Per amore di Carlotta

Vi racconto una storia, di quelle che vi metterà di buon umore o, meglio, di quelle che vi convincerà a una riflessione, generale e quanto mai profonda, sugli eclissati valori della bellezza, dell’amore familiare, della concordia incondizionata, della vita comunitaria.

Vi racconto la storia della piccola Carlotta e di sua madre Erika; che dal modesto e dolce paesino di Santa Lucia del Mela sono giunte alla ribalta nazionale, gettando il cuore puro e vivido oltre l’ostacolo, dove le telecamere di un’intera Nazione hanno potuto riprenderlo.

Carlotta ed Erika: chi sono? Ecco il loro percorso

Carlotta D’Amico è una bambina di appena otto anni che insieme alla madre Erika Colaianni ha partecipato e vinto l’ultima edizione di Io Canto Family – un popolare programma televisivo, trasmesso su canale 5, in cui delle famiglie si sfidano in una gara canora.

Le due hanno dimostrato di essere molto brave e affiatate, conquistando, esibizione dopo esibizione, la simpatia del grande pubblico Mediaset.

Carlotta è stata la concorrente più piccola in assoluto, ma anche la madre ha – per così dire – impressionato per la sua giovinezza. Erika, infatti, ha avuto la figlia quando era ancora diciassettenne.

Il loro percorso è stato straordinario, costellato da costanti successi. La vittoria finale, per questo, era anche stata prospettata con grande gioia, pur non essendo, naturalmente, né scontata né nettamente ritenuta probabile.

Quel che è stato messo in evidenza, e che sarà stato palese a tutti gli ascoltatori, è la grande sinergia e il totale agio con cui le due cantanti hanno dato spettacolo. Oltre la vittoria e l’invidiabile percorso individuale, però, c’è qualcos’altro che credo assolutamente degno di nota.

Il sentimento di amore per Carlotta in cui si è unita la piccola Santa Lucia del Mela è stato meraviglioso, insuperabile e, per certi versi, tipico di un altro tempo.

L’incredibile vicinanza di una città

Ciò che i giornali nazionali ignorano e non possono rendicontare – perché occupati a registrare la punta dell’iceberg visibile, il punto terminale di tutto – è lo straordinario atteggiamento che la comunità d’appartenenza della bambina ha a lei riservato.

Affetto, affetto e affetto via social e tra i bar della città – senza un’intrusione indiscreta di troppo – lungo tutto il percorso; un tifo per lei organizzato come quello che si raduna in vista della partita del secolo; un maxischermo, arrivati alla finale, per compattare tutti, nella piazza principale del paese, al seguito della sincera amichetta.

Proprio così, addirittura dal comune si sono premurati di allestire al meglio la serata finale, forse pure con la genuina convinzione che si sarebbe conclusa con dei festeggiamenti.

La cara Carlotta è diventata, per i fan di casa, una tenera idola. L’oggetto dell’ammirazione incondizionata e appassionata delle persone; in questo caso, unicamente dedite all’amor di patria e all’amore per la felicità della giovane concittadina.

Questo leggo nell’evoluzione della vicenda. Carlotta è stata (ed è) ammirata anzitutto in quanto simbolo di una piccola comunità – quella di Santa Lucia del Mela – non avvezza a palcoscenici nazionali. Ma è stata unanimemente accettata come rappresentante per la sua giovialità e il suo candore incontestabili.

Per amore di Carlotta unità assoluta

Santa Lucia del Mela, come accennato, è un piccolo paesino che conta meno di 5000 anime. Qui amministra un sindaco largamente amato dai cittadini e nell’aria si respira una tranquillità rara. Santa Lucia del Mela appartiene certamente al mondo moderno, di cui ne segue il progresso strutturale ed economico, ma ha la particolarità di far resistere ancora le buone tradizioni di qualche epoca fa.

Nel borgo in provincia di Messina tutti si conoscono e c’è poco spazio per feroci contese. Piuttosto, dacché tutti si conoscono, si preferisce la fratellanza alla guerra, che, spesso, scaturisce nella contentezza di tutti fuori dall’avidità di qualcuno.

Insomma, Santa Lucia non è un territorio alieno, assurdo e inimmaginabile. Possiede semplicemente alcuni degli apprezzabili caratteri di un altro tempo, che oramai di rado si possono notare nelle città super industrializzate, nei centri in cui i cittadini sono moltissimi ma tutti individui per i fatti propri.

Ovvio che in un paese tanto modesto sia più facile mantenersi solidali. Meno ovvio è che città di maggiori dimensioni debbano per forza essere prive dello stesso spirito.

Gabriele Nostro

Unorthodox: il fascino della vulnerabilità

La serie Netflix Unorthodox svela allo spettatore gli aspetti più intimi e privati della fede chassidica, ci racconta da un prospettiva inedita la vita quotidiana e le usanze di una cultura ancora oggi sconosciuta.

Seguendo Esty (interpretata dalla bravissima ed intensa Shira Haas) e la sua famiglia nelle loro giornate, scopriamo, infatti, tutte le dinamiche di un’educazione ancora legata ad un patriarcato radicato, nel quale il corpo della donna diviene recipiente procreativo.  Se non sei madre, nella comunità, non sei nulla.

Fonte: www.newseries.com

Ma, accanto alle usanze e alle cerimonie più tradizionali, Unorthodox ci racconta anche il desiderio di affermarsi e di seguire la propria strada. Il coraggio di chi vuole essere l’unico artefice del proprio futuro, a discapito di ogni cosa.

Nel quartiere di Williamsburg (NY) vive una folta comunità di ebrei ultra-ortodossi discendenti delle vittime polacche e ungheresi dell’Olocausto, della quale la miniserie sviscera le realtà del quotidiano e le ipocrisie.

Un tipo di fede profondamente ancorato a tradizioni arcaiche, che entra, inevitabilmente, in contrasto con le realtà culturali contemporanee.

Nella fede chassidica le donne ricoprono un ruolo gravemente subalterno rispetto agli uomini, non hanno il diritto di poter leggere la Torah o ricevere una educazione completa.

Il loro unico mantra è sposarsi e generare figli. Quando questo, per normalissime cause, si complica, si scoprono le fragilità di una realtà incapace di confrontarsi con la vulnerabilità delle cose.

Fonte: www.ciakclub.com

Esty, sposatasi da poco e convinta per questo di aver toccato con mano la bramata felicità, non riesce a rimanere incinta.

Avvilita da questa difficoltà, soffre anche per il frustante paragone con la madre, donna forte e carismatica.

Nonostante le difficoltà che è costretta ad affrontare, Esty dimostra la propria ribelle tenacia: decide di iniziare una nuova vita a Berlino, scrollandosi di dosso lontano le rigide gerarchie nelle quali, senza scelta, è cresciuta.

Un viaggio, un cambiamento che le farà riscoprire sé stessa; solo adesso infatti Esty prende coscienza dei suoi sogni e dei suoi istinti.

Berlino, accogliente e moderna, diventa  una meravigliosa metafora del superamento delle regole e dei pregiudizi imposti dal suo vecchio mondo.

Fonte: www.passionecinema.it

Una nuova realtà, lontana dal matrimonio e dalla vita di privazioni che ha condotto fino ad allora; un nuovo amore, quello per la musica e per il canto, che diventerà il motore della sua vita.

Un’ulteriore metafora, nella quale la protagonista riesce a far sentire al mondo la sua voce  come donna, prima che come cantante.

Questa è l’ultima ribellione di Esty, la liberazione definitiva dalla vecchia sé. Può finalmente intraprendere la nuova vita senza, però, dimenticare da dove proviene; una storia unica eppure simile a quella di tante altre donne (ma anche uomini) che hanno deciso di lasciarsi alle spalle una vita asfissiante.

Lo show targato Netflix mette in luce il rapporto complesso che intercorre tra la propria educazione, chi siamo e chi siamo destinati ad essere.

Un grido all’indipendenza e al coraggio, al fascino della vulnerabilità.

Antonio Mulone

Il Governo, i media ed una carneficina anticipata. Che fa male solo all’Italia

Giallo-verde, giallo-blù. Per qualcuno giallo-nero, per altri solo nero. Come il futuro dell’Italia. Con ottantasette – mica bruscolini – giorni di ritardo, dallo scorso 1º giugno l’Italia ha finalmente un Governo. Di un colore che, magari, ad alcuni non riesce proprio ad andar giù ma che va rispettato. Se non altro, per il semplice fatto che quest’esecutivo, forse male assemblato, forse non fattivamente convenzionale, rappresenta l’insindacabile volontà del popolo italiano. E, dopo quattro legislature di fatto auto-proclamatesi, ce n’era davvero bisogno.

Nei primi quattordici giorni dell’era Conte, però, s’è assistito ad un gioco al massacro degno della miglior – o peggior – propaganda. E non da parte degli elettori, che, alla fine dei conti, ne avrebbero avuto anche il diritto. Bensì da parte di televisioni, radio e giornali. Fa specie, in particolare, che anche le più grandi testate ed aziende mediali italiane si siano piegate ad un giochino così becero, frutto di un retro-pensiero ormai scevro di qualsivoglia velo o limite d’imparzialità, che paradossalmente danneggia più loro stesse che il bersaglio designato.

Sia chiaro. Salvini, Di Maio, Conte e i loro fratelli sbaglieranno. Perchè, come diceva Prezzolini, “non si può promettere di non sbagliare, perchè, in un certo senso, ciò è impossibile”. Lo hanno già fatto e, di certo, lo rifaranno e, magari, anche più volte. Ma quanto commetteranno i loro errori, lo faranno con l’obbligo di prendersi essenziali e doverose responsabilità di fronte ad un popolo di elettori di circa 15 milioni di unità. Che, a conti fatti, rappresentano il 25% di un Paese, allo stato attuale, messo in ginocchio.

Crocifiggere mediaticamente i nuovi incaricati non è sicuramente il modo migliore per aiutare una Nazione che, in primis, non riesce a dare e produrre posti di lavoro. Una situazione figlia di un domino politico che vede la prevalenza di lotte assolutamente partitiche rispetto al reale interesse dei cittadini. Se, come sta accadendo ora, il quarto potere rincara la dose, mettendo in evidenza un braccialetto calcistico nel giorno del giuramento o la “comprensibile” emozione nel primo discorso da Premier – da parte di un soggetto che politico non è – si rischia solamente di far male agli abitanti dello stivale. Che, oggi più che mai, vorrebbero semplicemente uscire da una crisi che sembra non avere fine.

Matteo Occhiuto

In esclusiva Carlo Freccero: “Unitevi, siate autentici, costruitevi la vostra identità”

Carlo Freccero, consigliere di amministrazione della Rai e già direttore di Rai2 e Rai4, è stato ospite d’onore alla Cerimonia di Consegna dei Diplomi, nella cornice del Teatro Antico di Taormina il 24 luglio. Freccero ha rivolto i suoi auguri ai neo laureati dell’Ateneo peloritano e prima di volare verso altri lidi, ci ha concesso una interessante intervista in cui abbiamo parlato di comunicazione, fake news e medium emergenti.

C’è in atto una manipolazione dei poteri forti sui medium emergenti, ad esempio la rete?

Assolutamente si, ma d’altra parte è normale, i media si rivolgono alle masse, a una moltitudine di persone,è connaturale in qualche modo che la manipolazione sia insita. Il problema è essere capaci di decriptarla, ed è questo il nostro compito: credo che la rete abbia tutti gli anticorpi per poter fare cose. È sempre un corpo a corpo con i medium, ricordatevelo, all’inizio essi sono delle fate, poi diventano delle streghe: è importante saper gestire e decifrare questa trasformazione.

Qual è il ruolo della televisione di Stato dei nativi digitali sempre di più attratti dai “new media”?

Domanda molto interessante, a me particolarmente vicina perché io ho creato Rai 4, la prima rete digitale, free (come voi ben sapete) rivolta ad un pubblico che non ha memoria storica della Rai, bensì si rivolge ai millennials, tant’è che abbiamo fatto in modo di programmare fantasy, sci-fi, fantascienza…

E Giulia le è grata perché una delle sue serie preferite è Doctor who ed in italia si vede solo su Rai 4!

Esattamente, sono io che l’ho importato, e a riguardo non vedo l’ora di vedere la nuova protagonista in azione. Benissimo, e proprio in questo modo la Rai ha il compito di rivolgersi a tutti i pubblici, con attenzione particolare verso i millennials (ndr tutti i nati tra il 1979 e il 2000). Insomma, è importante fornire un’offerta di fiction adeguata (che la fiction di Rai 1 non ha nulla a che vedere con la fiction dei millennials) e rinnovarsi sempre parallelamente alla crescita e all’evoluzione del pubblico.

Nell’era delle fake news, generata dalla rete, come può la televisione tradizionale acquisire maggiore credibilità rispetto al web?

Innanzitutto le fake news esistono da tempi immemori, ci sono sempre state. È vero che con il digitale l’immagine può essere corretta, completamente modificata anche, ed è una forma di realtà definitiva. Però c’è da dire che chi crea fake news generalmente ha il potere. È un discorso molto ampio, difficile da concentrare in un’intervista! (siete proprio arguti voi eh? * ridendo *). Quello che posso dire riguardo l’analisi dei media, adesso è fondamentale per creare un spettatore critico e consapevole, non più contemplativo ma che possa in qualche modo decriptare tutto quanto.

Qual è il consiglio che lei da ai giovani giornalisti o ai futuri fotoreporter? A chi vuole intraprendere una carriera nell’ambito della comunicazione di massa.

Come il vostro giornale è online, il digitale è l’ibridazione di tutti quanti i media, quando non esiste più una preminenza della stampa, della tv o della radio, tutti i media interagiscono ed è molto importante perché crea un universo unico. Penso, sfortunatamente, che il lavoro intellettuale è deprezzato, e chi vince è la firma, il testimonial. Credo sia fondamentale che voi creiate tra di voi delle cooperative e in qualche modo dare visibilità a notizie che i media mainstream (stampa, tv, ecc) non danno: tutto questo mondo è dominato dalle grandi firme, e poter dar voce a ciò che viene nascosto, che viene scartato per puri fini economici. Unitevi, siate autentici, costruitevi la vostra identità.

Giulia Greco, Alessio Gugliotta

Le nomination degli Emmy del 2017

Sono state annunciate le nomination relative alla 69esima edizione dei Primetime Emmy Awards.
I riconoscimenti che annualmente premiano le eccellenze del mondo televisivo americano.
La cerimonia di assegnazione si terrà il 27 settembre al Microsoft Theatre di Los Angeles e a presentarli sarà il conduttore dell’omonimo late show Steven Colbert. Un simpatico signore occhialuto che non dovrebbe deludere per ironia.
Scampati dall’assenza di Game of Thrones quest’anno fanno incetta di candidature nuovi show, con trame molto interessanti, così in capo a tutti Westworld con Stranger Things e This is us nella categoria della miglior serie drammatica.
Fra queste spicca anche The Handmaid’s Tale tratto dall’omonimo romanzo ambientato ai giorni nostri nel quale le donne fertili (appunto le handmaids) sono ridotte in schiavitù dai comandanti e dalle loro mogli sterili col solo scopo di usarle come mezzo di riproduzione. È un prodotto da vedere assolutamente, interessante, scritto molto bene e interpretato ancora meglio. Elizabeth Moss, la protagonista , è candidata nella categoria per l’interpretazione femminile in una serie drammatica.
Passando alla commedia abbiamo i soliti VEEP, Black-ish e Modern Family con qualche new entry come Unbreakable Kimmy Schmidt ma chi fa da capo in questa categoria è SNL il Saturday Night Live che ha concluso una stagione eccellente, con un Baldwin/Trump incredibile e Kate McKinnon nei panni della Kellyanne Conoway e Jeff Session superlativa. Una stagione che rimarrà negli annali della Nbc.

Nella categoria delle miniserie troviamo il “king of tv” Ryan Murphy con Feud , Big Little Lies , Fargo , Genius e The night of. 

C’è posto anche per noi italiani, o meglio per l’italiano più amato dall’America: Paolo Sorrentino e il suo “The young pope”  con le candidature per la miglior fotografia (Luca Bigazzi), e scenografia (Ludovica Ferrario, Alexandro Maria Santucci, Laura Casalini).

Fra le opere candidate ci sono dei veri gioielli, fra interpretazione, sceneggiatura, regia e aspetto tecnico. Se alcune non le avete viste recuperatele , non ci sarà da pentirsi.
I prodotti per il piccolo schermo e lo streaming sono ormai dei veri “capolavori” che concorrono col cinema.
Una cosa però non potranno mai superare: la magia della sala. Che sia al chiuso o sotto le stelle delle arene estive.

Di seguito la lista dei candidati nelle maggiori categorie.

 

Miglior serie drammatica
Better Call Saul
The Crown
The Handmaid’s Tale
Stranger Things
This Is Us
Westworld
House of Cards

Miglior attore protagonista in una serie drammatica
Sterling K. Brown, This Is Us
Anthony Hopkins, Westworld
Matthew Rhys, The Americans
Liev Schreiber, Ray Donovan
Kevin Spacey, House of Cards
Milo Ventimiglia, This Is Us

Miglior attrice protagonista in una serie drammatica
Viola Davis, How to Get Away with Murder
Claire Foy, The Crown
Elisabeth Moss, The Handmaid’s Tale
Keri Russell, The Americans
Evan Rachel Wood, Westworld
Robin Wright, House of Cards

Miglior attore non protagonista in una serie drammatica
John Lithgow, The Crown
Jonathan Banks, Better Call Saul
Mandy Patinkin, Homeland
Michael Kelly, House of Cards
David Harbour, Stranger Things
Ron Cephas Jones, This Is Us
Jeffrey Wright, Westworld

Miglior attrice non protagonista in una serie drammatica
Ann Dowde, The Handmaid’s Tale
Samira Wiley, The Handmaid’s Tale
Uzo Aduba, Orange Is the New Black
Millie Bobby Brown, Stranger Things
Chrissy Metz, This Is Us
Thandie Newton, Westworld

Miglior miniserie
Big Little Lies
Fargo
Feud: Bette and Joan
The Night Of
Genius

Miglior attore protagonista in una miniserie o film
Riz Ahmed, The Night of
Benedict Cumberbatch, Sherlock
Robert De Niro, The Wizard of Lies
Ewan McGregor, Fargo
Geoffrey Rush, Genius
John Turturro, The Night of

Miglior attrice protagonista in una miniserie o film
Carrie Coon, Fargo
Felicity Huffman, American Crime
Nicole Kidman, Big Little Lies
Jessica Lange, Feud
Susan Sarandon, Feud
Reese Witherspoon, Big Little Lies

Miglior attore non protagonista in una miniserie o film
Alexander Skarsgard, Big Little Lies
David Thewlis, Fargo
Alfred Molina, Feud
Stanley Tucci, Feud
Bill Camp, The Night Of
Michael K. Williams, The Night Of

Miglior attrice non protagonista in una miniserie o film
Regina King, American Crime
Shailene Woodley, Big Little Lies
Laura Dern, Big Little Lies
Judy Davis, Feud
Jackie Hoffman, Feud
Michelle Pfeiffer, The Wizard of Lies

Miglior serie comedy
Atlanta
Black-ish
Master of None
Modern Family
Silicon Valley
Unbreakable Kimmy Schmidt
Veep

Miglior attrice protagonista in una serie comedy
Pamela Adlon, Better Things
Jane Fonda, Grace&Frankie
Allison Janney, Mom
Ellie Kemper, Unbreakable Kimmy Schmidt
Julia Louis-Dreyfus, Veep
Tracee Ellis Ross, Black-ish
Lily Tomlin, Grace&Frankie

Miglior attore protagonista in una serie comedy
Anthony Anderson, Black-ish
Aziz Ansari, Master of None
Zach Galifianakis, Baskets
Donald Glover, Atlanta
William H. Macy, Shameless
Jeffrey Tambor, Transparent

Miglior attore non protagonista in una serie comedy
Alec Baldwin, Saturday Night Live
Louie Anderson, Baskets
Ty Burrell, Modern Family
Tituss Burgess, Unbreakable Kimmy Schmidt
Tony Hale, Veep
Matt Walsh, Veep

Miglior attrice non protagonista in una serie comedy
Kate McKinnon, Saturday Night Live
Vanessa Beyer, Saturday Night Live
Leslie Jones, Saturday Night Live
Anna Chlumsky, Veep
Judith Light, Transparent
Kathryn Hahn, Transparent

Miglior film per la tv
The Wizard of Lies
Black Mirror
Dolly Parton’s Christmas of Many Colors: Circle of Love
The Immortal Life of Henrietta Lacks
Sherlock

Arianna De Arcangelis

Suicide Squad, dai fumetti al film: l’affascinante mondo dei cattivi

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Il 6 dicembre 2016, esce il Dvd del film ‘’Suicide Squad’’, opera cinematografica che ha riempito le sale quest’estate.

Con un cast stellare e diversi record al botteghino, Suicide Squad, è una pellicola basata sui cattivi dei fumetti firmati DC Comics. Per la prima volta nella storia del mondo sono proprio i cattivi quelli che salveranno la terra: dopo la morte di SuperMan e la sparizione di BatMan, non c’è nessun altro a cui il governo americano può rivolgersi.

Ai cattivi, però, non viene dato niente in cambio: nessun premio, nessuna gloria, nemmeno la libertà. Loro sono stati crudeli, quindi o obbediscono o verranno uccisi. A tutti loro, infatti, viene impiantato un cip sotto pelle: se provano a ribellarsi, boom, saltano in aria.

Ci mancava, penserete voi: dopotutto stiamo parlando delle menti più contorte e folli che ci hanno sempre spaventati, fin da bambini. Infatti, la Suicide Squad (Squadra Suicida) è formata da: l’ex-psichiatra Harley Quinn (Margot Robbie), il cecchino mercenario Deadshot (Will Smith), l’ex-gangster pirocinetico El Diablo (Jay Hernandez), il ladro Capitan Boomerang (Jay Courtney), il mostruoso cannibale Killer Croc ( Adewale Akinnuoye-Agbaje) e il mercenario Slipknot (Adam Beach).

A loro si uniscono anche la dottoressa June Moone, un’archeologa posseduta da un’antica entità malvagia nota come Incantatrice (Cara Delevigne) e Katana ( Karen Fukuhara), mercenaria in possesso di una spada mistica.

C’è anche il Joker (Jared Leto) che, da dietro le quinte, segue la squadra: il suo unico obiettivo? Liberare Harley Quinn e riprendersela con sé (figuratevi a lui quanto può fregare di salvare gli esseri umani).

È interessante vedere come, fin dai primi minuti del film, si resta affascinati e si scatena un innamoramento nei confronti di questi pluriomicidi: chi l’ha mai detto, dopotutto, che non provano alcun sentimento? Con il susseguirsi della storia scopriamo proprio questo: tutti loro hanno amato qualcuno più di loro stessi e tutti loro, inevitabilmente, lo hanno perso.

Ma per chi è appassionato di fumetti, cosa è cambiato? Ovviamente questi personaggi, a prescindere dall’aspetto che mai poteva essere assolutamente uguale a quello dei disegni, sono stati umanizzati, sono (forse) meno folli del fumetto.

Obiettivamente alcuni cambiamenti sono obbligati: una pellicola non potrà mai essere fedele ad anni e anni di fumetti. Il fulcro di ogni personaggio rimane indenne, dalle loro perversioni, alle manie, all’istinto quasi suicida e la sintesi delle loro storie individuali è assolutamente fedele.

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Due personaggi in particolare sono stati, da alcuni, criticati: la coppia (che scoppia?) Joker- Quinn. Nei fumetti, infatti, Harley Quinn è una donna completamente sottomessa, che ama le violenze imposte dal Joker, che quasi si diverte a provocarlo pur di farsi fare del male.

Il Joker, d’altro canto, non sembra innamorato, nei fumetti, anzi: la presenza di Harley, il più delle volte, lo infastidisce; mentre, nel film, anche lui ha un’attrazione per lei.

Il confronto, ovviamente, è molto soggettivo: possono sembrare, per alcuni, una coppia di amanti con una grande indipendenza; per altri, invece, l’ossessione del Joker è esattamente quella dei fumetti: lui va a riprendersela perché è l’unico che può comandarla.

Harley Quinn, d’altro canto, è sottomessa in tutte le parti del film a lui: si rincorrono flash back dove si vede come lei, più e più volte, è pronta anche a morire per lui.

A prescindere dalle puntigliose critiche, dalle disquisizioni su dove e come il film poteva essere migliore, se Suicide Squad ha sbancato un motivo c’è, ed è il motivo per cui noi vi consigliamo di vederlo: in sintesi? È una figata.

Elena Anna Andronico

 

 

The Big Bang Theory: essere Nerd is the new essere popolari

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Le donne, dicono, sono il problema di tutti gli uomini. Arrivano nella loro vita e gliela distruggono, li destabilizzano.

Voi immaginate se questo accade a quattro 30enni nerds, bruttini e sfigatelli. Quello che ne esce è la serie tv che ormai va in onda da 10 stagioni: The Big Bang Theory.

Per chi non l’ha mai vista perché ‘’facendo zapping ci sono capitato più volte ma, a me, non fa ridere’’, posso dire solo questo: ERRORE. Vai, prendi il tuo pc e clicca play sulla prima puntata della prima stagione. Non te ne pentirai.

The Big Bang Theory è costruita sul classico format americano: 20 minuti in cui vediamo i personaggi spostarsi tra poche locations, con tanto di pubblico che applaude e ride quando viene fatta una battuta. Ma tu, caro mio, non te ne accorgerai perché sarai impegnato a sganasciarti (con tanto di lacrime e pipì che corre).

I personaggi principali sono, come detto, questi quattro 30enni nerds: Leonard, il classico ragazzo geniale, bruttino, timido e con gli occhiali; Sheldon, alto e allampanato ma con un QI superiore a qualsiasi media normale e, tra l’altro, affetto dalla sindrome di Asperger. Questo lo porta a non avere senso dell’umorismo, a essere anaffettivo e a dover pianificare tutto: anche gli orari in cui il suo coinquilino può andare di corpo.

Howard, il perverso del gruppo, che ci prova a trovare una donna e alla fine, incredibilmente, ci riesce; Raj, indiano ricco e di colore, accusa problemi nel parlare con le donne a cui sopperisce con l’uso dell’alcool.

Insieme trascorrono la maggior parte della giornata perché, non solo lavorano insieme, ma hanno gli stessi interessi che includono videogames, Star Wars e fumetti.

Un giorno, nell’appartamento di fronte quello di Leonard, arriva Penny: un’oca giuliva bionda di cui, ovviamente, tutti si innamorano (tranne Sheldon, che si limita a dispregiarla e basta come fa con tutto il resto degli esseri umani). Il resto, se volete, lo andrete a vedere.

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La bellezza di The Big Bang Theory è l’evoluzione di tutti i personaggi che, nelle prime stagioni, rimangono e permangono nei loro ‘’status quo’’ ma, piano piano, riescono a sbloccare alcuni lati del loro carattere. Con lo stesso umorismo di sempre, è una serie che, non solo facilmente può fare compagnia con la sua leggerezza, porta ad affezionarsi ai protagonisti mantenendo alta la curiosità.

Rumors dicono, da un paio di mesi, che la 10 stagione, quella attualmente in onda, dovrebbe essere l’ultima. In attesa di scoprire se la notizia è reale (e, quindi, prepararsi a un eventuale lutto) c’è solo una cosa poter fare: metterla in play!

Elena Anna Andronico

Perché Breaking Bad è la serie perfetta

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Il termine “Breaking Bad” è un’espressione colloquiale usata nel Sud degli Stati Uniti, che viene utilizzata quando qualcuno ha preso una direzione sbagliata che lo allontana dalla retta via. Ciò potrebbe durare un giorno o tutta la vita.

Bryan Cranston

Era il lontano (forse mica tanto lontano) 2014. La mia passione per il cinema andava a farsi sempre più importante e la voglia di conoscere prodotti di qualità era sempre crescente. Durante l’estate ero stato travolto dal fenomeno nazionale di “Gomorra – La serie” che ha acceso in me l’interesse per le serie Tv. Infatti, nonostante la mia grande passione per il cinema, non mi ero mai avvicinato al mondo delle serie Tv che ho avevo sempre visto come un prodotto inferiore rispetto alla qualità cinematografica. Adesso divoro serie Tv come fossero patatine fritte. Fu proprio quell’estate del 2014 a farmi cambiare idea. Certo, Gomorra ha avuto in me un forte impatto, ma quello che davvero mi ha fatto cambiare idea è stato un prodotto americano, ideato dalla mente di Vince Gilligan. Avevo scoperto Breaking Bad, avevo scoperto il mondo delle serie Tv.

Ora, con voi devo fare una premessa importante: Breaking Bad è una serie perfetta. Piuttosto forte come affermazione ma non è detta a cuor leggero. Quando dico che questa è una serie perfetta metto da parte il fatto che sia la mia serie preferita, il giudizio è oggettivo. E non voglio neanche lanciarvi la sfida di trovargli dei difetti, sicuramente qualcuno ci sarà, ma nel complesso è un’opera d’arte del piccolo schermo. La serie è formata da 5 stagioni con 62 episodi totali, ma la sua forza sta nel fatto che è come se fosse un film di circa 60 ore. La continuità e l’armonia della sceneggiatura consente una visione fluida e senza sosta dell’intera serie. Non a caso la prima volta che l’ho vista è corrisposta anche alla mia prima esperienza con il Binge-watching, ovvero la visione di seguito di molti episodi. Forse ho esagerato a finire le 5 stagioni in 5 giorni, ma andava fatto così, credo.

Non voglio dirvi troppo della trama, potete cercarla benissimo su Google e farvi un’idea. Una cosa che voglio subito dirvi è che è una serie molto lenta. Non fraintendetemi, le cose succedono, ci sono molti colpi di scena, ma è come se vuole prendersi il suo tempo per farli accadere. È la forza di questa serie ed è quello che ha insegnato a tutte le serie Tv che sono venute dopo: l’importante in una serie Tv non sono i cliffhanger (ovvero l’interruzione brusca della narrazione attraverso un colpo di scena) ma la solidità della sceneggiatura. Quello che rende bella una serie non è il voler sapere cosa succede dopo ma farsi trascinare da quello che sta succedendo adesso. E in Breaking Bad questo è fatto perfettamente. Gli aspetti tecnici della serie sono ad altissimi livelli cinematografici e i vari registi non si sono mai tirati indietro nello sperimentare ed andare oltre le classiche inquadrature da “show per la tv”. D’altronde parliamo di una serie capace di portarsi a casa numerosi premi, tra cui sedici Emmy Award, otto Satellite Award, dodici Saturn Award, sei WGA Award, cinque TCA Award, due Golden Globe, tre Screen Actors Guild Award, un PGA Award, due DGA Award e sei Critics’ Choice Television Award.
Quando la gente vuole un consiglio su un film o su una serie Tv, la prima cosa che mi chiede è: “di cosa parla?”. La risposta che vorrebbero sentirsi dire dovrebbe essere un riassunto generale della trama e dello svolgimento della storia per capire se può essere interessante o meno. Personalmente riesco a sfuggire ad una risposta del genere perché credo che quando qualcuno mi chiede di cosa parla un film o una serie gli rispondo quali sono le tematiche trattate. Quando mi chiedono di cosa parla Breaking Bad (visto che è una serie che amo tanto e che consiglio a tutti), mi tornano in mente le parole di Bryan Cranston, il protagonista della serie, e rispondo che parla di decisioni sbagliate. Questa serie può essere immaginata come un continuo declino, ma non è un declino chiaro. All’inizio, infatti, sembra un’ascesa verso il successo. È come se ci fossero due linee direttamente proporzionali che dall’inizio alla fine della serie condizionano la trama. La prima linea è quella che porta al successo, ai soldi, ad una felicità falsa. La seconda linea è quella che porta all’autodistruzione, alla solitudine, all’insoddisfazione. Per quanto aumenta la prima, aumenta pure la seconda. È di questo che parla Breaking Bad. È solo una storia che è stata scritta, diretta e interpretata alla perfezione.

Nicola Ripepi 

In Guerra per Amore, un film di PIF

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A tre anni da “La mafia uccide solo d’estate”, di cui riprende protagonisti principali e tema, Pif torna dietro la cinepresa con il suo secondo film che lo vede nuovamente anche protagonista.

Seconda guerra mondiale come sfondo. Arturo Giammarresi (Pif) di origini siciliane ma trapiantato in America, è pronto a tutto pur di ottenere la mano della sua amata Flora (Miriam Leone), già promessa sposa di un altro uomo, anche ad arruolarsi con gli Americani e ad approdare di nuovo nella sua terra d’origine.

L’impresa amorosa è il filo conduttore che lega le due realtà presenti nel film: lo sbarco degli Alleati in Sicilia e la presa del potere mafioso nella medesima.

La pellicola racconta con amara ironia una realtà ancora attuale; Pif si mostra all’altezza di affrontare nuovamente tale realtà e tali tematiche conducendo un film con una buona regia, lineare, senza eccessi particolari e senza errori.

Poco presente la linea comica che contraddistingueva invece l’opera precedente, anche se in alcuni punti fa il suo ritorno, come nell’esilarante lotta tra Duce e Madonnina. Buona la recitazione anche se è il protagonista stesso a presentare alle volte piccole sbavature. Ciò che stupisce è la fotografia e l’ottima ricostruzione delle ambientazioni.

Nel complesso è un film che seppur leggero fa riflettere su temi oltremodo importanti e sempre presenti nel nostro paese. Ne è assolutamente consigliata la visione!

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                                                                                                                              Benedetta Sisinni

Moonlight: un film da non perdere

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Negli ultimi anni l’industria cinematografica e televisiva ha avuto come tema ricorrente la questione di genere e la comunità LGBT. Pochi film però sono stati così delicatamente incisivi e toccanti come “Moonlight”, film di apertura dei festival di Telluride e Roma di quest’anno, è stato proiettato anche al NYFF, al TIFF e al BFI di Londra.

Seconda opera di Berry Jenkins racconta la vita di un ragazzino di colore nei bassifondi di Miami e l’accettazione della sua sessualità.

Strutturato in tre capitoli, per tre fasce di età, denominati col nome con cui Chiron si fa chiamare o viene chiamato. Da piccolo Chiron attira l’attenzione di uno spacciatore (interpretato da Mahershala Ali il cui nome non vi dirà nulla ma che avete visto in molti film e tv series fra cui House of cards nei panni di Remy Danton, l’avvocato che diventa capo dello staff di Underwood) che , insieme alla moglie (la cantante Janelle Monae) lo accoglie in casa, e sopperisce alla figura paterna.

I bulli che lo perseguitano fin da piccolo lo faranno diventare un’ altra persona da adulto. O forse sarà una semplice corazza. Chiron è una persona taciturna, quasi muto, sensibilissimo e timido. Il mare dietro quello sguardo profondissimo. La spiaggia e il mare: i luoghi in cui è libero di essere se stesso.

E’ un film necessario per l’America dopo la strage di Orlando e per gli spettatori di tutto il mondo, perché racconta la battaglia interiore ed esteriore di un ragazzo di colore , sessualità e bullismo. Delicato e prorompente, non scade mai nel cliché. Jenkins ha una visione unica e mai vista fino ad ora , permette agli spettatori di riflettere sulle ferite visibili ed invisibili dell’altro, argomento che probabilmente non aveva mai sfiorato la loro mente.

Insomma è un’opera da non perdere.

Arianna De Arcangelis