Pesca sostenibile, l’Italia contro le novità UE: “Regolamenti privi di logica”

L’Italia fa ancora una volta il campanello tra le campane dell’Ue, tentando un flebile contro-suono sull’acustica comunitaria. La questione contesa, come in altre recenti occasioni, riguarda la sostenibilità di un settore economico, particolarmente: la sostenibilità nella pesca.

Il Consiglio dei Ministri dell’Unione Europea ha approvato una nuova normativa a proposito, ancora più stringente e, secondo alcuni, ancora più dannosa. Vediamo quindi ora cosa prevede, perché l’Italia non si è schierata a suo favore e come questa potrebbe smuovere il mercato ittico.

 Pesca sostenibile, i punti principali del regolamento

Riporta le informazioni Il Sole 24 Ore. Lunedì 26 maggio, in una riunione del Consiglio dei ministri Ue dell’Agricoltura, la maggioranza assoluta dei membri comunitari ha approvato il pacchetto per la pesca sostenibile già proposto dalla Commissione europea. “La maggioranza assoluta” per così scrivere, perché è solo per un’approvazione, quella dell’Italia, che non è stata raggiunto l’accordo unanime.

La misura sicuramente più incisiva prevista dal pacchetto è quella che sancisce lo stop definitivo per la pesca a strascico a partire dal 2030. Seguono, per importanza, la normativa che prevede l’obbligo di telecamere a bordo dei pescherecci grandi oltre i 18 metri e l’inasprimento delle regole sul “margine di tolleranza”, che riduce al minimo la flessibilità nelle operazioni di trasbordo e di cattura accidentale.

L’Italia che non ci sta: non chiamateli “no green”

Nell’Italia che non ci sta, ci stanno in molti: a partire dal Ministro dell’agricoltura, della sovranità alimentare e delle foreste Francesco Lollobrigida, passando per gli altri componenti della maggioranza di governo e giungendo fino alle associazioni degli imprenditori e i sindacati dei lavoratori.

Tutti soggetti che non si considerano “no green”, ma che sono pronti a essere etichettati così se essere (molto) “green” comporta ingentissimi costi. Ed è su quest’ultimo aspetto che si deve valutare ogni ragione.

In nome della sostenibilità, sostengono gli italiani della categoria: si possono presagire sanzioni e sanzioni pecuniarie, eccedendo più di quanto già si eccede, e poi, soprattutto, “la fine della pesca a strascico porterebbe alla perdita di 7mila posti di lavoro e alla fine del business per il 20% della flotta peschereccia italiana, con un drastico abbattimento dei ricavi del settore del 50%“.

Pesca
Pesce. Fonte: Wikimedia Commons

 

Annalisa Tardino: “Regolamenti privi di logica” 

Annalisa Tardino, eurodeputata della Lega, componente della Commissione Pesca e commissario regionale del partito in Sicilia, ha commentato le scelte dell’Unione con una nota:

Come anticipato all’indomani dell’accordo siglato con il Consiglio dell’Ue, la commissione pesca del PE ha oggi votato il regolamento Controlli, con il voto contrario da parte della Lega. I gruppi di maggioranza a Bruxelles, complici le assenze degli eurodeputati di Pd, M5s e terzo polo, hanno dato il via libera a nuove misure vessatorie nei confronti dei pescatori, categoria sempre nel mirino delle restrizioni dell’Ue, tartassata da regole e norme che invece di sostenere un settore di vitale importanza per l’economia costringono le imprese alla chiusura. Tutto questo grazie ai soliti fanatici delle ideologie green e alle nostre sinistre: le avevamo invitate a schierarsi a favore della nostra pesca e invece hanno disertato la votazione in Commissione. Il provvedimento prevede l’obbligo di telecamere a bordo dei pescherecci, per i quali è anche previsto un inasprimento delle regole sul cosiddetto ‘margine di tolleranza’ che riduce al minimo la flessibilità nelle operazioni di trasbordo e di cattura accidentale. Questo vorrà dire ancora più sanzioni. Una nuova vergognosa decisione che, all’inizio, prevedeva nella proposta originale telecamere a bordo di pescherecci a partire dai 12 metri di lunghezza, mentre grazie al lavoro e all’impegno della Lega sarà applicato solo alle imbarcazioni oltre i 18 metri. Una misura che ci consente di escludere gran parte della nostra flotta. Continueremo ad impegnarci per questo settore e lottare contro provvedimenti lontani dalla realtà, scritti da chi, evidentemente, non è mai salito su una barca da pesca, e che tendono solo a impedire ai nostri pescatori di poter lavorare, mentre favoriscono i nostri Paesi competitor dell’area mediterranea non soggetti a questi regolamenti asfissianti e privi di logica.

Gabriele Nostro

Italia-UE, l’Unione rimprovera sulle concessioni balneari (e agisce legalmente)

Ancora una volta il diritto europeo sembra poter prevalere su quello italiano, in un sistema che i sovranisti definirebbero “di subalternità” e gli europeisti-globalisti “di collaborazione”. Comunque si consideri, l’ultimo atto di gestione UE mira a risolvere una questione molto particolare che interessa la nostra penisola: la questione delle concessioni balneari.

Il governo italiano ha spesso sostenuto la necessità di prorogare le concessioni, mentre l’Unione ne ha frequentemente richiesto la rapida rimessa al bando. Quali sono state le mosse legislative dell’una e dell’altra parte? Quali le loro ragioni? Di seguito un quadro dei recenti accadimenti per guardare al problema con più consapevolezza. 

Concessioni balneari, la proroga e i suoi perché

Riporta le informazioni Mondo Balneare. Lo scorso 23 febbraio, alla Camera dei Deputati, è stato approvato in via definitiva il decreto Milleproroghe, sancente, tra le varie proroghe, quella relativa alle concessioni balneari. Essenzialmente: la scadenza delle concessioni balneari è stata ufficialmente spostata dal 31 dicembre 2023 al 31 dicembre 2024.

Curioso che già allora il Presidente della Repubblica Sergio Mattarella avesse promulgato la norma con riserva, manifestando i suoi dubbi circa la compatibilità della stessa con le norme europee. 

Comunque, il regolamento precisa due motivazioni scusanti la proroga di un anno. La posticipazione sarebbe stata operata per effettuare la mappatura del demanio marittimo al fine di verificare «la sussistenza della scarsità della risorsa naturale disponibile», e per istituire un tavolo tecnico tra i ministeri competenti e le associazioni di categoria per concordare i contenuti della riforma delle concessioni balneari.

Tale d’altronde è stata avviata solo dal precedente governo Draghi, con la legge sulla concorrenza che per la prima volta in Italia ha introdotto la riassegnazione dei titoli tramite gare pubbliche.

UE
Spiaggia. Fonte: Wikimedia Commons

L’opposizione italiana e dell’UE

Sia la minoranza nel Parlamento italiano che l’UE come istituzione hanno presto fatto valere la propria opposizione sulla scelta. Chi ha contestato la decisione contenuta nel Milleproroghe si è appellato alla questione dell’imparzialità e della “proroga dei privilegi”.

Perché non rilanciare la concorrenza invece di conservare l’esclusività dei possedimenti? Perché non dare moto a un mercato più libero? Queste le domande più assiduamente proposte, insieme ad altre provocazioni del tipo: che il governo, nell’interesse dei partiti che lo costituiscono, si comporti così per non perdere i consensi di chi ora gode delle zone balneari a basso costo?

L’azione UE 

Riporta le informazioni Ansa.it.

Le concessioni di occupazione delle spiagge italiane non possono essere rinnovate automaticamente ma devono essere oggetto di una procedura di selezione imparziale e trasparente. I giudici nazionali e le autorità amministrative italiane sono tenuti ad applicare le norme pertinenti del diritto europeo, disapplicando le disposizioni nazionali non conformi

Questo recita una vertenza della Corte di giustizia UE, coinvolgente l’Autorità italiana garante della concorrenza e del mercato e il comune di Ginosa (Taranto), decisa ieri mattina. Il processo in merito pone le sue origini nel dicembre del 2020, quando il comune di Ginosa, nel rispetto della normativa nazionale, aveva automaticamente prorogato le concessioni balneari, attirando l’ostilità dell’Agcm, ora risultata vincitrice nel contenzioso.

La rassicurazione di Meloni 

Dopo la simbolica sentenza, che potrà fare da precedente e da prova legale, la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni ha rassicurato che il Paese si allineerà alle leggi comunitarie.

Non è la prima volta che Meloni si mostra cedevole sulla faccenda, diversamente da altri membri del suo entourage. Per questo è plausibile credere al suo indirizzo, ora giustificato in risposta a un’avversione europea più tangibile di prima.  

Gabriele Nostro

Protezione speciale, cos’è e perché il Governo vuole abolirla

Lo scorso 13 aprile, il governo italiano, per combattere il problema immigrazioni, aveva dichiarato uno “stato d’emergenza di sei mesi”, dopo l’arrivo di circa 32.769 persone nei primi mesi del 2023. Negli ultimi giorni, la maggioranza ha deciso di sostenere la proposta fatta da parte della Lega, in termini di modifica al così denominato Decreto Cutro.

L’emendamento presentato prevede una stretta alla “protezione speciale”, norma esistente solo da qualche anno. Quest’ultima è stata introdotta durante il Governo Conte-bis (2020) dall’allora Ministra Luciana Lamorgese. In precedenza, era presente una norma simile, denominata “protezione umanitaria”, ma nel 2018 è stata abolita dall’allora Ministro dell’Interno Matteo Salvini, nell’ambito dei cosiddetti “Decreti Sicurezza”.

L’eliminazione di questa specifica protezione è al momento oggetto di negoziato tra le forze politiche. La situazione sembrerebbe essere ancora provvisoria e in fase consultiva, ma sta generando ugualmente non poche polemiche. Di cosa si tratta? Vediamolo nel dettaglio.

Che cos’è la “protezione speciale”, che il governo vorrebbe abolire?

In Italia il diritto di asilo è garantito dall’art.10 comma 3 della Costituzione:

Lo straniero, al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.

Quando una persona straniera entra nel nostro paese, può provare ad ottenere la “protezione internazionale” in tre modi:

  1. Attraverso asilo politico, se teme di subire una persecuzione personale nel proprio paese.
  2. Attraverso la protezione sussidiaria, se teme di subire un danno grave nel proprio paese (come la morte o la tortura).
  3. Attraverso la protezione speciale, se questa persona è stata discriminata nel proprio paese per: etnia, religione, orientamento sessuale, opinioni politiche. Si teme che tornando si rischierebbe non la propria vita, ma una violazione del diritto al rispetto della propria vita privata o familiare.

Quest’ultima categoria è molto più ampia rispetto alle precedenti. Nel 2022, i beneficiari della protezione speciale sono stati in tutto 10.865, circa uno su due dei permessi di asilo rilasciati. Un numero più elevato rispetto alle altre due tipologie.

Arrivano le proteste: la “protezione speciale” non esiste solo in Italia

Ho come obiettivo l’eliminazione della protezione speciale, perché si tratta di un’ulteriore protezione rispetto a quello che accade al resto d’Europa.

Questo sono le parole della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, che ritiene questa norma come un “unicum” italiano. Per la Lega di Salvini, è veicolo solo di «situazioni attrattive per l’immigrazione, che bisogna  azzerare».

Ma in realtà questa protezione, che in Italia spetta ai richiedenti asilo che non hanno le caratteristiche per ottenere né lo status di rifugiato né la protezione sussidiaria, è uno strumento presente e utilizzato anche in altri Stati.

Come ricorda Filippo Miraglia, vicepresidente e responsabile immigrazione dell’Arci, nell’UE ci sono 18 paesi su 27 che vantano una forma di protezione complementare a questa. Tra questi menzioniamo: la Francia, la Germania, il Regno Unito, la Spagna, il Belgio, la Croazia, la Danimarca, l’Estonia, la Finlandia, la Grecia, la Lettonia, la Lituania, la Polonia, il Portogallo, la Repubblica Ceca, la Slovacchia, la Svezia, l’Ungheria. Ciò che cambia è solo la denominazione della norma e forse il fatto che vengano utilizzate queste protezioni più concretamente.

La segretaria del PD, Elly Schlein, ritiene che il tentativo del governo di abolire la protezione speciale sia una «vergogna» e aggiunge:

Siamo fermamente contrari e continueremo a batterci, affinché le politiche migratorie siano in linea con i diritti internazionali, con le carte internazionali a partire da quella di Ginevra sui diritti delle rifugiate e dei rifugiati. Abbiamo una posizione molto netta su questo!

Cosa prevede la rimozione e a cosa porterebbe?

Il numero di migranti in arrivo sicuramente non diminuirebbe, poiché non tutti conoscono queste differenze di status. Quello su cui si potrebbe influire è il numero di migranti che oggi in Italia vivono in modo regolare. Togliere questa protezione renderebbe migranti irregolari tutte quelle persone che ad oggi nel nostro paese hanno la possibilità di lavorare regolarmente, di inserirsi in circuiti di accoglienza, di imparare la lingua, di affittare case e molto altro.

I richiedenti asilo non saranno più ospitati nel Sistema accoglienza integrazione (Sai), che verrà riservato solo a chi ha già ottenuto lo status di rifugiato. L’hotspot di Lampedusa sarà affidato alla Croce Rossa Italiana. Verrà aggiunto un traghetto di collegamento con la Sicilia per trasferire i migranti che arriveranno sull’isola. I permessi di soggiorno per protezione speciale concessi per calamità o/e per cure mediche non potranno essere più convertiti in permessi di soggiorno per motivi di lavoro, ma queste sono solo alcune delle previsioni ancora oggetto di discussione.

In teoria, tutti questi migranti, risultando così irregolari, potrebbero essere rimpatriati, ma nella pratica i numeri dei rimpatri sono spesso molto bassi. Probabilmente, il loro destino sarà l’abbandono sul nostro territorio, in uno status di individui senza diritti e con il rischio di venire sfruttati. Sarebbe questo un grande passo indietro, invece che in avanti. In sostanza, il numero di migranti irregolari anziché diminuire, aumenterebbe. Potremmo dire che questa non sia proprio una soluzione efficace al problema dell’immigrazione. Ma quale sarà il responso? Staremo a vedere.

    Marta Ferrato

Energie rinnovabili, l’UE ridefinisce il prossimo traguardo

Nel 2009, i leader dell’UE avevano fissato un obiettivo: il consumo energetico dei Paesi comunitari, entro il 2020, avrebbe dovuto essere coperto per almeno il 20% dalle fonti energetiche rinnovabili (energia solare, eolica, geotermica, idroelettrica, da biomassa). Un obbiettivo che è stato raggiunto, ora da riscrivere per il futuro 2030. I responsabili dell’Unione si sono consultati più volte a proposito e, saltando una prima definizione del traguardo formulata nel 2018, hanno fatto quadra su una nuova quota: si dimostrerà pareggiabile o troppo ambiziosa?

Energie rinnovabili: gli ottimi risultati

Un rapporto nominato “Trends and Projections in Europe 2020” dell’European Environment Agency (EEA) ha proclamato i successi dell’Ue in confronto ai suoi tre principali obiettivi climatici ed energetici da raggiugere entro il 2020. In particolare, l’Ue ha ridotto le emissioni di gas serra del 20% rispetto ai livelli del 1990, aumentato al 20% la quota di utilizzo di energia rinnovabile e migliorato del 20%  l’efficienza energetica.

E anche la nostra Italia ha ben operato sulle energie rinnovabili, utilizzandole come valore di oltre un quinto dei consumi complessivi di energia (20,4%). Efficientamento onorevole, anche considerato che la percentuale da rispettare per il Belpaese, decisa dalla direttiva del 2009, era pari al 17%.

Risultati ottimi e…mire ottimistiche!

Fatti i conti con gli ottimi risultati del passato, le istituzioni Ue hanno rimodulato le mire comuni in un’ottica più ottimistica. Nel 2018, infatti, era stato concordato l’obiettivo di una quota del 32 % del consumo energetico da fonti rinnovabili entro il 2030. Ma ieri, come riportato da RaiNews, tale percentuale è stata innalzata a 42,5%.

La Commissaria europea all’energia Kadri Simson ha così commentato i termini dell’accordo:

Accolgo con favore l’accordo provvisorio con il Parlamento e il Consiglio su una serie rafforzata di norme sulle energie rinnovabili. Abbiamo raggiunto un compromesso ambizioso. La nuova direttiva rinnovabili è un passo importante nella realizzazione del Green Deal e del RePower Eu.

L’Europarlamento e il Consiglio Ue dovranno ratificare l’intesa per renderla efficace. La direttiva, in quanto tale, obbliga gli Stati membri a pervenire un determinato risultato senza lineare i mezzi utili a ciò, comunque presentando alcuni vincoli più specifici…

Energie rinnovabili: i parametri stringenti della direttiva

Entro il 2030 le energie rinnovabili dovrebbero contribuire al 49% dell’energia utilizzata dagli edifici. Gli Stati membri dovranno scegliere se usare le rinnovabili come quota del 29% nel consumo di energia nel settore dei trasporti, o se ridurre del 14,5% dell’intensità di gas a effetto serra nei trasporti grazie all’uso di fonti rinnovabili.

Inoltre, le rinnovabili dovranno contribuire ai consumi del settore con almeno il 5,5% di biocarburanti avanzati (cioè provenienti da materie prime non alimentari) e carburanti rinnovabili di origine non biologica (idrogeno rinnovabile e carburanti sintetici a base di idrogeno).

Energie rinnovabili
Pale eoliche. Fonte: Startmag

L’impegno “green” dell’Unione, le ultime novità

Gli impegni “green” dell’Unione non si limitano certo alla questione delle energie rinnovabili. Recentemente, altri due temi hanno generato anche più clamore, soprattutto per i loro contingenti fattori di svantaggio economico.

L‘Unione Europea ha deciso che dal 2035 non si potranno più vendere nuove auto con motori benzina o diesel. Un duro colpo per le molteplici aziende vicine alla produzione di un genere di auto che potrà diventare presto obsoleto.

Non meno spinosa è la faccenda della direttiva sulle “case verdi”. Essa prevede l’ottimizzazione energetica degli edifici con l’ambizioso obiettivo di arrivare ad emissioni zero entro il 2050. Sulla sua legittimità si pongono i dubbi di chi crede che il mercato immobiliare subirà una scossa: per la svalutazione degli immobili non energicamente ottimizzati, per le spese di efficientamento energetico necessarie e per la ristrutturazione di edifici storici non considerati tali dalla direttiva.

Gabriele Nostro

Georgia: la popolazione civile è riuscita ad ottenere il ritiro di una legge “controversa”

Dopo 3 giorni di proteste, il Parlamento della Georgia ha bocciato in seconda seduta la proposta di legge “sulla trasparenza dell’influenza straniera” (denominata “Russian law” dai manifestanti) con 35 voti a favore e uno contrario. La seconda seduta si sarebbe dovuta tenere il 21 marzo ma la violenza delle proteste e l’attenzione internazionale che hanno provocato, hanno spinto il partito di maggioranza GD (Georgian Dream) ad anticiparla.

La legge, nello specifico

Nel secondo articolo, la legge descrive gli “agenti di influenza straniera” come organizzazioni non governative, emittenti televisive e media agency che ricavano il 20% del loro sostentamento annuale da potenze estere, definite a loro volta come altre nazioni, ma anche come semplici individui e organizzazioni con sede legale situata al di fuori del territorio georgiano. Per la legge, chi rientra all’interno della categoria di agente straniero ha l’obbligo di dichiararsi alle autorità, pena multa di novemila euro.

La parola agente è sinonimo di spia in georgiano, ed i manifestanti temono che l’obbligo di denunciarsi alle autorità pubbliche come spia sottintenda la volontà del governo di controllare il dibattito politico del paese, con l’espediente della trasparenza. Giustificazione che non regge, poiché i media georgiani pubblicano le informazioni riguardanti le loro finanze e donazioni sui loro siti e vengono verificate da enti esterni, molte volte durante l’anno. In secondo luogo, appare evidente che a subire questo trattamento saranno determinate agenzie, con una selezione quantomeno arbitraria.

Come si è arrivati al ritiro

Fondamentali sono state le proteste che hanno coinvolto migliaia di cittadini della capitale georgiana già dalla notte di martedì, dopo l’approvazione in prima lettura della legge. Da subito le proteste si sono caratterizzate per la violenza degli scontri tra cittadini e polizia.

I primi  hanno utilizzato molotov e fuochi d’artificio mentre i secondi hanno risposto con cannoni ad acqua, granate stordenti e proiettili di gomma. L’apice della tensione si è avuto mercoledì, quando i manifestanti hanno tentato l’incursione all’interno del parlamento, prontamente respinti dagli agenti in tenuta anti-sommossa. Giovedì il governo ha annunciato il ritiro senza condizioni della legge (in vista della partecipazione di massa alle proteste) avvenuto ufficialmente venerdì.

In supporto delle proteste, si è espresso anche il Presidente francese Emmanuel Macron, che con un tweet ha sottolineato come il popolo francese sia vicino al grande desiderio di democrazia dei georgiani:

La “Russian law” e l’impetuosità delle proteste in Georgia

Alla base della grande reazione che questa legge ha provocato all’interno dell’opinione pubblica della capitale, ci sono i rapporti tra Mosca e Tbilisi e la voglia di democrazia del popolo georgiano. La Georgia è stata una repubblica sovietica fino al 1991, quando con un referendum il 99% della popolazione ha scelto l’indipendenza.

Nel 2008 la Russia ha invaso il paese, sottraendone il 20% del territorio a causa dell’istituzione di due repubbliche separatiste ( Ossezia del sud, Abcasia). Dal 2012 la Georgia ha come partito di maggioranza il GD finanziato da Bidzina Ivanishvili, un georgiano che ha fatto fortuna in Russia. 

Subito dopo l’invasione Russa in Ucraina, il Paese ha subito fatto richiesta per entrare nell’Unione Europea, richiesta respinta nel giugno del 2022 a causa di alcune criticità rinvenute nel sistema democratico.  La legge, oltre a riprendere in modo evidente una legge introdotta in Russia nel 2012 e responsabile della fine della libertà di stampa nel paese, rappresenterebbe un ulteriore ostacolo nell’ammissione  all’interno dell’Unione Europea poiché accentuerebbe le criticità del sistema democratico, scontrandosi inoltre contro la stessa Costituzione (art.78) georgiana che impone l’adozione di tutte le misure necessarie per garantire l’integrazione Europea della Georgia.

Per i georgiani protestare contro l’adozione di questa legge significa lottare per la loro libertà, contro un nemico (la Russia) dal quale si sono già difesi 15 anni fa e che continua mettere a rischio la loro indipendenza. In questa battaglia, la bandiera dell’Unione Europea rappresenta il sogno di un futuro democratico da difendere con tutte le proprie forze.

Giuseppe Calì

 

 

Parlamento Ue e lobbismo: Metsola corre ai ripari con un piano anticorruzione

Circa un mese dopo lo scandalo del Qatar per la presunta corruzione di alcuni eurodeputati e funzionari, la presidente del Parlamento europeo Roberta Metsola ha presentato una riforma delle regole interne su lobbying e trasparenza alla Conferenza dei Presidenti di giovedì scorso (alla presenza di tutti i leader dei gruppi politici rappresentati al Parlamento europeo).

La Presidente del Parlamento Europeo, Roberta Metsola. Fonte: Linkiesta

Quello del “Qatargate”, in effetti, è passato alla storia come il più grande scandalo delle istituzioni comunitarie degli ultimi decenni ed è tutt’ora oggetto di una inchiesta della procura federale belga. Quest’ultima già a dicembre aveva convalidato l’arresto per 4 indagati chiave (di cui 3 italiani), mentre dopo una prima convalida del mandato di arresto europeo anche la moglie e la figlia dell’ex eurodeputato Panzeri verranno estradate in Belgio. Una vicenda ignobile che ha sin da subito spinto ai ripari una democrazia europea sotto attacco.

Il piano di riforma non è stato ancora annunciato pubblicamente, ma alcuni suoi punti sono stati resi noti dai siti di testate quali Politico, Euractiv ed EuObserver.

I principali punti del piano di riforma

La proposta principe di Metsola è quella di estendere a tutti i parlamentari europei l’obbligo di registrazione dei loro incontri con i lobbisti in un portale pubblico. A dire il vero possono già farlo, ma l’uso del portale – fino a questo momento – è di fatto obbligatorio solo per i parlamentari con incarichi rilevanti, come i presidenti di commissione o i relatori di un certo provvedimento; tutti gli altri sono invece liberi di scegliere su base volontaria. Inoltre, il piano della Presidente richiede a tutti i membri del Parlamento di dichiarare propri eventuali conflitti di interessi nel momento in cui diventano relatori di un certo provvedimento.

Altri punti del piano includono l’obbligo di registrare i lobbisti che rappresentano gli interessi dei paesi extraeuropei nell’apposito Registro per la trasparenza, un database dell’Unione europea in cui figurano tutti i principali organismi di lobbying (attualmente coloro che rappresentano un paese terzo riescono a schivare la registrazione grazie a diverse scappatoie). Questo funziona più o meno allo stesso modo al Congresso degli Stati Uniti, mentre tanti altri parlamenti, come quello italiano, non consentono attività di lobbying nelle sedi delle istituzioni (con conseguente maggiore opacità).

Sarà inoltre vietato ricoprire incarichi formali all’interno di una ONG agli assistenti parlamentari e ai funzionari del Parlamento: una norma che sembra scritta per evitare casi come quello di Francesco Giorgi, assistente storico di Antonio Panzeri, l’ex parlamentare che secondo la Procura federale belga ha contribuito alla messa in piedi di una rete di corruzione interna a favore del Qatar.

Tuttavia, il piano non prevede una norma aggiornata sul lavoro extra-parlamentare degli attuali parlamentari europei, nonostante circa un quarto di essi abbiano mansioni da liberi professionisti che creano conflitto di interessi permanente con il loro mandato politico.

Cosa non va nell’attività di lobbying del Parlamento UE?

Nelle istituzioni europee il lobbismo è un’attività legale e regolamentata, svolta da gruppi di interesse di varia natura che desiderano contribuire al processo democratico. Sia le ONG che gli esperti di trasparenza temono però da tempo che il Parlamento europeo sia eccessivamente vulnerabile alle influenze esterne. Ad esempio, da parte di Paesi non democratici o ostili ai progetti di integrazione europea che vogliono condizionarne le decisioni a proprio vantaggio, come secondo la Procura belga avrebbe fatto negli ultimi mesi il Qatar.

Le campagne di influenza straniera, in particolare, rappresentano una delle forme meno regolamentate di lobbying all’interno dell’Unione Europea e pertanto una delle più problematiche. Non è un caso se gli ex eurodeputati sono sempre particolarmente richiesti come lobbisti: per via dei loro ruoli precedenti, come l’italiano Antonio Panzeri, arrestato in seguito all’inchiesta del Qatar, possono entrare in Parlamento in qualsiasi momento senza doversi registrare come lobbisti.

Fonte: Euronews

«Il diritto internazionale prevede che i paesi possano influenzare i rispettivi processi decisionali», spiega Alberto Alemanno, esperto di trasparenza e fondatore dell’organizzazione The Good Lobby , «ma a livello europeo manca un regime che renda trasparente questa attività».

Nelle istituzioni europee il lavoro di lobbying è disciplinato da un codice di condotta abbastanza generico, e sebbene ogni istituzione europea si sia dotata nel tempo di un proprio codice etico e di trasparenza, storicamente il Parlamento europeo resta quello con le regole «decisamente più ridotte», spiega Alemanno:

«I parlamentari non hanno l’obbligo di dare conto di chi incontrano, né esiste un divieto di avere lavori paralleli: circa un quarto dei parlamentari europei mantiene incarichi da libero professionista, e questo crea un conflitto di interessi permanente».

Anche la presidente della Commissione Europea, Ursula von der Leyen, è sembrata riferirsi a questo problema quando lunedì 12 dicembre, durante una conferenza stampa, ha detto:

«Per noi è importante non solo avere delle regole nette ma che le stesse regole coprano tutte le istituzioni europee, e che non esistano eccezioni».

L’estradizione di Silvia Panzeri

Sempre nell’ambito dell’inchiesta Qatargate, la Corte d’appello di Brescia ha deciso che Silvia Panzeri, figlia dell’ex eurodeputato Antonio, dovrà essere estradata in Belgio, dando così il via libera alla consegna della donna alle autorità del Paese, in attesa della decisione definitiva della Cassazione. La donna si trovava già ai domiciliari, come sua madre – Maria Colleoni, per la quale è arrivata anche l’autorizzazione all’estradizione – la procura di Bruxelles aveva chiesto l’estradizione dopo essere stata destinataria di un mandato di arresto europeo. Le due donne sono state accusate di associazione a delinquere, corruzione e riciclaggio di denaro.

Qatargate, ok all’estradizione di Silvia Panzeri. Fonte: tgcom24

Intanto su richiesta dell’autorità giudiziaria di Bruxelles all’Eurocamera è partita la procedura per la revoca dell’immunità di Marc Tarabella, eurodeputato eletto in Belgio, e Andrea Cozzolino, suo collega italiano. Toccherà alla commissione Juri (aiuta il Parlamento a elaborare una posizione informata sulle questioni giuridiche) prendersi carico del dossier nei prossimi giorni, mentre il Parlamento europeo continua a pensare a come evitare casi simili in futuro.

Fonte: Transparency.org

Fra l’altro il gruppo parlamentare dei Socialisti e Democratici, il più colpito dallo scandalo, sta già pensando a regole più severe, sicché non è nemmeno certo che il piano presentato da Metsola venga approvato così com’è. Anche la ONG Transparency International ha diffuso un commento alla proposta alquanto critico:

«Il piano continua a basarsi interamente sull’auto-imposizione. Sappiamo che questa dinamica non funziona: serve un coinvolgimento di enti esterni e indipendenti a tutti i livelli del processo di riforma», a riprova del fatto che il confine fra diplomazia e influenza è sottile, e a volte non così chiaro da tracciare.

Gaia Cautela

Parlamento UE sotto accusa: mazzette da parte del Qatar. In manette la vice Kaili e tre italiani a capo di ONG

Domenica quattro persone affiliate al Parlamento Europeo sono state arrestate con l’accusa di corruzione e riciclaggio di denaro a seguito di un’inchiesta della procura belga riguardante un’attività di lobbying condotta, come si presume, da parte del Qatar, paese che sta ospitando i Mondiali di calcio 2022 e che si trova già sotto pesanti accuse per violazione dei diritti umani.

I soggetti che si trovano sotto arresto sono Eva Kaili, politica greca e vicepresidente del Parlamento Europeo (adesso sospesa); Pier Antonio Panzeri, ex europarlamentare dei Socialisti e Democratici tra il 2004 e il 2019; Francesco Giorgi, compagno di Kaili, assistente parlamentare e fondatore della ong Fight Impunity; Niccolò Figà-Talamanca, a capo della ong No Peace Without Justice. Sottoposte al mandato di arresto europeo anche la moglie e la figlia di Panzeri, col vincolo di associazione a delinquere.

(La vicepresidente dell’Europarlamento Eva Kaili / fonte: euranet_plus @ Flickr.com)

L’inchiesta

Lo scorso 9 dicembre due giornali belgi, Le Soir e Knack, hanno scritto che la procura federale belga stesse mandando avanti già da luglio un’indagine su un giro di corruzione e riciclaggio che si sarebbe svolto proprio dentro il Parlamento Europeo, con vari protagonisti tra cui «quattro italiani». Il procuratore federale Eric Van Duyse, a Knack, avrebbe poi parlato genericamente di «uno Stato del Golfo» senza volerne rivelare l’identità, ma tutti i sospetti sono inevitabilmente caduti sul Qatar.

L’accusa a questo Paese sarebbe di aver tentato per mesi di influenzare le decisioni economiche e politiche del Parlamento UE tramite il versamento di ingenti somme o regali a terze parti con un grande ascendente sul Parlamento.

Per questa ragione, il 9 dicembre (giorno in cui, quasi paradossalmente, si festeggia la Giornata Internazionale contro la Corruzione), la procura belga ha operato sedici perquisizioni nelle case degli assistenti dei vari membri del Parlamento indagati, dove sono stati sequestrati computer e smartphone ed, in un caso, anche seicentomila euro in banconote.

Il Qatar nel mirino

Le ragioni per cui, tra tutti i Paesi del Golfo, i sospetti siano caduti proprio sul Qatar sono intuibili: questo Paese negli anni scorsi è infatti riuscito ad ottenere l’assegnazione dei Mondiali di Calcio 2022, ma non senza importanti polemiche. Perplessità si sono trasformate in vere proteste quando è stato fatto presente il poco riguardo che questa nazione avrebbe dei diritti umani, in particolare delle categorie più deboli come quelle rappresentate dalla comunità LGBTQ+.

Non meno importante, un grande scandalo ha riguardato la costruzione dei vari stadi dove oggi vengono ospitate le partite di calcio. Migliaia di morti sul lavoro sarebbero avvenute durante questa fase, per non parlare delle esimie condizioni in cui la manodopera era costretta a lavorare.

(fonte: carlosmorejon.net)

In sostanza, il Qatar avrebbe tutto l’interesse a dare una “rinfrescata” alla propria immagine, facendosi promuovere proprio da soggetti vicinissimi alle cause per i diritti umani e mostrarsi come uno Stato – addirittura – democratico. Ed infatti, numerose personalità coinvolte nell’inchiesta avevano rilasciato dichiarazioni pubbliche a sostegno del Qatar che destavano non poco sospetto. La stessa vice Eva Kaili, dopo un incontro col Ministro qatariota del Lavoro, aveva detto che «Il Qatar sarebbe stato in prima linea per i diritti dei lavoratori».

Ad ogni modo, un esponente ufficiale del Qatar ha negato qualsiasi coinvolgimento del suo governo nella vicenda, affermando di aver sempre agito secondo i dettami delle norme internazionali.

L’importante ruolo delle ONG

Ciò che rende ancor più complessa la vicenda sarebbe l’utilizzo, per gli scopi illeciti degli indagati, delle rispettive posizioni di forza e di garanzia di cui godevano, nonché delle due ONG No Peace Without Justice, capitanata da Niccolò Figà-Talamanca, e Fight Impunity, presieduta da Antonio Panzeri. La sede di quest’ultima è stata oggetto di perquisizione da parte della polizia belga.

In particolare, Fight Impunity è un’organizzazione che si propone l’obiettivo di «promuovere la lotta contro l’impunità per gravi violazioni dei diritti umani e crimini contro l’umanità avendo il principio di responsabilità come pilastro centrale dell’architettura della giustizia internazionale». Molti sono i nomi che hanno deciso di abbandonare a seguito dello scandalo: da Federica Mogherini, ex Alta Rappresentante dell’Unione per gli affari esteri e la politica di sicurezza, all’ex primo ministro francese Bernard Cazeneuve, all’ex Commissario Europeo per le Migrazioni Dimitris Avramopoulos, fino alle eurodeputate Cecilia Wikström ed Isabel Santos.

(Logo di Fight Impunity / fonte: fightimpunity.com)

Molti di questi soggetti erano esclusivamente membri onorari dell’organizzazione, non avendo al suo interno alcun ruolo effettivo.

Quanto a No Peace Without Justice, membro di spicco (e fondatrice) è la politica italiana Emma Bonino, a sua volta membro onorario di Fight Impunity, che però non si è espressa sull’accaduto.

Lo sconforto della politica

Fino a prova contraria, per tutti i soggetti sotto arresto vige la presunzione d’innocenza. Eppure, la vicenda si presta già ad essere «il più grande caso di presunta corruzione interna al Parlamento UE degli ultimi decenni», come affermato dal Direttore della Trasparenza Internazionale dell’Unione Michiel van Hulten. E rivela a Politico:

Il Parlamento ha creato una cultura dell’impunità, con una combinazione di regole finanziarie e controlli lassisti ed una totale mancanza di supervisione etica indipendente.

Infine, la Presidente del Parlamento Roberta Metsola ha affermato che «l’Assemblea si schiera fermamente contro la corruzione e sta attivamente cooperando con le forze dell’ordine e le autorità giudiziarie per favorire il corso della giustizia».

Valeria Bonaccorso

Nuove sanzioni alla Russia: embargo sul petrolio russo e price cap di 60 dollari

L’Unione Europea, dopo l’invasione ingiustificata dell’Ucraina lo scorso 24 febbraio, ha imposto alla Russia una serie di nuove sanzioni. Queste si aggiungono alle misure restrittive già in vigore dal 2014 in conseguenza all’annessione della Crimea.
Tra i principali obiettivi prosciugare i conti del Cremlino. “L’economia russa sarà distrutta, pagherà e sarà responsabile di tutti i suoi crimini” ha dichiarato la presidenza ucraina. Per eliminare i guadagni russi e mettere così in difficoltà gli sforzi bellici si è detto basta a petrolio e gas.

Per colpire l’economia russa, l’Ue parla in termini di divieti d’esportazione (entità europee non possono vendere determinati prodotti alla Russia), e d’importazione (entità russe non sono autorizzate a vendere determinati prodotti all’UE). In giugno è stato adottato un pacchetto di sanzioni che vieta l’acquisto, l’importazione o il trasferimento via mare di petrolio greggio (non lavorato) e di alcuni prodotti petroliferi dalla Russia all’UE. Queste restrizioni entrate in vigore ieri (5 dicembre) per il petrolio greggio, mentre per gli altri prodotti petroliferi raffinati come diesel, benzina da febbraio 2023.

Trovato un accordo per un tetto al prezzo dell’oro nero 

Nel mercato del gas la riduzione dei flussi di forniture da Mosca verso l’Europa ha fatto aumentare i prezzi. Alla fine la Russia nel corso del 2022 ha venduto meno e guadagnato di più. Per evitare questo paradosso, anche per il petrolio oltre all’embargo è stato applicato un tetto massimo al prezzo in accordo tra Unione Europea, membri del G7 e l’Australia.
Il price cap è stato fissato a 60 dollari al barile, imposto ai prezzi del petrolio russo venduto in stati terzi. Questo provvedimento vieterà alle compagnie di fornire servizi che consentono il trasporto del petrolio russo oltre il tetto stabilito. Al fine di limitare le entrate che Mosca trae dalle sue forniture in Cina o in India.

Grafico price cap sul petrolio russo, Fonte: Sky tg24

L’accordo siglato dagli ambasciatori dei paesi membri dell’Ue a Bruxelles, era rimasto in sospeso in attesa delle decisioni della Polonia. Perché il versante polacco era stato critico sull’efficacia del tetto fisso, si richiedeva un prezzo molto più basso pari a 30 dollari al barile. L’attuale prezzo di un barile di petrolio russo, denominato “Urals oil”, è di circa 65 dollari poco sopra il tetto europeo, quindi un impatto realmente contenuto nel breve periodo. Sembra che il funzionamento del meccanismo di price cap verrà rivisto ogni due mesi, per rispondere all’esigenze di mercato. Sarà fissato a meno del 5%, al di sotto del prezzo medio di mercato del petrolio e dei prodotti petroliferi russi, calcolato sulla base dei dati forniti dall’Agenzia internazionale dell’Energia.

A differenza del gas, il petrolio può essere trasportato via mare. Così quello che l’Europa non comprerà più dalla Russia, potrà arrivare ad esempio dall’Arabia Saudita e altri produttori del Golfo Persico. Sono difficili questi equilibri, ma per Bruxelles questo servirà a stabilizzare i prezzi globali dell’energia.

“Stiamo lavorando a tutta velocità”, ha affermato Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea, “non ci fermeremo finché l’Ucraina non avrà prevalso sull’illegale e barbara guerra di Putin”. La von der Leyen attraverso un tweet ha ribadito le decisioni sull’embargo e il price cap.


Gianclaudio Torlizzi
, osservatore ed esperto del settore, ha dichiarato che “questo tetto è stato deciso proprio per non creare shock sul mercato e per danneggiare lentamente Mosca”. Ma bisogna ora vedere quali saranno le reazioni del Presidente Putin e dell’Opec.

Russia: Stop greggio a chi aderisce al price cap 

La Russia non accetterà il price cap sul prezzo del suo petrolio. Stiamo valutando la situazione. Sono stati fatti alcuni preparativi per questo tetto. Vi informeremo su come sarà organizzato il lavoro una volta terminata la valutazione”

Queste le parole ai giornalisti di Dmitrij Peskov, noto portavoce del Cremlino, dopo le decisioni dell’Ue. Da tempo per compensare il suo export dalle perdite europee, Mosca si sta rivolgendo ad altri mercati come l’Asia. Essendo secondo produttore di petrolio al mondo ha dirottato gran parte delle sue forniture in India, Cina e altri paesi asiatici a prezzi scontati. Questo ha portato ad una diminuzione dell’esportazioni, ma i guadagni si sono mantenuti. Per esempio la Cina, nonostante le politiche “zero covid”, ha acquistato circa 2 milioni di barili al giorno di petrolio russo negli ultimi mesi.

Alexander Novak, vice-primo ministro russo in conferenza, Fonte : The New York Times

Mosca ha ribadito chiaramente che “non intende vendere il suo oro nero”, a nessuno dei paesi che adottano il tetto ai prezzi. “Venderemo petrolio e prodotti petroliferi ai paesi che lavorano con noi, sulla base delle condizioni di mercato. Anche se questo volesse dire che dobbiamo ridurre la produzione” dichiara Alexander Novak, vice-primo ministro russo.
Secondo alcune analisi del New York Times però circa il 55% delle petroliere che trasportano il petrolio russo fuori dal paese battono bandiera della Grecia, paese dell’Ue. Mentre i principali assicuratori di questi carichi hanno sede nell’Unione Europea e nel Regno Unito, un paese del G7. Aggiunge il giornale che la Russia utilizza compagnie di altri paesi, ma passare tutte le sue esportazioni a fornitori alternativi sarebbero probabilmente più costoso e meno sicuro per gli acquirenti.

 

 

Queste sanzioni funzioneranno?  

L’Organizzazione dei Paesi Esportatori di Petrolio (Opec) e i suoi alleati, gruppo noto come Opec+ , ha concordato sull’attenersi al proprio obiettivo di produzione di petrolio. Fra le restrizioni a Mosca, il lockdown da covid in Cina e il rallentamento dell’economia globale, l’organizzazione prende tempo e tiene invariati gli attuali livelli di produzione. Una mossa per gli analisti di “wait and see” che ha senso, in attesa di capire l’impatto delle nuove misure contro la Russia.

Zelensky, presidente ucraino, ritiene che il price cap sia una decisione “non seria”, si tratterebbe di “fissare un limite abbastanza buono per il bilancio dello Stato terrorista”. Alcuni ritengono che l’embargo sul petrolio non funzionarà come sperato e i prezzi saliranno. La Russia avrà dei vantaggi come gli altri paesi esportatori. Tutto il peso cadrà sui consumatori, già schiacciati dalla più grave crisi inflazionistica degli ultimi decenni.

In Italia, le sanzioni contro la Russia hanno portato dei risultati paradossali. Il nostro paese ha ridotto di molto la sua dipendenza dal gas russo, ma il petrolio è continuato ad arrivare. Questo dovuto anche alla presenza di una delle principali raffinerie del paese la “Lukoil Isab” di Priolo, che poteva acquistare solo petrolio russo. L’Italia così ha aumentato di molto la sua esposizione sul petrolio russo, tanto d’acquistarne quasi la metà. Da oggi questo non potrà più accadere!
Come ha dichiarato l’amministratore delegato di Eni, Claudio DescalziL’embargo al petrolio russo sarà un duro colpo” quindi “bisognerà stare attenti a trovare il petrolio altrove. Tutto ciò che potremmo recuperare arriverà dagli Stati Uniti”.


                                                                                                              Marta Ferrato

Presunti incontri segreti tra vertici Ue, Usa e Uk per giungere alla soluzione del conflitto in Ucraina

Sul conflitto Russia-Ucraina alleggia lo spettro delle ultime stime, secondo le quali esso potrebbe protrarsi ancora dai due ai sei mesi. Secondo quanto rivelato dall’emittente televisiva americana Cnn, nelle ultime settimane, si sarebbero svolti diversi incontri segretissimi tra vertici Ue, Usa e Uk, per trovare il modo di mettere la parola fine alla guerra che sta sconvolgendo l’Ucraina e, indirettamente, il resto del mondo.

Il conflitto tra Russia e Ucraina potrebbe protrarsi per altri 2-6 mesi (fonte: ANSA)

Non si sa molto, non sono neanche chiare le modalità a cui si starebbe pensando per arrivare al cessate il fuoco, per portare l’Ucraina a trattare con la Russia. Kiev, però, non sarebbe stata direttamente coinvolta nelle presunte riunioni, nonostante gli Stati Uniti avessero promesso di “non decidere nulla sull’Ucraina senza l’Ucraina”.

Tra le questioni discusse, sarebbe finito sul tavolo anche il piano in quattro punti proposto dall’Italia il mese scorso. Il contenuto di questo documento era stato reso noto dal ministro degli Esteri, Luigi Di Maio, al segretario delle Nazioni Unite, Antonio Guterres.

 

Il contenuto del documento italiano

Il suddetto documento è stato redatto dalla Farnesina e propone un percorso verso il cessate il fuoco, tramite quattro tappe. Di Maio lo aveva fatto avere al segretario dell’Onu, il 18 maggio, a New York, inoltre, anche ai diplomatici dei ministeri degli Esteri del G7 e del Quint (Usa, Gran Bretagna, Germania, Francia, Italia).

Il ministro Di Maio e il segretario Onu (fonte: ANSA)

Ad ideare la proposta è stata la Farnesina, in collaborazione e con la supervisione di Palazzo Chigi, in seguito all’incontro tra il premier Mario Draghi e il presidente statunitense Joe Biden. Il presidente del consiglio italiano aveva, in quell’occasione, ribadito che l’Italia vorrebbe formare un tavolo euroatlantico per discutere delle eventuali opzioni per la guerra.

Il secondo fine sarebbe quello di portarvi, poi, l’Ucraina, lasciandole il ruolo principale nelle trattative. Dunque, ancora una volta, il dialogo tra le nazioni in guerra è ritenuto essere potenzialmente l’unico strumento utile per arrivare davvero alla fine del conflitto.

Il percorso delineato si dovrebbe svolgere sotto la supervisione di un “Gruppo internazionale di Facilitazione”. Le quattro fasi si articolerebbero in: il cessate il fuoco, la neutralità dell’Ucraina, concordare delle decisioni sulle questioni territoriali di Donbass e altre zone come la Crimea, trovare un nuovo accordo multilaterale sulla pace e la sicurezza nel continente Europeo.

Alla prima tappa si potrebbe arrivare tramite dei meccanismi di supervisione e con la smilitarizzazione della linea del fronte. Successivamente – per la realizzazione della seconda tappal’Ucraina dovrebbe dichiarare la sua neutralità a livello internazionale e, modificando il suo status, potrebbe, inoltre, conquistare una condizione che le permetterebbe di poter divenire un membro dell’Unione Europea.

La terza tappa comporterebbe ancor più difficoltà: arrivare a una soluzione che pongano fine alle controversie sui confini tra i due Stati, che vengano poi riconosciuti a livello internazionale, prevedrebbe un grande sforzo e decisioni su vari aspetti, tra cui quella su quale tipo di sovranità instaurare in queste aree. Qualora si arrivasse a tal punto, bisognerebbe anche capire cosa fare in ambito culturale, come regolare i diritti in materia di conservazione del patrimonio storico-culturale.

Il quarto e ultimo punto consisterebbe nel riorganizzare gli equilibri internazionali, elaborando un nuovo accordo multilaterale sulla pace. nel dopoguerra, si dovrebbe arrivare al ritiro delle truppe russe dai territori occupati durante il conflitto, per poi pensare di ritirare le sanzioni adottate contro la Russia.

La pace dovrebbe poi essere costruita su solide basi, prendendo misure come il disarmo e il controllo degli armamenti, per prevenire qualsiasi possibilità di conflitto.

Due esponenti statunitensi avrebbero, però, dichiarato alla stessa Cnn che gli Stati Uniti non sarebbero d’accordo con il piano proposto dall’Italia, nonostante negli scorsi giorni l’ambasciatrice americana, Linda Thomas Greenfield, aveva detto all’Onu che la proposta italiana potrebbe essere davvero una delle pochissime strade percorribili per porre fine alla guerra.

 

La questione del grano e della sicurezza alimentare

A New York, il ministro Di Maio aveva anche riportato l’attenzione sulla problematica del grano. Il tema della sicurezza alimentare era stato affrontato pure dai Paesi del G7, considerando l’iniziativa della Banca Mondiale di stanziare altri 12 miliardi di dollari per prevenire ulteriori disastri. Di Maio ha sottolineato la necessità di “costruire insieme un corridoio sicuro per provare a portare via il grano dal Paese e permettere quindi ai produttori ucraini di esportarlo e riportarlo sul mercato”.

I prezzi del grano hanno subito un rialzo a causa del conflitto, che potrebbe raggiungere picchi più alti di un ulteriore 20%, entro la fine dell’anno. Così, si verificherebbe una perdita d’acquisto sostanziale che colpirebbe anche gli italiani.

«L’Ue con i suoi progetti di cooperazione allo sviluppo ha una grande responsabilità anche perché saremo i Paesi che direttamente subiranno gli effetti di questa insicurezza alimentare».

 

L’intervista di Putin a un’emittente tv russa

Intanto, Putin ha parlato ai microfoni dell’emittente tv pubblica Rossiya 24, affrontando anche il tema delle esportazioni di grano dall’Ucraina. Il presidente russo si è detto pronto a garantire il passaggio tramite anche i porti occupati dalle sue truppe.

«I porti del Mar d’Azov, Berdyansk, Mariupol, sono sotto il nostro controllo. Siamo pronti a garantire un’esportazione senza problemi, anche del grano ucraino, attraverso questi porti – ha dichiarato il leader russo – Stiamo finendo i lavori di sminamento”, ha aggiunto, “il lavoro è in fase di completamento, creeremo la logistica necessaria, lo faremo».

Putin ha assicurato di non voler impedire l’export di grano ucraino, aggiungendo che la crisi alimentare non sia direttamente imputabile alla Russia, accusando anche per questo l’Occidente. Per il presidente, le notizie di un blocco all’esportazioni di grano dall’Ucraina, sarebbe un’invenzione dell’Occidente per coprire gli sbagli fatti proprio dai Paesi occidentali.

Inoltre, ha detto di aver invitato Kiev a rimuovere le mine poste nel territorio ora sotto il controllo russo, per rendere sicure le esportazioni del grano, aggiungendo che di tale situazione la Russia non ne approfitterebbe per sferrare attacchi dal mare.

In ogni caso, al di là delle dichiarazioni fatte dalla Russia e della questione della veridicità degli incontri tra vertici europei, statunitensi e britannici, ciò che più conta è che i protagonisti politici siano d’accordo nel tentare di trovare la via per la pace più corta.

 

 

Rita Bonaccurso

 

L’Unione Europea taglia sul carbone russo. Si pensa ad embargo anche su petrolio e gas

Ieri sera, durante una riunione dei suoi ambasciatori, l’Unione Europea ha approvato il quinto pacchetto di sanzioni contro la Russia. Tra queste spicca l’approvazione dell’embargo al carbone russo. Si tratta di una misura presa in considerazione e auspicata già settimane fa, ma che arriva in seguito alle pressioni derivanti dai sospetti di crimini di guerra perpetrati negli ultimi tempi in Ucraina dall’esercito russo. Così ha commentato la proposta la Presidente della Commissione UE Ursula Von Der Leyen «che – aggiunge – costerà circa quattro miliardi di euro l’anno».

La proposta della Commissione prevedeva, inoltre, il divieto a navi ed autotrasportatori russi di entrare nei territori dell’Unione, con alcune eccezioni per determinati prodotti agricoli, aiuti umanitari ed energetici. Quest’ultimo punto è stato accolto nel pacchetto definitivo di sanzioni, cui si aggiunge l’incremento di personalità russe inserite nella black list europea e ulteriori divieti dal valore di circa 15,5 miliardi.

La prima stilettata all’energia russa

L’embargo sul carbone rappresenta un primo colpo all’energia russa, ossia il punto più discusso in materia di sanzioni. L’Unione Europea (ed in particolare l’Italia, assieme alla Germania) ha una forte dipendenza dalle fonti di energia importate dalla Russia, soprattutto dal suo gas naturale e dal petrolio. Ma gli ultimi eventi – ed in particolare il massacro di civili verificatosi a Bucha – hanno compattato la linea UE verso l’inasprimento delle sanzioni. Chiarisce la Presidente della Commissione Von Der Leyen:

Queste atrocità non possono e non rimarranno senza risposta.

D’altronde, lo stesso Premier italiano Draghi ha aperto alla possibilità di un embargo (oltre che sul carbone) sul gas russo, con un già “rinomato” quanto criticato aut-aut:

Preferite la pace o il condizionatore acceso?

Ma ad ogni modo – chiarisce il Premier – sarà l’Unione a decidere. Una linea, quella dell’Esecutivo, sempre più certa sul da farsi, a discapito delle voci di diverse aree del Parlamento che invitano alla negoziazione, anziché alle sanzioni e all’invio di armi a favore della difesa ucraina.

E l’embargo sul carbone trova l’accordo anche della Germania, che fino ad ora si era duramente opposta (assieme all’Ungheria di Orbán) allo stop collettivo di tutte le importazioni di energia russa. Il Ministro della Finanza tedesco Christian Lindner aveva infatti suggerito di considerare separatamente petrolio, carbone e gas, poiché la velocità per la sostituzione dei fornitori potrebbe variare.

Ed infatti, opponendosi ancora aspramente all’embargo sul gas, ha affermato:

Ci troviamo davanti ad un criminale di guerra, è chiaro che dobbiamo porre fine ai legami economici con la Russia il prima possibile, ma il gas non potrebbe essere sostituito nel breve periodo. Farebbe più male a noi che a loro.

(fonte: au.sports.yahoo.com)

Stop all’energia russa sì, ma quando?

Corre veloce la Francia, che col suo Ministro dell’Economia Bruno Le Maire, si ritiene «pronta ad uno stop alle importazioni non solo di carbone, ma anche di petrolio russo». Ed aggiunge:

La realtà è che bloccare le importazioni di petrolio dalla Russia è la cosa che le farebbe più male.

Tuttavia, anche La Maire riconosce l’importanza di un intervento a livello comunitario, più che nazionale. «Importante convincere anche gli altri Stati membri».

Peraltro, lo stop a tutte le importazioni energetiche da Mosca non è tra i piani a breve termine dell’Unione. Né lo stop immediato al carbone: la Germania ha infatti ottenuto di posticipare di quattro mesi l’entrata in vigore del divieto, in modo tale da realizzare il piano nazionale per l’indipendenza dal carbone russo entro l’estate. «Se rimandassimo indietro quelle navi [che trasportano carbone] rischieremmo di non averne abbastanza», ha detto di recente il vicecancelliere tedesco Robert Habeck. (Il Post)

Ad ogni modo, testate come EuroNews hanno immaginato le possibili conseguenze di uno stop alle forniture di gas russo: tra le soluzioni proposte, quella di ricorrere al gas naturale liquefatto importato dagli Stati Uniti.

Sostituire il carbone russo e ridurre le emissioni

È possibile che tagliare il carbone russo non faccia poi così male: dopotutto – afferma Bloomberg – già prima delle sanzioni le compagnie energetiche europee faticavano a trovare il suddetto carbone, anche per via delle banche che ne negavano i finanziamenti. Nota il centro di studi Bruegel, poi, che le importazioni di carbone a livello europeo erano calate drasticamente dai 400 milioni di tonnellate nel 1990 ai 136 milioni nel 2020.

Sostituire il carbone russo non sarà difficile, ma sarà più costoso: i principali esportatori sono infatti Australia Indonesia, Paesi molto più distanti dall’Europa rispetto dalla Russia. Si tratterà di aumentare i costi di spedizione.

(fonte: balkaninsight.com)

Infine, si tenga a mente l’impegno delle varie città europee verso la decarbonizzazione, uno degli obiettivi da raggiungere entro il 2050 per evitare gli effetti catastrofici del cambiamento climatico. Secondo un report della Commissione Europea, gli edifici europei sarebbero responsabili di circa il 40% delle emissioni comunitarie e del 36% delle emissioni di gas serra.

Ottimizzare l’efficienza energetica rappresenta, quindi, la chiave per l’obiettivo “zero emissioni”: secondo Caterina Sarfatti, direttrice dell’azione della C40 Climate Leadership Group, permetterebbe anche di risolvere il crescente problema della povertà energetica in Europa. Politico ha delineato una serie di azioni che aiuterebbero nel raggiungimento di tale scopo a livello cittadino.

Valeria Bonaccorso