Nascita di un premio Nobel: Quasimodo e il suo periodo messinese

Dopo diversi mesi di inattività eccoci tornati con un nuovo pezzo per la rubrica Personaggi. Si ricomincia con un articolo su uno dei poeti italiani più amati di sempre, Salvatore Quasimodo.
Il poeta premio Nobel per la letteratura è infatti indissolubilmente legato alla provincia di Messina, luogo dove ha passato i periodi dell’infanzia e della giovinezza e che nella sua poetica diviene l’emblema della felicità
perduta, un luogo mitizzato sempre presente nei suoi ricordi; Messina, inoltre, è la città che lo ha visto crescere, dove ha studiato e scritto i primi versi, e che pertanto ha svolto un ruolo importantissimo nella sua formazione artistica e personale.

Salvatore Quasimodo nasce a Modica, in provincia di Ragusa, nel 1901. Il padre Gaetano era un capostazione delle Ferrovie dello Stato e a causa del suo lavoro la famiglia Quasimodo gira diversi paesi della Sicilia orientale. Unico punto di riferimento, luogo sempre presente nei ricordi di infanzia del poeta sarà Roccalumera, un piccolo paesino della riviera ionica in provincia di Messina dove vivevano i nonni paterni. È proprio lì che Quasimodo scopre l’amore per la lettura. La zia Rosaria infatti, per tenerlo buono, gli leggeva i libri di scuola che erano appartenuti agli zii e che loro avevano custodito gelosamente timbrandoli con un “Biblioteca dei fratelli Quasimodo”.

Nel dicembre del 1908 il tristemente noto terremoto distrugge la città di Messina e tutti i luoghi che sicuramente il piccolo Quasimodo aveva visto mentre andava a trovare i nonni. Quando l’amministrazione ferroviaria invita il suo personale a trasferirsi a Messina per ripristinare il servizio in città, Gaetano Quasimodo, uomo giovane ed energico, accetta senza esitazione. Di lì a poco la famiglia si trasferisce da Terranova (oggi Gela) a Messina, prima in una baracca in legno, poi in una casetta in cemento in via Croce Rossa 81, nel quartiere americano. L’esperienza sarà ricordata dal poeta nel componimento “Al padre“, bellissima e struggente poesia scritta in occasione dei novant’anni del padre, in cui esalta la bellezza della terra siciliana e racconta la tragedia vissuta dalla Città dello Stretto.

Sempre a Messina, Quasimodo compie gli studi fino al conseguimento del diploma nel 1919 all’Istituto Tecnico “A. M. Jaci”, sezione fisico-matematica. All’epoca in cui frequentava lo Jaci conosce Salvatore Pugliatti (compagno di banco del fratello Ettore) e Giorgio La Pira e stringe con loro un’amicizia destinata a durare negli anni. Insieme fondano il mensile Nuovo Giornale Letterario, dove il poeta comincia a pubblicare i suoi primi versi.

Nel 1919 il padre del poeta ottiene una promozione e viene trasferito a Licata. Rosa Quasimodo, sorella del poeta (nonché moglie di Elio Vittorini) racconta che “lasciare Messina fu un vero dolore per tutti”.

Nello stesso anno Quasimodo, appena diciottenne si trasferisce a Roma dove convive con Bice Donetti, una donna che lavorava in un noto bar di Messina (tutt’ora esistente) e che in seguito diventerà la sua prima moglie.

Dopo aver passato un periodo di ristrettezze economiche, nel 1926 viene assunto al Ministero dei Lavori Pubblici con assegnazione al Genio Civile di Reggio Calabria. Il riavvicinamento con Messina e con il suo vecchio amico Pugliatti sono fondamentali e spingono il poeta, che aveva smesso di scrivere, a riprendere in mano la penna. È proprio in questo periodo che scrive Vento a Tindari, in cui Quasimodo ricorda con nostalgia la sua terra e gli anni felici del periodo di Messina che riecheggeranno sempre in tutti i suoi versi successivi.

Renata Cuzzola

L’Italia che trema: cosa succede?

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Tu immagina di svegliarti una mattina. Magari sei uno studente fuori sede. Ascolti il telegiornale, chiami a casa. Il panico che ti invade, fino a dentro le ossa, dai piedi all’ultima punta dei capelli. Prendi un pullman e arrivi in un posto… Ma non hai una casa dove tornare. Casa tua non c’è più.

Oppure ti svegli in piena notte, scappi in strada e la tua casa crolla davanti ai tuoi occhi. Non hai più niente. E le tasse, gli esami, il professore stronzo non sono più i problemi più grandi della tua vita.

E quel ragazzo che ti ha dato buca, la ragazza che non ricambia la cotta, i soldi che non bastano per i weekend alcolici non hanno più senso. Perché, in quel momento, vuoi o non vuoi, non hai una casa dove tornare. Quattro mura tra cui nasconderti, proteggerti, riprenderti, ridere, sognare.

Non hai più niente.

Ma che cosa sta succedendo? La terra è impazzita e basta? Perché tutto continua a tremare?

Scolasticamente, i terremoti sono vibrazioni o assestamenti improvvisi della crosta terrestre, provocati dallo spostamento improvviso di una massa rocciosa nel sottosuolo.

Ogni volta che si sviluppa un terremoto lungo una superficie di faglia, la zona ipocentrale si scarica (rilassamento) e vengono caricati i volumi adiacenti (lateralmente) alla faglia stessa. Tali volumi, sottoposti a un nuovo stato di stress, possono cedere (rompersi) e generare terremoti a loro volta.

Tutto questo sta accadendo in questo momento al nostro Appennino. Paradossalmente noi, zona sismica per eccellenza, siamo più ‘’protetti’’ per le continue micro scosse che si perpetuano nel tempo senza, quindi, causare questi accumuli di volumi.

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Purtroppo, i terremoti sono degli eventi naturali imprevedibili. I sismologi non si ritengono sorpresi, al contrario di noi, da quello che sta succedendo. Semplicemente doveva accadere, prima o poi. Quello che sorprende è come le case continuano a crollare, i luoghi a sparire.

Perché, comunque, l’Italia è un paese ad alto rischio sismico. E, allora, perché le case cadono? Domanda che si stanno ponendo anche Andrea Tertulliani e Carlo Meletti che, spiega, tutto questo processo è dato da un allineamento dell’appennino, è un processo iniziato molto prima anche del terremoto dell’Aquila, è qualcosa iniziato nel 1639. L’ultimo terremoto che ha distrutto Amatrice è, infatti, un ‘’gemello’’ proprio del terremoto accaduto in quell’anno di quel secolo.

Errori di calcolo, errori umani. È facile dare la colpa all’essere umano, il problema è che c’è tanto altro dietro le mura crollate delle nostre case.

Ma, intanto, l’Italia si sta deformando nel vero senso della frase. In particolare, I terremoti del 26 e del 30 ottobre hanno deformato una zona di oltre 600 chilometri quadrati. È quanto emerge dalla prima analisi dei dati del satellite radar Sentinel 1, del programma europeo Copernicus, elaborate dall’Istituto nazionale di Geofisica e Vulcanologia (Ingv) e dall’Istituto per il rilevamento elettromagnetico dell’ambiente del Consiglio Nazionale delle Ricerche (Irea-Cnr). Una prima valutazione delle osservazioni di Sentinel 1 aveva permesso ai tecnici del Consiglio nazionale delle ricerche e dell’Istituto nazionale di geofisica e vulcanologia di stabilire che in alcune zone il terreno si è abbassato fino a 70 centimetri e che l’area interessata dallo sprofondamento è di circa 130 chilometri quadrati.

In attesa di quello che accadrà, non possiamo fare nulla. Forse solo una cosa: capire, una volta per sempre, che l’uomo è niente in confronto alla forza della Natura che dà ma distrugge.

Elena Anna Andronico

 

Terremoto e soccorso russo: tutta la solidarietà racchiusa in un monumento

IMG_3353Alla base del viale Boccetta, affacciato su via Vittorio Emanuele II e dunque sul mare, si trova un largo alberato. Immerso nel selvaggio traffico cittadino, offre ristoro ai pedoni grazie a qualche panchina e ai tanti alberi con la loro imponente ombra. Anche la vista non è male: a fianco vi è la grandiosa fontana del Nettuno, di fronte il porto con la sua Madonnina. Ma quello che caratterizza davvero questa piazzetta è il significato che da qualche anno le è stato attribuito. Nel 2013, infatti, ha preso il nome di Largo dei Marinai Russi; inoltre al suo interno si trovano il busto dell’Ammiraglio russo Fëdor Fëdorovič Ušakov (1745-1817) padre spirituale della marineria russa e il monumento dedicato all’opera di soccorso dei marinai russi prestato ai messinesi dopo il terremoto del 1908. Tutto ciò testimonia la grande riconoscenza che la città di Messina, dopo oltre un secolo, mostra ancora nei confronti della marineria russa, alla quale è rimasta legata da quella terribile data in cui la nostra terra fu scossa, sconvolta, sconquassata.

Era il 28 dicembre 1908. Una data che ha segnato irreparabilmente Messina e che ogni messinese (ma non solo) ricorda perfettamente. Erano, infatti, all’incirca le 5:20 di quel freddo giorno di fine anno, quando un terribile terremoto in poco meno di 40 secondi distrusse la città intera, insieme a Reggio Calabria e a decine di comuni calabresi e siciliani che affacciano sullo stretto. Un terremoto di una forza impressionante a cui si aggiunsero, poco dopo, tre enormi onde anomale altrettanto distruttive. Quando le prime luci del mattino si alzarono sulla città, lo scenario che si presentò agli occhi dei sopravvissuti era sconvolgente: il 90% degli edifici era stato raso al suolo, il mare si presentava come un cimitero di detriti, quasi metà della popolazione non rispondeva più all’appello. Intanto impazzavano gli incendi, così come le numerose scosse di assestamento.

 

La macchina dei soccorsi non si mosse subito: tra le autorità cittadine, chi era morto, chi era scappato in preda al panico e dunque era impossibile organizzarsi. Inoltre le linee ferroviarie e quelle telegrafiche erano interrotte e quindi anche chiedere aiuto era diventato impossibile. Solo nel pomeriggio una delle torpediniere che erano ancorate nel porto, la “Spica”, riuscì ad uscire in mare aperto e a raggiungere Nicotera Marina, piccolo centro del Vibonese, da cui fu mandato il primo messaggio di aiuto a Roma.

I soccorsi dello Stato Italiano, però, arriveranno solo il 30: le navi dovranno attraccare in terza fila nel porto, dopo le navi russe e quelle inglesi.

I primi ad arrivare furono proprio i russi. Le loro navi si trovavano infatti al largo delle coste siciliane in quei terribili giorni, e, una volta saputo cosa era successo, senza indugio si diressero verso Messina, dove arrivarono all’alba del 29. Si trovarono di fronte una città fantasma, con altrettanti fantasmi, i sopravvissuti, che vagavano senza rifugio e senza pace, sotto la pioggia battente di quei giorni. L’aiuto della marineria dello zar fu essenziale: migliaia di persone furono tratte ancora vive da sotto le macerie. Tant’è che ad oggi sembra essere ricordato con maggiore sollecitudine il soccorso dei marinai russi, piuttosto che quello dello Stato  Italiano, di cui si spesso lamentano i ritardi e le inefficienze.

 

 

Comunque sia, a ricordo di quel pronto e solidale intervento, oggi possiamo ammirare il Monumento dei Marinai Russi. Già nel 1909, nella prima seduta del ristabilito consiglio comunale, si deliberò di erigere un monumento alla marineria dello zar; monumento che però sarà realizzato più di un secolo dopo, peraltro ad opera di alcune organizzazioni russe che lo hanno poi donato al comune di Messina. Il blocco bronzeo, raffigurante due marinai russi intenti a salvare dalle macerie due vite, è ispirato al bozzetto realizzato nel 1911 da uno scultore italiano a San Pietroburgo, Pietro Kufferle.

L’opera, inaugurata nel giugno del 2012, non a caso è stata posta di fronte al mare, proprio dove molto probabilmente sbarcarono i marinai russi nel 1908.

Forse non si tratta di un monumento con grande valore artistico, ma sicuramente fermandoci davanti ad esso siamo indotti al ricordo e alla riflessione. Perché dietro questa raffigurazione vi è non solo una delle pagine più tristi di questa città, ma anche una meravigliosa storia di umanità e solidarietà.

Francesca Giofrè

Ph: Giulia Greco

 

Santa Maria degli Alemanni: un angolo di gotico continentale, nel cuore del Mediterraneo

IMG_2932Più volte, nel corso del Medio Evo, le acque del Mare Nostrum sono state solcate da navi cariche di armati, dirette alla volta del Medio Oriente, in Terrasanta, a combattere quelle che sono passate alla Storia come le guerre di religione per antonomasia, le Crociate. Centinaia di migliaia di cavalieri, guidati dai principali monarchi dell’epoca, si imbarcano sotto il segno della Croce per liberare i luoghi santi del Cristianesimo dai musulmani; e, fra le loro schiere, si distingue una nuova tipologia di combattente, a metà fra il monaco e il guerriero, una figura in grado di conciliare il sanguinoso mestiere delle armi con i voti ecclesiastici e la devozione religiosa del clero. Nasce così l’epopea degli Ordini  monastico-cavallereschi: i Templari, i più celebri nell’immaginario collettivo; gli Ospitalieri, o Ordine di san Giovanni; e i Cavalieri dell’Ordine di santa Maria di Gerusalemme, meglio noto come Ordine Teutonico, in quanto composto esclusivamente di confratelli di origine tedesca.

Proprio questi ultimi, i Teutonici, ebbero modo, nel 1220, di incrociare la loro storia con quella della città di Messina, importante centro politico e militare del Mediterraneo da cui già nel 1190 erano partite le navi crociate guidate da Riccardo Cuor di Leone. In quell’anno infatti, all’allora Gran Maestro Hermann von Salza fu concesso di fondare un priorato dell’Ordine Teutonico nella città di Messina, per volere dell’imperatore Federico II di Svevia; proprio quel Federico II che, nel 1229, senza che venisse sparsa una sola goccia di sangue, riuscì a ottenere per i Cristiani importanti conquiste territoriali fra cui Gerusalemme, Betlemme e Nazareth, grazie alle trattative concluse con il sultano Al-Malik al-Kamil. Ma questa, naturalmente, è una altra storia…

Torniamo a Messina invece, e al priorato teutonico, perché proprio alla presenza dell’Ordine Teutonico si deve la costruzione della maestosa chiesa di santa Maria, detta “degli Alemanni”, cioè appunto “dei tedeschi”, perché una volta annessa al quartier generale dell’Ordine. Questa poderosa struttura, poi abbandonata dallo stesso Ordine sul finire del 1400, passata sotto il controllo della Confraternita dei Rossi, fu poi ampiamente danneggiata prima dalla caduta di un fulmine, nei primi del ‘600, e poi dal terremoto del 1783, a seguito del quale fu dichiarata inagibile e trasformata in un magazzino; in compenso, il terremoto del 1908 ne lasciò quasi indenni le rovine, consentendo quei lavori di ristrutturazione e consolidamento che ci permettono oggi di ammirarne i resti, nella via omonima, in prossimità dell’incrocio con la via Garibaldi.

IMG_2934La chiesa, oggi non più adibita al culto, conserva ancora la struttura originale a tre navate e tre absidi,benché la facciata anteriore, già arretrata a seguito del terremoto del 1783, sia oggi totalmente perduta, fatta eccezione per i resti del portale principale, custoditi al Museo Regionale. Resta invece in sede il portale laterale, i cui stipiti offrono un pregevole esempio di decorazione in stile gotico; l’arco, ornato dalle figure di angeli e profeti, culmina a sesto acuto in una figura di Cristo in trono dai tratti ancora severamente romanici, ed è sovrastato da una enigmatica mano benedicente.

 

L’interno, benché in buona parte spoglio e disadorno, si rivela nei lineamenti maestosi e possenti perfettamente in linea con lo stile gotico continentale, tipico del periodo, pur mancando in parte quell’ardito slancio in verticale che rende tutt’ora famose le grandi cattedrali francesi e tedesche dell’epoca. Una poderosa foresta sacra di pilastri a più colonne si presenta agli occhi del visitatore; le navate sono delimitate dagli inconfondibili archi a sesto acuto; dall’alto delle colonne, sui capitelli, spesso diversi fra loro, fanno capolino qua e là, in mezzo all’intricata decorazione floreale, volti umani o antropomorfi. Il piccolo cortile esterno conserva invece, oltre ad alcuni capitelli di epoche diverse, anche un piccolo frammento murario proveniente forse dall’ospedale annesso alla chiesa: ospedale in cui pare abbia trovato rifugio e cura, reduce da Lepanto e ferito da un colpo d’archibugio, Miguel de Cervantes Saavedra, il “papà” di Don Chisciotte.

 

Benché ridotto in rovine, il complesso di Santa Maria degli Alemanni conserva ancora tutto il fascino e il mistero delle grandi cattedrali gotiche e rappresenta un esempio, più unico che raro, di gotico duecentesco in Sicilia: come se i Cavalieri Teutonici avessero voluto ricreare, in mezzo al caldo e al sole del Mediterraneo, un piccolo angolo di Nord Europa.

Gianpaolo Basile

Foto: Giulia Greco