Il cuore enorme della Terra: un’armonia tutta nostra

Che differenza c’è tra noi uomini e gli animali? Molti si sono posti tale domanda.
Alcuni sono riusciti a trovare una maggior ”capacità intellettiva” nella nostra specie, che si dimostra in piccole azioni giornaliere come la possibilità di soffrire e riflettere, l’empatia o un’estrema abilità comunicativa. In alcuni casi però questa domanda perde significato. Troviamo un sentire quasi comune, il cuore enorme della Terra che batte a diverse frequenze, nei corpi di tutti coloro che la abitano. 

Il canto delle megattere

La megattera (Megaptera novaeangliae) è un cetaceo della famiglia Balaenopteridae. Il nome deriva dal greco μέγα πτερόν (grande ala), in riferimento alle pinne pettorali che possono raggiungere una lunghezza pari a circa un terzo di quella del corpo. In queste creature il grado di apprendimento sociale si estende a popolazioni intere. I maschi usano complicati canti per comunicare. Queste melodie durano da dieci a venti minuti e vengono ripetute per diverse ore. Sono caratteristiche di ogni popolazione e ciascun esemplare del branco le conosce e usa.
Uno studio recentemente condotto della University of Queensland e pubblicato su Scientific Reports mostra, però, che tale capacità di apprendimento si allarga oltre i confini della singola popolazione.

Fonte: https://rivistanatura.com

Ascoltando una melodia di onde

Per lo studio, il team australiano ha monitorato due diverse popolazioni di megattere: una vive al largo delle coste orientali dell’Australia, l’altra intorno alla Nuova Caledonia. I ricercatori hanno registrato per sei anni, dal 2009 al 2015, i loro canti. È stato, così, possibile identificare quelli tipici sia degli esemplari australiani che di quelli della Nuova Caledonia, nonché osservare come si è evoluto il loro repertorio in questo lasso di tempo.

Di bocca in bocca

I contatti costanti tra i due gruppi hanno fatto sì che alcuni canti di una popolazione venissero appresi da un’altra ed integrati nei loro spartiti. Dal confronto tra le versioni originali e quelle apprese si è scoperto che le canzoni sono state imparate alla perfezione e riprodotte in maniera identica.
Il processo, peraltro, si è ripetuto con regolarità: ogni anno le megattere cambiavano la loro canzoni e, ogni anno, la popolazione vicina la imparava senza errori. Secondo gli autori dello studio, uno scambio culturale di questa portata (le popolazioni di megattere possono raggiungere i 200 esemplari) è molto raro. Inoltre, i risultati supportano l’ipotesi che le diverse popolazioni di megattere si scambino le canzoni quando si incontrano, per esempio, lungo rotte migratorie comuni.

La mente sensibile degli elefanti

Gli elefanti hanno il cervello più grande tra gli animali terrestri, con una massa superiore a cinque chili. Il volume della corteccia di un elefante permette un enorme ventaglio di processi cognitivi. Il risultato è una capacità neuronale superiore a quella di qualsiasi primate e cetaceo. Ciò si traduce in diversi tipi di intelligenza.
La sua struttura cerebrale è complessa e sofisticata, con più di 250.000 milioni di neuroni. La grande quantità di sinapsi della loro corteccia cerebrale permette di comprendere bene il linguaggio non verbale. Si ritiene che ciò sia associato anche alla loro elevata capacità di imitare anche le persone. Gli elefanti, inoltre, non replicano solo i gesti umani, ma anche i suoni dell’ambiente circostante. 

Fonte: https://www.ildigitale.it

Ricordi e memoria

Le dimensioni dell’ippocampo di un elefante superano quelle di qualsiasi primate.
Si tratta di una struttura cerebrale appartenente al sistema limbico che possiede, tra le altre, la funzione di elaborare alcuni tipi di memoria, come quella spaziale.
L’elefante può usare più dello 0,7% delle sue strutture cerebrali, mentre gli umani di solito ne sfruttano appena lo 0,5%. Ciò permette loro di avere una memoria davvero privilegiata. Questo aspetto è dimostrato in numerosi studi scientifici, ma è visibile anche nei comportamenti allo stato brado.

Il lutto

Gli elefanti manifestano un notevole interesse per gli esemplari deceduti della propria specie. Gli scienziati hanno osservato che gli elefanti piangono i propri morti e, inoltre, continuano a interagire con le carcasse per lungo tempo. In alcuni casi gli esemplari continuano a tornare a mucchi di ossa bianche arse dal sole. A descrivere questi comportamenti è stato un team di ricerca internazionale guidato da scienziati del San Diego Zoo Institute for Conservation Research e dello Smithsonian Conservation Biology Institute. I biologi, coordinati dalla dottoressa Shifra Goldenberg, hanno condotto uno studio di revisione sulle osservazioni di 32 carcasse di elefante. In alcuni casi è stato osservato il momento esatto in cui un esemplare è morto. Quando è crollato a terra i membri del suo gruppo sono accorsi attorno al corpo provando a sollevarlo e spostarlo con le proboscidi, emettendo vocalizzazioni per richiamare il compagno.
Non è chiaro il motivo per cui gli elefanti si comportino in questo modo, ma sembra che in alcuni casi negli animali sociali non ci sia “accettazione della morte”.
Un recente simile ed emblematico è quello dell’orca che ha trascinato la carcassa del suo piccolo innanzi al porto di Genova per diversi giorni.

Fonte: https://www.animalidacompagnia.it

La Terra e le sue creature

Conoscendo meglio le creature che condividono con noi questo pianeta si amplia la visione di noi stessi. Abbiamo la possibilità di sentire come la muta acqua risponde al canto delle megattere, di osservare come i più grandi mammiferi terrestri si muovono con delicatezza tra le foreste. Siamo parte di quest’armonia, anche quando ci limitiamo a guardarla sbirciando dalle finestre delle nostre case.

Alessia Sturniolo

Bibliografia

Coltivare sulla Luna? Da oggi si può!

Tra non molto vedremo germogliare una piantina sulla Luna!
Ne da annuncio un team di scienziati della NASA ed un gruppo di consulenti operanti presso l’Ames Research.

INDICE DEI CONTENUTI

  1. Generalità
  2. Coltivazioni idroponiche
  3. La struttura lunare
  4. Arabetta comune
  5. L’esperimento
  6. Livelli di stress
  7. Presenza di acqua
  8. Conclusione

Generalità

Un nuovo studio ha cercato di individuare le potenzialità del terreno della Luna per generare una forma di “agricoltura” proiettata nel “futuro”.
I vantaggi di far crescere delle piante sul suolo lunare sono particolarmente rilevanti. Infatti, oltre a produrre cibo, esse fornirebbero ossigeno,  permetterebbero il riciclo di acqua e di ripulire l’aria dentro gli edifici dall’anidride carbonica.

Coltivazioni idroponiche

L’unica possibilità di far crescere della vegetazione extraterrestre fino ad oggi, è stata quella in coltivazioni idroponiche.
In queste condizioni la terra è sostituita da un substrato inerte, come argilla espansa, fibra di cocco, lana, roccia o zeolite.
Giorgio Gianquinto, professore di scienze agrarie dell’Università di Bologna, spiega: Queste coltivazioni comprendono una vasta gamma di sistemi, in cui il rifornimento di acqua ed elementi nutritivi, indispensabili per la crescita e sviluppo delle piante, avviene attraverso la somministrazione di una soluzione nutritiva (acqua + nutrienti disciolti in essa).  In Olanda la gran parte della coltivazione in serra è attuata con sistemi fuori suolo High Tech.”
Tre ricercatori dell’Università di Florida sono riusciti a spiegare che anche la superficie lunare sembra predisposta ad accogliere la crescita di alcune piante.

static.gamberorosso.it

La struttura lunare

La Superficie lunare è composta da svariati elementi quali: potassio, magnesio, silicio, ossigeno, ferro, calcio, titanio, idrogeno, alluminio, uranio e torio.
Andando dall’esterno verso l’interno, la Luna presenta una crosta, un mantello (in parte allo stato fuso) e un nucleo, suddivisibile in interno ed esterno. Il nucleo interno della Luna è composto da ferro solido, mentre quello esterno da ferro allo stato liquido. Subito dopo il nucleo, troviamo quella parte del mantello allo stato parzialmente fuso, composto, teoricamente, da una lega di ferro metallico, nichel e zolfo.

www.meteoweb.eu

Arabetta Comune

Per il loro esperimento i ricercatori hanno raccolto da diversi punti della Luna 12 grammi di regolite, cioè  l’insieme di sedimenti, polvere e frammenti di materiale che compongono lo strato più esterno della superficie dei pianeti rocciosi.
In esso sono stati piantati alcuni semi di arabetta comune,  una piccola pianta annuale o biennale della famiglia delle brassicaceae (della senape), la stessa di broccoli e cavolfiori.
Inoltre, per la sua facilità di crescita, è una delle specie più studiate al mondo.

www.rsi.ch

 

L’esperimento

Robert Ferl, ricercatore dell’Università della Florida,  insieme al suo team, ha provato a coltivarla.
Per farlo sono stati utilizzati 12 campioni di suolo raccolti durante le missioni lunari Apollo 11, 12 e 17.  La stessa pianta è stata coltivata in un terreno contenente cenere vulcanica terreste, simile a quello lunare per dimensioni delle particelle e composizione.
In questo modo, hanno scoperto che le piante crescevano in entrambi i sostrati. Le piante cresciute nel suolo lunare, tuttavia, hanno presentato chiari segni di stress. Necessitano difatti più tempo per sviluppare radici e foglie espanse, cosa che non si verifica in quelle cresciute nella cenere vulcanica.

Livelli di stress 

I livelli di stress osservati sono dovuti ai danni provocati dai raggi cosmici, dal vento solare o dalla presenza di piccole particelle di ferro.
Dopo 20 giorni gli scienziati hanno raccolto la pianta e ne hanno studiato il DNA. Hanno così osservato che avevano risposto nel modo in cui i vegetali reagiscono a un terreno con troppo sale o metalli pesanti.

Presenza di acqua

L’acqua riveste un ruolo fondamentale per la colonizzazione del territorio lunare e la sua presenza permetterebbe di ovviare al trasporto della stessa dalla terra.
La piccola quantità di acqua presente è stata fornita dalle comete che nel corso dei secoli hanno impattato col suolo lunare. Tuttavia, viene scomposta (in idrogeno ed ossigeno) dalla luce solare e dispersa nello spazio. Esistono delle ipotesi a sostegno della presenza di acqua sulla Luna nelle zone perennemente in ombra oppure all’interno della crosta lunare.
Probabilmente alcuni dei suoi crateri polari non ricevono mai luce solare a causa delle loro elevate profondità e, di conseguenza, si ipotizza che all’interno di questi possa essere presente acqua sotto forma di ghiaccio.

www.gelestatic.it

 

Conclusione 
Questa ricerca è cruciale per gli obiettivi di esplorazione umana a lungo termine della Nasa“, ha affermato il capo dell’agenzia spaziale Usa Bill Nelson in una dichiarazione. “Avremo bisogno di utilizzare le risorse sulla Luna e su Marte  per sviluppare fonti di cibo per i futuri astronauti che vivranno nello spazio profondo“.

Nel frattempo, nell’attesa di vedere germogliare la prima storica piantina sulla Luna, non ci resta che ammirare quelle che cresceranno nelle mini-serre  (identiche a quelle lunari) che la NASA ha affidato alle cure degli studenti di numerose scuole Americane .

Elena Fortuna

Per approfondire:

Immagine in copertina: https://rwandantimes.com/wp-content/uploads/2022/05/plants-in-soil-from-the-moon3-696×365.jpg

Il giro del mondo: alla ricerca dei luoghi più pericolosi

Siamo abituati a meravigliarci di fronte a paesaggi fiabeschi, acque incantevoli e pianure interminabili. Tuttavia, il nostro pianeta riserva per noi non solo luoghi magici. Alcuni sono spaventosi e, soprattutto, pericolosi, che destano sgomento e inquietudine. La Terra è anche questo.

  1. Il Lago della Morte
  2. Sable Island
  3. Il Camino de la Muerte
  4.     Un luogo segnato da stragi
  5. Il Lago Kivu
  6. Conclusioni

Il Lago della Morte

Il primo luogo non si trova molto lontano. Il “Lago della morte” è considerato uno dei posti più pericolosi della Terra, e si trova proprio in Sicilia, nei pressi del comune di Palagonia, a Catania. Qualsiasi organismo vivente provi a sopravvivere all’interno di questo lago, fallirà. Infatti, sono presenti quantità notevoli di acido solforico, noto per le sue proprietà corrosive, accentuate dalla reazione di dissociazione con l’acqua, a cui si aggiunge il pericolo di disidratazione della pelle a seguito del contatto con il calore di dissociazione. I vapori emanati possono provocare danni alle mucose, al tratto respiratorio e agli occhi.  Tra le testimonianze raccolte, lo scienziato Francesco Ferrara  parlò inoltre della presenza di metano e di anidride carbonica. Appare chiaro come non sia il luogo migliore dove poter abitare.

Ancora oggi, però, sono molti i dubbi attorno all’esistenza stessa del lago, e gli abitanti del luogo restano un po’ scettici al riguardo. Ciò che è certo è che questa storia diventa ancora più affascinante se immaginata tra mito e realtà.

Storia, miti e misteri della Sicilia: scomparso il lago Naftia - Men's Enjoy
Fonte: www.mesenjoy.com

Sable Island

Se pensiamo a navi scomparse in mare vengono in mente le storie legate al triangolo delle Bermuda. Ma in questo caso si fa riferimento ad un altro luogo, al largo della Nuova Scozia, in America Settentrionale. Si tratta di Sable Island, un “banco di sabbia” a forma di mezzaluna pronta a divorare navi. Si parla di circa 350 navi scomparse dalla fine del XVI secolo. Bastava un piccolo errore per far sì che la sabbia le inghiottisse, aiutata anche dalla scarsa visibilità dovuta alle nebbie, che costituiscono una costante dell’isola. La spiaggia è infatti al centro dell’incontro tra tre correnti: la corrente del Labrador, la corrente di Belle-Island, la corrente del Golfo. Nel 1801 si decise di creare una stazione di salvataggio permanente per aiutare i naufraghi, ma questo non impedì i 230 morti del 1872, a seguito dell’incagliamento del piroscafo SS Hungarian. Oggi, fortunatamente, i sistemi di navigazione satellitare permettono di avere una migliore percezione delle rotte. Sable Island è diventata il luogo delle storie passate e dei suoi relitti.

Visualizza immagine di origine
Fonte: www.sperimentalradio.it

Il Camino de la Muerte

Spostandoci un po’ più lontano giungiamo in Bolivia, dove si trova “Il Camino de la Muerte”, la strada più pericolosa del mondo. Fu costruito agli inizi degli anni Trenta da operai imprigionati durante la guerra del Chaco. Il percorso si estende per circa 60 km, attraversa tre province, fino ad arrivare a Coroico. 3640 metri di dislivello, con un’altitudine massima di 4700 metri in corrispondenza del passo della Cumbre. Oltre all’altezza, ciò che fa tremare è che non ci sia alcun guardrail o muro a delimitare la strada, che è per di più totalmente sterrata, coperta di vegetazione e attraversata da corsi d’acqua che scendono a cascata. È costeggiata da precipizi, spesso sono presenti nebbia e pioggia che rendono il cammino più complesso di quanto già non lo sia.

Un luogo segnato da stragi

Già tra i suoi edificatori ci furono delle vittime e da allora continuarono a perdere la vita molte altre persone. La strada era ed è soggetta alla caduta di enormi massi dall’alto e a frane. Nell’incidente più grave, accaduto nel luglio del 1983, un autobus precipitò, provocando 100 morti. Da quel momento si è cercato di prendere più precauzioni e di definire delle regole stradali, tra cui l’obbligo della guida a sinistra. Nonostante ciò, ogni anno si registrano almeno 200 morti tra autisti e ciclisti. Alla meraviglia dei paesaggi del luogo si accompagna la temerarietà della morte.

Visualizza immagine di origine
Fonte: imagenesbolivianas.com

Il Lago Kivu

Ritornando ai laghi, in Congo ne è presente uno altrettanto pericoloso. Si tratta del lago Kivu. Al confine con il Rwanda, è uno dei grandi laghi africani, con una superficie di 2700 km2. Ospita alcuni isolotti, tra cui l’isola di Idjwi (340 km2). Da molti è stato definito una vera e propria “bomba ad orologeria”. Varie operazioni di carotaggio hanno rilevato la presenza di depositi di monoidrocalcite (un minerale raro) coperti da diatomee (alghe unicellulari). Andando ancora più in giù troviamo infine sedimenti sapropelici con elevata quantità di pirite. Si stima che, in profondità, vi siano almeno due trilioni di metri cubi di gas metano e di biossido di carbonio. La miscela di questi elementi può provocare esplosioni di tipo limnico  (dal gr. λίμνη: acqua stagnante), che prevedono, appunto, rilascio di biossido dalle acque dei laghi. Esplosioni di questo tipo sono già avvenute in passato. Le enormi quantità di gas porterebbero alla morte per asfissia. A tutto ciò si aggiunge la possibilità di uno tsunami.

Visualizza immagine di origine
Fonte: www.filmcrewfixersuganda.com

Conclusioni

Quelli appena visti sono luoghi immortalati tra fascino e orrore. Ma questi sono solo alcuni dei territori considerati tra i più pericolosi al mondo. Ve ne sono altri, forse ancora più rischiosi, pronti per essere scoperti.

Giada Gangemi

Per approfondire:

Sable island, la sabbia che non perdona

Lago di Morte in Sicilia: verità o mito? 

Tempeste geomagnetiche: il sistema Sole-Terra tra incanto e tragedia.

Il sistema che porta alla formazione di una tempesta geomagnetica è ricco di dettagli e, con essi, si realizzano alcuni dei fenomeni di cui sempre più spesso sentiamo discutere.

La scoperta da cui tutto prende forma

Secondo alcuni studiosi, una delle caratteristiche peculiari del Sole è il suo campo magnetico, il denominatore comune di molti degli eventi riguardanti la sua attività.
Fu George Hale, nei primi del Novecento, a comprenderne per la prima volta l’esistenza. Egli osservò che il Sole era permeato a tutte le scale da tale campo e che la sua manifestazione più evidente risiedeva nelle macchie solari. Esse erano note per la loro forte attività magnetica e per la diversa emissività termica rispetto alle regioni che le circondano, giungendo alla conclusione che il Sole fosse una stella magnetica
È l’osservazione delle macchie solari che permette di fare previsioni sull’arrivo o meno di una tempesta geomagnetica.

Fonte: conoscenzalconfine.it

Cos’è una macchia solare?

Le macchie solari sono gigantesche strutture magnetiche che appaiono sul disco solare come regioni scure. La loro costituzione è molto particolare.
La parte più interna e più scura è caratterizzata da temperature più basse rispetto a quelle raggiunte nelle regioni più esterne che risultano essere più luminose (6000 K).  Sono varie le situazioni a cui il campo può essere soggetto. Ad esempio, in alcuni casi potrebbe essere influenzato da accumuli di plasma caldo che prendono il nome di “light bridges”, e che si pensa rappresentino segnali di decadimento della macchia. E ancora, potremmo osservare intrusioni di “umbral dots”, anche questi luoghi dove il plasma emerge per poi ricadere in basso.

Il Sole: una fonte di variabilità

Il moto del Sole attorno al suo asse di rotazione non è uniforme. Conosce diverse velocità a seconda di quale punto si consideri. Questo fa sì che il campo magnetico si avvolga con più rapidità attorno all’equatore, raggiungendo un momento in cui, per la forte intensità, il plasma che lo circonda viene “espulso”, formando così una sotto-densità. Il plasma in questa zona avrà una densità più bassa di quello che la ricopre: esso galleggerà sino alla fotosfera. È qui che creerà le macchie solari. Le variazioni che coinvolgono il campo magnetico solare si ripercuotono sull’intero sistema, il quale lega ciò che avviene sul Sole a ciò che potrebbe avvenire sulla Terra.

 

Visualizza immagine di origine
Fonte: focus.it

Oltre le macchie solari: altri cambiamenti osservati

Ulteriore conseguenza delle variazioni è osservabile nella forma della corona solare, che passa dall’essere regolare nei periodi di minima attività solare, all’essere irregolare e abbastanza estesa in quelli di massima. Questa  instabilità porta al rilascio di grandi quantità di energia. È ciò che avviene attraverso i “flares” (brillamenti), seguiti da un eventuale espulsione della massa coronale nello spazio interplanetario.
Questo evento avviene durante un massimo solare, e in prossimità delle macchie solari. Un ciclo solare comincia con un numero minimo di macchie, che aumenteranno sino al massimo, per poi ridiminuire.
Se teniamo conto del numero delle macchie presenti possiamo comprendere quanto sia possibile che si realizzi una nuova espulsione.

 

Visualizza immagine di origine
Fonte: kasi.re.kr 
Fonte:blueplanetheart.it

Verso la formazione della tempesta geomagnetica

Il flusso di particelle cariche prodotto dal Sole (“vento solare”)  riesce ad annullare la “schermata” magnetica della Terra. Penetra nell’atmosfera terrestre e si producono le GIC, le correnti elettriche indotte geomagneticamente.
Queste fluiranno nelle zone con conducibilità elevata e ad alta latitudine.
Ma le conseguenze di una tempesta geomagnetica potrebbero essere talmente dannose che anche i Paesi localizzati a latitudini medio-basse hanno ormai iniziato a seguire gli studi in merito.

Fonte: geoscienze.blogspot.com

Gli impatti sulla natura e sulla quotidianità

L’impatto che la tempesta geomagnetica può avere su alcuni animali interessa il loro senso dell’orientamento.
Lo scorso 19 giugno è stata osservata la scomparsa di alcune centinaia di Columbidi dal Sud del Galles e dal Nord-Est dell’Inghilterra. Non sono mancati coloro che hanno ricondotto tale fenomeno a una tempesta geomagnetica.
Una situazione simile si ebbe nel 2015, quando due tempeste disorientarono alcuni cetacei del Mare del Nord, facendoli arenare.

Recente è poi la notizia di una tempesta abbattutasi sull’America Latina lo scorso 29 ottobre, causando un potente black-out radio. Per il giorno seguente era stata annunciata la cosiddetta “tempesta di Halloween”, che si sarebbe abbattuta sull’Europa alla velocità di 1.260 km/s.

Visualizza immagine di origine
Fonte: meteoweb.eu

Visualizza immagine di origine
Fonte: meteo.com

Le grandi tempeste geomagnetiche del passato

Nel 1859 la tempesta di Carrington portò a un guasto dei telegrafi durato 14 ore e alla produzione di un’aurora boreale che fu visibile in aree inusuali, come a Roma e a Cuba.
Altra tempesta molto forte fu quella del 1989, in Québec: la popolazione restò al buio per giorni.
Ancora, nella notte tra il 18 e il 19 settembre 1941, si registrò una delle tempeste geomagnetiche più violente a basse latitudini. Nel clima teso della Seconda Guerra Mondiale, in cielo apparvero aurore in diversi luoghi del mondo. Molte navi, illuminate dalle aurore, furono scoperte, e si pensa che per tale motivo un sommergibile tedesco riuscì ad affondare la nave canadese SC44 Corvette HMC Levis.

 

Riproduzione artistica delle macchie solari sull’Illinois State Journal,21 settembre 1941. Fonte: blueplanetheart.it

L’aurora boreale

L’ aurora boreale, australe o polare,  è un fenomeno ottico dell’atmosfera terrestre. Esso è caratterizzato principalmente da bande luminose di diverse forme e colori rapidamente mutevoli, che suscitano nello spettatore stupore e meraviglia. Si formano dall’interazione tra le particelle cariche di origine solare con gli strati più esterni dell’atmosfera; una tempesta geomagnetica rappresenta quindi il momento perfetto per la loro comparsa.
Alcuni studiosi pensano che proprio la presenza di un’aurora boreale sia stato uno dei motivi per cui il Titanic affondò.

«Non c’era la Luna, ma l’aurora boreale risplendeva come raggi lunari sparati all’impazzata dall’orizzonte settentrionale»

Queste furono le parole scritte da James Bisset, ufficiale della RMS Carpathia, una delle navi giunte in aiuto.
La ricercatrice Mila Zinkova  ritiene inoltre che la tempesta di cui si discute potrebbe aver interferito con la bussola della nave.

Visualizza immagine di origine
Fonte: viagginews.com

Conclusioni

Oggi si sta provando ad approfondire il più possibile le dinamiche delle tempeste geomagnetiche, a tutte le latitudini. Si sta capendo come a esserne coinvolto sia tutto il mondo. Studiarne più a fondo gli effetti rappresenta il solo modo per proteggere la Terra.

 

Giada Gangemi

Ai confini del mondo: dove finisce il pianeta Terra?

Il pianeta Terra, un luogo così ospitale e pullulante di vita, è stato fin dall’alba dei tempi una  piccola roccaforte per la specie umana, immersa nelle profondità dell’Universo oscuro. In effetti, ci sentiamo talmente protetti da dimenticare di star fluttuando all’interno di uno spazio cosmico di dimensioni inimmaginabili. Basterebbe semplicemente mettere il naso fuori dal guscio gassoso che ci protegge per finire polverizzati in pochi secondi.

Proprio qui nasce l’interrogativo: dove finisce la Terra, e dove inizia lo Spazio?
Una domanda apparentemente banale, che però non trova una risposta univoca.

  1. Com’è formato il pianeta Terra?
  2. Strati che compongono l’atmosfera
  3. Il confine tra Terra e Spazio

Com’è formato il pianeta Terra?

La Terra, terzo pianeta per distanza dal Sole, è il più grande tra i pianeti terrestri (pianeti composti prevalentemente da roccia e metalli).
Ha una massa pari a quasi 6000 trilioni di tonnellate, che aumenta ad un ritmo di 107 kg all’anno. Il nucleo centrale è costituito prevalentemente da ferro, con una temperatura massima che raggiunge i 5000 gradi Celsius. A causa di queste caratteristiche e non solo, la specie umana è in grado di sopravvivere solo in un piccolo strato, che prende il nome di Crosta terrestre.
Essa è avvolta dall’atmosfera, uno scudo dall’ambiente esterno, freddo e inospitale, lo Spazio. Ciò che ci consente di sopravvivere, respirare e proliferare è questo ammasso di azoto, ossigeno, anidride carbonica e gas nobili.

 

Fonte: https://it.freepik.com/

Strati che compongono l’atmosfera

Lo strato più interno che compone l’atmosfera e che si sviluppa per  8-12 km, a seconda che sia in prossimità dell’equatore o dei poli, è la troposfera. Qui avvengono i fenomeni metereologici e si formano le nuvole, fondamentali per il ciclo dell’acqua e indispensabili per la vita.
Più in alto è presente la stratosfera, estesa verticalmente per circa 35km. Lì è presente uno strato di ozono, che  scherma dalle radiazioni dei raggi UV emesse dal Sole.
A sovrastarla è presente la mesosfera, letteralmente lo ‘strato di mezzo’, in cui si disintegrano i detriti celesti che, infiammandosi, regalano lo straordinario spettacolo che noi chiamiamo pioggia di ‘stelle cadenti’.
E’ poi presente la termosfera, dove la temperatura arriva fino ai 1500 gradi Celsius. Qui troviamo la Stazione Spaziale Internazionale. Il guscio più esterno è invece composto dall’esosfera, dove l’aria è estremamente rarefatta, ed è per questo che risulta ostico stabilire dei veri e propri confini al nostro pianeta. L’aria infatti, man mano che ci si allontana dalla crosta terrestre, diviene sempre meno densa.

Il confine tra Terra e Spazio

Nonostante sia pressoché impossibile definire un limite netto tra la Terra e lo Spazio, la Federazione Aeronautica Internazionale (FAI) ha tracciato un confine immaginario sulla cosiddetta ‘’linea Kármán’’, posta ad un’altezza di 100 km sopra il livello del mare.

Fonte: https://tech.everyeye.it/

mentre la NASA stabilisce il confine a 122 km. Approssimativamente indica la quota di rientro atmosferico, ossia la quota al di sotto della quale gli shuttle possono passare dalla manovra di rientro a propulsori a quella alare.

In generale dunque non vi è una risposta unitaria ad una domanda così semplice. Infatti ciò che definiamo con una singola parola, esiste  come un insieme di strati dell’atmosfera che, all’aumentare dell’altezza, divengono sempre più rarefatti.

E’ davvero complesso capire fino in fondo quanto sottile sia l’equilibrio che ci tiene in vita. Solo la scienza può mostrarci la straordinarietà del nostro mondo, in cui ogni più piccola parte riveste un’importanza fondamentale per il perpetuarsi della vita.

Giulia Accetta

 

BIBLIOGRAFIA

https://universome.unime.it/2021/02/20/dentro-il-buco-nellozono-cose-e-perche-deve-preoccuparci/?fbclid=IwAR08HxKGD9aDY3cYT2dhMsbgWbVjyoUwYaVvRuvn-YyAioVOAQI9aOn60iU

Il fenomeno della Superluna: di cosa si tratta?

La sera del 24 Giugno abbiamo assistito all’ultima Superluna del 2021, detta ‘’Superluna di fragola’’. Il nome deriva dalla raccolta di questi frutti che, negli Stati Uniti nordorientali e nel Canada orientale, avveniva nel mese di Giugno. Si è sentito spesso parlare di questi fenomeni negli scorsi mesi, ma cos’è esattamente una ‘‘Superluna”?

  1. Cos’è la Superluna
  2. Come si verifica il fenomeno
  3. Elementi che provocano la Superluna
  4. Il 14 Novembre 2016
  5. L’illusione della Luna

Cos’è una Superluna

Il termine ‘’Superluna’’ è stato coniato nel 1979 dall’astrologo americano Richard Nolle e riportato per la prima volta in un articolo per la rivista Dell Horoscope.
Venne definita come una Luna nuova o piena, visibile quando il nostro satellite si trova entro il 90% del suo avvicinamento alla Terra nella sua orbita. Non è chiaro perché R.N abbia scelto proprio questa percentuale. Inoltre sostenne che questo evento avrebbe causato catastrofi naturali. Tuttavia si rivelò una previsione infondata e fallimentare.

La quasi piena Superluna sorge sopra il fiume Syr Darya vicino al cosmodromo di Baikonur in Kazakistan il 13 Novembre 2016  Fonte: NASA/Bill Ingalls
La quasi piena Superluna sorge sopra il fiume Syr Darya vicino al cosmodromo di Baikonur in Kazakistan il 13 Novembre 2016  Fonte: NASA/Bill Ingalls

 

Come  si verifica il fenomeno

L’orbita della Luna ha una distanza media di 382.900 chilometri. Inoltre, l’attrazione gravitazionale del Sole e dei pianeti fa in modo che non abbia la forma di un cerchio perfetto.
A caratterizzare l’orbita lunare sono due punti: l’apogeo, che rappresenta il punto più lontano dalla Terra e il perigeo, il più vicino alla stessa.
Quando la Luna si trova in perigeo si parla di Superluna,  quando invece si trova in apogeo è chiamata Microluna. La sua distanza dalla Terra ha anche dei lievi effetti sulle maree.

Elementi che provocano la Superluna

Affinchè si possa verificare una Superluna sono necessari due elementi: il primo è che la Luna deve essere al perigeo nella sua orbita di 27 giorni, il secondo è che deve anche essere alla fase completa, che accade ogni 29,5 giorni, cioè quando il Sole la illumina nella sua totalità.
Tale fenomeno si verifica poche volte all’anno, poiché l’orbita del satellite cambia orientamento mentre la Terra compie la sua orbita intorno al Sole.
La Superluna appare più luminosa del 30% e più grande del 14% rispetto a una luna piena all’apogeo.

La Superluna è del 14% più grande e del 30% più luminosa della Microluna. – Fonte: timeanddate.com

Il 14 Novembre 2016

La fine del 2016 ha visto ben tre Superlune, ma la più affascinante è stata quella osservata nel Novembre 2016 e definita come ‘’la più grande e più brillante Superluna in 69 anni’’. Il suo perigeo si trovava a 356.508 chilometri di distanza dalla Terra.

Confronto della Luna nella notte della Superluna del 13-14 Novembre 2016. – Fonte: solarsystem.nasa.gov

L’immagine a sinistra è stata scattata successivamente al sorgere della Luna, circa alle 18:00, poco sopra l’orizzonte.
L’immagine a destra, invece, è stata scattata quando la luna si trovava in prossimità della sua massima altitudine, circa alle 00:30.
Le linee che uniscono le due immagini mostrano una differenza in termini di dimensioni. Questo è dovuto al fatto che la Luna che sorge è più piccola data la sua lontananza dal nostro Pianeta. In quel momento, il centro della Luna era circa alla stessa distanza dal centro della Terra e dall’osservatore.
Nella seconda immagine, la Terra aveva compiuto un quarto di giro e la Luna era più alta nel cielo, a circa 6400 chilometri vicino all’osservatore.
La rotazione della Terra ha variato la distanza dall’osservatore, in questo caso il suo centro era più lontano. La diminuzione della distanza tra la Luna e l’osservatore è dimostrata dalla coppia di fotografie.

L’illusione della Luna

La Superluna può sembrare particolarmente grande se è vicina all’orizzonte. Questo in realtà non ha niente a che fare con l’astronomia, piuttosto dipende dalla percezione che ne ha il cervello umano. Questo effetto prende il nome di “illusione della Luna’’.
Secondo gli scienziati, l’illusione avviene perché il cervelloconfronta la Luna con edifici o oggetti vicini. Un’altra spiegazione è che il nostro cervello percepisce gli oggetti all’orizzonte più grandi rispetto a quelli presenti nel cielo.

È tutta colpa della Luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti.”
Shakespeare

Serena Muscarà

Bibliografia

L’influenza dell’uomo sull’Universo: dal principio antropico all’idea di multiverso

“Che cosa c’è in un nome? Ciò che noi chiamiamo con il nome di rosa, anche se lo chiamassimo con un altro nome, serberebbe pur sempre lo stesso dolce profumo.”

(W. Shakespeare, Romeo and Juliet)

https://www.cosediscienza.it/cosa-fatto-universo

Accade che di fronte ad alcune situazioni non si trovino le parole giuste, sebbene nella nostra mente ci sia un disegno ben preciso.
E ci sono momenti in cui viene meno anche quel disegno e sono insufficienti non solo le parole ma anche le risposte che vorremmo darci.
Quindi ci poniamo sempre più domande.

Da questo perpetuo domandarsi prendono vita varie teorie, alcune delle quali non ci appaiono neppure così nitide. Ma il bisogno di sapere è tanto da cercare responsi persino in quei luoghi difficili da raggiungere.

L’Universo: capiremo mai come sia nato? Perché sia nato? Perché esistiamo noi e non un’altra specie? Perché la Terra e non un altro pianeta?

Perché nasce il principio antropico?

Prima di spiegare cosa significhi principio antropico, concentriamoci sulle ragioni per cui si è sviluppato.

Perché tutto è così come lo vediamo e non in altro modo? E poi, l’Universo è così fatto per noi o indipendente da noi? In altri termini, la sua nascita si è verificata al fine della nostra esistenza o siamo solo un semplice effetto collaterale?

https://www.pinterest.it/pin/284641638920058010/

È questo che si chiedevano i primi ricercatori del “principio del tutto”. Tra questi Talete e Anassimandro.

Il primo riteneva che l’acqua fosse la materia primordiale, il principio divino che conteneva corpo e anima.
Per il secondo l’ἀρχή (principio) era l’ἄπειρον (infinito). Dall’infinito discendevano le esistenze e l’intero cosmo, dove tutto è regolato dal contrasto. Quello tra caldo e freddo fa disporre al centro la terra e l’acqua, il fuoco e l’aria in periferia. C’è un ordine.
Nella mente di Anassimandro vi era un’immortale estensione dello spazio, una radice cosmica infinita. In Talete tutto ha inizio da un elemento.

Si tratta solo di coincidenze?

Possiamo affermare che il principio antropico sosti a metà tra le due posizioni.

Qui l’infinito non è concepito come pensato da Anassimandro. Infatti, se tutto fosse infinito e quindi infinite fossero le possibilità esistenti, non dovremmo sorprenderci se tra queste vi sia un pianeta con vita al suo interno.

È un infinito entro certe norme. Ma è infinito perché le realtà in cui ci siano le condizioni che permettano la vita potrebbero essere infinite.

http://www.unariunwisdom.com/dna-and-the-holographic-universe/

Inoltre, così come Talete fondò le sue idee sull’elemento “acqua”, allo stesso modo a partire dalla seconda metà del Novecento i cosmologi cominciarono a domandarsi se fosse solamente un caso che il carbonio, l’elemento naturale origine della vita, richieda tempi lunghi per formarsi.

È forse solo una coincidenza che la fusione nucleare che avviene dentro le stelle, a seguito della loro esplosione, produca una quantità massiccia di carbonio pronto a fissarsi sulla superficie della Terra e far sì che si sviluppino forme di vita man mano sempre più complesse?
E ancora, è un caso che la Terra si trovi a una precisa distanza dal Sole cosicché il clima sia vivibile?

L’insieme di queste circostanze permette al pianeta di trovarsi in quella che si  chiama  “zona di abitabilità”.

Da Carter ai princìpi di Barrow e Tipler

Brandon Carter doveva essersi posto le medesime domande quando nel 1973 a Cracovia coniò l’espressione “principio antropico”, sostenendo che «[…] anche se la nostra situazione non è “centrale”, è inevitabilmente per certi versi privilegiata». Le leggi della fisica e le costanti cosmologiche sono necessariamente compatibili con l’esistenza umana, spostando l’ago della bussola verso una visione della Terra come nucleo primario.

Visualizza immagine di origine
https://campania.agesci.it/2018/11/uomo-universo/

Contro Copernico che, secondo Carter, aveva ridimensionato il ruolo fondamentale affidato al pianeta, e a favore di Giordano Bruno, per il quale i pianeti e gli astri ricoprivano tutti una posizione equivalente.

«Il principio antropico è l’idea che l’esistenza della vita (o più specificamente della vita umana) nell’Universo possa fissare vincoli ai caratteri dell’Universo attuale, e possa aver contribuito a far diventare l’Universo così com’è attualmente».

John Gribbin (“Companion to the Cosmos”, London, 1996)

Dalle stesse domande sono stati mossi John Barrow e Frank Tipler quando nel 1986 formularono la teoria del principio debole e del principio forte.
Secondo la prima, le quantità fisiche e cosmologiche e i fattori biologici sono subordinati alla richiesta che vi siano luoghi in cui la vita possa esistere.
Il principio forte aggiunge che le proprietà dell’Universo debbano essere tali da permettere lo sviluppo della vita in una certa fase della sua storia.

Secondo tali teorie, l’uomo non ha un ruolo marginale. Per i sostenitori del principio antropico è come se la sua mente e la mente dell’Universo viaggiassero insieme.

Immersi in un complesso di Universi

Nella cosmologia moderna si parla di “insieme” di Universi.
In tutta questa molteplicità ci saranno altri “domini” in cui potrebbero essere valide leggi fisiche diverse dalle nostre, domini a noi invisibili e lontani.

Si immagina uno spazio pluri-dimensionale in cui ogni possibile sito pullulante di vita sia collegato con gli altri attraverso cunicoli spazio-temporali.

Nel 1957 Hugh Everett III  sviluppò la sua formulazione del “multiworld”. In ogni momento esistono tutte le possibili varianti di sistemi dove ci sia vita umana.

https://noticiascuriosas.info/teoria-del-multiverso/

In ognuno ci sarà un osservatore che si domanderà se altri mondi e Universi esistano.
Quell’osservatore che per John Wheeler è essenziale, come dimostra con il suo “principio di partecipazione”. L’Universo esiste anche grazie alle osservazioni di chi ci abita.

Per finire, il fisico matematico Lee Smolin pensa a una “lotta cosmologica” in cui i nuovi Universi possono essere leggermente diversi dai vecchi Universi e in cui alla fine prevale chi sarà in grado di generare altri Universi simili a se stesso.

Probabilmente tutto appare poco realistico. Ma in fin dei conti quanto sappiamo?

Ciò che è possibile fare è continuare a porsi ancora tante, tantissime domande.

Giada Gangemi

Il mistero della fosfina su Venere: c’è vita nell’atmosfera?

In quanto esseri umani, la curiosità ci appartiene da millenni e le domande più frequenti riguardano le nostre origini: chi siamo? Da dove veniamo? Ma soprattutto, siamo soli nell’universo? L’atmosfera di Venere potrebbe dare una risposta.

Venere fotografato dal Mariner 10.
Fonte: NASA/JPL-Caltech

Venere è il secondo pianeta del Sistema Solare, nonché il più vicino alla Terra. Nonostante sia considerato il gemello del nostro pianeta, poiché simile in dimensioni e struttura, in realtà non potrebbe essere più diverso. La sua superficie è costellata da vulcani, montagne e valli. La pressione atmosferica equivale a quella presente a circa mille metri di profondità in un oceano, essendo 92 volte quella della Terra. L’atmosfera è composta principalmente da anidride carbonica e da nubi di acido solforico. Essa è talmente densa da intrappolare il calore del Sole: ciò genera il più forte effetto serra del Sistema Solare che rende Venere perfino più caldo di Mercurio, con temperature che raggiungono i 470°C.

Sicuramente, il nostro vicino roccioso non sembra il pianeta più ideale ad ospitare la vita, eppure il 14 settembre 2020 gli astronomi hanno rilevato nelle sue nubi un gas chiamato fosfina. Ma cos’è la fosfina? E perché è così importante?

La molecola della vita aliena

Riconosciuta da Lavoisier come combinazione di fosforo con idrogeno e scoperta negli anni ’70 nelle atmosfere di Giove e Saturno, la fosfina è un gas altamente tossico per chi respira ossigeno. Sulla Terra è possibile trovarlo in zone paludose o sedimenti lacustri. Secondo uno studio della ricercatrice Clara Sousa-Silva del Massachusetts Institute of Technology (MIT), questo gas è prodotto da organismi anaerobici, come batteri e microbi, che non hanno bisogno dell’ossigeno per vivere, ma assorbono fosfato, aggiungono idrogeno ed espellono fosfina.

Impronta della fosfina nello spettro di Venere.
Fonte: Alma(Eso/Naoj/Nrao), Greaves et al. & Jcmt (East Asian Observatory)

La rilevazione del gas è stata effettuata per la prima volta da Jane Greaves, astrofisica della Cardiff University. Greaves ne scorse la firma spettroscopica nella regione abitabile dell’atmosfera di Venere (circa 60 chilometri di altezza dalla superficie) utilizzando il James Clerk Maxwell Telescope (JCMT), che si trova alle Hawaii. A confermare la scoperta sono state le verifiche effettuate dal team di Sousa-Silva tramite l’Acatama Large Millimiter Array (ALMA) in Cile. ALMA è una rete di radiotelescopi che produce osservazioni ad altissima risoluzione e che dunque permetterebbe una mappatura dettagliata dell’atmosfera di Venere.

L’elaborazione dei dati è stata effettuata tramite un modello sviluppato da Hideo Sagawa, della Kyoto Sangyo University. Si è scoperto che la concentrazione di fosfina nelle nubi è di circa venti parti per miliardo, una quantità più elevata rispetto a quella presente nell’atmosfera terrestre. Dal team degli scienziati Bains e Petkowski sono stati considerati vari scenari in cui sarebbe possibile la produzione di fosfina che non sia collegata alla vita: la luce solare, l’attività vulcanica, un impatto di un meteorite e i fulmini. Tra tutti i casi analizzati, nessuno è risultato avere una concentrazione di questo gas tossico tanto alta quanto quella presente nell’atmosfera di Venere. L’unica spiegazione possibile resta dunque la presenza di organismi viventi.

James Clerk Maxwell Telescope (JCMT). Fonte: eaobservatory.org

C’è vita su Venere?

In realtà la risposta non è quella che gli astronomi speravano di ottenere, in quanto la presenza di fosfina potrebbe essere stata un abbaglio. Un gruppo di scienziati, guidato da Therese Encrenaz dell’Osservatorio di Parigi, ha analizzato i dati ottenuti nel 2015 dall’Infrared Telescope Facility (IRTF) della NASA alle Hawaii. I dati hanno mostrato che la fosfina presente nell’atmosfera di Venere è pari a un quarto rispetto a quella rilevata nello studio originale. Inoltre, il gas si troverebbe al di sopra delle nubi, ipotesi considerata improbabile dagli astronomi dal momento che si disperderebbe molto facilmente.

La ricercatrice Sousa-Silva ha tentato di dare una spiegazione alla mancanza di fosfina, dichiarando al National Geographic che la quantità potrebbe variare nel tempo. Un altro interrogativo riguarda l’altitudine: le osservazioni all’infrarosso potrebbero non aver sondato le nubi a una profondità tale da rilevare il gas ai livelli riportati.

Un’altra analisi ai dati

La ricerca però non finisce qui. Altri scienziati hanno deciso di analizzare nuovamente i dati ottenuti dai telescopi JCTM e ALMA. Sfortunatamente, anche stavolta, non vi è stata alcuna evidenza della presenza di fosfina.

Per quanto riguarda il JCTM, il telescopio ha rilevato una linea spettrale alla giusta frequenza, la stessa che corrisponde all’anidride solforosa presente nell’atmosfera di Venere.
I dati ricavati da ALMA sono stati più difficili da elaborare. Trattandosi di apparecchi ad altissima risoluzione, catturano molto rumore di fondo. Per ottenere dei segnali, il team ha dovuto utilizzare un metodo chiamato adattamento polinomiale. Questo metodo consiste nel rimuovere matematicamente il rumore di fondo intorno alla regione in cui si sarebbe dovuta trovare la fosfina. Purtroppo, può produrre dei falsi segnali se utilizzato con più variabili e unito a dei dati ‘’rumorosi’’. Nonostante l’analisi accurata e la ricalibrazione di ALMA, lo spettro di Venere non mostra presenza di fosfina.

Atacama Large Millimeter/submillimeter Array (ALMA).
Fonte: Di Iztok Bončina/ESO – http://www.eso.org/public/images/potw1040a/, CC BY 4.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11686363

La ricerca continua

Gli scienziati continuano a lavorare, fiduciosi di poter risolvere il mistero della fosfina. In fondo è proprio così che la scienza funziona.

“Abbiamo bisogno di ulteriori osservazioni in modo da non fare affidamento su pochi, molto rumorosi set di dati,” ha spiegato Sousa-Silva. “La lezione è spingere per ulteriori analisi e più dati.”

‘’In un universo infinito, deve esserci altra vita. Non vi è dubbio più grande. È tempo di impegnarsi per trovare una risposta.’’ 

 

Serena Muscarà

 

 

Bibliografia

https://news.mit.edu/2020/life-venus-phosphine-0914
https://www.media.inaf.it/2020/09/14/venere-vita-fosfina/
https://www.eso.org/public/news/eso2015/
https://news.mit.edu/2019/phosphine-aliens-stink-1218
https://www.nature.com/articles/s41550-020-1174-4
https://www.nationalgeographic.com/science/2020/10/venus-might-not-have-much-phosphine-dampening-hopes-for-life/

Se rimani non giudichi, se te ne vai non giudichi

Una delle poche certezze che ha Messina è la retorica di fine estate. C’è sempre il poeta polemico di turno, la scrittrice nostalgica, lo zio d’America che sentenzia, sul finir di Agosto. Molte testate dello Stretto hanno preso questa abitudine – noi forse l’abbiamo addirittura iniziata questa tradizione – di pubblicare le lettere “rendiconto” delle condizioni e delle sensazioni che si provano quando si ritorna e si parte da Messina. 
Quando si supera la soglia dei 30 giorni di permanenza in quel di Zancle, scatta l’impellente necessità delle parole di farsi spazio tra le dita.

Premetto che questo filo narrante di analisi di critica costruttiva riguardo i movimenti migratori dal Sud non era stato deciso ma si è creato da solo: già da Settembre avevo in mente di affrontare tale argomento dal punto di vista “interno”, mentre il mio collega Alessio Gugliotta, penna dell’editoriale precedente, ha riportato nero su bianco dati rilevanti e critici della nostra attuale comunità, senza esserci messi d’accordo.

Che il mio discorso non venga travisato perché riconosco esserci tanti, troppi punti di vista: chi voglio affrontare sono quei cittadini che rimangono ma puntano il dito senza fare distinzione, sostenendo che tutti coloro che se ne sono andati siano deboli. Le ragioni dell’emigrazione sono diverse e personali, chi si permette di giudicare chi rimane sbaglia, sopratutto se ha avuto l’opportunità di andarsene senza la necessità di farlo, e viceversa chi rimane pur avendo la possibilità di andarsene ma preferisce giudicare come moralmente scorretto chi riempie la valigia. Questa forma di bullismo antiquata e sempre più ancorata nel dilagante malcontento generale che sconvolge i rapporti sociali, alimenta l’aggressiva reazione di una parte di nazione che viene illusa continuamente come se fosse drogata. Ed il primo punto di riflessione che sorge spontaneo è: quanto noi giovani meridionali subiamo e soffriamo le condizioni precarie offerte dalla nostra terra? I punti di vista sono infiniti, e più che opinioni sono critiche elevate a giudizi supremi che vanno in netto contrasto tra loro.

Partendo da chi sceglie di rimanere: mi chiedo perché chi rimane è meglio di chi se ne va? L’assunto incontestabile che ognuno è artefice del proprio destino nel momento in cui prende una decisione deve essere il sottofondo di lettura di questa opinione, cari lettori.

Ho notato che chi continua a vivere al Sud è sinonimo di chi crede nel territorio, di chi non abbandona le radici, di chi lotta, di chi ha sani principi. Sono quelli del “nonostante tutto”, del “il problema non è la mia città ma i cittadini, le istituzioni”, del “io amo la mia cittàslogan che ormai hanno perso identità. Come in questa lettera l’autrice sente la necessità di dire la sua che lievemente sfocia nell’accento sulla mancata valorizzazione del territorio. Io stessa mi sono ritrovata a scrivere qualcosa su quello che di buono c’è, che può aiutarci a vivere armoniosamente un luogo indipendente e selvaggio, ma la dura verità che noi non accetteremo mai è che viviamo una terra che sta implodendo e continuerà  fino a quando non si inizierà a fare fronte comune.

Non è giusto che io mi debba sentire in colpa perché sono figlio del mondo e come tale voglio conoscerlo. Se la mia colpa è quella di scegliere di essere chi non posso essere dove sono nato, devo obbligarmi ad essere chi non sono perché altrimenti sono un disertore delle radici?

Perché deve essere visto come una sconfitta andarsene? Siamo figli di questa terra, cittadini del mondo e come tali abbiamo l’obbligo morale di conoscerlo, visitarlo, esprimere il meglio di noi stessi attraverso la conoscenza del nostro ecosistema, un luogo che stiamo pian piano distruggendo a causa di una radicalizzazione controproducente. Tutte le buone intenzioni si trasformano in ipocrisia. É una croce per tutti il prendere una valigia e partire senza sapere come andrà, con la consapevolezza che quel biglietto di andata non avrà un ritorno. 

La più grande paura dei “terroni” è il cambiamento, un cambiamento che perde di significato nel momento il cui viene bloccato in tutti i modi. Si ne sono consapevole, subiamo ingiustizie e vessazioni solo per il fatto di essere nati in un punto geograficamente troppo ricco per poter essere appieno sfruttato, è un territorio scomodo per il Mangiafuoco di turno. 

Forse c’è troppa carne sulla brace, ma ciò che vorrei “mangiaste” è solo l’atteggiamento supponente e presuntuoso che ognuno di noi ha nei confronti di novità che vediamo solo dall’esterno o che, peggio, influenziamo con le nostre esperienze elevandoli a concetti supremi. 

Il confronto è le fondamenta di una comunità che vuole crescere, migliorarsi e cambiare ciò che di male c’è. 

Proprio ieri su Repubblica di Bari è stata pubblicata questa pillola 

https://bari.repubblica.it/cronaca/2019/11/02/foto/murales-240066470/1/#1 

L’opera artistica dello street artist Daniele Geniale è stata realizzata e dedicata a chi è costretto a lasciare la propria terra per ragioni di lavoro, e solo loro riconoscono il motivo della coraggiosa decisione. 

 

 

Immagine in evidenza: fonte La Repubblica, Bari

 

Giulia Greco

“Planet vs Plastic. Un pianeta straordinario tra bellezza e abusi” di Randy Olson National Geographic

Venerdì 12 aprile 2019. Ore 18.00. Palacultura “Antonello da Messina“. Si è aperto un Talk dal titolo “Sostenibilità e innovazione, sfide dovute tra costume, economia e architettura” a introduzione della mostra internazionale “Planet vs Plastic” al quale hanno partecipato: il Presidente della Conferenza permanente interregionale per l’Area dello Stretto On. Mimmo Battaglia, l’Architetto Claudio Lucchesi – studio UFO, l’architetto Renato Laganà – UniRC e il Dott. Francesco Scarpino Amm. Unico e curatore della mostra. L’incontro ha registrato la presenza di numerosi professionisti e appassionati di fotografia.

La mostra, di forte impatto emotivo, è frutto della partnership tra Bluocean e National Geographic di cui Randy Olson è tra i più importanti e storici collaboratori nonché docente del Bluocean’s Workshop percorso di Alta formazione fotografica giunto alla 10 edizione e patrocinato in esclusiva da NatGeo.

Le immagini di Planet vs Plastic mirano a rappresentare il racconto di una sfida sempre più attuale: la straordinaria bellezza del nostro Pianeta mentre è impegnato nella più ardua delle battaglie, ovvero, la resistenza contro l’inquinamento. Il rispetto dell’ambiente e delle sue risorse naturali sono un tema centrale sempre più collegato alle grandi emergenze che colpiscono il pianeta, da quelle idrogeologiche all’inquinamento, in particolare della plastica la quale ha compiuto una vera e propria rivoluzione.

Tema attualissimo per cui l’ONU promuove numerose campagne di sensibilizzazione e l’UE si impegna a ridurre notevolmente, entro il 2030, l’uso di questi materiali.

Anima così tanto le coscienze della popolazione che basti pensare alla piccola Greta Thunberg, la ragazzina di 12 anni, che fa scioperare il mondo contro il riscaldamento globale, famosa ormai in tutto il web per la propria lotta.

La mostra propone un percorso volto all’educazione degli animi del visitatore attraverso opere di grandi dimensioni. Ca 35*50 cm. Una sorta di manifesto a protezione della vita della Terra. Ogni fotografia, uno strumento di persuasione, affinché si possa prendere coscienza che ogni nostro piccolo gesto è finalizzato a mutare in maniera indelebile il volto del pianeta.

La mostra sarà fruibile lunedì, dalle ore 9.00 alle 12.00 e dalle 15.00 alle 19.00; martedì e giovedì dalle 9.00 alle 17.00; mercoledì e venerdì dalle 9.00 alle 13.00.

Gabriella Parasiliti Collazzo