Elezioni in Turchia: testa a testa tra Erdoğan e Kiliçdaroğlu

In Turchia, i cittadini sono stati chiamati a votare il Presidente della Repubblica e il Parlamento. 

Chi sono gli sfidanti?

Erdoğan: ha guidato il Paese dal 2003 a oggi, ha vinto 10 elezioni parlamentari e 2 presidenziali. La coalizione che lo supporta prende il nome di “Alleanza Popolare”. Oltre al “Partito della Giustizia e Sviluppo” fondato da lui stesso nel 2001, comprende altri tre partiti: “Movimento Nazionalista”, “Partito della Grande Unità” e “Partito della Nuova Presidenza”.

Kemal Kiliçdaroğlu: ritenuto il principale sfidante di Erdoğan. Dal 2010 è a capo del Partito Popolare Repubblicano. Sostenuto da una coalizione di sei partiti di opposizione: di sinistra, centro destra, nazionalisti e islamisti. La coalizione è chiamata “Alleanza Nazionale” o “Tavolo dei sei”.

Kemal Kilicdaroglu Fonte: LaRepubblica

I media lo hanno soprannominato il “Gandhi turco”, per il suo stile politico ma soprattutto per una protesta pacifica svoltasi nel 2017: la “Marcia della Giustizia”.

Insieme ai suoi sostenitori, ha percorso 450 km a piedi e scalzo per raggiungere la prigione di Istanbul, mostrando vicinanza a un deputato del partito socialdemocratico accusato di spionaggio.

Stiamo affrontando un regime dittatoriale. Non vogliamo vivere in un Paese in cui non c’è giustizia. Quando è troppo è troppo

Il terzo candidato è Sinan Oğan. La sua coalizione denominata “Alleanza Ancestrale” è formata dal Partito della Vittoria, di posizioni ultranazionaliste e dal Partito della Giustizia.

Sinan Ogan Fonte: Linkietsa

 

Muharrem Ince ha fondato il “Partito della Patria” nel 2021. A pochi giorni dalle elezioni ritira la sua candidatura, per favorire Kiliçdaroğlu. Il reale motivo potrebbe essere un ricatto con video hard.

Muharrem Ince Fonte: Linkiesta

Programma elettorale di Kiliçdaroğlu

Uno dei punti principali è quello di voler riportare la Turchia ad essere una repubblica parlamentare. Ha altresì promesso la libertà ai prigionieri politici ingiustamente detenuti e prevede di tutelare i diritti civili. Vuole inoltre porre fine all’Erdoganomics – strategia attuata da Erdoğan, secondo cui tassi di interesse bassi conterrebbero l’inflazione.

Perché la vittoria di Erdoğan non è così scontata?

Durante il suo mandato ha abolito il sistema parlamentare, cosicché il potere fosse incentrato nelle mani del presidente, ottenendo così controllo su stampa e magistratura. Ha usato il suo potere per colpire gli oppositori politici e minoranze etniche. Ma ci sono stati altri eventi che hanno portato il Presidente a perdere punti.

Il terremoto in Turchia, per dirne una, avvenuto il 6 febbraio; è stato criticato per la gestione dei soccorsi.

In merito alle accuse rivolte a Erdoğan circa il terremoto, Kiliçdaroğlu risponde così:

Se c’è un persona responsabile per questo, è Erdoğan, in 20 anni non si è preparato per un terremoto

L’inflazione: in Turchia arrivata all’85%, ha fatto sì che la lira turca perdesse l’80% del suo valore.

In caso di vittoria, Erdoğan ha annunciato che aumenterà gli stipendi dei dipendenti pubblici del 45%, istituirà una pensione statale per le casalinghe e garantirà un mese di bollette gratis.

Come si vota in Turchia?

Possono votare tutti i cittadini turchi aventi 18 anni d’età, anche i cittadini turchi residenti all’estero possono esprimere la propria preferenza. 

Il sistema elettorale è di tipo maggioritario a doppio turno (fino al 2007 era eletto dal Parlamento), ciò significa che: se al primo turno nessun candidato ottiene il 50% + 1 dei voti, si terrà un ballottaggio tra i due più votati.

Risultati truccati?

L’opposizione ha accusato l’agenzia di stampa Anadolu di aver truccato i risultati, facendo apparire Erdoğan in testa. Entrambi i candidati convinti di essere in vantaggio, hanno contestato i risultati annunciati dall’avversario.

La replica di Erdoğan:

Tentare di annunciare i risultati in modo avventato significa usurpare la volontà nazionale

Erdoğan e Kiliçdaroğlu hanno ricevuto rispettivamente 49.86 % e 44.38% delle preferenze, andando così al ballottaggio, che si terrà il 28 maggio.

Gabriella Pino

 

Attacco terroristico a Instanbul. Erdogan: “Vile attentato”

Domenica di terrore nel cuore di Istanbul: attorno alle 16:20 (le 14:20 in Italia) una forte esplosione in Istiklal Avenue – trafficata via dello shopping del centro città – ha causato almeno 6 morti e 81 feriti, di cui 2 in gravi condizioni. Tuttavia, si dice che il bilancio dell’accaduto sia destinato ad aggravarsi e che, nonostante non siano ancora ben chiare le dinamiche, le autorità di Ankara abbiano confermato la pista terroristica: probabilmente una bomba lasciata a terra in una borsa da una donna, oppure un vero e proprio attacco kamikaze. D’altronde il 13 novembre è da diversi anni una data difficile da dimenticare.

Istiklal Caddesi, la strada dell’attentato. Fonte: Corriere

Ad ogni modo, il ministro della Giustizia Bekir Bozdağ ha annunciato che la Procura nazionale ha già aperto un’indagine, mentre la via dove si è verificata l’esplosione è stata chiusa. Oltre ai soccorritori, alla polizia e ai vigili del fuoco, è arrivato sul posto anche il ministro dell’Interno, Süleyman Soylu.

L’esito delle prime indagini

Il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan ha definito quanto accaduto «un vile attentato»:

«Forse sarebbe sbagliato dire che si tratta di terrorismo, ma i primi sviluppi, le prime informazioni che il mio governatore ci ha fornito, mi dicono che c’è odore di terrorismo qui».

Fonte: Sicilia Report

Il sito web di notizie turco Mynet ha riferito che le forze di sicurezza stanno analizzando i filmati delle telecamere di sicurezza per determinare dove sarebbe stata collocata la borsa piena di esplosivo.
Secondo il vicepresidente Fuat Oktay, a compiere l’attentato è stata una donna kamikaze. «Lo consideriamo», ha detto, «un attacco terroristico provocato da una bomba fatta esplodere da un assalitore che, secondo le informazioni preliminari, sarebbe una donna». I media turchi hanno già pubblicato una foto della sospettata, anche se il ministro della Giustizia turco Bekir Bozdag ha spiegato che la borsa che trasportava sarebbe potuta esplodere anche a distanza con un telecomando. In ogni caso, una donna è di per certo rimasta seduta in panchina per 40 minuti e poi si è alzata in piedi; l’esplosione è avvenuta 1 o 2 minuti dopo.

Una donna kamikaze dietro l’attentato. Fonte: ANSA

Diversi sono i video che stanno circolando nelle ultime ore sui social: uno in particolare, ripreso da una telecamera di sicurezza, mostra l’esplosione e gli istanti successivi da molto vicino, con forti botti, fiamme divampanti e centinaia di persone che fuggono. Dopo l’esplosione e poco prima di partire per il G20 di Bali, il presidente Erdoğan ha dunque parlato di un «attentato dinamitardo», aggiungendo che i tentativi di conquistare la Turchia con il terrorismo «non avranno buon fine né oggi né domani, come non lo hanno avuto ieri».

In Turchia torna il terrore

C’è un motivo se si è subito pensato al terrorismo come causa dell’esplosione, giacché la Turchia ha un precedente sanguinoso: tra il 2015 e il 2017 il Paese, situato a metà strada tra Europa e Asia, è stato infatti teatro di attentati, ad opera dell’Isis e di altri gruppi terroristici.

Ritenuti i più sanguinosi mai avvenuti nella storia della Turchia, la serie di attentati di Ankara del 10 ottobre 2015 sono stati compiuti da terroristi affiliati all’autoproclamato Stato Islamico. La mattina di sabato 10 ottobre, alle 10:04, due kamikaze, vicini all’Isis, si sono fatti esplodere nella piazza centrale di Ankara, antistante la stazione, dove si stava tenendo un corteo per la pace con i curdi, in opposizione alle politiche del presidente Tayyip Erdogan. Allora l’attacco aveva ucciso ben 103 persone, oltre a ferirne più di 245. Dopo gli attentati, la città di Ankara ribattezzò la piazza della stazione, dandole il nome di piazza della Democrazia.

La gente guarda mentre la sicurezza e i medici esaminano la scena in seguito all’esplosione alla stazione ferroviaria principale della capitale turca Ankara, il 10 ottobre 2015. Fonte: Internazionale.it

Ma la scia di sangue proseguì anche dopo di allora. Qui di seguito è riportata una lista degli attentati più gravi in Turchia:
12 gennaio 2016 – Sultanahmet, Istanbul: kamikaze contro i turisti. Dodici i morti tra cui 11 tedeschi e un peruviano;

19 marzo 2016 – Via Istiklal, Istanbul: un attentatore suicida, un turco che si era unito all’Isis in Siria, si fa esplodere nella via dello shopping. Muoiono cinque civili, tutti stranieri;

20 giugno 2016 – Gaziantep (est): un ragazzino con un giubbotto riempito di esplosivo si fa esplodere ad un matrimonio di curdi uccidendo 57 persone;

28 giugno 2016 – Istanbul: tre uomini armati (due russi e un kirghizo) con addosso cinture esplosive attaccano il terminal internazionale dell’aeroporto Ataturk. Due di loro si fanno esplodere, l’altro viene ucciso dalla polizia prima di azionare il detonatore. I morti sono 44, per lo più stranieri;

1° gennaio 2017 – Istanbul, Ortakoy: un uomo armato apre il fuoco contro i frequentatori del nightclub Reina, dove si celebra il Capodanno. Trentanove persone muoiono. Questo è il solo attacco rivendicato ufficialmente dall’Isis.

I messaggi di cordoglio di Meloni, Tajani e Zelensky

L’Italia, così come anche diverse altri Paesi, non è rimasta indifferente dinanzi a delle terribili immagini che hanno avuto la prontezza di immortalare minuti fatali di panico e morte in una nazione facente parte dell’Unione Europea dal 2005:

«Sono terribili le immagini di Istanbul, voglio esprimere le nostre più sentite condoglianze alla Turchia per l’attentato subito e la morte di cittadini innocenti», ha affermato la Presidente del Consiglio Giorgia Meloni.

Attentato Istanbul, Tajani. Fonte: Il Messaggero

Più loquace e ardito l’intervento del ministro degli Esteri, Antonio Tajani:

«L’Italia condanna con la massima fermezza il vile attentato che ha sconvolto oggi la città di Istanbul. Nell’esprimere solidarietà alle famiglie delle persone colpite e auguri di pronta guarigione ai feriti, l’Italia riafferma la sua vicinanza alle istituzioni e al popolo turco e ribadisce, nel giorno dell’anniversario della strage del Bataclan, il suo risoluto impegno nella lotta al terrorismo. Il Consolato Generale, in stretto raccordo con l’Unità di Crisi, si è immediatamente attivato per verificare l’eventuale coinvolgimento di connazionali. Al momento non risultano italiani né tra le vittime né tra i feriti».

Su Twitter, il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha scritto:

«È con profonda tristezza che ho appreso del numero significativo di morti e feriti durante l’esplosione avvenuta a Istanbul. Esprimo le mie condoglianze ai parenti dei morti e auguro una pronta guarigione ai feriti. Il dolore del cordiale popolo turco è il nostro dolore».

“Divieto di trasmissione” per un terrorismo che non passa

L’emittente statale turca RTÜK ha annunciato che, in seguito all’esplosione, tutti i media del paese sono soggetti a un «divieto di trasmissione» in base a una legge approvata di recente che punisce severamente la diffusione di informazioni false sui giornali e su Internet: per questo le notizie che stanno circolando sull’evento non sono moltissime.

Ma non sono necessarie molte informazioni per proiettare il singolo episodio all’interno di uno scenario tanto ampio quanto avvilente: anche in Turchia c’è un passato che non passa e si accompagna ad antiche vicende e nuovi problemi, dalla questione curda alla guerra di Siria. Il terrorismo costituisce ancora una sanguinosa variabile dell’attualità turca.

Gaia Cautela

La Turchia dice “No” all’ingresso di Svezia e Finlandia nella Nato: i motivi della scelta e le richieste avanzate dal paese

Svezia e Finlandia vorrebbero entrare a far parte della NATO, ma la Turchia non sembra essere d’accordo. Così il presidente turco blocca l’ingresso dei due paesi scandinavi alla collaborazione per la sicurezza internazionale.

I motivi della Turchia e le sue richieste

L’unico paese ad avere bloccato l’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO è la Turchia. Per fare ingresso nell’organizzazione internazionale non un solo membro dev’essere a sfavore, pena il blocco della procedura d’entrata. La domanda, dunque, sorge spontanea: perché la Turchia è contraria all’ingresso di due paesi che potrebbero aumentare la sicurezza dell’organizzazione? Ebbene sembra esserci più di un motivo.

“La NATO è un’alleanza per la sicurezza e la Turchia non sarà d’accordo nel mettere a repentaglio questa sicurezza”

Con queste parole, Erdogan, presidente turco, fa riferimento alla richiesta di estradizione di 30 terroristi che la Turchia aveva fatto a Svezia e Finlandia. I due paesi (soprattutto la Svezia) avevano dato sostegno ai curdi del Pkk, un’organizzazione considerata terroristica da Turchia, Unione Europea e Stati Uniti. Ankara chiede innanzitutto di cominciare le estradizioni finora bloccate, dal momento che la Svezia ha accolto sul suo territorio membri del Pkk fornendo loro protezione.

La Svezia intrattiene, inoltre, rapporti con l’Ypg, la milizia curda Unità di protezione popolare, con la quale ha condiviso i programmi d’addestramento organizzati dalla coalizione contro l’ISIS. Un’altra richiesta della Turchia è quella d’interrompere i rapporti con quello che ritiene un’alleato del Partito dei lavoratori del Kurdistan (l’Ypg), che rappresenta un pericolo per il paese con i suoi attacchi terroristici sferrati contro i civili.

La Turchia muove altre due richieste ai paesi scandinavi: l’estradizione dei membri di quella che i turchi chiamano Organizzazione del Terrore Gülenista del predicatore Fethullah Gülen e la rimozione dell’embargo sull’esportazione di armi in Turchia, approvato nel 2019 a seguito dell’operazione militare turca contro i curdi siriani.

Bandiera della Turchia (Fonte: informazionefacile.it)

Ingresso alla NATO: blocco o solo ritardo?

Molti si chiedono se l’intento della Turchia sia quello di bloccare l’ingresso di Svezia e Finlandia nella NATO o solo ritardarlo. Appare chiaro che il paese voglia solo ottenere qualcosa in cambio.

“Non stiamo dicendo che Finlandia e Svezia non possono essere membri della NATO, ma dobbiamo essere sulla stessa lunghezza d’onda riguardo alla minaccia che stiamo affrontando.”

Questo quanto dichiarato al Financial Times: il presidente turco rifiuta di dare sostegno ai due paesi per l’adesione alla NATO poiché non ne ha ricevuto quando ha chiesto loto di rimandare i terroristi in Turchia.

“Vogliamo raggiungere un accordo. Quanto prima riusciremo a raggiungere un accordo, tanto prima potranno iniziare le discussioni sull’adesione.”

Erdogan (Fonte: zazoom.it)

Il vero motivo della Turchia

Qualcuno pensa che le estradizioni non siano il vero motivo per cui la Turchia ha detto NO all’adesione di Svezia e Finlandia alla NATO. Tra poco più di un anno, infatti, in Turchia si terranno le elezioni e l’attuale presidente turco non sembra essere molto ben voluto dalla popolazione. La possibilità di una sconfitta non è poi così distante dalla realtà. La pressione di Erdogan sulla questione del Pkk potrebbe esaltare la sua posizione agli occhi della gente. La popolazione turca, così come il governo, danno un grande peso al fatto che un’organizzazione ritenuta terroristica dall’Unione Europea e quindi anche da Svezia e Finlandia che ne fanno parte, trovi rifugio negli stessi paesi. Il presidente ne approfitta per far leva sulla questione:

“Nessuno dei due paesi ha una posizione chiara nei confronti delle organizzazioni terroristiche, come possiamo fidarci di loro?”

La Turchia, però, sembra essere aperta a compromessi e molti membri della NATO credono che presto si arriverà ad un accordo.

Sede Nato (Fonte: dhnet.be)

Eleonora Bonarrigo

Biden riconosce ufficialmente il genocidio armeno: “Gli orrori non si ripetano mai più”

Lo scorso sabato, nel giorno del 106mo anniversario dell’inizio dei massacri armeni perpetrati dall’impero ottomano, il presidente degli Stati Uniti Joe Biden ha ufficialmente riconosciuto il genocidio armeno in una dichiarazione diffusa dalla Casa Bianca.
Il 106mo anniversario del genocidio armeno a Los Angeles. Fonte: ANSA.it
Si è trattato di un gesto – senza precedenti nella storia della presidenza americana – che non è stato affatto ben accolto dal presidente turco Erdogan, il quale ha prontamente denunciato “la politicizzazione da parte di terzi” del dibattito sul genocidio, in un messaggio rivolto al patriarca armeno.   Prima di Biden, soltanto l’ex presidente Ronald Reagan aveva citato «il genocidio degli armeni» – comunque non in via ufficiale – in un passaggio di un documento del 1981 sull’olocausto, senza però più farvi ulteriore riferimento in seguito.

La scelta simbolica di Biden e le diverse reazioni

La decisione di utilizzare la parola ‘’genocidio’’ – anziché altre – per alludere alla tragedia possiede senz’altro un valore simbolico atto a ‘’confermare la storia’’, e “non a incolpare” la Turchia:
«Ogni anno, questo giorno, ricordiamo le vite di tutti quelli che sono morti nel genocidio armeno in epoca ottomana e ci impegniamo di nuovo a prevenire che tali atrocità accadano di nuovo». «Onoriamo le vittime del Meds Yeghern (Grande Male), in modo che gli orrori di quanto è accaduto non vadano mai persi nella storia», scrive Biden.
Il gesto del presidente americano rischia tuttavia di avere serie conseguenze sulle relazioni USA-Turchia, già tese durante la presidenza Trump: la Turchia, erede dell’impero ottomano, si rifiuta da oltre un secolo di riconoscere il genocidio armeno, reagendo in modo brusco contro i paesi che lo fanno. Così era stato quarant’anni fa con l’accenno di Reagan e così è stato anche nei giorni scorsi, quando Biden ha anticipato a Erdogan l’intenzione del riconoscimento; subito dopo il ministero degli Esteri turco avrebbe infatti fatto sapere che un tale gesto sarebbe stato considerato un affronto. Su Twitter il ministro degli Esteri turco, Mevlut Cavusoglu, ha fatto sentire la sua:
«Le parole non possono cambiare o riscrivere la storia. Non possiamo prendere lezioni da nessuno sulla nostra storia. L’opportunismo politico è il più grande tradimento della pace e della giustizia. Rifiutiamo totalmente questa spiegazione, la cui unica base è il populismo».
Il riconoscimento Usa è stato invece plaudito dal premier armeno Nikol Pashinyan, che ha definito quello di Joe Biden un ‘’passo potente’’, mentre poco prima l’ambasciatore armeno negli Stati Uniti, Varuzhan Nersesyan, ha commentato nel seguente modo durante un’intervista della Cnn:
«Quello del presidente Biden è un atto di grande leadership morale contro una lunga storia di negazionismo». «Il genocidio armeno non è solo una vicenda del passato o che riguarda solo il popolo armeno, ma è una questione che riguarda tutti, per evitare nuovi genocidi nel futuro».

Un po’ di storia sul Genocidio armeno

Fonte: Avvenire
Il genocidio armeno, termine con cui si definisce la deportazione e l’eliminazione del popolo armeno, avvenuto negli anni 1915 e 1916 ad opera dell’impero ottomano. A partire dalla notte tra il 23 e il 24 aprile del 1915, il governo turco avviò infatti una campagna sistematica di arresti e deportazioni degli armeni, con il mero pretesto che fossero nemici interni alleati con Francia e Russia durante la Prima guerra mondiale. Secondo le stime degli storici, furono almeno 1,5 milioni le vittime di quei massacri. Ad oggi Ankara riconosce l’uccisione di un gran numero di armeni (anche civili) da parte dei turchi, ma contesta l’idea di un piano per il loro sterminio. Inquadrando tali uccisioni nel quadro confuso e violento della guerra il governo turco continua a negare categoricamente che sia avvenuto un vero e proprio genocidio. La posizione di Ankara rimane dunque fermamente negazionista a riguardo, nonostante l’attuale leader turco Recep Tayyip Erdoğan arrivò vicino al riconoscimento delle sofferenze subite dagli armeni nel 2014, quando offrì le sue condoglianze per i massacri.

Le tensioni tra USA e Turchia si inaspriscono

Le ragioni per cui Biden ha deciso di aspettare tre mesi prima di fare la sua prima telefonata da presidente a Erdoğan sono i già complicati rapporti tra i due paesi: mentre gli Stati Uniti criticano il modo in cui vengono trattati i giornalisti e l’opposizione in Turchia, quest’ultima vorrebbe che gli Usa consentissero l’estradizione del religioso Fethullah Gülen, accusato di aver organizzato il tentato colpo di stato in Turchia nel 2016 e che vive ormai da anni in Pennsylvania.
Fonte: Huffington Post
Ad inasprire ulteriormente i rapporti, l’avvicinamento negli ultimi anni della Turchia alla Russia. Si pensa infatti che, dopo la recente decisione di Biden sul genocidio armeno, la Turchia (membro della NATO) potrebbe organizzare ritorsioni politiche ed economiche, oppure limitare l’utilizzo delle basi sul territorio per l’esercito americano, fondamentali per le operazioni in Medio Oriente.

Riconoscimenti del genocidio nel mondo

Il movimento per riconoscere il genocidio degli armeni a livello internazionale si fa sempre più strada: secondo l’Armenian National Institute di Washington, sono 30 in tutto i paesi del mondo che hanno riconosciuto il genocidio, Italia compresa. Sebbene la diffusione del concetto di ‘’genocidio’’ si deve in parte all’ONU, quest’ultima non ha mai preso posizione in merito ai massacri subiti dal popolo armeno, ricordando di essere stata fondata solamente trent’anni dopo gli accaduti (nel 1945) e di non aver potuto quindi indagare direttamente sui fatti. Per quanto concerne invece gli Stati Uniti, sia la Camera che il Senato americani avevano approvato a larga maggioranza nel 2009 una mozione per il riconoscimento del genocidio.
La mappa dei paesi che riconoscono il genocidio armeno. Fonte: Bunte Kuh

Le parole dei presidenti americani agli armeni

Negli Stati Uniti vivono all’incirca due milioni di armeni-americani, gran parte dei quali sono discendenti degli armeni sopravvissuti al genocidio. In passato sono sempre state dedicate delle parole agli armeni dai presidenti americani, in occasione di quel 24 aprile riconosciuto come il ‘’Giorno del Ricordo per il genocidio armeno’’, senza però mai usare esplicitamente la parola “genocidio”. Barack Obama, ad esempio, nei suoi due mandati da presidente ha utilizzato parole come «atrocità di massa», «orrore» e «tragedia», nonostante le promesse di riconoscimento del genocidio fatte durante la campagna elettorale del 2008. Biden, che ha promesso lo stesso durante la sua di campagna elettorale, ha invece dimostrato di saper mantenere la parola.

Gaia Cautela

Lotta alla violenza sulle donne: la Turchia si “ritira” dalla Convenzione di Istanbul

La Convenzione firmata proprio a Istanbul

Le proteste delle donne turche in seguito alla decisione sulla Convenzione di Istanbul (fonte: tg24.sky.it)

Il governo turco si dice “sinceramente” impegnato nel salvaguardare le donne come meritano. Questa la dichiarazione, via Twitter, del vicepresidente Fuat Oktay, in seguito a un evento sconvolgente per l’intera Europa: la Turchia esce dalla Convenzione di Istanbul contro la violenza sulle donne.

La decisione è arrivata nella notte tra il 19 e 20 marzo, resa pubblica con un comunicato del presidente Recep Tayyip Erdogan.

“Non è necessario cercare rimedi esterni o imitare gli altri per questo obiettivo fondamentale. La soluzione invece è nelle nostre tradizioni e costumi, in noi stessi” ha aggiunto il vicepresidente, per spiegare la scelta del governo

Ancor prima di analizzare gli eventi e le reazioni scatenatesi, positive e negative, bisogna sottolineare che ci troviamo di fronte a un doppio apparente paradosso: la Turchia è stato il primo Paese ad accettare il trattato del 2011, promosso dal Consiglio d’Europa, noto come Convenzione di Istanbul proprio perché ratificato nella metropoli turca; inoltre, fu proprio il presidente Erdogan a firmare. Negli anni successivi alla ratifica, il presidente aveva anche spesso citato tale scelta per dimostrare i progressi dello Stato nell’ambito della parità di genere.

Il testo firmato finora da 34 – ora 33 – Stati, prevede che i governi firmatari formulino una legislazione per la protezione delle donne da violenze, da tutti gli abusi, anche la violenza coniugale e le mutilazioni genitali femminili, oltre che la discriminazione di genere. Conosciuto anche come “trattato 210” del Consiglio d’Europa, prevenzione, protezione, azione giudiziaria e coordinamento delle politiche sono i punti fondamentali su cui si basa. Gli Stati che vi hanno preso parte si impegnano, dunque, in una serie di misure che assicurino una drastica riduzione dei fenomeni di abusi e la presa in carico delle vittime.

 

L’esultazione dei conservatori islamisti

Secondo alcuni esperti analisti, Erdogan avrebbe operato questo ulteriore strappo con l’Europa per il favore dell’ala conservatrice dell’elettorato e del suo stesso partito, l’Akp.

Il presidente Erdogan (fonte: ansa.it)

Per i conservatori islamisti, la Convenzione sarebbe contraria ad alcuni principi dell’Islam, minando al concetto di “famiglia tradizionale”, incoraggiando i divorzi, ma anche l’omosessualità, sostenendo e proteggendo i diritti della comunità lgbt+.

Già da alcuni anni, però, la linea politica del presidente ha virato verso un’ideologia e un’azione sempre più autoritaria e conservatrice, lontana da politiche di eguaglianza.

Il ministro della Famiglia, del Lavoro e dei Servizi sociali, Zehra Zumrut Selcuk, ha scritto su Twitter che la Costituzione turca prevede già delle norme sufficienti a garantire i diritti delle donne, che la Turchia continuerà a reprimere senza tolleranza la violenza sulle donne.

“La Convenzione di Istanbul è stata un’importante iniziativa”, ma “ha ormai perso la sua funzione originaria e si è trasformata in una ragione di tensioni sociali”, ha commentato l’associazione di donne islamicheKadem”, di cui vicepresidente è la figlia di Erdogan, Sumeyye.

In realtà, la Turchia non è stato il primo Paese ad uscire dalla Convenzione. Già la Polonia, nel luglio 2020, ha deciso di abbandonare gli accordi. Il partito conservatore di diritto e giustizia, il PiS, al vertice del governo, ha così scelto sostenendo che il testo contiene concetti ideologici da esso non condivisibili, tra cui la distinzione tra sesso “socio-culturale” e sesso “biologico”.

Inoltre, alcuni Paesi hanno sin dall’inizio deciso di non firmare, quali Russia e Azerbaigian, ma molti altri – Armenia, Lettonia, Liechtenstein, Lituania, Moldavia, Slovacchia, Repubblica Ceca, Regno Unito, Ucraina – non hanno ancora proceduto con la ratifica dell’accordo, nonostante la firma.

 

Le critiche dall’opposizione turca, dall’Europa e dall’Italia

L’opposizione non ha tardato a farsi sentire. Il Chp, tramite il suo numero due Gokce Gokcen, ha detto che abbandonare la Convenzione significa considerare “le donne cittadine di seconda classe e permettere che vengano uccise”.

(fonte: ansa.it)

In effetti, in Turchia la problematica è ancora più grave rispetto alle altre situazioni europee. Secondo le stime fornite dall’Organizzazione mondiale della Sanità, il 38% delle donne turche è stata vittima di violenze da parte del partner almeno una volta nella loro vita, percentuale che in Europa è del 25%. Secondo un’associazione che monitora i casi di violenza, nel Paese, ci sono stati almeno 300 femminicidi, 171 avvenuti in circostanze sospette; in questi primi mesi del 2021 ce ne sono stati 77.

Eppure, per il governo turco, il Paese non avrebbe bisogno di “spinte” dall’esterno.

Anche il segretario generale del Consiglio d’Europa, Marija Pejcinovic Buric ha commentato la vicenda definendola un pericoloso passo indietro, avvenuto, tra l’altro, a pochi giorni dal decennale della Convenzione. Aveva ricordato gli importanti progressi registrati dal 2011, ma aveva anche lanciato un monito, sottolineando la necessità di continuare ad agire con determinazione, poiché questa piaga continua a mietere vittime ogni giorno.

“Il numero di telefonate ricevute dai centri specializzati nell’assistenza alle vittime della violenza domestica è aumentato durante l’applicazione delle misure anti-Covid” ha detto il segretario. Il coronavirus, infatti, ha spostato la violenza dalla strada in casa, dando a mariti e conviventi violenti più possibilità di colpire facilmente, rendendo più difficoltosa l’individuazione di situazioni pericolose e il conseguente soccorso, oltre che la richiesta di aiuto da parte delle stesse vittime di abusi.

Il segretario Pejcinovic Buric, inoltre, ha spiegato che in Turchia movimenti politici attaccano la Convenzione di Istanbul a causa di un’interpretazione sbagliata dei suoi obiettivi. Questo ha favorito il ritiro del Paese.

“La Convenzione del Consiglio d’Europa che ha riconosciuto la violenza contro le donne quale crimine contro l’umanità era stata approvata proprio nella capitale turca e la Turchia era stata il primo paese a firmarla: fu un doppio segno di speranza e un messaggio rivolto a quei Paesi che, per religione e tradizioni, sono ancora indietro nel riconoscimento dei diritti delle donne. Un pilastro della legislazione internazionale sui diritti e contro la violenza di genere.” ha detto la senatrice italiana Valeria Valente, presidente della Commissione di inchiesta del Senato sul Femminicidio e la violenza di genere.

“Il ritiro della Turchia conferma la preoccupazione sentita da tempo da tutte le donne impegnate contro la violenza alle donne” ha affermato Marcella Pirrone, avvocato di D.i.Re e presidente di WAVE, Women Against Violence Europe. L’avvocato ha ricordato che Ong, in particolare quelle specializzate nella lotta alla violenza contro le donne, avevano già lanciato assieme al Consiglio d’Europa e alla Commissione Europea un forte allarme rispetto ai movimenti politici di alcuni Paesi – Turchia, paesi del gruppo Visegrad4, Bulgaria – che avevano assunto posizioni di forte contrasto e opposizione ai principi sanciti dalla Convenzione, rappresentando un’assurdità nel 2021 e, soprattutto, ai tempi di una pandemia.

 

Numerose manifestazioni contro la decisione

Migliaia di donne turche sono scese in piazza. Le manifestazioni più corpose si sono svolte a Kadiköy, la roccaforte laica sulla sponda asiatica della metropoli sul Bosforo, dove si sono incontrati diversi movimenti femministi, Ong e partiti di opposizione.

(fonte: tg24.sky.it)

«Non potrete cancellare in una notte anni di nostre lotte. Ritira la decisione, applica la Convenzione» è lo slogan al sit-in, organizzato dalla piattaforma indipendente “Fermiamo i femminicidi”.

Manifestazioni più piccole si sono tenute anche nella capitale Ankara e nella città di Smirne. Non sono mancati momenti di tensione con la polizia, ma le turche non si vogliono fermare. Già nelle scorse settimane si sono verificate proteste contro il governo, accusato addirittura di favovire le violenze. Manifestazioni tutte sedate duramente dalle forze dell’ordine.

“Ecco il vero volto del governo turco: disprezzo totale per lo stato di diritto e regressione sui diritti umani.” ha dichiarato il relatore sulla Turchia al Parlamento europeo, Nacho Sanchez Amor.

Dunque, la protesta delle donne turche ci ricorda che, in realtà, ancora una volta, non si tratta di Paesi o religioni, ma di singoli uomini e, paradossalmente, singole donne, che decidono per altri. Un fatto – riprendendo le parole della senatrice Valente – “gravissimo”, “un precedente inaccettabile” e “un ulteriore passo verso l’isolamento dal consesso occidentale” per la Turchia.

 

Rita Bonaccurso

 

Turchia in fiamme: la lettera degli studenti che denuncia gli attacchi terroristici

(fonte: hurriyetdailynews.com)

 

Più di 400 ettari di verde sono stati devastati negli incendi scoppiati tra il 9 e il 10 ottobre nella provincia di Hatay (Turchia): nel silenzio delle autorità, la gente è convinta che si tratti di attacchi terroristici.

Già nel mese di settembre la medesima regione era stata colpita da un incendio che aveva raso al suolo 150 ettari di terreno nelle zone di confine con la Siria, tra le città di Antiochia e Samandağ.

La lettera dei residenti di Hatay

Giorno 10 ottobre, i cittadini stremati hanno deciso di lanciare un appello tramite una lettera con cui Eren Buğra Biler, portavoce della popolazione di Hatay, ci ha informato delle condizioni in cui riversa la sua regione.

Innanzitutto, questo incendio non è un disastro naturale o una qualche disgrazia divina. Tutto sta avvenendo di proposito.

Così recita l’articolo, subito dopo una premessa che vuole scongiurare alcun tipo di propaganda politica di parte.

“Il primo incendio è scoppiato ad İssume e tutti credevano che fosse dovuto ad un guasto del trasformatore elettrico, poi si è espanso fino ad una foresta ove ha distrutto più di 300 ettari di terreno. Proprio quando il fuoco è stato posto sotto controllo e tutti credevano di poter tirare un sospiro di sollievo, un nuovo incendio è scoppiato a 100 metri di distanza causando la distruzione di altri 100 ettari.”

Secondo Biler, sarebbe attribuibile al vento (che quel giorno viaggiava a 75 km/h) la causa dell’espansione delle fiamme, che in poco tempo hanno raggiunto i centri abitati di Nardüzü, Karahüseyinli e Karaağaç.

(I centri abitati interessati dagli incendi, provincia di Hatay – fonte: citypopulation.de)

 

“Sembra tutto abbastanza naturale per un incendio, non è vero? Successivamente un nuovo incendio è divampato a 3 km dal primo, a Çankaya, ma fortunatamente è stato subito domato. Ancora un altro è scoppiato a 2 km dai primi due e, mentre il primo si diffondeva ancora, ne sono divampati l’uno dopo l’altro.

E così, quando otto zone diverse hanno preso fuoco, la gente ha capito che non si trattava affatto di un disastro naturale. Mentre il governo e il consiglio cittadino non davano alcun tipo d’informazione, non c’erano più dubbi che si trattasse di un attacco terroristico.”

I dati e le dichiarazioni delle autorità

Più di trecento persone, cinquanta camion dei pompieri e due elicotteri sono stati impiegati per domare le fiamme e trecento civili sono stati evacuati dai centri residenziali coinvolti nel disastro.

Il sindaco del distretto, İbrahim Gül, ha in seguito dichiarato all’Anadolu Agency (un’agenzia di stampa di proprietà del governo turco) che si sospetta si tratti di incendio doloso. Quattro sono i sospetti fermati.

Il Daily Sabah, quotidiano pro-governo turco, ha dichiarato che ‘Figli del Fuoco’, un gruppo legato al Partito dei Lavoratori del Kurdistan, avrebbe di recente rivendicato gli attacchi.

Il messaggio di speranza

Mentre le autorità locali sono impegnate a ricercare i responsabili del danno, l’autore della lettera invita il maggior numero di persone possibili ad unirsi e non perdere la speranza:

“Migliaia di alberi, centinaia di animali sono andati perduti. Non è il momento di sprecare energie ad odiare questi terroristi, è il momento di supportare moralmente i residenti di Hatay. Dobbiamo unirci, dobbiamo riguadagnare la nostra forza, non possiamo rinunciare, gli uni hanno bisogno delle parole degli altri. Dobbiamo essere un’anima e un corpo per superare questo disastro!”

Il Ministro dell’Agricoltura, Bekir Pakdemirli, ha affermato che nessuno degli ettari bruciati verrà destinato ad utilità diverse dalla precedente. Cinque milioni di alberelli verranno piantati nelle zone interessate dagli incendi ed un evento di piantagione di massa, il ‘Breathe Into Future’, è stato programmato per l’11 novembre 2020.

 

(fonte: twitter.com)

 

Come aiutare?

L’autore della lettera ha lasciato l’indirizzo di due pagine Instagram da cui è possibile trovare nuovi aggiornamenti sulla situazione di Hatay: Iskenderuntube ed Hataytube.

In vista dell’evento dell’11 novembre, è stata lanciata la piattaforma ufficiale del Geleceğe Nefes (Breathe Into Future) a cui è possibile aderire affinché un alberello venga piantato nella zona della mappa che più si desidera. Al momento, la partecipazione nella regione di Hatay è del 90%, con più di 1.400.000 alberelli piantati.

Si tratta di un’iniziativa accessibile a tutti che mira a piantare circa 83 milioni di alberi in tutta la Turchia.

 

Valeria Bonaccorso