni di morti.

 

Proteggere gli anziani e i più deboli mentre il resto della popolazione sviluppa “l’immunità di gregge”, lasciandosi contagiare dal virus e sviluppando cosi una  propria immunità.

Pazienza dunque se si tratta di un popolo e non di un gregge è troppo tardi per contenere il virus quindi l’unica mossa da compiere è gestire, aprendo e chiudendo “i rubinetti” del contagio, mentre si tutelano solo i più deboli.

Così appare agli occhi attenti del mondo il ragionamento socio-politico quanto meno bizzarro e “sui-generis” delle istituzioni del Regno Unito.

Tutta l’Europa si augura che la “roulette russa” inglese non aggravi un quadro socio-politico già compromesso da una pandemia senza precedenti che continua a mietere vittime e a mettere in ginocchio la stabilità mondiale.

Antonio Mulone

Je suis Charlie

Charlie Gard.  Ha solo 10 mesi, ma tutto il mondo già lo conosce, tutti i mezzi di comunicazione ed i social networks, non hanno fatto altro che parlare di lui in questi giorni. Perché?

Perché la vita di questo bimbo, nella sua particolarissima forma, è segno di contraddizione per la società del nostro tempo che, pronta a legittimare anche i desideri più improbabili, priva della propria libertà chiunque non dovesse essere allineato con i “trend” del pensiero forte.

Chris Gard e Connie Yates, genitori del piccolo Charlie, hanno solo chiesto la vita, mentre medici e corti d’appello sentenziano morte. Morte per soffocamento ( sono filantropi, loro!) dal momento che “staccando la spina”,  Charlie non sarà più in grado di respirare autonomamente. E’ una malattia rara la sua, deplezione del DNA mitocondriale (16.ooo base paires che vengono, normalmente, tradotte in proteine funzionali, fondamentali per consentire all’organulo di adempiere alla sua funzione), si contano solo altri 16 casi del genere in tutto il mondo.

E’ senz’altro una situazione complessa ed estremamente delicata, però una cosa risulta incomprensibile: anche se  il bimbo non può essere portato negli Stati Uniti per tentare una cura sperimentale bocciata dai medici del Great Ormond Street Hospital di Londra, perché deve essere ucciso attraverso la rimozione del respiratore?

I genitori, infatti, fin dal primo giorno insistono nel dire che il bambino non soffre («se fosse così saremmo i primi a lasciarlo andare»). E che Charlie possa continuare a vivere è dimostrato proprio dal fatto che, da aprile a oggi, cioè da quando è iniziata la causa giudiziaria, il suo stato di salute non è peggiorato.

Di questo, i medici non sanno bene che rispondere. La decisione di staccare la spina è stata presa, dicono, “nel migliore interesse del bambino”, ma non è facile comprendere come la vita possa non essere nell’interesse di Charlie. E rimane, ancora, il nodo cruciale: secondo gli stessi operatori sanitari  “Non è possibile sapere se Charlie provi dolore o meno. Nessuno può esserne certo”. Quindi, non si può stabilire se ci sia o no accanimento terapeutico.

Però mi chiedo, quale medico e quale giudice può arrogarsi il diritto di porre fine alla vita di un bambino sulla base di qualcosa che non sa?

Poiché ammettono di essere nel dubbio, i dottori dovrebbero assisterlo fino alla fine e fare un passo indietro davanti a una vita che, per quanto fragile e sofferente, c’è.

L’emergenza di Charlie è l’emergenza di ogni uomo, perché la sua malattia coinvolge la fase vita in cui l’uomo è più debole e indifeso e ha bisogno di accoglienza, ancora di più se affetto da una malattia genetica o malformativa. Alla sua sofferenza non si è data una risposta concreta, si è negata la base minima della pietà umana decretando che se sofferenti non vale la pena vivere.

Concludo prendendo in prestito le parole di un pediatra e genetista francese (nonché scopritore della trisomia 21, più nota come “Sindrome di Down ed altre malattie cromosomiche), vissuto nel secolo scorso, Jérôme Lejeune:

«Se si volesse eliminare il paziente per sradicare il male, si avrebbe la negazione della medicina. Ma difendere ogni paziente, prendersi cura di ogni uomo, implica che ciascuno di noi debba essere considerato unico e insostituibile».

Dobbiamo servirci della medicina in modo etico per salvare vite, altrimenti essa rischia di diventare mero tecnicismo applicato, ma non al servizio dell’uomo. Charlie forse non può guarire, ma non per questo dev’essere ucciso da una scienza che si illude di essere onnipotente.

Ivana Bringheli