Psycho: Il Thriller Freudiano

Psycho, il complesso di Edipo Hitchcockiano. Voto UVM: 5/5

 

Psycho è un film prodotto e diretto dal maestro Alfred Hitchcock nel 1960. Il capolavoro è tratto dall’omonimo romanzo di Robert Bloch del 1959 il quale racconta le vicende reali del serial killer Ed Gein. Oggi il film viene considerato il principale cult thriller della storia del cinema e viene studiato in ogni corso e accademia cinematografica per aver cambiato le regole del gioco del genere thriller. Il film fu prodotto dalla Universal Pictures (1960)

LA TRAMA

Marion Crane (Janet Leigh), in preda all’incoscienza e al bisogno di una vita migliore, dopo aver rubato 40mila dollari al suo datore di lavoro Mr Lowery (Vaughn Taylor), decide di fuggire dalla città, ma per colpa della pioggia la vista le si appanna e si ritrova involontariamente di fronte al Bates Motel, affiancato da una casa imponente e tetra. Il proprietario dell’autostello è Norman Bates (Anthony Perkins), un giovane ragazzo bizzarro che stravolgerà le sorti di Marion.

 

Marion Crane in fuga da Phoenix. Psycho (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures
Marion Crane in fuga da Phoenix. “Psycho” (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures

Marion Crane in fuga da Phoenix. “Psycho” (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures

COS’È PSYCHO

La trama si limita a delineare in maniera poco esplicita la linea temporale dei principali eventi che ritroveremo all’interno della pellicola ma a malincuore quel che è stato fino ad ora enunciato è relativamente utile se non del tutto inutile. Psycho non è una storia, tanto meno un’avventura; Psycho è la malattia autoimmune che flagella le debolezze dei più sensibili animi umani. Alfred Hitchcock decide di far impugnare ad Edipo un coltello, lasciando ad egli carta bianca, ma tutto ciò resterà nascosto allo spettatore fino alla fine del film.

 

 

 

La scena della doccia in Psycho
“La scena della doccia”. “Psycho” (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures

 

SANGUE E FILOSOFIA

Sigmund Freud fu un grande Neurologo e Psicoanalista ma nella sua vita non partorì mai l’idea di dirigere un thriller; fin quando, inconsciamente senza chiederglielo men che meno pagandolo, Hitchcock decise di riportarlo in vita per co-dirigere insieme ad egli questo spaventoso colosso cinematografico. Ogni singola sequenza del film pullula di riferimenti alle teorie sulla psicoanalisi e al disagio della civiltà sui quali Freud dedicò molteplici scritti.

NORMAN BATES, IL NUOVO EDIPO

Nella concezione classica freudiana, il complesso edipico indica un insieme di desideri sessuali ambivalenti che il bambino prova nei confronti delle figure genitoriali: desiderio di morte e sostituzione nei confronti del genitore dello stesso sesso e desiderio di possesso esclusivo nei confronti del genitore di sesso opposto.
-Tre saggi sulla teoria sessuale
di Sigmund Freud

Se inizialmente, Marion e tutto il resto del pubblico, vedendosi di fronte un ragazzo goffo, timido e affettuoso nei confronti della madre, riescono ad entrare in empatia con Norman, non ci vorrà molto prima che costoro cambino totalmente idea. Verso lo spettatore Norman farà la trasformazione inversa rispetto a quella di Alex, il protagonista di Arancia Meccanica (Vedi recensione: Arancia Meccanica: la compassione della violenza). Il nostro protagonista diventerà uno schiavo innamorato delle catene che gli stringono i polsi e la gola fino a farlo soffocare perdendo la sua vera essenza. Norman Bates attua un finto suicidio nel tentare di recuperare tutti gli errori da lui commessi. E sua madre? Chi è la donna che sembra tenere al guinzaglio un povero innocente? Quanto ci si potrà fidare delle loro parole e quante di esse saranno vere e quante solo un riflesso?

Norman Bates in Psycho
Norman Bates”. “Psycho” (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures

LA GABBIA EDIPICA

Ispirata al dipinto del 1925 “House by the Railroad” di Edward Hopper, la casa dove abita Norman insieme alla madre premurosa rappresenta uno schema Freudiano dove appunto vi ritroviamo il piano del super io (il primo piano) dove Norman con le sue gesta opprime il piano dell’io (piano terra) che mostra una dimensione visibile a tutti coloro che si addentrano nell’abitazione. In fine ritroviamo l’inconscio (la cantina) dove il complesso edipico acquista la sua forma definitiva. Come volevasi ben dimostrare, la Casa di del signor Bates è l’archetipo del virus che si dilaga dentro un innocente tramutato nel mostro privo di identità.

“House by the Railroad” di Hopper e “La casa” di Psycho. “Psycho” (1960) di Alfred Hitchcock. Produzione: Universal Pictures

CURIOSITÀ

Il maestro Alfred Hitchcock, visionario per com’era, trattò Psycho come il suo figlio prediletto e per tale motivo riuscì ad ottenere per solo 9.000 dollari i diritti del romanzo di Robert Bloch e in seguito comprò tutte le copie per evitare che gli spettatori scoprissero il finale. Inoltre egli, nonostante avesse già diretto molti film a colore, scelse il bianco e nero per poter giocare con le varie intensità cromatiche del chiaro-scuro e per far risaltare in maniera esplicita ma non grottesca la violenza e il sangue. Per finire, un aneddoto divertente riguarda il trailer di Psycho: per destare un po’ di confusione nel pubblico, il regista decise che all’interno di esso doveva esserci lui stesso che visitava il Bates Motel spoilerando in maniera giocosa la pellicola.

COME GUARDARE PSYCHO

Psycho è un film da gustare in 2 tempi; per apprezzarlo fino in fondo serve una doppia visione anche a distanza di pochi giorni se non immediata. Durante la prima visione abbandonate ogni parola scritta fino ad ora e immaginate di star guardando un banalissimo film di Alfred Hitchcock. Una volta finito il film, ed aver fissato il vuoto cercando di metabolizzare il tutto; riguardate il film cercando di apprezzare ogni singolo dettaglio di uno stile di cinema che non ritornerà più.

Spero che mi stiano osservando, così vedranno: vedranno e sapranno, e diranno tutti: “Ma se lei non farebbe male neppure ad una mosca!”.

Pierfrancesco Spanò

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Il ritorno di Gerber nel nuovo romanzo di Donato Carrisi

Una lettura brillante e coinvolgente, dall’attrazione magnetica che ci proietta in un mondo pieno di lati oscuri e spirali di luce, alla costante ricerca della via giusta da seguire. Voto UvM: 5/5

 

Donato Carrisi ritorna nelle librerie italiane con il terzo volume del ciclo di Pietro Gerber La casa delle luci, edito da Longanesi per la collana La Gaja Scienza.

Sequel de La casa delle voci (2019, Longanesi) e La casa senza ricordi (2021, Longanesi), lo psicologo infantile Pietro Gerber, da cui proviene il nome della serie di romanzi, dovrà fare i conti con l’ennesimo mistero che si cela attorno alla figura di una bambina. Anzi, di due bambini.

Dall’esordio alle vette delle classifiche

Donato Carrisi, nato a Martina Franca (TA) il 25 marzo 1973, viene considerato il Maestro del Thriller su carta stampata.

Laureatosi in giurisprudenza con una tesi su Luigi Chiatti, ne è seguita poi la specializzazione in criminologia e scienza del comportamento. Non solo scrittore di romanzi ma anche sceneggiatore, drammaturgo, regista di serie tv e film d’autore, e collaboratore per il Corriere della Sera.

In televisione, coadiuva in numerose serie televisive marchiate Rai come Casa famiglia ed Era mio fratello, invece per Taodue di Mediaset in Squadra Antimafia – Palermo Oggi e Nassiryia – Per non dimenticare.

Dal romanzo d’esordio il suggeritore (2009, Longanesi) vince il premio bancarella 2009 e, successivamente, con l’edizione in francese le Chuchoteur, il Prix Livre de Poche 2011 e il Prix SNCF du polar 2011. Le sue opere thriller forse più famose,  La ragazza nella nebbia (2015, Longanesi), L’uomo del labirinto (2017, Longanesi) e Io sono l’abisso (2020, Longanesi), hanno trovato una trasposizione cinematografica di cui lo stesso Carrisi ne è stato regista.

Donato Carrisi
Donato Carrisi (al centro) presenta il suo nuovo romanzo “La casa delle luci” a Radio Deejay, con Nicola Savino (a sinistra) e Linus (a destra). Fonte: deejay.it

Cosa cela Gerber?

Pietro Gerber, protagonista della saga “Il Ciclo di Pietro Gerber”, è uno psicologo infantile, specializzato nell’ipnosi di bambini per aiutarli a superare dei traumi causati da eventi drammatici. Infatti, proprio per questa sua caratteristica, viene soprannominato “l’addormentatore di bambini”.

Ha trentatré anni e lavora a Firenze nel Tribunale dei minori, considerato dai suoi colleghi come il migliore nel suo campo.

Questa volta dovrà occuparsi del caso della piccola Eva, una bambina agorafobica di dieci anni, che vive in una grande casa in collina con la governante e una ragazza finlandese au pair, Maja Salo. Dei genitori nessuna traccia: il padre ha abbandonato la famiglia anni prima e la madre viaggia in giro per il mondo, comunicando con la figlia tramite sms.

Sarà proprio Maja a chiedere aiuto all’ipnotista Pietro Gerber. La bambina, che preferisce stare a casa rinchiusa senza voler vedere nessuno, sembra non essere più sola. A farle compagnia c’è un presunto amico immaginario senza nome e senza volto. Non è però solo un amico immaginario e potrebbe portare la piccola in pericolo.

Pietro, al fronte di una reputazione quasi allo sbaraglio, accetta il confronto con Eva. O meglio, con il suo amico immaginario.

Ma ciò che si troverà davanti va oltre il pensiero umano: la voce del ragazzino che comunica attraverso Eva non gli è indifferente. E, soprattutto, quella voce conosce Pietro. Conosce il suo passato e sembra possedere una verità rimasta celata troppo a lungo su qualcosa che è avvenuto in una calda estate di quando lui era ancora bambino.

Perché sentiva una specie di desiderio segreto dentro la pancia. E voleva sapere cosa si prova a sfidare Dio. Ma ora so che a Dio non importa se i bambini muoiono. E il signore con gli occhiali voleva provare almeno una volta a sentirsi come si sente Dio, prima di diventare vecchio e di morire… Perché la sua vita non gli piace, la sua vita è tutta una bugia.

Fronteggiando l’ignoto

Con i primi due romanzi della serie, il personaggio di Pietro Gerber è riuscito a farsi conoscere: un protagonista all’apparenza tutto d’un pezzo, disteso nel suo ruolo da psicologo infantile e fermo nella sua logica pungente. Ma addentrandosi nella narrazione, le fragilità tendono a scoprirsi piano piano, ponendosi in bilico tra il suo passato avvolto nell’oscurità e il presente incerto delle sue basi d’appoggio.

Gli interrogativi sono molti, tanti, e non tutti hanno la propria risposta esaustiva. Carrisi lascia sospeso il racconto, dove al di là si trova un’atmosfera cupa, coerente con l’ambientazione. Non è una novità e neanche una fatalità che gli elementi paranormali, le paure della mente e dell’immaginario, le presenze oscure, fanno un po’ leva e anche da protagoniste, nel turbinio di emozioni che lo stesso Gerber, ma anche chi intraprende il viaggio con lui, si trova ad affrontare a pieni polmoni.

La lettura è lenta ma scorrevole, razionale ed oggettiva nella descrizione, tutti i punti sono ben trattati e non lascia nulla al caso. Anche i pensieri espressi dai personaggi hanno un che di razionale, quasi a non volersi scomporre troppo, per non doversi aprire e temere un improvviso out of character.

Una nota di merito, come spiega lo stesso Carrisi nelle note dell’autore alla fine del romanzo, si deve fare sulle pratiche ipnotiche presenti nella storia, che sono effettivamente quelle utilizzate nelle terapie, così come gli effetti prodotti. Lo studio meticoloso di Carrisi, forte del contributo di professionisti qualificati e certificati, come cita nei ringraziamenti finali, non si ferma solo sugli effetti scientifici ma frantuma la “quarta parete cinematografica”, piazzando davanti ai nostri occhi un testo ricco di potere metaforico racchiuso nelle parole e nei frammenti di ignoto che, via via, si incastonano uno con l’altro, dando vita alla storia de La casa delle luci.

 

Victoria Calvo

Ultima notte a Soho: quando il sogno diventa incubo

Thriller coinvolgente e denso di suspense con grande attenzione a musiche e ad effetti speciali – Voto UVM: 5/5

 

Vi è mai capitato di desiderare intensamente qualcosa per poi rimanere delusi quando si avvera, di rendervi conto che non era effettivamente ciò che volevate? Molto spesso può succedere che noi stessi arriviamo ad ingannarci, a mistificare i nostri desideri a tal punto che non possono in alcun modo coincidere con la realtà.

Questo è un po’ il tema centrale di Ultima notte a Soho. Uscito nelle sale italiane il 4 Novembre, il thriller psicologico (a tratti horror) di Edgar Wright è stato presentato anche alla mostra del cinema di Venezia 2021.

Protagoniste  in questa pellicola sono Anya Taylor-Joy ( già nota per il  suo ruolo nella serie La regina degli scacchi) nei panni di Sandy, e Thomasin McKenzie ( la ragazzina ebrea di Jojo Rabbit) che interpreta Ellie. Ultima notte a Soho è stato inoltre l’ultimo film in cui hanno recitato Diane Rigg e Margaret Nolan, entrambe defunte nel 2020.

Tutto parte da un sogno

Sandy e Jack al loro primo incontro

Ellie Turner, giovane amante della moda e degli anni ’60,vive con la nonna in Cornovaglia (la madre si è suicidata quando lei era piccola), ma si trasferisce a Londra per studiare moda. Qui affitta una camera dall’anziana signora Collins, e dalla prima notte viene trasportata indietro nel tempo, nella Londra degli anni ’60. Qui è come se si identificasse con una giovane aspirante cantante, Sandy, di cui seguirà le vicende notte per notte.

Sandy, annebbiata dal desiderio di diventare una star, si fa ingannare dall’affascinante Jack, interpretato da Matt Smith (noto per il ruolo del Principe Filippo nella serie The crown).  Il sogno di Ellie di vivere gli anni ’60 si tramuta presto in un incubo: ogni notte è costretta a vivere con Sandy gli abusi di cui è vittima e a vedere tutti gli uomini con cui la giovane cantante è obbligata ad avere rapporti.

Ellie e Sandy: l’una il riflesso dell’altra

Sandy ed Ellie, riflessa nello specchio

Anche se Sandy non può vedere Ellie, tra le due si crea un legame particolare: è come se Ellie si immedesimasse completamente in lei, nel suo dolore.  Emblematica è a mio parere una scena in cui Ellie rompe lo specchio che per tutto il film la separa dalla realtà degli anni ’60 e da Sandy di cui è quasi il riflesso per  raggiungere quest’ultima e salvarla.

Inoltre per avvicinarsi ancora di più a lei, ne emula i vestiti, i capelli, ne trae ispirazione per gli abiti che crea nel suo corso di moda. Questo però solo in un primo momento: quando la vita di Sandy diventerà un susseguirsi di abusi, Ellie cercherà di distaccarsi, di rigettarla per quanto possibile.

Musica ed effetti speciali non troppo speciali

Ultima notte a Soho crea una totale atmosfera di suspense, che a mio parere è dovuta specialmente alla scelta della canzone Downtown: molto spesso nei thriller o negli horror, la musica soft, magari anche un po’ straniante, può creare più angoscia degli effetti speciali in sé (pensate all’innocente canzoncina per bambini in Profondo Rosso di Dario Argento). Downtown di Petula Clark è proprio il brano scelto da Sandy per un’audizione organizzata da Jack in un nightclub di Soho.

Non sono da meno gli effetti speciali, molto semplici: non assistiamo mai a scene splatter o comunque particolarmente violente. Originale a mio avviso è l’utilizzo dello specchio come linea che divide Ellie da Sandy durante i sogni: solamente quando lo romperà, le due realtà andranno come a fondersi nella vita di Ellie.

Ellie che rompe lo specchio per salvare Sandy

Il trauma dell’abuso

A creare molta suspense sono gli uomini sfigurati che compaiono lungo tutta la durata del film (anche qui effetti speciali molto semplici, ma sicuramente ben fatti e ben collocati).

Gli uomini che abusano di Sandy sono resi mostruosi, disumanizzati: è lei stessa che, per distaccarsi il più possibile dalla terribile realtà, cerca di ignorarli e di seppellire i suoi traumi.

Forse, pensandoci, questo film diverrà ancora più forte visto dagli occhi di una donna, che magari si può meglio immedesimare in Sandy e vedere in quelle figure non solo dei semplici mostri, ma lo spettro di un abuso.

Un thriller in piena regola

Ultima notte a Soho è una pellicola avvincente, che con le sue tecniche di sceneggiatura, i suoi effetti e le sue musiche coinvolge completamente il pubblico nella trama. Uno spettatore più attento potrà anche vedere ciò che si nasconde nel profondo dietro a questa storia: il sogno che nel realizzarsi si tramuta in incubo, sia per Ellie che per Sandy.

A questo punto non vi resta altro da fare che comprare un biglietto e godervelo al cinema!

Ilaria Denaro

 

Oltre la notte, un thriller introspettivo per raccontare il terrorismo

In questo 2020 dilaniato dalla pandemia da Coronavirus, non avremmo mai potuto pensare che ci fosse spazio per nuovi attentati terroristici di matrice islamica in alcune città europee. Giorni fa i media ci hanno riportato i fatti di Nizza – già reduce di un attacco nel luglio 2016 – e di Vienna, che fino ad ora non era mai stata colpita.

Rimanendo in tema con i drammatici accadimenti di questi giorni, vi proponiamo la recensione di una pellicola del 2017 del regista Faith Akin “Oltre la notte”, che mostra un’altra faccia del terrorismo, spesso meno nota a molti.

Fonte: Mymovies, Diane Kruger

Trama

Oltre la notte è un film ambientato nell’odierna Germania. La protagonista è Katja (Diane Kruger), una donna tedesca sposata con Nuri (Numan Akar) uomo di origini turche che in passato è stato in carcere per spaccio di stupefacenti. I due hanno un figlio di sei anni di nome Rocco.

Fonte: Panorama, Katja e Nuri (Numan Akar)

La vita di Katja viene sconvolta in una sera, quando percorrendo la strada per andare all’ufficio del marito (in un quartiere turco della città) trova molti poliziotti, transenne e tanta gente accorsa sul posto.

C’è stata un’esplosione proprio lì dove lavora Nuri; sia lui che il figlioletto Rocco sono morti. Katja in poche ore del pomeriggio ha perso praticamente tutto il suo mondo. Dalle prime indagini della polizia tedesca emerge subito che davanti all’ufficio qualcuno ha piazzato e fatto esplodere un ordigno. Purtroppo il passato dell’uomo legato alla droga fa subito pensare agli inquirenti che fosse coinvolto in qualche losco affare o che fosse attivo politicamente o addirittura finanziasse qualche associazione curda. Katja, nonostante il dolore, è più lungimirante. Secondo lei è un attentato di natura xenofoba, probabilmente di matrice neonazista.

La storia vera dietro il film

Il nostro regista, di origini turche, si è ispirato ad alcuni episodi di cronaca nera avvenuti tra gli anni ’90 e i primi 2000 da parte di un’associazione terroristica neonazista e xenofoba, la NSU, ai danni della comunità turca e di alcuni greci residenti in Germania. La polizia tedesca ricercava gli stessi colpevoli nel ristretto giro dei contatti delle vittime e negli ambienti legati al traffico di stupefacenti all’interno di queste stesse comunità, quasi a voler trovare una giustificazione a quelle stragi. Anni dopo la NSU rivendicò la paternità di quegli attacchi.

Originalità

Non siamo davanti alle solite storie di terrorismo, kamikaze e fondamentalismo islamico. Siamo davanti ad un attacco sferzato da gente proveniente dal cuore dell’Europa, una strage di matrice europea quindi da parte di “bianchi; una radice ideologica opposta a quella cui siamo stati abituati nel recente passato.

Non ci troviamo nemmeno davanti al solito thriller, allo scenario da “spionaggio” per andare alla ricerca dei colpevoli. Quello di Oltre la notte è un racconto introspettivo in cui viene messo in evidenza il dolore di una donna colpita dalla grave perdita del marito e del figlio. Non viene quasi per niente in rilievo il profilo psicologico degli autori del fatto, il regista si concentra sul profilo delle vittime e su come Katja (interpretata lodevolmente dalla Kruger) affronta la situazione.

Sempre un thriller sì, ma a sfondo introspettivo.

Fonte: Mymovies

La pellicola si struttura in tre parti: la famiglia, la giustizia, il mare. Un crescendo di suspense durante questi tre episodi; a fiato sospeso vediamo Katja affrontare il lutto, ricercare spiegazioni, chiedere giustizia e a tratti vendetta. Non mancano i colpi di scena ma –sicuramente – gli occhi di un attento osservatore riusciranno anche a cogliere un barlume di speranza che in qualche scena segnerà le vicende drammatiche della nostra protagonista.

Fonte: Movietele.it

Un thriller drammatico tratto da fatti di cronaca che è riuscito a conquistare molti premi cinematografici, tra cui il Golden Globe per il miglio film straniero e la Palma d’oro per la miglior interpretazione femminile a Diane Kruger al Festival di Cannes.

 Ilenia Rocca

 

 

 

 

Il terzo gemello a metà strada tra etica, genetica e mistero

Un thriller tra scienza ed etica. Voto UvM: 4/5

 

 

 

Il terzo gemello è un’opera dello scrittore britannico Ken Follet pubblicata nel 1996.

L’autore ci propone un accattivante thriller che affascinerà il lettore già dalle prime pagine.

La trama ha come ambientazione Baltimora in cui si presenta sulla scena una giovane e brillante ricercatrice universitaria, Jeannie Ferrami, alle prese con un ambizioso esperimento che si occupa di esaminare gemelli monozigoti separati per caso dalla nascita e cresciuti in contesti sociali ed educativi totalmente diversi.

Attraverso l’esame di questi gemelli, la nostra protagonista scoprirà se il carattere, l’indole o ancor di più la personalità di un individuo possano dipendere esclusivamente da fattori genetici oppure da fattori esterni al soggetto quali l’educazione impartita e il contesto familiare e sociale in cui ha vissuto.

Qualora convivessero questi due fattori, Jeannie dovrà capire in che misura possano essere determinanti oppure quale dei due potrà essere prevalente. Siamo esclusivamente ciò che viene codificato dal nostro Dna o siamo anche il risultato di quello che è il “nostro vissuto”?

 

Per riuscire a portare avanti la propria ricerca Jeannie si imbatte in una matassa da districare, un intrigo “all’americana” che vede come al solito coinvolta la Cia, il Pentagono, gli apparati militari e la tanto agognata corsa alla Casa Bianca.

L’arco temporale della vicenda si dilata in una settimana. Il racconto è lineare: non sono presenti flashback o ring composition; lo stile è scorrevole con una terminologia intellegibile anche quando lo scrittore si cala nel lessico di settore.

L'autore, Ken Follet
L ‘ autore Ken Follet, Wikipedia.org

 

Ken Follet propone al lettore un thriller a sfondo scientifico; non possono non fare da perno alla vicenda esperimenti di ingegneria genetica e il frequente ricorso alle biotecnologie. Fino a che punto sarà possibile utilizzare questi ingegni che il progresso ci ha fatto conoscere? Ed è qui che entra in gioco l’etica.

Dunque genetica, scienza, etica e mistero diventano grazie a Ken Follet “cornice di un quadro” che il lettore non potrà fare assolutamente a meno di ammirare.

                                                                                                                                                                                   Ilenia Rocca

La finestra sul cortile: quando il cinema diventa protagonista del film

Il semiologo francese Christian Metz, nel saggio Cinema e psicanalisi, afferma che gli spettatori cinematografici possono essere divisi in due categorie. In primo luogo c’è il sognatore che immobile, rilassato, nel buio della sala, come in un sogno, osserva un’illusione con cui non può interagire. Poi c’è il voyeur (termine francese che può essere semplicisticamente tradotto come “guardone”), che si introduce indisturbato nell’intimità dell’oggetto del desiderio, spiandolo come dal buco della serratura. 

Senza dubbio, nei cinefili più attenti, l’immagine dello spettatore-voyeur rievoca La finestra sul cortile, capolavoro di Alfred Hitchcock del 1954, tratto dal racconto di Cornell Woolrich.

Jeff (interpretato da uno splendido e spassoso James Stewart) un fotoreporter, è costretto all’immobilità a causa di una gamba rotta. Per trascorrere le afose giornate estive che gli restano prima della rimozione del gesso, osserva con un binocolo gli inquilini della palazzina di fronte alla sua finestra. Alcuni eventi sospetti osservati catturano la sua attenzione e grazie all’aiuto della devota fidanzata Lisa (interpretata dalla talentuosa Grace Kelly, che sembra nata per questo ruolo), comincia ad indagare.

Il sapiente gioco di alternare inquadrature convenzionali ed in soggettiva, attraverso il binocolo, suggerisce un rapporto strettissimo, spesso di immedesimazione, tra lo spettatore e Jeff. Come lo spettatore, Jeff osserva la realtà attraverso  una finestra che funge da schermo, ed un binocolo che funge da obbiettivo. Allo stesso tempo, come Jeff, lo spettatore è voyeur, vorrebbe avvertire i personaggi  dell’imminente pericolo, agire, ma non può muoversi, è immobile, incollato alla sedia. Ma non basta. Jeff difatti risulta essere anche regista, è colui che decide ciò che lo spettatore può vedere.

Jeff è un  personaggio statico, prototipo dell’inetto, che osserva la realtà ed è incapace di interagirvi. La vera azione viene svolta da Lisa, che per amore del fidanzato, arriva persino a mettere a rischio la vita. Solo alla fine il fotoreporter diventa attore della vicenda, quando l’azione si sposta nella sua camera, quando (riprendendo l’analogia esposta prima) si ha una rottura della quarta parete.

James Stewart veste i panni di Jeff

In generale, non è difficile identificarsi con il protagonista. Dopotutto, ancora oggi, basta guardarsi intorno per trovare tanti Jeff in mezzo a noi: lo vediamo incollato alla televisione davanti al reality di turno; lo vediamo cercare morbosamente dettagli sanguinosi sull’ultimo fatto di cronaca nera; più banalmente lo troviamo dietro un computer mentre si relaziona con il mondo attraverso uno schermo.

Una regia impeccabile, un soggetto accattivante,  una recitazione eccellente e mille spunti di riflessione . In poche parole un capolavoro che non può mancare nella lista dei film da vedere assolutamente.

Renata Cuzzola