Dagli studenti per gli studenti: Il narcisismo e l’io deviante

Nella normalità del sano amor proprio che tutti gli esseri umani dovrebbero avere ci si può imbattere in soggetti che, a causa di un disturbo del senso di sé che si riflette nelle relazioni , tendono ad amarsi in maniera egocentrica, talvolta fino a provare indifferenza nei confronti delle condizioni altrui.
Si tratta di quello che noi definiamo Narcisismo.

Indice dei contenuti

  1. Narciso nel mito 
  2. Il narcisismo: uno tra i più importanti disturbi della personalità
  3. Dalle prime considerazioni psichiatriche all’interpretazione di Freud
  4. Narcisismo primario e secondario
  5. Narcisismo sano e patologico
  6. Diagnosi e trattamento terapeutico

Narciso nel mito

“Io ho bisogno che qualcuno abbia bisogno di me, ecco cosa. Ho bisogno di qualcuno per cui essere indispensabile. Di una persona che si divori tutto il mio tempo libero, il mio ego, la mia attenzione. Qualcuno che dipenda da me. Una dipendenza reciproca. Come una medicina, che può farti bene e male allo stesso tempo”.

-Chuck Palahniuk

Narciso dipinto da Caravaggio. Fonte

Nelle Metamorfosi di Ovidio appare per la prima volta la figura di Narciso. Ciò che oggi è conosciuto come un fiore, che nel mito emergeva dall’acqua, diventa simbolo della bellezza di Narciso impossibilitato a toccare la propria immagine di cui si era perdutamente innamorato.
Il mito propone il tema complesso della mancanza di autostima, che è al centro anche del disturbo di cui parleremo.

Il narcisismo: uno tra i più importanti disturbi della personalità

La psicologia clinica, individua nel soggetto una ferita radicale nella propria identità, un’impossibilità di trovare una risposta alla domanda che tutti ci poniamo: “chi sono io e cosa ci faccio qua?“. Questa ricerca è condotta nella più profonda solitudine che genera un distacco dal mondo e che determina l’incapacità di amare, un vero e proprio blocco affettivo.

È proprio la perdita delle proprietà cognitive, affettive, emotive e comportamentali a determinare un disturbo della personalità, che non permette al soggetto di riconoscersi nella realtà del proprio Io, ma che mira all’esaltazione autoreferenziale di sé.

Essendo tutto ciò dannoso, l’individuo tenta, attraverso dei meccanismi di difesa, di mettere da parte le pulsioni e le esperienze che hanno come oggetto di desiderio l’Io corporeo. Tutte queste sedimentazioni creano una struttura cognitiva, dentro cui il soggetto si inserisce.

Il narcisismo spiegato. Fonte

Dalle prime considerazioni psichiatriche all’interpretazione di Freud

Una prima interpretazione del narcisismo viene proposta dallo psichiatra H. Ellis per descrivere un aspetto patologico della vita sessuale legato all’autoerotismo, oggettualizzazione sessuale del proprio corpo, fonte di desiderio e di piacere.
Successivamente lo psichiatra H. Nacke utilizzerà il termine riferendosi alle perversioni sessuali: disturbi che il soggetto è consapevole di avere e di cui però ne è appagato. 

Freud, in un primo momento, riprese questa tesi in riferimento alla scelta oggettuale degli omosessuali: infatti, studiando l’infanzia di Leonardo Da Vinci, trovò che era presente un meccanismo per cui l’investimento libidico, che porta alla scelta omosessuale, era dovuto alla fissazione sui bisogni erotici della madre nella cui figura il bambino si era identificato al punto da assumerla come modello a somiglianza della quale scegliere l’oggetto dell’amore.

Un’altra interpretazione fu quella secondo cui il narcisismo è il completamento libidico dell’egoismo della pulsione di autoconservazione dell’uomo; non viene dunque considerato come una condizione psicopatologica, ma come un carattere appartenente in maniera diversa a tutti gli uomini, una struttura sviluppatasi all’origine della formazione dell’Io a cui si legano le pulsioni prima caotiche e disorganizzate.

Narcisismo primario e secondario

Con la costruzione della seconda topica (Es, Io, Super-Io) Freud ovviò ad una distinzione tra due forme di narcisismo:

  • il primario è legato alla prima fase dello sviluppo del bimbo, che immerso nell’ “onnipotenza del pensiero”, assume il proprio Io corporeo come oggetto d’amore, mentre gli oggetti esterni esistono solo per soddisfare le pulsioni stesse (si fa riferimento alla libido narcisistica);
  • il secondario si sviluppa nella fase genitale a causa del fallimento del narcisismo primario nel tentativo di ricostruire l’illusione di completezza, di sicurezza e di piacevolezza. Incapace di soddisfare le proprie fantasie, il soggetto rivolge l’energia libidica verso un oggetto esterno, che al tempo stesso viene controllato come fosse il proprio Io; dunque il bambino trasforma la libido dell’Io in libido oggettuale (i primi oggetti d’amore sono i genitori a causa dello sviluppo nel piccolo di incestuose fantasie edipiche che nel più dei casi svaniscono nella crescita).

Pertanto nella teoria di Freud, libido narcisistica e libido oggettuale sono diversamente proporzionali: maggiore è l’interesse verso se stessi, meno energia è disponibile per l’attaccamento agli altri.

Raffigurazione del narcisismo primario. Fonte

Narcisismo sano e patologico

Nel “Narcisismo di vita, narcisismo di morte” André Green ha messo in luce gli aspetti negativi del narcisismo quali incapacità di amare, di coltivare le proprie risorse e di vivere una vera soddisfazione nel raggiungimento di un qualche risultato.

Tra le varie configurazioni patologiche, la più nota è quella descritta da Green come Il complesso della madre morta (definito “lutto bianco”): non si tratta di un lutto reale, ma di una depressione materna insorta a causa di eventi di vita dolorosi e improvvisi, a seguito dei quali la madre ha distolto, bruscamente, il proprio investimento affettivo nei confronti del figlio.

Per il bambino questo distacco emotivo, a cui non riesce ad attribuire un senso, rappresenta una vera e propria catastrofe che crea un “buco” nella trama psichica soggettiva; egli da adulto potrà avere una vita relazionale apparentemente soddisfacente, ma dentro di sé continuerà a tenere inconsciamente in vita l’immagine della “madre morta”, identificandosi con lei.

Al contrario, il narcisismo sano  è dato dalla capacità di un individuo di mantenere un “equilibrio oscillatorio” tra un amore per sé e amore per gli altri.

Diagnosi e trattamento terapeutico

Secondo i criteri clinici per la diagnosi, contenuti nel DSM-V del disturbo narcisistico della personalità i pazienti devono avere un modello persistente di grandiosità, necessità di adulazione e mancanza di empatia.

Questo modello è evidenziato dalla presenza delle seguenti:

  • un’esagerata, infondata sensazione della propria importanza e dei propri talenti;
  • la convinzione di essere speciali e di doversi associare solo a persone di altissimo livello;
  • un bisogno di essere incondizionatamente ammirati;
  • una sensazione di privilegio;
  • sfruttamento degli altri per raggiungere i propri obiettivi;
  • invidia degli altri e c0nvinzione di essere invidiati.

Il trattamento generale del disturbo narcisistico è lo stesso di quello applicato a tutti i disturbi i personalità: la psicoterapia psicodinamica che analizza l’inconscio e il rimosso, concentrandosi sui conflitti di fondo con l’obiettivo di comprenderli e superarli.

Vi sono però alcuni approcci sviluppati per il disturbo borderline di personalità che possono essere efficacemente adattati ai pazienti con disturbo narcisistico.

Essi comprendono:

  • Trattamento basato sulla mentalizzazione, che consente di lavorare sulla capacità del soggetto di riflettere sul proprio stato d’animo al fine di riuscire a controllare le proprie emozioni.
  • Psicoterapia focalizzata sul transfert, centrata sulla relazione tra paziente e terapeuta, che aiuta i primi a riflettere sulle loro relazioni in modo che possano esaminare le immagini non realistiche del sé.

Talvolta inoltre si ricorre anche alla farmacoterapia con la prescrizione di stabilizzatori dell’umore ed antipsicotici.

 

Tipici farmaci usati per il disturbo narcisista. Fonte

                                                                                                                                                                                                                           

Laura Sciuto

 

Bibliografia

Metamorfosi di Ovidio

https://matteomannucci.it/2021/08/27/il-mito-di-narciso-e-la-ricerca-dellidentita-archetipica/

Lezioni del professore Settineri

https://www.msdmanuals.com/it/professionale/disturbi-psichiatrici/disturbi-della-personalità/disturbo-narcisistico-di-personalità

Robot Melma: il nuovo materiale dalle proprietà innovative

Dalla Cina arriva il Robot Melma che promette di rivoluzionare la biomedicina attraverso l’utilizzo di un nuovo materiale. La nuova scoperta promette applicazioni in aree del corpo difficili da raggiungere e, di conseguenza, un notevole salto avanti nella ricerca medica e non solo.

Fonte: bgr.com
Indice dei contenuti

Cos’è e da cosa è costituito?

Come funziona

Possibili utilizzi

Quali sono i progetti e gli utilizzi futuri?

 

Cos’è e da cosa è costituito?

Dallo studio portato avanti dal Prof. Li Zhang e colleghi dell’Università cinese di Hong Kong, nasce un “robot morbido“, simile a uno slime, in grado di superare i limiti dei predecessori. Gli studiosi, previa considerazione e studio di progetti esistenti per verificare i limiti di molecole simili (esistevano già robot elastici in grado di manipolare oggetti e robot a base di fluidi  per di navigare in spazi ristretti), hanno creato uno slime con proprietà miste. Lo strumento è composto da particelle magnetiche al neodimio mescolate con borace e alcol polivinilico, un aggregato con proprietà viscoelastiche che si comporta come un liquido o un solido a seconda della forza che gli viene applicata (un tipico fluido newtoniano).

Come funziona

Lo slime viene controllato da magneti esterni che sfruttando le forze elettromagnetiche (forza che un corpo esercita su un altro a causa della presenza di cariche elettriche), generano un campo magnetico determinando così i suoi movimenti, potendosi allungare, accorciare e attorcigliare su se stesso.

Fonte: corriere.it

Utilizzi

Permette di inglobare e recuperare piccoli oggetti penetrati erroneamente nel corpo umano essendo in grado di attraversare canali superiori a 1.5mm di diametro. Infatti il team lo ha testato in vari scenari, come l’incapsulamento di una batteria in un modello di stomaco e, più in generale, la compressione e il movimento attraverso fessure di dimensioni millimetriche.
È anche un buon conduttore elettrico, per questo potrebbe essere utilizzato per “saldare” due terminali che si sono staccati, raggiungendoli all’interno dello strumento.

Fonte: www.smartworld.it

Quali sono i progetti e gli utilizzi futuri?

Il prototipo realizzato risulta al momento essere tossico a causa delle particelle ferromagnetiche. Tuttavia i ricercatori stanno già lavorando sulla versione 2.0 provando a ricoprirlo con uno strato protettivo di silice per isolarlo. Gli utilizzi futuri riguarderanno sia la biomedicina (rimozione di corpi estranei, trasporto di farmaci nel tratto gastrointestinale nel sito specifico) ma anche la tecnologia del futuro (riparazione di componenti elettroniche).
In futuro il team della CUHK prevede di voler cambiare il colore del loro robot, rendendolo più vivace e riconoscibile.

Livio Milazzo

Bibliografia

L’incredibile robot di «slime magnetico» che si muoverà dentro il corpo umano per recuperare oggetti- Corriere.it

Sembra Venom, ma è un robot fatto di melma magnetica che potrebbe salvarti la vita – greenMe

La melma cinese che può salvare la vita: afferra oggetti e guarisce da sola. Ecco come funziona (leggo.it)

La “melma magnetica robot” che potrebbe aiutare a recuperare gli oggetti inghiottiti | SmartWorld

Parkinson: la Dnl201 sarà la molecola decollo?

Dopo l’Alzheimer, il Parkinson è la malattia neurodegenerativa più diffusa.
Si tratta di una malattia che coinvolge funzioni quali il controllo dei movimenti e dell’equilibrio, ad evoluzione lenta e progressiva, che rientra tra un gruppo di patologie note come “Disordini del Movimento”.

  1. Cenni storici
  2. Dove è possibile riscontrarla?
  3. Zone del cervello coinvolte
  4. Cause scatenanti
  5. Sintomi 
  6. Come effettuare la diagnosi di Parkinson
  7. Ricerca sperimentale: è possibile guarire dal Morbo di Parkinson?
  8. Conclusioni

 

Cenni storici

Una prima descrizione di questa lenta ma inesorabile malattia fa riferimento ad un periodo intorno al 5.000 A.C in uno scritto di medicina indiana; il nome è legato però a James Parkinson, farmacista chirurgo londinese del XIX secolo che, per primo, descrisse e racchiuse tutti i sintomi in un famoso libretto, il “Trattato sulla paralisi agitante”.

Dove è possibile riscontrarla?

E’ possibile vederla in entrambi i sessi con una leggera prevalenza maschile. Il Parkinson solitamente ha il suo esordio intorno ai 58-60 anni, mentre nel 5% dei pazienti questa farà la sua comparsa nella fase adulta, tra i 21 e i 40 anni. Prima dei 20 anni è particolarmente rara.

Zone del cervello coinvolte

La malattia di Parkinson consiste in una riduzione costante della produzione di dopamina (molecola organica che svolge l’importantissimo ruolo di neurotrasmettitore). Il calo di dopamina è dovuto ad una continua degenerazione di neuroni in una regione del mesencefalo chiamata Substantia Nigra. Si stima che la perdita cellulare sia di oltre il 60% all’esordio dei sintomi e per tale motivo non è attualmente possibile ritornare del tutto alla normalità. Si pensa che l’α-sinucleina, una proteina, sia il motivo di questa ampia diffusione.

Fonte: www.bing.com

Cause scatenanti

Non sono ancora del tutto note le cause della malattia, ma sembra ci sia una moltitudine di elementi che mediano il suo sviluppo. Tra questi abbiamo quelli genetici. Si stima che il 20% dei pazienti abbia familiari con riscontro positivo alla malattia di Parkinson. I geni che concorrono nella sua evoluzione sono α-sinucleina (PARK 1/PARK 4), PINK1 (PARK-6), DJ-1 (PARK7), Parkina (PARK-2), la glucocerebrosidasi GBA e LRRK2 (PARK-8).
Altre cause sono l’esposizione ad alcuni pesticidi, idrocarburi solventi o a metalli pesanti (quali ferro, zinco e rame). Paradossalmente, nonostante le numerose controindicazioni al fumo di sigaretta, questo potrebbe svolgere un ruolo di fattore protettivo nei confronti della malattia.

Sintomi

I sintomi dei pazienti spesso non vengono riconosciuti nell’immediato per via della sua progressione lenta e quasi “mascherata”. Questa viene fuori in punta di piedi, con una manifestazione asimmetrica, quindi solo un lato del corpo è maggiormente interessato. Inoltre i sintomi sono facilmente trascurabili dal paziente inconscio. Tra gli indici di insorgenza ritroviamo: il tremore a riposo, il “tremore interno” – cioè una sensazione avvertita solo dal paziente -, rigidità, lentezza dei movimenti (fenomeno noto come “bracidinesia”) e instabilità posturale.

Possono quindi svilupparsi sviluppi di tipo motorio e non motorio.
Tra i disturbi motori emergono episodi di ”Freezing Gait” cioè un blocco motorio improvviso; postura curva con braccia flesse e tenute vicine al tronco, il quale è flesso in avanti. Il tronco potrebbe anche pendere da un lato, manifestazione della cosiddetta ”Sindrome di Pisa”; Disfagia, cioè problemi legati alla deglutizione. Possono essere pericolosi, poiché solidi e liquidi potrebbero essere aspirati causando polmoniti. Possono anche incombere fenomeni di Balbuzie, che rendono difficile la comprensione del paziente (in questo aiuta la logoterapia).
Tra i disturbi non motori invece, ne figurano alcuni anche molti anni prima rispetto a quelli motori. Questi possono essere legati alle alterazioni delle funzioni viscerali (disturbi vegetativi), dell’olfatto e dell’umore, ma possiamo avere anche disturbi cognitivi, dolori e fatica. Tra i disturbi viscerali ricordiamo la stipsi, cioè un rallentamento delle funzioni gastro-intestinali, disturbi urinari, disfunzioni sessuali, problemi cutanei e sudorazione. Infine, possiamo notare nei soggetti colpiti anche disturbi comportamentali ossessivi compulsivi, apatia e sintomi psicotici (tra cui deliri e allucinazioni).

Fonte: www.bing.com

Come effettuare la diagnosi di Parkinson

Il neurologo risale al morbo di Parkinson attraverso la storia clinica e dopo un’attenta valutazione dei sintomi. Tra gli esami strumentali si ricorre alla SPECT DATscan, scintigrafia del miocardio e PET cerebrale. L’aiuto strumentale è di fondamentale importanza per allontanarci da una diagnosi sbagliata evitando di inciampare nei cosiddetti “Parkinsonismi”, cioè patologie simili al Parkinson.

Ricerca sperimentale: è possibile guarire dal Morbo di Parkinson?

Su “Scienze Translational Medicine” sono stati pubblicati i risultati riguardanti uno studio terapeutico.
Negli Stati Uniti è stata conclusa la prima fase di sperimentazione su una molecola capace di inibire l’enzima prodotto da LRRK2 (gene tra i più importanti presente nella lista delle possibili cause scatenanti), il quale potrebbe rallentare l’evoluzione della malattia. La terapia a base della molecola Dnl201 potrebbe migliorare la funzione del lisosoma evitando che questo possa accumulare proteine tossiche che portano alla neurodegenerazione.

Conclusioni

Gli studi si occupano del controllo dei sintomi della malattia, ma non ne arrestano lo sviluppo. Questi si concentrano maggiormente sul miglioramento delle terapie e sulla prevenzione, ma ancora non è possibile poter ricorrere ad una vera e propria cura che possa bloccarla definitivamente. Fortunatamente esistono numerosi trattamenti capaci di regalare una vita quasi normale, per guadagnare tempo in modo tale da poter scavalcare l’ostacolo finale: annientare questa malattia.

 

La soluzione si trova attraverso la sperimentazione. Soltanto se si esce dalle vecchie abitudini si possono trovare nuove strade.

Andrew S. Grove

 

Dario Gallo

Per approfondire:

Cos’è il Parkinson

Malattia di Parkinson – Wikipedia

Malattia Parkinson, sintomi, diagnosi, cause, fattori ambientali, fattori genetici, trattamenti (iss.it)

A step forward for LRRK2 inhibitors in Parkinson’s disease (science.org)

Dopamina (my-personaltrainer.it)

Come si tratta la Covid-19: facciamo il punto

Le ultime buone nuove riguardano non solo l’arrivo imminente del vaccino Johnson&Johnson e l’efficacia del vaccino Pfizer-Biontech contro le varianti del coronavirus, ma ci sono novità anche sulla terapia della Covid-19. In questo ambito, l’inizio dell’utilizzo degli anticorpi monoclonali è un passo avanti per il nostro paese, ma un’ottima notizia viene da una ricerca pubblicata su Cell Death & Disease che mostra come l’inibizione della ligasi HECT-E3 possa essere una potenziale terapia per la Covid-19.
Analizziamo insieme questa scoperta, per poi fare un quadro sulle attuali terapie consigliate in Italia da linee guida.

Cosa sono le ligasi HECT-E3?

Le ligasi per definizione sono degli enzimi che si occupano di catalizzare delle reazioni di legame tra due molecole, spesso accompagnate dall’idrolisi di ATP. Diversi studi in passato hanno dimostrato una relazione tra diversi virus, fra cui Ebola, e le ligasi appartenenti alla famiglia HECT-E3. Queste sono sfruttate dai patogeni per stimolare il rilascio di particelle virali mature e favorirne l’endocitosi tramite ubiquitinazione.

Da ciò è nata l’idea di studiare se questa relazione fosse presente anche con SARS-CoV-2.

Inizialmente gli studiosi hanno analizzato l’espressione di nove proteine della famiglia HECT in 37 pazienti positivi al tampone molecolare con sintomi severi e 25 soggetti negativi. Si è dimostrata così l’over-espressione di questi enzimi nel primo gruppo rispetto al gruppo di controllo.

Da qui l’ipotesi che un inibitore di questi enzimi, I3C (indolo-3-carbinolo), potesse essere utilizzato come farmaco antivirale per il trattamento dei pazienti Covid-19. La conferma positiva è arrivata dagli studi in vitro: in cellule trattate con I3C dopo infezione da SARS-CoV-2 gli effetti citopatici del virus sono ridotti del 60% rispetto a quelle trattate in maniera standard.

Un altro possibile antivirale: la niclosamide

La niclosamide è un farmaco anti-elmintico utilizzato nelle infezioni parassitarie intestinali fin dagli anni ’70. Secondo uno studio congiunto condotto da ricercatori del King College di Londra e dell’Università di Trieste la niclosamide agirebbe come antivirale a più livelli. Inibirebbe l’autofagia, la replicazione virale stessa e l’endocitosi recettore-mediata del virus, come potete vedere dalla seguente immagine.

(a) Struttura di SARS-CoV-2
(b) Meccanismi d’azione plausibili della niclosamide Fonte: https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/32361588/#&gid=article-figures&pid=fig-1-uid-0

Così è partito uno studio in India per verificare la reale efficacia di questo farmaco nella terapia della Covid-19, ma non ci sono ancora risultati.

Terapia della Covid-19: cosa dice l’AIFA al momento?

La notizia di I3C, per quanto possa essere incoraggiante, va sicuramente presa con le pinze trattandosi di uno studio che ha dimostrato efficacia solo in vitro. Ed anche per la niclosamide ci sarà bisogno di più tempo.

Analizziamo quali sono le linee guida che l’Agenzia Italiana del Farmaco ha approvato per la cura della Covid-19, sia in ambito domiciliare che ospedaliero. Fermo restando che alla notizia di positività la prima cosa da fare è consultare il proprio medico di medicina generale e sarà lui a consigliare se intraprendere una terapia e quali farmaci usare.

Positivo asintomatico

Non fatevi plagiare dalle storie che raccontano i Vip in TV o sui social. Se siete risultati positivi al tampone, ma non avete alcun sintomo, allora non dovete assolutamente intraprendere nessun tipo di terapia.

Caso con sintomi lievi

In questa categoria rientrano pazienti con febbricola e sintomi leggeri attribuibili alla Covid-19 (tosse, congestione nasale, anosmia, mialgie, ecc.). Non devono però mostrare alcun segno di dispnea, disidratazione e alterazione dello stato di coscienza. La terapia è sintomatica: paracetamolo o FANS per la febbre e i dolori artro-muscolari, corretta idratazione ed alimentazione, senza interrompere mai eventuali terapie croniche. L’uso dei corticosteroidi, tanto agognato dagli “esperti” sui social, può essere considerato solo in caso di rapido peggioramento dei sintomi e/o dei valori di saturazione di ossigeno tali da richiedere ossigenoterapia (clicca qui per informazioni più approfondite sul cortisone).

Livelli di evidenza sui farmaci utilizzati a domicilio.
Verde: Farmaci con ruolo definito.
Giallo: utilizzabili in specifiche casistiche.
Rosso: non raccomandati.

Ambiente ospedaliero

I corticosteroidi (desametasone) sono qui il razionale su cui poggia la cura, trattandosi di pazienti che necessitano di ossigenoterapia, con o senza ventilazione meccanica. È possibile associare, sempre come standard di cura, le eparine a basso peso molecolare a dosaggio profilattico per gli eventi trombo-embolici. Questo è consigliato particolarmente nei pazienti allettati e senza controindicazioni. Un eventuale aumento del dosaggio è da considerare nei casi Covid-19 gravi, valutando però sempre il rapporto rischio-beneficio nel singolo paziente.

Il remdesevir è un noto farmaco antivirale appartenente alla classe degli analoghi nucleotidici. Questo agisce interferendo con la replicazione del genoma dei virus a RNA. Un’ancora di salvezza nell’epidemia di Ebola che ha colpito il continente africano negli anni scorsi. Viste le evidenze d’azione anche sul coronavirus, l’AIFA lo ha inserito come farmaco utilizzabile in casi selezionati. E’ indirizzato a soggetti in ossigenoterapia standard (a bassi flussi) con esordio dei sintomi da meno di 10 giorni.

Le terapie immunomodulati, fra queste il Tocilizumab, un anti interleuchina-6, sono state ampiamente provate l’anno scorso in emergenza. Oggi non sono raccomandate, ma possono essere adottate nell’ambito di studi clinici.

Livelli di evidenza sull’uso dei farmaci in ambiente nocosomiale.

Per altri contenuti interessanti sulla lotta al coronavirus continuate a seguirci. Nel frattempo continuiamo a rispettare le regole sul distanziamento e sull’utilizzo delle mascherine, come facciamo da un anno a questa parte. La fine del tunnel pandemico è sempre più vicina.

Antonio Mandolfo

Bibliografia:

https://www.nature.com/articles/s41419-021-03513-1
https://www.aifa.gov.it/aggiornamento-sui-farmaci-utilizzabili-per-il-trattamento-della-malattia-covid19

Argimusco: un posto magico immerso nella natura

Oggigiorno la natura è sinonimo di tranquillità e riflessione. A quanti di noi capita di voler staccare dallo stress quotidiano, magari con una passeggiata all’aria aperta? Fortunatamente, riscoprire il legame con flora e fauna – nonché il dovuto rispetto da portare ad entrambe – è alla portata di tutti.

Ma possiamo affermate di conoscere le bellezze naturali che ci circondano? 

Argimusco: una mistica esperienza nel bel mezzo della Sicilia

A pochi minuti di strada dal Comune di Montalbano Elicona, tra una provola fresca ed una ricotta infornata, si stende l’altopiano dell’Argimusco. Il viaggiatore che vi si reca troverà un cancello di legno, solido e curato, con un’indicazione che, riassunta, dice: “Benvenuto, questo è l’ingresso dell’Argimusco, sei libero di entrare, ricorda solo di rispettarlo e non di sporcare nulla“. Questa frase non fa altro che ricordare all’uomo che egli è parte della natura, e, come tale, avrebbe il dovere di non distruggerla. Ma queste poche parole sintetizzano anche le sensazioni che il viaggiatore proverà dopo una giornata passata in quel posto magico: accoglienza, bellezza, serenità.

Megalite colossale nella piana dell’Argimusco – © Salvatore Nucera 

Il sito dell’Argimusco è famoso per i megaliti dalle forme animalesche ed antropomorfe, che si stagliano per tutta la sua superficie. Sarà per questo che il nome “Argimusco” potrebbe derivare dalle parole arabe hagar (da leggere asgiar), ossia “roccia”, e mistah, “pianura”. Hagar mistah sarebbe poi stato latinizzato dai bardi medioevali in Argimustus. Non mancano però altre teorie, per cui il curioso nome potrebbe derivare dal greco arghimoschion, ossia “altopiano delle grandi propaggini”, o dal latino agrimuscus, “campo di muschio”.

A prescindere dall’origine del nome, è certo che il luogo fosse frequentato sin dai tempi antichi. Esso è infatti ritenuto d’importanza strategica per vari studi astronomici e per il riconoscimento delle stagioni, da sempre importantissimo per i cicli di coltivazione agricola.

Prospetto megalitico, la donna orante – © Salvatore Nucera

I megaliti ed il paesaggio. L’Etna ed il Bosco di Malabotta.

Tra le varie formazioni rocciose, due delle più suggestive sono quella della donna orante e dell’aquila, forse ricollegata all’omonoma costellazione. Secondo la tradizione, Re Federico III d’Aragona avrebbe incaricato il medico alchimista Arnaldo da Villanova (1240-1313) di realizzare una grande opera di medicina astrale; questo spiegherebbe le curiose forme dei megaliti. Più verosimilmente, l’Argimusco è stato un luogo di passaggio utilizzato dai sovrani di Sicilia, ma anche da altre civiltà del passato, per collegare la sponda Tirrenica con quella ionica.

Prospetto megalitico, l’elefantino – © Salvatore Nucera
Prospetto megalitico, l’aquila – © Salvatore Nucera

È proprio l’ampia vista, di cui si gode dalla cima dell’altura, che permette di scrutare una vasta porzione della Sicilia nord-orientale, ricomprendente tanto l’orizzonte marino con le Isole Eolie, quanto il monte dell’Etna, che d’inverno appare tipicamente innevato. Infine il viaggiatore, dopo aver apprezzato una rapida escursione nel vicino bosco di Malabotta, potrà riposare nella vicina Montalbano, Comune spesosi negli anni per promuovere la bellezza di questi territori.

Montalbano Elicona, Chiesa di San Domenico, Santuario di Maria SS. della provvidenza – © Salvatore Nucera

In questo tripudio di sensazioni, assume una valenza centrale il rapporto tra i vari elementi naturali, favorita dalla personificazione della nuda roccia, quasi a volerci ricordare che siamo un tutt’uno con la Terra. Una giovane amicizia, che dura da circa 2 milioni di anni.

 

Salvatore Nucera

 

Immagine in evidenza: Prospetto megalitico, la vasca sacra – © Salvatore Nucera

Per approfondire:

Orlando A., Argimusco: Cartography, Archaeology and Astronomy, The Light, The Stones and The Sacred, 2017, p.123-155

A Montalbano Elicona: https://amontalbanoelicona.it/le-nostre-tradizioni/argimusco/

 

 

Un anticorpo monoclonale per la lotta al coronavirus

Recentemente la corsa al vaccino anti-SARS-CoV2 sembra aver ricevuto un’accelerata decisiva: in studi di fase tre, i due sieri delle case farmaceutiche americane Pfizer e Moderna sono risultati efficaci in più 90% dei casi. Ma, oltre al vaccino, ci sono altre vie che ci potranno aiutare ad uscire una volta per tutte da questa pandemia globale? La risposta è sì: il 28 ottobre è stato pubblicato sul New England Journal of Medicine uno studio sull’utilizzo dell’anticorpo monoclonale LY-CoV555 (sempre di una casa farmaceutica americana, Ely Lilly). Questo riuscirebbe a ridurre l’ospedalizzazione dei malati Covid dal 70 al 90%.

Sede centrale di Eli Lilly ad Indianapolis (USA)

Prima di tutto: cos’è un anticorpo monoclonale?

Gli anticorpi o immunoglobuline sono glicoproteine prodotte normalmente dei nostri linfociti B, attivati a plasmacellule, in risposta all’incontro con antigeni patogeni. Gli anticorpi monoclonali hanno lo stesso obiettivo, ma li produciamo in laboratorio attraverso metodiche di ingegneria genetica.

Si tratta di una tecnologia nuova? No, tutt’altro. Dobbiamo la loro scoperta a Georges Koheler e Cesar Milner, che nel 1984 vinsero il Nobel per la medicina. La prima tecnica utilizzata per produrli è stata quella dell’ibridoma, che sfrutta cellule di origine murina e conta una serie di passaggi:

  1. Immunizzazione del topo attraverso l’iniezione dell’antigene verso cui vogliamo produrre gli anticorpi.
  2. Prelievo delle plasmacellule murine dalla milza.
  3. Fusione di queste cellule con cellule neoplastiche in coltura: si ottiene una cellula detta ibridoma, che produce una quantità elevata del nostro anticorpo.
  4. Quindi moltiplicazione dell’ibridoma in coltura.

Oggi esistono anticorpi monoclonali totalmente umani, così da superare completamente il rischio di immunogenicità.

Tipologie di anticorpi monoclonali in base alla composizione prevalentemente murina o umana

 

Alcuni esempi

Prima di parlare dello studio che ha dimostrato l’efficacia di LY-coV555 nei pazienti affetti da Covid-19, vediamo alcuni degli anticorpi monoclonali oggi utilizzati.

  • Omalizumab è un anticorpo monoclonale umanizzato diretto contro le IgE, ovvero le immunoglobuline coinvolte nelle reazioni allergiche. È indicato nel trattamento dell’asma allergico grave e dell’orticaria, quando le altre terapie non si sono dimostrate valide per il controllo della malattia.
  • Trastuzumab, anch’esso un anticorpo umanizzato, è rivolto contro il dominio extracellulare del recettore HER-2, utilizzato nei carcinomi mammari che lo iper-esprimono. Il settore oncologico è probabilmente quello in cui gli anticorpi monoclonali stanno portando le migliori innovazioni.
  • Infliximab è invece un anticorpo chimerico, il suo bersaglio è il fattore di necrosi tumorale e la FDA (Food and Drug Administration) lo ha approvato per alcune malattie autoimmuni, come il morbo di Crohn, la colite ulcerosa, la spondilite anchilosante, la psoriasi e l’artrite psoriasica.

Altro esempio è il Tocilizumab: questo agisce da immunosoppressore bloccando l’azione di una delle citochine chiave della risposta infiammatoria, ovvero l’interleuchina 6 (IL-6). È il gold standard nell’artrite reumatoide e, nel mese di aprile ad inizio della pandemia, era stato utilizzato con discreti risultati anche per il trattamento di alcuni pazienti affetti da Covid-19.

Il trial sull’anticorpo monoclonale LY-CoV555

LY-CoV555 ha un meccanismo d’azione molto semplice da spiegare, si tratta di un potente anticorpo anti-spike. Lega ad alta affinità il dominio della spike di SARS-CoV-2 che gli permette di penetrare nelle nostre cellule e lo neutralizza.

https://www.dailymail.co.uk/sciencetech/article-8285333/Antibody-prevents-COVID-19-virus-infecting-human-cells.html

Il trial della Ely Lilly ha coinvolto 452 pazienti provenienti da 41 centri degli Stati Uniti, tutti testati positivi al nuovo coronavirus e presentanti sintomi lievi o moderati. La popolazione in studio è stata suddivisa in due bracci: uno riceveva un’infusione endovenosa di LY-CoV555, mentre l’altro un placebo. Nel primo braccio possono essere distinti anche tre sottogruppi in base alla dose di farmaco ricevuta, rispettivamente 700 mg, 2800 mg e 7000 mg.

L’outcome primario dello studio era quello di calcolare la variazione della clearance virale all’undicesimo giorno rispetto al giorno dell’infusione. Entrambi i gruppi hanno mostrato un miglioramento, con una diminuzione media di -3,81 nell’intera popolazione dal valore basale. Coloro che avevano ricevuto il farmaco hanno mostrato un maggior decremento del gruppo “placebo”. In questo il sottogruppo ottimale è risultato essere quello con il dosaggio intermedio di LY-CoV555, ovvero 2800 mg.

Quali effetti su ricovero e sintomi? E quali effetti indesiderati?

Per quanto riguarda l’ospedalizzazione, al 29esimo giorno soltanto l’1,6% dei pazienti trattati era ancora in ospedale e di questi la maggioranza aveva un’età superiore a 65 anni ed un BMI superiore a 35, considerati comunque fattori di rischio aggiuntivi. Nel gruppo placebo il tasso di ospedalizzazione alla stessa data era invece del 6,3%.

Ulteriore risultato positivo riguarda i sintomi. Questi sono stati valutati clinicamente mediante uno score: ognuno stimato da 0 (nessun sintomo) a 3 (sintomi severi). Il punteggio totale raggiungibile era di 24 ed i principali sintomi considerati erano: tosse, perdita del respiro, febbre, fatica, mal di gola, mal di testa e perdita dell’appetito. LY-CoV555, a qualsiasi dosaggio, ha dimostrato di ridurre la durata del periodo sintomatico, come evidente nel grafico seguente.

Nel trial non si sono verificati effetti avversi gravi nei pazienti del gruppo “farmaco”, mentre per quanto riguarda gli effetti avversi non considerati gravi questi si sono manifestati nel 22,3%. Il più frequente riportato era la nausea (3,9%), seguita da diarrea (3,2%) e vertigini (3,2%).

Lo studio non ha coinvolto gravi ammalati e solo uno degli arruolati, appartenete al gruppo “placebo”, è finito in terapia intensiva. Altro punto a svantaggio di questa terapia è il costo degli anticorpi monoclonali e, come detto dalla virologa Ilaria Capua in una recente intervista, “è illusorio pensare che questa cura possa arrivare a tutte le persone in pochi mesi”Nel frattempo rispettiamo le regole, utilizzando le mascherine e mantenendo il distanziamento sociale.

Antonio Mandolfo

 

 

Bibliografia

https://www.infomedics.it/servizi/biotecnologie/la-storia.html

https://www.nejm.org/doi/full/10.1056/NEJMoa2029849

http://www.informazionisuifarmaci.it/omalizumab

Musicoterapia, un farmaco senza effetti collaterali

Chi al mondo non conosce la musica?

Siamo proiettati sin dalle prime percezioni sensoriali a sentire suoni, melodie, che ci accompagnano poi per tutta la vita. Infatti se da principio nell’Antica Grecia la musica viene intesa come prodotto dell’arte di ideare e produrre, oggi di sicuro è molto più che una semplice arte, è una costante, una compagna quotidiana.

Provando ad analizzare la tua ”giornata tipo” ti accorgerai che è una stabile presenza. Già la sveglia, la mattina, parte con una fastidiosa musichetta, il più delle volte. Ma anche con le pubblicità, o nei bar, discoteche, supermercati, saloni di bellezza, in macchina, in chiesa, palestre, perfino aspettando di parlare con un operatore telefonico, ciò che ti accompagna è la musica.

Cosa ti succede quando ascolti la musica?

Premesso che sentire ed ascoltare sono due azioni differenti (essendo la prima prettamente involontaria e l’ascoltare qualcosa di più attivo), il suono come onda meccanica giunge a livello uditivo e da qui a livello cerebrale.

Le parti del cervello coinvolte dagli stimoli sonori sono numerose. L’ ascolto di un brano musicale, può indurre degli effetti biologici su tutto il corpo e in particolare su:

-Frequenza cardiaca e pressione sanguigna: la velocità del ritmo musicale agisce sul ritmo cardiaco aumentandolo ascoltando musiche veloci mentre diminuendolo con quelle più lente, allentando tensioni corporee, l’ansia e le preoccupazioni. Come se il cuore volesse andare a tempo.
-Temperatura corporea: la musica ad alto volume può alzare la temperatura di qualche grado .
-Respirazione: ascoltare una musica veloce rende il respiro più dinamico mentre i ritmi più lenti provocano un respiro più profondo inducendo uno stato di rilassamento.
-Regolazione degli ormoni dello stress: l’ascolto di musiche rilassanti diminuisce il rilascio di ormoni dello stress come la secrezione di cortisolo; la musica inoltre può regolare il rilascio di ossitocina che regola lo stress, l’ansia e gli stati motivazionali affettivi.

Tutto ciò si esplica concretamente nel potere della musica di calmare, eccitare, concentrare e anche curare.

La storia della musica come terapia

La storia della musicoterapia inizia già dal ‘500. Il suo beneficio nell’ascoltarla, o dal crearne e riprodurne aveva già portato a pensarla come uno strumento terapeutico.
I primi passi concreti però li avremo solo dopo la Seconda Guerra Mondiale in America. Infatti negli ospedali, casualmente si vide quanto la musica giovasse ai pazienti, grazie ad alcuni musicisti che volontariamente vi si recavano per allietare le giornate dei veterani degenti. Da questo piccolo gesto di altruismo, nasce la consapevolezza di quanto fosse importante e quasi necessario questo strumento, ma anche di come prima ci volesse una preparazione preventiva.
La figura del musicoterapista come professionista si deve a tre importanti figure: Ira Althshuler, Willem van de Wall e E. Thayer Gaston, padri della musicoterapia. Al giorno d’oggi ci sono numerose associazioni professionali della musicoterapia, tra cui vale la pena citare l’American Music Therapy Association (AMTA), nata nel 1998, che è attualmente la più vasta associazione di musicoterapia del mondo.

Applicazioni della musicoterapia

La musica può essere considerata un fattore motivante per quei pazienti restii a sottoporsi alla psicoterapia o farmacoterapia;
Gli obiettivi principali della musicoterapia sono:
– ridurre le tensioni
– rimuovere le inibizioni
– facilitare la comunicazione
– stimolare l’attività sociale e individuale
– istaurare un processo che faciliti e favorisca la comunicazione e l’espressione delle emozioni

Demenze

La musicoterapia in questi pazienti si è dimostrata essere uno strumento di comunicazione con il paziente. Soprattutto nell’ambito della Alzheimer, alcuni studi hanno dimostrato ottimi risultati con miglioramenti della
-memoria a breve termine, l’ascolto di un brano conosciuto o a cui si è affettivamente legati può rievocare con molta precisione un episodio della vita;
-orientamento spazio temporale;
-tono d’umore;
-senso di identità;
-competenze espressive e relazional
i;
riduzione dei livelli di cortisolo, e con esso dello depressione, stress e delle compromissioni cognitive che possono scaturire da un incremento di questo ormone.

Terapia palliativa del dolore

Si tratta di programmi terapeutici attuati per lo più in pazienti oncologici in fase terminale. In alcuni studi condotti su persone affette da carcinoma epatico, i risultati sono stati sorprendenti: nei giorni in cui i pazienti effettuavano questa terapia, e soprattutto mentre la eseguivano, non avevano avuto bisogno di somministrazioni di antidolorifici come la morfina che erano soliti prendere nei giorni pregressi. 

Autismo

Nell’ambito dell’autismo la musicoterapia non solo migliora il comportamento, ma influisce anche sulla forza delle connessioni tra le aree cerebrali. In questa patologia c’è uno squilibrio tra le varie connessione neuronali, che sono accentuate. L’ipotesi è che le capacità di comunicazione sociale diminuirebbero a causa di tutta la sovra stimolazione sensoriale. Mi spiego meglio: immagina di parlare con qualcuno, mentre grida, in una stanza con luci molto forti percepite come flash. Quanto saresti in grado di relazionarti adeguatamente in questa situazione? Effettuando la RM durante la musicoterapia si è valutata una diminuzione delle connessioni tra le aree uditive e visive, che può portare a miglioramenti delle abilità sociali.  È possibile che diminuendo i sintomi sensoriali, le abilità sociali migliorino.

In conclusione anche se ad oggi la musicoterapia non è di certo così ampiamente utilizzata, si auspica che in un futuro possa essere maggiormente applicata essendo una metodica a basso costo, che può giovare a chiunque.
Vorrei inoltre proporti di guardare un bellissimo film proprio su questo argomento che si chiama ”La musica che non ti ho detto” e di dedicare sempre del tempo a te stesso, magari chiudendo gli occhi per un po’, dimenticando i tuoi problemi e
ascoltando un po’ di sana, buona musica.

Sofia Turturici

Bibliografia

https://americanamusic.org/node/495
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/22743206/
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/14689332/
https://pubmed.ncbi.nlm.nih.gov/26417751/
http://tesi.cab.unipd.it/51115/1/porcu.elisabetta.1048659.pdf
https://www.stateofmind.it/2018/06/musicoterapia-demenze/

Tutte le nuove terapie sperimentali approvate in Italia contro la COVID-19

Innumerevoli titoli sensazionalistici si sono susseguiti, su giornali e riviste non strettamente scientifiche, durante questa emergenza: dalle possibili panacee per tutti i mali alle cure più bizzarre, spesso risulta difficile orientarsi con cognizione di causa in questo labirinto di informazioni.

Oggi parliamo di tutte le novità in campo terapeutico e cerchiamo di comprendere quali potrebbero essere i farmaci più promettenti.

Sarilumab e siltuximab

Come ormai abbiamo imparato, la COVID-19 ha qualcosa in comune con l’artrite reumatoide (AR), patologia infiammatoria che colpisce le articolazioni. Già la scienza ha preso in prestito da questa malattia un farmaco, il tocilizumab, che già ha mostrato qualche risultato interessante, alcuni ancora non pubblicati, sopratutto nei pazienti gravi.

Se per il sarilumab ancora siamo agli albori, cosa ha spinto l’Aifa (Agenzia Italiana del Farmaco) ad approvare studi a riguardo?

Entrambi (come potete notare anche dalla somiglianza dei nomi) sono anticorpi monoclonali: altro non sono che proteine prodotte in laboratorio, le quali legano specifiche molecole responsabili delle patologie delle quali stiamo parlando, in questo caso il recettore dell’interleuchina 6 (IL-6). Quest’ultima è una citochina (proteina prodotta in corso di infiammazione) che è molto rappresentata in pazienti affetti sia da AR che da COVID-19: per agire, l’IL-6 deve legare a sua volta il suo recettore, in modo tale da innescare processi che portano al proseguire dell’infiammazione e del danno a tessuti.

Immagine che mostra come il Kevzara (nome commerciale del sarilumab) lega il recettore dell’IL-6 (m IL-6R e sIL-6R) impedendo l’azione della stessa – Fonte:kevzarahcp.com

Questo aumento ingente delle citochine si verificherebbe soprattutto nei pazienti più gravi, che ad oggi devono pertanto affidarsi a farmaci in sperimentazione.

Attualmente sono in corso due studi: uno pilota su un piccolo numero di pazienti e senza confronto con altre terapie, e uno molto più ampio (AMMURAVID) nel quale saranno confrontati ben 7 diversi protocolli terapeutici. Tra questi spunta anche il siltuximab, che agisce direttamente contro l’IL-6.

L’ormai assodata intuizione sulla correlazione alto grado di infiammazione-gravità della COVID19 fa ben sperare: oltre – chiaramente – al meccanismo comune con l’ormai noto Tocilizumab.

Baricitinib

Altro farmaco in prestito dall’artrite reumatoide. Senza scendere troppo nei dettagli, questa volta il meccanismo è un po’ diverso: innanzitutto il farmaco è somministrabile anche per bocca (i precedenti sono utilizzati endovena); inoltre, agisce dopo che il legame molecola-recettore è già avvenuto, bloccando questa volta piccole proteine (JAK), sempre coinvolte nella sintesi delle citochine infiammatorie.

Il vantaggio potrebbe risiedere nella maggiore maneggevolezza; inoltre, se i precedenti si focalizzano solo su IL-6 e il suo recettore, le proteine JAK si trovano coinvolte in molti altri meccanismi che causano infiammazione, nonché (come abbiamo imparato) il peggioramento del paziente. Una sorta di effetto multiplo che potrebbe risultare più efficace.

Vari meccanismi d’azione del Baricitinib (ed altre molecole simili) – Fonte: Lancet

Ma c’è di più. Secondo uno studio pubblicato su Lancet, questo farmaco agirebbe anche su un altro fronte: l’ingresso del virus nella cellula. Come è ormai noto, la porta di ingresso del virus è il recettore ACE2: l’entrata del virus è tuttavia possibile solo se interviene anche un’altra proteina (AAK1) la cui funzione è inibita dal baricitinib.

Insomma, un’intuizione non da poco che, se si dimostrerà efficace, agirà su più fronti rispetto ad altri farmaci attualmente in possesso. Non a caso, l’Aifa ha autorizzato due studi, dei quali uno è il già citato AMMURAVID.

Selinexor

Questa volta cambiamo tipologia di farmaco: il selinexor è stato recentemente approvato negli USA nella terapia di casi molto resistenti di mieloma multiplo, tumore di interesse ematologico (ovvero che coinvolge cellule sanguigne, nello specifico le plasmacellule). L’approvazione è stata addirittura accelerata, in quanto questi pazienti non rispondono ad altre terapie e il farmaco si è dimostrato abbastanza efficace.

Ma cosa hanno in comune un’infezione virale ed un tumore?

Sembrerebbe strano tentare di utilizzare lo stesso farmaco, ma il selinexor induce la morte cellulare (apoptosi) delle cellule tumorali, così come potrebbe indurla nelle cellule infettate dal virus. Qualche cenno al meccanismo: anche qui abbiamo una doppia azione, mediata dall’inibizione di un processo chiamato “esportazione nucleare“; questa è svolta, tra le altre proteine, dall’esportina 1. 

Schematica descrizione dell’azione  antitumorale del selinexor: in questo caso, le proteine “bloccate” sono quelle che promuovono la crescita e sopravvivenza delle cellule tumorali

Quanto le proteine implicate nell’infiammazione, tanto quelle virali hanno bisogno dell’esportina 1 per svolgere la loro funzione correttamente. Da questo dato, è stato impostato uno studio che coinvolge 40 centri a livello internazionale.

Piccola nota sull’AMMURAVID: tutti i farmaci testati saranno associati alla terapia standard (idrossiclorochina) e confrontati non solo tra loro, ma anche con l’uso della sola idrossiclorochina stessa. Per questo motivo, lo studio promosso dalla Società Italiana di Malattie Infettive e Tropicali, potrebbe fornire informazioni molto interessanti per focalizzare la ricerca sulle cure realmente migliori rispetto ad altre, selezionando il farmaco più efficace.

Nell’attesa che questi studi dimostrino – come ci auguriamo – l’efficacia di nuove terapie, una cosa è certa: la scienza non si ferma, nemmeno di fronte ad un virus e ad una malattia totalmente nuovi.

Quello che possiamo fare attualmente, essendo il vaccino un’opzione più tardiva, è affinare al meglio la strategia terapeutica, grazie a due elementi fondamentali: l’intuito e le conferme inequivocabili dei dati scientifici.

Emanuele Chiara

 

Bibliografia:

https://www.aifa.gov.it/sperimentazioni-cliniche-covid-19

https://onlinelibrary.wiley.com/doi/abs/10.1002/jmv.25964

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7137985/

Plasma iperimmune vs vaccino: tra scienza e complottismo

Riceviamo e pubblichiamo il contributo di Roberto Palazzolo, studente del VI di Medicina e Chirurgia presso l’Università di Messina, circa la differenza tra la terapia con plasma di soggetti guariti da Covid-19 ed il vaccino.

Negli ultimi giorni ha avuto molto risalto mediatico la notizia sul “Plasma iperimmune” per curare i malati di Covid19. La trasfusione di plasma non è una terapia nuova: viene utilizzata a esempio nelle ustioni, negli stati di shock emodinamico per sopperire alla mancanza di: liquidi, proteine importanti per la pressione oncotica del sangue come l’albumina, sali minerali.

È pure noto che tra le proteine del plasma vi siano gli anticorpi, molecole prodotte dai linfociti B che servono a contrastare gli agenti patogeni (virus, batteri, funghi, protozoi) con cui siamo già stati in contatto in una precedente infezione, per cui si è pensato che questi anticorpi potessero avere un ruolo importante nel trattamento dei malati di Covid19.
Diversi pazienti hanno già usufruito di questa terapia sperimentale a base di plasma donato dai soggetti guariti dall’infezione, con buoni risultati. [1]

La domanda sorge spontanea: è stata trovata la cura al Covid19? La risposta ahimè è assai complessa, ecco perché.

Purtroppo, per il trattamento di una sola persona, ci vogliono circa 2 sacche di plasma, ovvero da 3 a 6 donazioni (per ottenere una sacca di plasma valida sono necessari dai 2 ai 3 donatori). [2]
Ora, una persona può donare solamente una volta ogni 30 giorni il plasma [3], per curare un singolo malato ci vogliono 3 guariti che donano.

Punto primo: si può obbligare la gente a donare? No, è vietato dalla legge, non si può obbligare nessuno a donare o in generale a ricevere trattamenti medici contro la propria volontà. [4]

Punto secondo: attualmente ci sono circa 96.000 contagiati, supponendo che solo 1000 siano in terapia intensiva, significa che ci vorrebbero circa 1500-2000 sacche, ovvero 3.000-6000 guariti che donino, che poi per i successivi 30 giorni non potrebbero donare. [5]

Punto terzo: la cura col plasma inoltre potrebbe non garantire l’immunità futura, visto che si usano anticorpi di altre persone ed il proprio sistema immunitario non viene stimolato a produrre i propri (un esempio lo abbiamo tra la vaccinazione antitetanica ed il siero antitetano [6]).
In parole povere: si potrebbe guarire, ma ci si potrebbe riammalare poco dopo.

Punto quarto: è necessaria la compatibilità tra i gruppi sanguigni, cosa che riduce il numero di donatori per i pazienti con gruppi sanguigni meno rappresentati nella popolazione [7], i macchinari e la procedura per purificare il plasma costano tanto, la plasmaferesi (procedura che serve a separare il plasma dal resto del sangue) dura parecchio, ci sono pochi macchinari per fare un’operazione del genere su vasta scala. [8]

Punto quinto: le malattie. Ricevere plasma significa ricevere una trasfusione di sangue, con tutti i rischi che ne conseguono: se ad esempio si fosse in fase di latenza da HIV [9], non c’è modo di sapere se il proprio sangue è infetto, questo comporterebbe che chi ricevesse il plasma di un infetto da HIV in fase di latenza, diventerebbe sieropositivo, dovendo curarsi a vita. Per cui, vista la mole di plasma che sarebbe richiesto se esso fosse l’unica cura al Covid19, non potrebbe essere garantito il periodo finestra di 4 mesi (intervallo dall’ultimo rapporto sessuale non protetto ndr) utile ad evidenziare se un donatore è sieropositivo o meno. [9]

Questi sono i principali motivi che mi vengono in mente per dire che sì, la terapia con plasma è utile per i malati gravi di Covid19, tuttavia essa non può essere utilizzata come cura per un elevato numero di persone, mentre l’utilizzo di un vaccino sarebbe più idoneo nella prevenzione dell’infezione da Covid19.

Come funziona un vaccino?

Con il vaccino si usano parti del virus, chiamate epitopi, per sviluppare anticorpi propri. Iniettato l’epitopo del virus, con sostanze adiuvanti (sostanze che servono a scatenare una risposta immunitaria più potente, per coinvolgere un maggior numero di Linfociti) si attiverà nell’organismo un sistema di allarme (PAMP), il quale a sua volta recluterà le cellule immunitarie (cellule di Langherans, Linfociti T e B) con il fine ultimo di produrre protezione immunitaria duratura.                                                                                          Infatti, se quella stessa parte di virus venisse di nuovo a contatto con il nostro organismo, si risveglierebbero le cellule B della memoria, create grazie al vaccino, che in poco tempo comincerebbero a produrre anticorpi andando a contrastare il virus velocemente ed efficacemente.  [Abbas – Immunologia] 

Meglio il plasma o il vaccino?

Una volta trovata la giusta sequenza di epitopi (costituiti da sequenze di amminoacidi, come un codice), accertata la non pericolosità del vaccino (attraverso le sperimentazioni dapprima laboratoristiche, poi animali, infine umane), produrlo non costerebbe che pochi euro a dose, potendo garantire una protezione anticorpale a tutta la popolazione (cosa impossibile da fare col plasma, visto che per proteggere l’Italia, 60 milioni di abitanti, ci vorrebbero 180 milioni di donatori, e peraltro non sarebbe una protezione duratura). Gli anticorpi dati dal vaccino invece, durerebbero 1-2 anni [10], garantendo la protezione a tutti e senza rischi ed i costi legati alle trasfusioni.

I rischi del vaccino?


Una reazione allergica (curabile con antistaminico e cortisone) o in rarissimi casi (probabilmente 1/100.000 o più) reazioni crociate immunitarie tali da avere qualche caso di reazioni autoimmuni (curabili anch’esse col cortisone o immunomodulanti). [11]

Appare evidente che il confronto tra i due sia a netto favore del vaccino, per cui prima di gridare al complotto, che sostiene che la cura con il plasma venga nascosta per favorire la creazione di un vaccino da parte delle case farmaceutiche, come ahimè si può notare negli ultimi giorni sui social media, sarebbe meglio informarsi. Tutte le testate giornalistiche hanno infatti riportato l’efficacia della cura sperimentale con il plasma, non ci sarebbe alcun motivo per nasconderlo al mondo intero (né sarebbe possibile). Piuttosto, come spiegato sopra, è inverosimile che la cura al plasma possa essere risolutiva nel contesto di una pandemia globale.

Porgo ai lettori una riflessione: la scienza richiede anni e anni di studio, un video su internet pochi minuti, più facile quindi affidarsi al secondo. Quindi attenzione: quando la soluzione appare ovvia e immediata, probabilmente è falsa e frutto di chi ci vuol lucrare o vuole prendervi in giro!

06/05/2020

Roberto Palazzolo

[1] https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pubmed/32281317 

[2] https://www.ilpost.it/2020/05/01/plasma-convalescenti-covid-19-coronavirus-italia/ e http://www.simti.it/donazione.aspx?id=1  

[3] https://www.avis.it/donazione/i-tipi-di-donazione/ 

[4] http://www.senato.it/japp/bgt/showdoc/17/DDLMESS/0/1062643/index.html?part=ddlmess_ddlmess1-articolato_articolato1&spart=si&parse=si 

[5] http://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/dettaglioContenutiNuovoCoronavirus.jsp?area=nuovoCoronavirus&id=5351&lingua=italiano&menu=vuoto 

[6] https://medicinaonline.co/2018/03/03/differenza-tra-vaccino-ed-immunoglobuline/ 

[7] https://www.avis.it/wp-content/uploads/userfiles/file/News/febbraio%202013/Girelli.pdf 

[8] http://www.gestionerischio.asl3.liguria.it/pdf/sole%2024%20ore%20Regione%20Veneto%20tutti%20i%20costi%20delle%20trasfusioni.pdf 

[9] https://www.paginemediche.it/medicina-e-prevenzione/disturbi-e-malattie/aids 

https://avisemiliaromagna.it/2015/03/01/sessualita-e-donazione/ 

[10] https://time.com/5810454/coronavirus-immunity-reinfection/ 

[11] https://www.epicentro.iss.it/vaccini/ReazioniAvverse 

Eparina e Covid-19: come e perchè della nuova sperimentazione AIFA

Negli ultimi giorni è stata data molta attenzione all’utilizzo dell’eparina nella terapia contro il SARS-CoV-2. Descritta da alcune testate giornalistiche con titoli sensazionalistici come “cura contro il Coronavirus” o letteralmente “molecola di Dio”l’eparina è davvero una novità tanto importante? Importante lo è senz’altro, ma una novità certamente no, vediamo perché. 

Cos’è l’eparina e quando viene utilizzata

L’eparina è una molecola con funzione principale di anticoagulante naturale. Si lega a un fattore del sangue, l’antitrombina III (AT-III), che a seguito del legame con l’eparina stessa cambia conformazione esponendo il suo sito attivo. L’AT-III attivata a sua volta inattiva la trombina, il Fattore X, e altre proteasi coinvolte nella coagulazione del sangue. Per la sua funzione biologica l’eparina viene utilizzata da decenni in casi di infarto miocardico, fibrillazione atriale, trombosi venosa profonda, embolia polmonare ed altre condizioni in cui si formano trombi nel circolo sanguigno.  

Perché utilizzare l’eparina in una polmonite virale

Non bisogna pensare che, in corso di polmoniteil resto dell’organismo non sia coinvolto. Possono essere variamente interessati cuore, reni, fegato, cervello e nervi, sistema emopoietico (ecco un articolo divulgativo della Fondazione Veronesi). Ciò può avvenire per azione diretta del virus, o anche per azione indiretta. La spiegazione è semplice: in corso di polmonite, specie se di grave entità, vengono rilasciate elevate quantità di chemochine e citochine pro-infiammatorie che agiscono a livello sistemico e alterano, tra gli altri, il normale equilibrio della coagulazione. Infiammazione e coagulazione sono strettamente correlate e si influenzano vicendevolmente, anche a livello polmonare. 

Queste complesse interazioni molecolari sono state comprovate clinicamente da diversi studiRicerche condotte nell’ambito del “MEGA study” (Multiple Environmental and Genetic Assessment of risk factors for venous thrombosis), uno degli studi più estesi mai compiuti per lo studio di fenomeni trombotici, hanno confrontato 4956 pazienti affetti da TVP (trombosi venosa profonda) o EP (embolia polmonare) contro oltre 6000 controlli. Nell’ambito di tali gruppi, è stato dimostrato come, nella sottopopolazione di pazienti affetti da polmonite, il rischio di andare incontro a TVP fosse di 3-4 volte maggiore e il rischio di EP, con o senza TVP, fosse da 6 a 10 volte maggiore.  

Per queste ragioni, già note, l’utilizzo di eparina a scopo preventivo è indicato dall’OMS in corso di COVID-19 fin da inizio gennaio. 

Le caratteristiche della COVID-19 che fanno ben sperare

Sono state riscontrate alcune peculiarità che hanno catturato l’attenzione della comunità scientifica. 

Premettendo che il fulcro del discorso sono i pazienti ricoverati in terapia intensiva, e non tutti i soggetti positivi al SARS-CoV-2, un recente studio ha evidenziato come oltre il 30% dei soggetti ammessi in ICU manifesti complicanze trombotiche. Si tratta di un’incidenza molto significativa che non va sottovalutata.  

Inoltre è stato dimostrato che il Sars-Cov-2 lega l’eparan-solfato e l’eparina endogena prodotti dal nostro organismo e localizzati soprattutto nella membrana basale delle arterie polmonari. Il legame avviene tramite il dominio RBD della proteina Spike S1 e provoca un’importante alterazione conformazionale che inattiva tali molecole. Non solo le molecole endogene, ma anche l’eparina esogena subisce lo stesso effetto. Questo apre le porte a diversi ragionamenti: da un lato il virus provoca direttamente, oltre che scatenando un’intensa risposta infiammatoria, un’alterazione dei processi emocoagulativi; dall’altro l’eparina potrebbe avere un ruolo nel “sequestrare” il virus inibendone l’ingresso nelle cellule.  

Non a caso si sta ipotizzando la somministrazione del farmaco per via inalatoria, nebulizzata, per sfruttare questa sua azione diretta “antivirale”. 

L’eparina non è solo un anticoagulante

La sperimentazione dell’eparina in casi di ALI (Acute Lung Injury), come può essere la ARDS (Sindrome da Distress Respiratorio Acuta) da qualsiasi causa, è in corso da oltre un decennioIl razionale di ciò è che tale molecola ha dimostrato in numerosi studi molte altre proprietà oltre a quella anticoagulante 

In vitro l’eparina è in grado di inibire la cascata di trasduzione del fattore NF-κB e di ridurre così l’espressione di molteplici mediatori pro-infiammatori nei macrofagi alveolari e negli pneumocitiIn vivo, attraverso studi su topi con ALI indotto, sono stati dimostrati effetti simili di inibizione del NF-κB e del TGF-β, ma anche di riduzione del reclutamento di granulociti neutrofili e dell’edema alveolare, tramite somministrazione per via inalatoria. Inoltre ridurrebbe la disfunzione endoteliale avendo un effetto protettivo sul sistema cardiovascolare.

Anche se questi effetti ottenuti in vitro e su modelli animali non hanno avuto lo stesso riscontro in studi clinici applicati a pazienti sotto ventilazione meccanica, in pazienti con ARDS manifesta la somministrazione di eparina ha ridotto il numero di giorni di ventilazione meccanica necessari per il recupero. Inoltre, una meta-analisi ha evidenziato come il trattamento per via inalatoria con eparina a basso peso molecolare entro i primi 7 giorni di ALI/ARDS riducesse il rischio di mortalità del 48% entro la prima settimana e del 37% entro il primo mese, migliorando anche l’efficacia degli scambi gassosi polmonari, specie nei pazienti trattati con alte dosi. Gli stessi autori dichiarano però che il basso numero di studi e di pazienti esaminati potrebbe rendere i risultati fuorvianti, per cui sono necessari ulteriori dati clinici da analizzare.  

Il punto della situazione

Premessa l’assenza di una terapia efficace contro la COVID-19, lelevata incidenza di complicanze trombotiche nei pazienti affetti e le potenziali azioni multiple dell’eparina hanno portato l’AIFA (Agenzia Italiana del Farmaco) ad approvare un nuovo protocollo di sperimentazione 

Il documento dell’AIFA descrive come la COVID-19 segua schematicamente tre fasi di malattia 

  • una fase precoce con sintomi simil-influenzali;  
  • una parte di pazienti passa ad una seconda fase che si caratterizza per una polmonite interstiziale spesso bilaterale;  
  • in una terza fase, in un numero di casi limitato, si può evolvere verso un quadro clinico ingravescente dominato dalla cosiddetta tempesta citochinica, con uno stato iperinfiammatorio che può sfociare in ARDS grave e in alcuni casi in CID (Coagulazione Intravascolare Disseminata).  

In tale complesso quadro le EBPM (eparine a basso peso molecolare) si collocano: 

  • Nella fase iniziale della malattia, quando è presente la polmonite, a dose profilattica con lo scopo di prevenire il tromboembolismo venoso, come già noto.  
  • In fase avanzata, in pazienti ricoverati in terapia intensiva, per contenere i fenomeni trombotici conseguenza dell’iperinfiammazione. In tale caso le EBPM dovranno essere utilizzate a dosi terapeutiche.   

14 centri italiani sono stati coinvolti nello studio; il farmaco sarà fornito gratuitamente dall’azienda farmaceutica Techdow Pharma e somministrato a 300 pazienti ammessi alla sperimentazione per via sottocutanea. Un primo gruppo di 200 pazienti con dose di profilassi (pari a 4.000 U.I.) e un secondo di 100 partecipanti con dosi terapeutiche intermedie (di 6.000, 8.000 o 10.000 U.I. in base alla massa corporea).  

Si spera così di rispondere ai quesiti irrisolti sui potenziali effetti terapeutici e non solo preventivi dell’eparina nei pazienti con COVID-19. Va però sottolineato che si tratta di tutt’altro che una novità o un farmaco miracoloso, come è stato pubblicizzato. Ma potrebbe rivelarsi una potenziale speranza in più, al pari di molti altri farmaci di cui si è discusso, in pazienti in fase avanzata di malattia per i quali purtroppo, ad oggi, la medicina non può far altro che andare per tentativi. 

Davide Arrigo

 

Bibliografia:

https://www.aifa.gov.it/documents/20142/0/Eparine+Basso+Peso+Molecolare_11.04.2020.pdf/31ad4388-05aa-956b-c1a3-10cbd5354fc3
https://onlinelibrary.wiley.com/doi/full/10.1111/j.1538-7836.2012.04732.x
https://www.thrombosisresearch.com/article/S0049-3848(20)30120-1/pdf
https://www.biorxiv.org/content/10.1101/2020.02.29.971093v1.full.pdf
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC5799142/#r11
https://onlinelibrary.wiley.com/doi/epdf/10.1111/jth.14821
http://www.ijcem.com/files/ijcem0057580.pdf