Svolta per i diritti dei rider: il “Pacchetto lavoro” pensato in Commissione Europea

I diritti e la tutela per chi esercita la professione del rider rappresentano i problemi più discussi degli ultimi anni, nel mondo del lavoro. Quasi tutti noi avremo sicuramente usufruito almeno una volta del servizio messo a disposizione da piattaforme del mercato del food delivery come Just Eat, Deliveroo, Glovo.  Senza dubbio, lo spopolare di servizi di questo tipo ha aiutato a far emergere diversi aspetti critici di queste mansioni. Infatti, a causa della pandemia, negli ultimi due anni, il loro numero è aumentato vertiginosamente, toccando quota 1,5 milioni.

 

Fonte: Huffingtonpost.it

 

Le difficili condizioni in cui i rider lavorano

Il problema principale per questi lavoratori è la sicurezza personale: spesso, costretti a spostarsi in qualsiasi condizione climatica, possono incorrere facilmente in incidenti e, la maggior parte delle volte, risultano sprovvisti di assicurazione per la tutela propria e di quella altrui. Inoltre, si riscontra una scarsa manutenzione dei mezzi messi a disposizione o di loro proprietà, non potendo permettersi ingenti spese. Questo sistema è molto vantaggioso per i proprietari dei servizi di consegna, che con il minimo sforzo economico riescono a ottenere una resa perlomeno sufficiente, ma allo stesso tempo danneggia gravemente i lavoratori, che accettano l’incarico per mancanza di grandi alternative a disposizione.

In aggiunta, è doveroso considerare anche il notevole quantitativo di ore, praticamente insostenibile e per nulla proporzionale alla mole di lavoro e alla retribuzione corrisposta.

 

Il provvedimento della Commissione Europea

Dopo diversi dibattiti e polemiche finalmente potrebbe arrivare la svolta per queste categorie: mercoledì 8 dicembre, infatti, verrà approvato dalla Commissione Europea il “Pacchetto lavoro, provvedimento redatto dal Commissario Nicolas Schmit, che prevede, tra le varie misure, l’assunzione dei rider tramite un regolare contratto, che deve essere fornito proprio dalle aziende di delivery.

Finora quest’ultime sono state solitamente considerate come prestatori d’opera indipendenti, mentre con questa normativa si passerà a lavoro subordinato. I punti fondamentali sul quale si basa il nuovo decreto sono: l’inserimento di uno stipendio base obbligatorio, tutela dei diritti e previdenza sociale.

Non ci saranno direttive sulla durata dei contratti, perciò niente azioni in contrario per quelli a tempo determinato.

 

Fonte: Today.it

 

La riforma, una volta approvata dall’Unione Europea, diventerà, quindi, legge alla quale ogni Stato membro dovrà fare riferimento ed è molto probabile che, già nel breve periodo, qualcosa si inizi a smuovere anche nel resto del mondo, dopo anni di reclami e proteste.

I primi movimenti nei piani alti si son visti in particolar modo dopo lo sciopero dei rider dello scorso 26 marzo in Italia e i primi provvedimenti che sono arrivati solo di recente con le condanne per attività antisindacali e caporalato, emesse dai tribunali di Milano e Firenze.

La rivoluzione non riguarda solo questa categoria di lavoratori, ma anche tutti coloro che svolgono mansioni per altri generi di piattaforme digitali, i quali potranno godere dei benefici contrattuali.

 

La dura reazione di Uber

Molto soddisfatto si è ritenuto il Ministro del Lavoro, Andrea Orlando, al termine della riunione con i suoi colleghi europei a Bruxelles, auspicando la corretta applicazione e il pieno rispetto nella nostra penisola delle misure varate a livello europeo. Dall’altra parte, troviamo, invece, la reazione di Uber, unica azienda coinvolta a commentare la riforma, che attraverso “Uber Eats”, gestisce anche il servizio consegne. La società statunitense, infatti, ha criticato aspramente l’imposizione della Commissione dell’Unione Europea, affermando che la sua attività si basa rigorosamente sul lavoro flessibile, è quest’aspetto che l’ha portata a essere apprezzata e scelta dai lavoratori, flessibilità che con l’introduzione di contratti regolari potrebbe venire a meno.

 

Fonte: Repubblica.it

 

Essendo una categoria di lavoratori ormai così ampia, è corretto che vengano assunti tramite contratto, che quindi la loro professione venga regolamentata, lasciando da parte singoli interessi aziendali.

 

 

Sebastiano Morabito

Intelligenza artificiale ed androidi, cosa è fondamentale considerare.

E’ successo venti anni fa, più o meno in questo periodo: la prima “vittoria” del computer sull’uomo. Nel cuore di Manhattan il super computer Deep Blue progettato da IBM batteva in sole 19 mosse il più grande giocatore di scacchi, Garry Kasparov, chiudendo in modo sorprendente l’ultima di sei partite in un torneo combattutissimo, giocato proprio per dare alla macchina la possibilità di rivincita dopo la sconfitta subita appena un anno prima. Per non ripetere gli stessi errori al tavolo di gioco, i programmatori dell’azienda avevano potenziato il “cervellone” di Deep Blue rendendolo capace di analizzare 200 milioni di mosse al secondo.

Da allora, la cosiddetta intelligenza artificiale ha fatto passi da gigante, non solo nei giochi da tavolo: aziende come Google, Facebook, Amazon, Uber ed anche diverse case automobilistiche stanno investendo molte risorse e denaro per produrre software intelligenti ed abili nello svolgere compiti particolari. Non so se ricordate quanto fosse sgrammaticato il traduttore di Google fino a qualche anno fa, adesso non è perfetto, però, quantomeno, riesce a fornire una traduzione più o meno corretta.

Ma cos’è questa intelligenza artificiale e da dove è spuntata fuori?

Non è facile dare una definizione univoca di Intelligenza artificiale, perché nemmeno i cosiddetti addetti ai lavori riescono ad accordarsi a riguardo. In modo abbastanza prudente partirei col dire che per intelligenza, comunemente parlando, intendiamo l’insieme di capacità psichiche e mentali che permettono ad una persona di pensare, di comprendere azioni e fatti riuscendo a spiegarli tramite l’elaborazione di modelli astratti a partire dalla realtà. Questi processi, inevitabilmente, portano alla capacità di ottenere un qualche risultato, più o meno efficiente a seconda dei casi.

Ora, la prospettiva di riuscire, un giorno, a creare una macchina che potesse imitare il comportamento umano è emersa in diversi periodi storici, incrociando la mitologia, l’alchimia, l’invenzione degli automi e la fantascienza. E’ stato, però, il britannico Alan Turing nella metà del secolo scorso ad elencare i requisiti per definire “intelligente” una macchina. Nel suo “Macchine calcolatrici ed intelligenza” elaborò il test che oggi porta il suo nome, attraverso il quale un’intelligenza artificiale si rivelerebbe tale solo se riuscisse a convincere chi la sta utilizzando di avere a che fare con un persona e non con una macchina. Risulta evidente che da un test del genere l’osservatore può trarre una valutazione solo parziale; infatti un computer (come Deep Blue che ha battuto Kasparov) può essere considerato intelligente, ma al tempo stesso non avere le capacità di imitare in tutto e per tutto un essere umano ed il suo modo personalissimo di pensare.

Questa è un po’ la sfida (probabilmente “hybris”) della neo-robotica, di alcuni ingegneri cibernetici che nel mondo, lavorano per la realizzazione di robot che assomiglino sempre più a noi umani. Non solo li stanno dotando dei nostri sensi – comandi vocali, touch screen, naso e palato elettronici- ma pensano anche a realizzare degli inserti biologici. Sinapsi umane innestate nei loro hardware, tessuti epidermici creati in laboratorio con le staminali ( pratica già diffusa) con cui rivestire i nuovi robot che potranno essere chiamati a buon diritto (e certo!) androidi, cioè robot umanoidi. Una volta arrivati a questo punto, credo che il salto antropologico più inquietante sarà convincersi che gli androidi possano essere veramente delle persone.

Ma Boezio insegna che persona è “sostanza individuale di natura razionale”. Riescono a svolgere calcoli complicatissimi, a stoccare il campione mondiale di scacchi, ad eseguire azioni con possibilità di errore quasi infinitesimale. Non saranno forse meglio di noi?

In realtà i robot elaborano, non pensano. Ed elaborano perché è stato l’uomo prima a programmarli. Siri, software di assistenza e riconoscimento vocale di Apple, risponde alle tue domande su traffico, meteo, indicazioni stradali e altro ancora. Ma Siri pesca nel suo database l’informazione più corretta. Non può, per esempio, non risponderti e se non lo fa significa che qualche circuito è saltato, non certo per sua propria sponte! E’ una macchina e non può che obbedire alle leggi fisiche del determinismo meccanico che possono, però, essere manipolate dall’uomo. Quindi, per quanto si possa progredire e migliorare nella realizzazione di robot che mimino le capacità umane, essi non saranno altro che una copia di atti in cui brilla la scintilla dell’intelligenza umana. Inoltre, in quanto macchine, non potranno mai avere un’anima razionale perché l’anima è immateriale e, dunque, non può essere fabbricata artificialmente in laboratorio ed infusa in un robot.

Come al solito, si tratta di non assolutizzare mai le conquiste della ricerca e dei progressi tecnologici, perché altrimenti, quella che potrebbe essere un’opportunità per rendere più abitabile questa terra, potrebbe rivelarsi un disastroso tentativo di auto-affermazione da parte dell’uomo, l’ennesimo mito di Prometeo che, puntualmente, si ripete nella storia.

“Est modus in rebus; sunt certi denique fines quos ultra citraque nequit consistere rectum”

Orazio (68-5 a.C.), Satire I, 1, vv. 106-107 –

[Esiste una misura in tutte le cose; ci sono, cioè, dei confini ben precisi oltre i quali, mai, dovrebbe spingersi il giusto.]

Ivana Bringheli