Perchè ti alzi dal letto la mattina?

Perchè ti alzi dal letto la mattina?

Sì, proprio così.
Ti sei mai posto questa domanda?

Ecco, un’altra roba motivazionale! Perchè ho aperto quest’articolo?” starai pensando.

Sta’ tranquillo, non c’è nulla di “Just do it” o “Yes you can”.

Shia LaBeouf stamattina è rimasto a casa.

 

 

Quello che voglio spiegarti oggi è il concetto di Ikigai, originario del Giappone e meritevole di attenzione.

Ah! Si tratta di moralismo orientale, cose spirituali e mamma mia noi occidentali siamo tutti avidi

 

No, hai frainteso ancora.
Lasciami spiegare e goditi il viaggio, ti prometto che ne uscirai arricchito.

O almeno ti avrò tenuto compagnia in un momento “morto” della giornata.

Tutti, in un certo momento della vita, o delle nostre giornate, ci chiediamo qual è il significato di ciò che facciamo.

Perchè sto studiando?

Cosa farò dopo?

Ho un sogno?

Cosa mi spinge a impegnarmi ogni giorno?

Le risposte potrebbero essere le più variegate.
Molto spesso però avvertiamo che qualcosa manca, che un reale motivo non c’è, o che semplicemente quello stesso motivo è un artifizio. Insomma, non ci crediamo davvero.

Studio perchè voglio diventare avvocato

Lavoro per potermi permettere di girare gli Stati Uniti quest’estate

Il mio sogno è costruire una famiglia

Sono motivazioni molto forti e con un grande peso.
Il problema è però un altro: senti un fuoco nel tuo petto ogni volta che ti impegni per concretizzare il tuo motivo?

Senti proprio quell’urgenza che ti toglie il sonno?

Riconosci di poter essere l’unico a realizzare quell’obiettivo?

Tutto questo non vuol dire che devi distruggerti di stress o essere fanatico. È soltanto sana dedizione.

Se è così, allora congratulazioni!
Hai un Ikigai.

Ma cos’è un Ikigai? Definiamolo meglio.

Il termine Ikigai può essere tradotto in “scopo della vita” o “ragion d’esistere”. È il motivo per cui ci alziamo dal letto la mattina.

Molto diffuso ad Okinawa, nel sud del Giappone, sembra essere il segreto della stupefacente longevità dell’area, appartenente alle famose “zone blu”.

Nel libro “Il metodo Ikigai. I segreti della filosofia giapponese per una vita lunga e felice” Héctor García e Francesc Miralles sostengono che 24,55 centinaia di persone ogni centomila sono centenari.
Si sono recati personalmente nel rinomato “villaggio dei centenari” popolato da soltanto tre mila abitanti e hanno conosciuto anziani pieni di vita e in ottima salute.

Sicuramente svolgono importanti ruoli l’attività fisica, l’alimentazione e il senso di appartenenza alla comunità.
È tuttavia decisiva la filosofia dell’Ikigai, ben radicata in questa gente.

Come si può vedere dall’immagine riportata, l’Ikigai è un’intersezione tra:

 

 

-Ciò che amiamo fare

-Ciò di cui il mondo ha bisogno

-Ciò per cui possiamo essere pagati

-Ciò che sappiamo fare

 

 

Se l’intersezione esclude uno o più cerchi non ci si sentirà completamente soddisfatti.
Infatti fare ciò che amiamo e saperlo fare anche bene ci rende soddisfatti, ma anche inutili.
Fare bene qualcosa ed essere pagati ci semplifica la vita, ma ci sentiamo vuoti.
Fare qualcosa di utile per il mondo ed essere anche pagati ci entusiasma, ma c’è sempre instabilità, non siamo dove vorremmo essere.
Mettere al servizio del mondo ciò che sappiamo fare può renderci felici, ma non abbiamo una sicurezza economica su cui contare.

Come si vede, giramo molto vicini al nostro Ikigai, senza mai afferrarlo davvero.

Ognuno di noi ha un suo Ikigai.
Magari qualcuno ne è già consapevole, qualcun altro lo sta ancora cercando.
È necessaria una paziente ricerca, la quale passa dall’incontro con la propria parte più profonda.

È importante comprendersi davvero.

A volte, per iniziare la ricerca, è sufficiente quella piccola scintilla che ci fa rifiutare di limitarsi a vivere fino alla fine dei giorni concessici qui.

È quel desiderio di avere uno scopo più grande, di aver vissuto per realizzare qualcosa più grande di noi che ci fa porre domande.

Porre l’attenzione su questo concetto ha molta importanza in un mondo frenetico e senza certezze. Siamo sempre più insoddisfatti e infelici, ingurgitiamo esperienze per colmare il vuoto.

Basterebbe scoprirsi, o per meglio dire Ri-scoprirsi.
Ogni nostra piccola azione acquisirebbe un significato diverso.
In definitiva, saremmo più felici senza togliere o aggiungere altro alle nostre vite.

 

                                                                                                                                                                                                                                                                                                                                       Angela Cucinotta

Abbatti lo stereotipo – La paura del diverso

Bansky – Anti Immigration Birds Mural

Società, una parola che descrive lo sviluppo dell’ambiente umano che ci circonda, caratterizzato dal fascino delle culture diverse e dal silenzio che talvolta si abatte tra di esse. Silenzio, un’altra parola che spesso ci fa paura a sentirla e che invece fa rumore, un rumore che sentono solo quelle persone che vengono ammutolite dalla società.

L’ambiente sociale può farti vivere bene come può condizionarti, a partire dai pregiudizi e per finire nel grande vortice degli stereotipi. Molte persone ormai confondono “Pregiudizi con Stereotipi “, ma non è corretto; avere pregiudizi fa parte dell’essere umano, appartiene a quella sfera di domande che cerca continuamente risposte esterne ma non ne trova di migliori al di là della sua visione, senza spingersi al di là del proprio occhio, e che cerca quindi di rinchiudere quello che capta in un semplice “nomignolo” del momento, che rimarrà fino ad un tempo indeterminato, fino a quando non arriveranno altre risposte che ricreano ancora una volta quel momento di puro pregiudizio. A primo impatto ci può essere stato di mezzo uno stereotipo, ma esso in realtà è molto più grande ma soprattutto molto più accentuato.  Essere stereotipati al giorno d’oggi è diventata una routine: questo termine non è altro che classificare i gruppi sociali, coloro che fanno parte solo di un’unica nicchia. Ma ora la vera domanda che un po’ tutti al giorno d’oggi ci chiediamo,  quando vediamo i gruppi e le nicchie, sono stereotipati o si sentono realmente parte integrante di esse?   

Sfortunatamente ancora nel ventunesimo secolo ci sono nicchie nate proprio dagli stereotipi, un po’ come le classi, ma questa non si può definire una lotta marxista di potere, ma solo una lotta di riconoscimento che riguarda il singolo. Quando pensiamo agli stereotipi generalmente ci vengono in mente non solo le grandi nicchie sociali, ma ci anche altri contesti, gli ambienti d’istruzione così come quelli lavorativi.

Ricordandoci che lo stereotipo non è solo questione di “nicchie” o di essere selettivi nelle proprie caratteristiche, ma rientra nella diversità che  tutt’oggi non si accetta, chiamata anche “ Xenofobia – Paura del diverso”. Una paura che viene nascosta come se essa fosse un muro. Ecco perché la nascita delle diversità a partire da quella della materia stessa, ha portato a parlare della storia fino ai giorni nostri, ed è finita per essere classificasta in vari schemi, come se ci fossero delle piccole stanze immaginarie. In queste stanze tante persone, anche se vivono nella stessa zona, saranno in luoghi diversi, senza alcun contatto o conoscenza dell’altro. Tutto ciò che ci riporta alla storia non è semplice  “lotta tra popoli o grandi dittatori “, ma gli stereotipi cosi come i pregiudizi hanno fatto nascere guerre prima in passato ed ora sempre più nei confronti della società, provocando, come ho detto antecedentemente, solamente SILENZIO. 

             

 Dalila De Benedetto

La sentenza

M.C. Escher – Altro mondo

Stando attento a non essere notato, mi  inoltrai all’interno del palazzo che mi era stato indicato da Joseph.
Secondo le sue istruzioni, avrei dovuto salire una rampa di scale evitando di utilizzare l’ascensore, per quale motivo non saprei. All’epoca dei fatti ero giovane e meno interessato ai dettagli di quanto non lo sia adesso. Un uomo chiamato “Pavese” mi avrebbe atteso in cima alle scale per scortarmi al luogo dell’appuntamento. Giunto all’interno del buio androne mi feci coraggio e iniziai a salire le scale, sfiorando il muro con mano tremante, quasi temessi che potesse improvvisamente ferirmi. In cima alla rampa trovai chi cercavo. Un uomo piccolo e forse più giovane di me mi accolse con un sorriso. Senza che avessi il tempo di dire chi ero e chi mi mandava, mi invitò a seguirlo con placida fermezza. All’epoca dei fatti ero giovane, come ho già detto, e quando si è giovani si finisce a volte per pagare lo scotto di possedere più entusiasmo che buonsenso. Camminai scortato dal Pavese lungo corridoi ora stretti, ora larghi. Qualche volta dovemmo chinarci, perché il tetto si faceva basso a tal punto che solo un bambino sarebbe potuto passare tenendosi ritto. Una volta il Pavese si girò sorridente a guardarmi, volendo forse saggiare la mia meraviglia. Ma ciò che ebbe a leggere sul mio volto doveva essere più vicino allo sgomento che alla meraviglia, perché non si girò più. Pensai di averlo offeso, e mi dispiacque. Mentre attraversavamo un corridoio dalle pareti pulsanti, gli chiesi se fosse stato Joseph a informarlo del mio arrivo. Continuò a camminare senza degnarmi di risposta. Allora, Joseph era un uomo importante. Faceva parte della commissione scientifica locale quando l’antitanatina venne scoperta dalla professoressa Yvonne Nettesheim nel 3965. Nel 3992, anno in cui nacqui, la molecola venne introdotta nel mercato. Il prezzo era proibitivo per la quasi totalità della popolazione mondiale. Quando avevo circa vent’anni, il prezzo era sceso a meno della metà rispetto a quello iniziale. Per il mio trentaquattresimo compleanno decisi di acquistare la mia fiala di antitanatina, ormai praticamente alla portata di chiunque. Ricordo ancora distintamente il momento in cui tenni la scatola rossa tra le mani sudate. La mia ragazza di allora mi aiutò a iniettare il prodotto in vena. Lei lo aveva già fatto qualche mese addietro, mi avvertì che avrei provato un senso di calore irradiato al torace, seguito poi da un profondo torpore. Questo non fu vero per me, perché sperimentai invece un senso di euforia durante tutto il processo. Mi addormentai, stremato, alle prime luci del mattino seguente. Ma il mio sonno fu simile a uno stato di dormiveglia allucinato. Al risveglio, non mi sentivo assolutamente riposato. Al tempo non sapevo ancora che sarebbe sempre stato così da allora in avanti.
Il Pavese si muoveva con agile familiarità attraverso i corridoi. Quando fummo giunti innanzi a una porta massiccia, di un colore mai visto prima e tutt’oggi indefinibile, mi disse di attenderlo lì. Non bussò, ma la porta si spalancò ugualmente e lui vi passò attraverso. Ricordo di aver intravisto qualcosa dall’altra parte della porta, ma cosa di preciso non saprei dirlo. Forme geometriche forse, o colori. Durante l’attesa rimasi immobile. Mi ritrovai inspiegabilmente a pensare a mio padre, vecchio amico di Joseph. Pensai alla sua semplicità di “uomo” nella vecchia accezione del termine. Da quando la sterilizzazione obbligatoria di massa impose il divieto assoluto di generare nuova prole, mi sono chiesto spesse volte cosa provassero gli uomini del mondo antico nel concepire una nuova  vita. Non sono mai stato padre, ma sono stato a mio tempo figlio, credo. Chissà cosa doveva provare mio padre. “Certo, si inizia a essere padri” – pensai – “ ma si cessa mai di essere figli?”. Il rumore della porta che si apriva mi strappò ai ricordi e alle riflessioni. Ne uscì lentamente il Pavese, che prese a fissarmi con aria divertita. Stavolta fui io a infastidirmi. Azzardai allora a chiedergli se ciò che cercavo si trovasse al di là della porta, e volli appositamente fissare la porta mentre mi rivolgevo a lui, come per negargli timidamente il ruolo necessario che in realtà ricopriva. Il Pavese non mi rispose, allora mi girai, imbarazzato. Con mia grande sorpresa  era sparito.
Attraversando la porta sentii e vidi tante cose, ma sono certo di non averne compresa appieno neanche mezza. Un uomo, o forse una donna, mi attendeva con la schiena poggiata al muro. Non appena mi vide mi chiese se avessi i soldi, gli risposi di sì. Mentre armeggiava con una valigetta chiese il mio nome, gli risposi che non lo ricordavo più. Estrasse dalla valigetta una fiala dal contenuto lattescente che mi ricordò l’antitanatina acquistata tanto tempo fa. Un po’ intimorito chiesi a quella figura, dalla quale ormai dipendeva il mio destino, entro quanto tempo l’antitanatina sarebbe stata finalmente scacciata via dalle mie vene, ormai ridotte a rigidi tubi macilenti. Mi rispose con una frase enigmatica, che mi fece sorridere; disse: “tra un po’ di tempo fa”.
Compiendo il percorso a ritroso, uscii più velocemente che potei da quel palazzo coi suoi assurdi corridoi.
Stringevo in pugno la fiala che avrebbe finalmente posto rimedio a tutto. Era stato Joseph a fare da intermediario per me, come per altri pochi che potevano permetterselo, forse mosso dall’antica amicizia con mio padre o dai sensi di colpa o ancor più probabilmente dalla sua mostruosa cupidigia. Avevo venduto tutto ciò che possedevo e racimolato i soldi necessari con pazienza, per circa 20 anni. Allontanatomi dall’ingresso del palazzo iniziai ad affrettare il passo, prima che me ne rendessi conto stavo già correndo. Giunto alle baracche che da ormai qualche anno erano diventate dimora mia e di altri giovani sbandati, mi gettai sul duro pavimento, piangendo, felice come mai mi era accaduto di essere in tutto quel tempo. Finalmente stavo per ricongiungermi alla semplicità degli uomini antichi, al tutto, al nulla. Il fracasso dei vetri sfondati e le pesanti mani degli agenti che mi bloccavano a terra distrussero in una manciata di secondi  le mie illusioni. Mi strapparono dalle mani la fiala e mi serrarono ai polsi le manette. Nella caotica scena che mi vedeva attonito e sconfitto, sentii uno degli agenti parlare di una certa soffiata al dipartimento anti-siero da parte di uno spacciatore. Sentii inoltre che insieme a me erano state poste in stato di arresto altre 12 persone, tra le quali un noto e illustre personaggio. Intuii subito che si trattava di Joseph. Da quel giorno mi trovo qui, in attesa della sentenza definitiva.  Io non sono altro che un disgraziato, signor giudice, le parlo con la destra sul cuore. Ho fatto uno sbaglio di cui mi pento, adesso ho capito, ma mostrate la clemenza che si addice a un uomo della sua risma. In fondo, avevo solo seicentotredici anni all’epoca dei fatti, non ero in grado di discernere da dove partono e dove portano i sentimenti. Ho confessato, come ha confessato Joseph, e so che a lui è stata concessa la pena di morte. Abbiate pietà, signor giudice! Abbiate pietà! Ho confessato come Joseph, concedetemi la pena che mi spetta di diritto! ». Il giudice si alza solenne, in silenzio. La corte si aggiorna.

Fabrizio Bella

Alda Merini, la poetessa dei Navigli

Alda Merini, una poetessa dalla sensibilità elevata, simbolo, anche, del malessere degli individui; malessere che per lei aveva come paracadute soltanto la poesia.

Alda Merini nasce il 21 marzo del 1931 a Milano. Alda è la seconda di tre figli, ma della sua infanzia si conosce poco. Nelle brevi note biografiche si descrive come una ragazza sensibile e dal carattere malinconico, isolata e poco compresa dai genitori.

Esordisce come autrice giovanissima, a soli quindici anni, sotto la guida di Giacinto Spagnoletti che scoprì il suo talento artistico.

La storia della Merini è una storia molto particolare, la sua vita non è stata monotona, ma al contrario caratterizzata da emozioni fortissime. Il suo malessere inizia a farsi vivo con quelle che lei stessa definì nel 1947:

prime ombre della sua mente“.

Era già sposata e madre felice ma, come tutti noi esseri umani, aveva momenti di stanchezza e tristezza. Parlò di questi suoi piccoli problemi al marito che non solo non comprese nulla, ma fece ricoverare la moglie nella clinica Villa Turro di Milano.

Alda Merini soffriva di disturbo bipolare che all’epoca era considerato semplicemente un costante cambiamento d’umore. Questo problema era la “marcia” in più per lei: riusciva a vedere cose laddove gli altri non riuscivano a vedere e di conseguenza a creare poesie e aforismi impressionanti, capaci di colpire nel profondo il lettore. Il malessere di cui ha sofferto Alda Merini è stato logorante per lei. La sua vita è stata un mix di emozioni e gioie, legate però a perenni dolori. Questa sua condizione trovava sfogo, prima che sui fogli, sulle pareti delle sua camera da letto, tappezzata da frasi, aforismi e riflessioni sulla vita, sull’amore.

Scritte con il rossetto in ogni angolo, sugli specchi, vicino il letto, in ogni parte della casa.

La vita della poetessa dei Navigli non è stata molto facile in manicomio. Come disse spesso, lei non si riteneva pazza e ne era consapevole; si ribellava ai medici e alle cure a cui la sottoponevano. Il ricordo peggiore è quello dell’elettroshock. Alda ricordava la stanza dove lo “somministravano” come un luogo terribile, dove ti saliva l’ansia e la paura già nell’anticamera. Un luogo piccolo e sporco, dove la gente aspettava il proprio turno ascoltando inerme le pene patite nella stanza vicino. La Merini però può ritenersi relativamente fortunata perché la sua reclusione, malgrado tutto, non durò molto. Quando uscì, in ogni caso la sua persona ne risentì profondamente, tanto che la sua vita ruotò attorno all’incubo del manicomio. Luoghi di tortura legalizzati, dove i “matti“ non avevano nessun rapporto con l’esterno. Luoghi in cui ancora oggi si respira la crudeltà dell’uomo. La poetessa racconta, in una delle sue interviste, che prima dell’elettroshock facevano una pre morfina e poi davano del curaro. Dopo anni in manicomio la Merini ritrovò una pace interiore per qualche tempo, ma i ricordi del passato riemergevano spesso. Lei considerava la poesia un’espressione di dolore, un dolore intimo, esclusivo del poeta, che, in quanto tale, è per natura più incline alla sofferenza. Ma accettò il dolore indossandolo “come un vestito incandescente, trasformandolo in poesia”. In una nota intervista alla domanda ‘Lei è felice?’ Alda rispose ‘La mia felicità è la mia rassegnazione. Sì, sto bene da sola, quando se ne vanno tutti e posso cominciare a pensare anche in questa piccola casa che tutti denigrano e dicono che è disordinata, non curata, polverosa. Ma questa polvere è polvere di farfalle come sono i pensieri! E se la togli non volano più.’

Ecco qualche passo delle sue poesie più belle…

Ero matta in mezzo ai matti.
I matti erano matti nel profondo, alcuni molto intelligenti.
Sono nate lì le mie più belle amicizie.
I matti son simpatici, non così i dementi, che sono tutti fuori, nel mondo.
I dementi li ho incontrati dopo, quando sono uscita.

Io non ho bisogno di denaro.
Ho bisogno di sentimenti
Di parole, di parole scelte sapientemente, di fiori, detti pensieri,
di rose, dette presenze,
di sogni, che abitino gli alberi, di canzoni che faccian danzar le statue,
di stelle che mormorino all’orecchio degli amanti… Ho bisogno di poesia,
questa magia che brucia le pesantezza delle parole, che risveglia le emozioni e dà colori nuovi.

E poi fate l’amore
Niente sesso, solo amore.
E con questo intendo i baci lenti sulla bocca, sul collo, sulla pancia, sulla schiena,
i morsi sulle labbra, le mani intrecciate,
e occhi dentro occhi.
Intendo abbracci talmente stretti
da diventare una cosa sola,
corpi incastrati e anime in collisione,
carezze sui graffi, vestiti tolti insieme alle paure, baci sulle debolezze,
sui segni di una vita che fino a quel momento era stata un po’ sbagliata. Intendo dita sui corpi, creare costellazioni,
inalare profumi, cuori che battono insieme,
respiri che viaggiano allo stesso ritmo,
e poi sorrisi,
sinceri dopo un po’ che non lo erano più. Ecco, fate l’amore e non vergognatevene, perché l’amore è arte, e voi i capolavori.

Solitudine
S’anche ti lascerò per breve tempo, solitudine mia,
se mi trascina l’amore, tornerò,
stanne pur certa;
i sentimenti cedono, tu resti.

Alda Merini visse la solitudine del malato che non è solo fisica – essere chiusi tra le quattro mura di una clinica restando esclusi dalla vita fuori – ma anche psicologica: il malato è un diverso e per questo rimane isolato dalle persone ‘normali’. A proposito della solitudine in manicomio, in Diario di una diversa la poetessa scrive: “Si parla spesso di solitudine, fuori, perché si conosce solo un nostro tipo di solitudine. Ma nulla è così feroce come la solitudine del manicomio”. Ma la diversità di Alda Merini che la condanna all’isolamento non è solo quella del malato, ma anche quella dell’artista: “scrivere una poesia è un momento di grande solitudine”, disse la Merini in un’intervista a Loris Mazzetti, aggiungendo che “il timbro del manicomio che ti porti dietro per tutta la vita è un timbro di alienazione”.

Alda Merini ha avuto amori e figli, ma la solitudine – dell’artista e della reclusa – è stata la sua vera compagna di vita, che nella poesia ‘Piccoli canti’ infatti chiama ‘solitudine mia’, parlando di lei come di una vecchia amica che l’ha fatta soffrire ma di cui ormai non può fare più a meno, e a cui infine dice ‘tornerò, stanne pur certa’.

Concludo dicendo che questa grande poetessa dalla sensibilità elevata, con la sua voglia di essere una donna libera e diversa, cercò di cogliere la forza e il limite della parola nel silenzio di un’immagine. Era bella e unica perché non rassicurava nessuno, non stava da nessuna parte, non difendeva verità assolute! Viveva l’amore con semplicità, sapeva custodire e proteggere il senso della vita. Prediligeva la notte, sua compagna muta ma vicina, dove i suoi dubbi più belli, le sue fragilità e i suoi versi sbattevano e battevano come farfalle notturne contro i battiti nascosti della sua solitudine.

A tutti i giovani Alda lasciò un grande messaggio:

A tutti i giovani raccomando:
aprite i libri con religione,
non guardateli superficialmente,
perché in essi è racchiuso
il coraggio dei nostri padri.
E richiudeteli con dignità
quando dovete occuparvi di altre cose.
Ma soprattutto amate i poeti.
Essi hanno vangato per voi la terra
per tanti anni, non per costruirvi tombe,
o simulacri, ma altari.
Pensate che potete camminare su di noi
come su dei grandi tappeti
e volare oltre questa triste realtà
quotidiana.
Alda Merini , da < La vita facile>.

Con queste sue intense parole Alda ci spiega il senso della vita, invita ognuno di noi ad amarla, amare i poeti e i libri “per volare oltre questa triste realtà quotidiana”.

Gabriella Puccio

CUS = Centro Universitari Sfaticati

Quanti di noi poveri e obesi universitari, distrutti dalle sessioni d’esame, cercano uno svago salvifico nello sport? Quanti, almeno una volta nella vita, hanno sottoscritto un abbonamento al centro sportivo d’ateneo, della durata di un mese, perché convenientissimo?

Quanti, pur essendo andati solo una settimana, hanno ancora la chiocciolina per badgare, per la pigrizia che ci caratterizza e che ci porta a pensare “perdo cinque euro ma là non ci torno”?

In effetti, uno dei fattori più discriminanti che limitano l’accesso al CUS è proprio la sua posizione, sulle colline dell’Annunziata. Se vivi al centro è meglio che tu decida di partire due ore prima, perché tra file interminabili sulla via Garibaldi e impediti alla guida ti sembrerà di star facendo il cammino di Santiago. Quando arrivi non sei davvero arrivato, c’è ancora un lungo percorso da fare tra campetti e similari, fino al parcheggio, da cui a piedi devi poi raggiungere la struttura che cerchi. Chiunque abbia frequentato il CUS, la prima volta si è perso.

Quando devi iscriverti sembra che tutto l’universo abbia deciso di perdere peso il tuo stesso giorno, e la fila in segreteria arriva fin fuori alla porta. “Chi è l’ultimo?”, “la signora è venuta e ha parcheggiato il figlio… non lo so… gioiaaaa la mamma viene o passa la signora?”. Povero bambino, avrà livelli d’ansia peggio di quando mia madre mi lasciava a fare la fila al supermercato e si perdeva tra gli scaffali. Finalmente arrivi nello spogliatoio, enorme per piscina e palestra e pulitissimo. Il tempo non viene scandito in ore ma in colpi d’accetta perché la gente è solita dimenticare il lucchetto dell’armadietto nello zaino. A conti fatti si spende più di lucchetti che di abbonamento.

Arriviamo alla nota dolente: le persone che frequentano la struttura.

Tra tutte spicca lui/lei: l’ex. L’ex è una presenza fissa, imprescindibile, c’è sempre. Vedendolo/a capisci che il CUS fa veramente miracoli, perché ha perso 10 kg, non sai come, non sai quando. Quando stava con te dovevi circumnavigarne il perimetro, ora di profilo scompare. Ti domandi come diavolo faccia ad essere ovunque, palestra, piscina, attrezzi, beh, la risposta è diversa, se è una donna fa PNT, la nuova frontiera per bruciare le calorie: Pilates, Nuoto e Tonificazione. Praticamente appare dovunque tu sia, ad un certo punto ti senti una veggente di Lourdes. Se è un uomo, dopo esservi lasciati, anche perché “non puoi stare sempre a poltrire sul divano, dai un senso alla tua vita!” lo ritrovi lì, a fare bicipiti, tricipiti, addominali, sembra il tizio della pubblicità di MediaShopping. Ti guarda, non ti saluta, ti spassa davanti, prende i pesi, posa i pesi che manco Karate Kid.

Oltre all’ex rincontri: vecchi amici scomparsi, compagni delle medie, lo zio di Ivana quella della mensa, i compagni delle superiori, i professori in tenuta ginnica che io vi auguro di non vedere mai, tutti che ti salutano affannati con un sorriso perché non si può perdere tempo, bisogna allenarsi. Ti distrai un attimo perché i personal trainer ti fanno ancora credere nell’arte per quanto sono boni (non c’è altro modo per dirlo), finché non ti fanno la scheda, lunga come poche cose nella vita. La nota positiva, quasi, è che puoi visualizzarla dal telefono, però purtroppo tra cuffie, telefono, pesi, asciugamano e bottiglia d’acqua il più delle volte ti cade tutto. Per non parlare di quella maledetta scansione del qr nel tapis roulant, che è quanto di più cattivo possa esistere, perché ti blocca il telefono che manco i virus nel 1997 e ti fa perdere tutti i progressi della scheda. Un aspetto interessante della piscina è che se fai nuoto libero il mercoledì verso le 19, per i primi 10 minuti sarai nella pace del silenzio, da solo; alle 19,30 inizia quella che io chiamo Acqua GIN, perché in effetti mi sembrano tante ubriache; per poi arrivare alle 19,45 orario in cui c’è talmente tanta gente che ti sembra di essere a Rimini e Riccione in alta stagione.

Qui incontri:

  1. Il bello del quartiere, muscoloso, tatuato, con la cuffietta e la barba, che sembra dire “levatevi inetti, so’ meglio io”; solitamente fa medicina, raramente giurisprudenza, in un minuto fa 12 vasche.
  2. La Federica Pellegrini de’ noartri, ex modella, che tu pensi “cambio corsia che mi vergogno… questa chissà da quanto va al CUS per essere così…” solitamente non frequenta, la frequentano.
  3. Tuo nonno, che non sa nuotare, fa nuoto libero e si sposta per inerzia occupando una corsia. Quando decide di nuotare con una bracciata provoca uno tzunami, quando batte i piedi sembra l’elica della Caronte.
  4. La gente umile che a ogni vasca ti chiede “vado io o vai tu”, ma c’è da chiedere, io sono qui per fare l’idromassaggio… vai vai.

Non si capisce come mai ma a inizio estate il CUS si desertifica, rimani solo tu che per la tua pigrizia non hai concluso niente, e vuoi rimediare in due settimane a maggio facendo allenamento intensivo e mangiando bacche, ma non ci riuscirai mai, tranquillo/a. Forse il CUS è la cosa più organizzata che abbiamo e onestamente, se anche voi volete perdere la vostra morbidezza, armatevi di buona volontà e trascinatevi lì, perché i risultati si vedono.

Se pure non volete, le email vi ricorderanno che siete fuori forma con proposte di sport e corsi vari e con promozioni verso enti, che, ironia della sorte, il più delle volte sono ristoranti.

 

Paola Puleio

Pietà

Edvard Munch – L’assassino

 

L’estate irrompeva in paese imponendo i propri umori e scacciando la gente verso i vicini borghi montani. Vittorio osservava le strade inondate dal sole attraverso l’ampia vetrata della sua stanza. Ciò che riceveva da quella vista era un impressione che, come ogni anno, lui stesso faticava a decifrare – un misto d’orrore, letizia, tristezza. Vittorio era senza dubbio un uomo pratico, e come tutte le persone pratiche era dotato di scarso senso dell’umorismo; la natura, in cambio, lo aveva in qualche modo risarcito di quella grave mancanza donandogli una robusta intelligenza intuitiva: riusciva a indovinare esattamente e con facilità quale fosse il rimedio adatto a ogni turbamento dell’anima, che si trattasse dell’anima propria o di quella d’altri.  Sapeva dunque che quello specifico sentimento così ricco e ambiguo che andava sperimentando col primo caldo estivo aveva come unico rimedio una visita al bar di Franco.

Insomma, a Vittorio piaceva bere un bicchiere o due, soprattutto nel periodo della “mestizia”, come piaceva erroneamente definirla alla madre di lui.

Franco possedeva un piccolo bar alla periferia del paese. Tra i lecci e profumi di ragazze era piacevole starsene seduti sugli sgabelli malconci la sera – e Franco, se non proprio un amico, era quantomeno un conoscente con cui ci si poteva permettere qualche confidenza. A notte inoltrata, quando anche l’ultima clientela era fuori a godere della propria ebbrezza alla luce dei lampioni, Franco avvicinava Vittorio con un cenno del capo e serviva da bere a entrambi. Vuotato il bicchiere, restava dietro al bancone con un espressione quasi artificiale, e quando finalmente parlava era impossibile capire se fosse serio o scherzasse. Vittorio era affascinato e al contempo inquietato dalla persona di Franco. Era come se le proprie paturnie avessero in quei giorni una forza tale da autoproclamarsi indipendenti dal corpo e dalla volontà di lui, e che avessero corpo proprio, voce propria, volontà propria. Elementi questi che condensavano nella figura di Franco. Parlare a quattr’occhi con lui, con l’impulsività e la stolida fluidità che solo l’alcol è in grado di concedere, era evidentemente per Vittorio una sorta di catarsi in quei periodi.

Una sera accadde qualcosa che non è giusto definire spiacevole. Non importa riportare esattamente il giorno e l’orario. I fatti e la loro realtà sono tutto ciò che conta. Vittorio si trovava su uno degli sgabelli malconci a riflettere pigramente su qualcosa di indefinito, come se nei meandri della sua mente fosse presente un’idea capricciosamente restia a svilupparsi e manifestarsi con completezza. A un tratto la sua attenzione venne richiamata da un movimento sul muretto di fronte: in un forsennato dibattersi di minute zampette una piccola vespa si trovava col ventre pietosamente rivolto al cielo. Un gruppo di formiche si era raccolto attorno alla malcapitata, ed evidentemente si apprestava a consumarne le carni ancora vive e recalcitranti. Vittorio ebbe l’impressione che quell’essere sofferente, la cui impotenza era al contempo pietosa e nauseabonda, implorasse il suo aiuto. Provando una cocente quanto inspiegabile vergogna decise di affrettarsi al bancone. Non ordinò nulla. Pagò il conto, salutando con un cenno Franco. Tornando a casa ebbe l’amara impressione che non sarebbe più tornato in quel bar dagli sgabelli malconci, e che non avrebbe più rivisto né Franco, né le ragazze fresche e disinibite, né lo spettacolo crudele del desinare delle formiche. La notte passò lentamente, in un turbinare di pensieri e immagini di cui Vittorio non ebbe più ricordo al risveglio. Nei giorni seguenti quello che era sempre stato un senso ambiguo di inquietudine ed eccitazione si tramutò in un’angoscia insonne e scivolosa. La logica praticità di cui aveva sempre beneficiato sembrava ormai non trovare più espressione. L’immagine della vespa impotente affollava intrusivamente i suoi pensieri già dal primo mattino senza che vi si potesse trovare valido rimedio. Anche la madre iniziava a notare con profonda apprensione mutamenti nel suo comportamento: non usciva praticamente più di casa, rifiutava il cibo e iniziava ad assumere una strana espressione nel viso pallido, come di chi tace a fatica un gravoso senso di colpa. In realtà albergava nella tormentata mente di Vittorio una viva produttività intellettuale: non potendo più ignorare i pensieri, aveva iniziato a processarli con metodicità e a metabolizzarli poco per volta, come farebbe l’organismo con un veleno potente ma ben diluito. Si faceva in lui sempre più forte la sensazione che quella sera gli fosse stata rivelata una verità superiore, che coinvolgeva profondamente l’intero universo. Iniziò a riflettere a lungo sui modi e i motivi dell’alimentazione, trovando assurdo che un essere dotato di ragione e compassione potesse condividere la medesima brutalità con le dissennate formiche, coinvolgendo nella propria sopravvivenza la sofferenza e la morte d’altre forme di vita. La soluzione si affacciò alla sua mente in modo semplice e spontaneo: se si voleva davvero evitare la sofferenza di altri esseri viventi, bastava non coinvolgerli. Lieto di essersi riconciliato con la sua proverbiale praticità, decise che non avrebbe più consumato carni animali. Iniziò così un periodo di esaltante novità, e non solo dal punto di vista alimentare. Prese ad informarsi sul vegetarianismo e le sue ragioni. Si dedicò avidamente alla lettura di saggi di sociologia e testi mitologici che avevano come oggetto déi antichi e i luoghi da loro concepiti, privi di violenze o affanni. Quando Dio non era ancora appannaggio di un cieco antropocentrismo, la sua esistenza era interpretata alla luce della manifestazione di tutte le forme – viventi e non. Dio padre era cielo, vento, grano, lupo. Questi pensieri rafforzavano le nuove convinzioni di Vittorio. L’appetito (prima di allora in realtà molto scarso a causa di una mancata propensione al buon gusto culinario) era vigoroso e puntuale: riusciva a consumare abbondantissime porzioni di legumi, ortaggi e frutti tre volte al giorno, ingurgitando tutto velocemente e con piacere. La madre era contenta, Vittorio era sempre stato un ragazzo un po’ astenico: da bambino era di salute assai cagionevole e dal temperamento melanconico. Era abituata alla “mestizia” estiva, ma mai come quell’anno lo aveva visto turbato, e il ritorno (o meglio, l’esplosione) dell’appetito bastava a rassicurarla. E poi aveva appreso che Vittorio aveva voglia di uscire e magari passare dal bar di Franco, altro segnale che valutò positivo. Donna semplice e ormai sulla soglia della senilità, aveva vissuto tutta la vita in paese e non avrebbe potuto fare altrimenti. Pur non potendosi rimproverare nulla, covava ormai da tempo nel suo cuore di madre il sordo senso di colpa di chi attende in silenzio il manifestarsi di un dramma latente e inevitabile, senza avere i mezzi per comprendere appieno le delicate dinamiche degli eventi.

Vittorio uscì in tarda serata e decise di godersi ogni metro del viale alberato che conduceva da casa sua alla vicina piazza barocca; poi da lì avrebbe disceso una lunga scalinata in pietra lavica giungendo infine alle case antiche del paese, molte delle quali disabitate. Il bar di Franco si trovava a circa 500 metri in direzione della litoranea, alla periferia sud del paese. Giunto sul posto trovò il locale praticamente vuoto. Solo Franco dietro il bancone e una coppia seduta fuori erano rimasti a rappresentare i superstiti del caldo umido e appiccicoso di quelle sere. Franco lo accolse con la solita espressione cordialmente impersonale, e Vittorio fu lieto di rivederlo; ordinò una media alla spina e si mise a sedere al bancone. Il brusio della coppia all’esterno del locale si mescolava dolcemente al suono aspro del ventilatore posto vicino alla cassa. A un tratto la ragazza rise di gusto, di un riso dolce e vivace che inondò il locale vuoto. Franco aveva smesso di fissare con lo scarso interesse che contraddistingueva ogni sua attività la piccola televisione fissata al muro. Ora guardava Vittorio con una curiosità che non gli si addiceva. O almeno, a Vittorio non piacque quello sguardo. Così prese a raccontare a Franco del suo radicale cambiamento in materia di alimentazione, quasi senza volerlo, come mosso dalla necessità di sviare dal proprio volto l’attenzione muta e indagatrice di Franco. Questi ascoltava con molta attenzione. Quando Vittorio ebbe concluso, Franco si limitò a sorridere e tornò a guardare con blando interesse le immagini che scorrevano sullo schermo. Vittorio provò un fremito di rabbia.

Cosa significava quel sorrisetto? Possibile che Franco non condividesse le sue nuove visioni sul mondo e sull’etica? Del resto era ovvio, come potrebbe comprendere l’importanza di preservare la vita delle altre creature chi si guadagna da vivere avvelenando le membra e le menti di altri uomini. Vittorio lasciò una banconota da 5 euro al bancone e uscì senza salutare. Alle risate della ragazza si aggiunse la voce di un altro, che adesso trascinava rumorosamente una sedia e si univa al tavolo della coppia. Vittorio camminò verso casa affrontando il caldo. L’onta gli arrossava il volto e gli gonfiava le vene alle braccia. L’idea per lui inaccettabile consisteva in una nuova e quanto mai dolorosa presa di coscienza: le sue nuove visioni erano profondamente ipocrite, se non del tutto assurde. Le piante che egli avidamente consumava erano anch’esse forme di vita. Che il riso di Franco stesse a sottolineare proprio questo? Tornato a casa fu colto da un malore. Gettò nella pattumiera ciò che era residuato dalla cena e si mise a letto. Il giorno dopo avrebbe iniziato a cibarsi di sola frutta. Anzi, non avrebbe consumato neanche quella, visto che in essa era il seme di una nuova vita. Un anno dopo il sole batteva cocente sui muri delle case. La madre di Vittorio si era svegliata da una notte agitata benché priva di sogni. L’estate era tornata e aveva nuovamente trascinato con sé profumi e calore. La donna diede un’occhiata al piccolo orologio che era appartenuto a Vittorio e che adesso lei custodiva gelosamente sul comodino accanto al letto. Si chiese se fosse possibile che alla morte del corpo potesse sopravvivere l’anima, e con lei la mestizia del suo adorato Vittorio. Ricordò l’incarnato chiaro e la dolcezza torva del suo sguardo e la pietà che aveva provato nei confronti dell’universo, ma che adesso non gli veniva ricambiata dai vermi che banchettavano con le sue carni. Si alzò dal letto, erano le 7 del mattino.

Fabrizio Bella

Al via l’annuale concorso di poesia organizzato dal liceo “Galileo Galilei”

Oramai giunto alla sua 7^ edizione, anche per l’anno scolastico 2018/2019, il Liceo Scientifico-Linguistico “G. Galilei” di Spadafora bandisce l’annuale Concorso di Poesia intitolato all’omonimo istituto sul tema:

“un cantuccio in cui solo
siedo; e mi pare che dove esso termina
termini la città.” (U. Saba, Trieste)

Il concorso è rivolto a tutti gli studenti universitari dell’Ateneo di Messina, agli studenti universitari presso Atenei nazionali diplomati presso un istituto di istruzione superiore di Messina e provincia, agli studenti iscritti a scuole medie o superiori di Messina e provincia.
I componimenti inediti dovranno essere presentati entro e non oltre le ore 12 del 31 gennaio 2019 secondo le seguenti modalità: tramite posta (racc. AR) all’indirizzo LICEO SCIENTIFICO-LINGUISTICO “Galileo Galilei” – concorso di poesia – Via Nuova Grangiara, 98048 Spadafora (ME) (farà fede il timbro postale), oppure consegnandoli fisicamente presso la Segreteria del Liceo Scientifico-Linguistico “G. Galilei”.

Ogni concorrente proclamato vincitore per la propria categoria riceverà un premio di € 200,00. Saranno inoltre assegnate pergamene con menzione di merito ai concorrenti autori di componimenti ritenuti particolarmente meritevoli dalla Commissione.
Il luogo e le modalità della premiazione saranno comunicati tramite missiva o telefonicamente ai vincitori del premio e alle scuole di appartenenza.

Per ulteriori informazioni è possibile consultare il regolamento presente nel bando: http://www.maurolicomessina.gov.it/wp-content/uploads/2018/12/Bando-concorso-di-poesia-Liceo-Galilei-2018-2019.pdf .

 

Claudia Di Mento

L’interrogatorio di un viandante sull’amore

Cammino per strada e non riesco a smettere di pensarci. Continui flashback attraversano la mia mente, senza darmi tregua. Ci sei tu, ci sono io. Ci siamo io e te a ridere di una giornata che proprio non vuole saperne nulla di andare bene, ci siamo noi a fissare il soffitto con un sorriso ebete stampato in faccia. Quante volte ti ho detto che quel sorriso ti faceva più ragazzina, e tu nemmeno ci credevi.

E poi ci sei tu che gridi e piangi e io che grido più forte, chissà su quale legge animalesca si fonda l’idea che, alzando la voce, l’altra persona smetta di parlare. Mi si è gonfiata una vena sul collo, era tanta la rabbia.

Continuo a pensarci, guardando i fari delle macchine sulla strada, nella speranza di trovare il sassolino nella scarpa che fa camminare male, quell’arancia amara che ti ha guastato tutto il pranzo, il quadro storto che per quante volte potrai drizzarlo tornerà sempre a inclinarsi, oppure la canzone sbagliata in radio che un po’ l’umore te lo cambia. E questi fari mi fanno sentire un po’ sotto interrogatorio, sono innocente, commissario, però le cose si fanno in due quindi un po’ è anche colpa mia. Mi capisca commissario, io proprio non lo so … qual è il momento esatto in cui l’orologio fa Dong, e cosa fa, l’orologio, nella restante mezz’ora prima del Dong? È felice, forse.

Davanti a me vedo una coppia e lei ha una rosa in mano. Chissà se se lo immaginano che prima o poi litigheranno fino a odiarsi, chissà se in cuor loro sanno che alla fine ritorneranno insieme, chissà se anche lontanamente immaginano tutto il male che in futuro si faranno.

Mi sento quasi in dovere di avvertirli, lasciate perdere tutto, anche le rose. A che servono? Tanto marciscono.

La verità è che a marcire siamo stati noi.

Sentimenti … sentimenti … non ne provo nessuno, li ho gelati tutti. Sono diventato egoista, ecco tutto. Mi sento felice solo per me stesso, è questa la verità. E per una volta, nella vita, ho tutto il diritto di essere egoista per quanto mi pare e piace. Si, sono un insieme di rabbia e cinismo, forse. E ora basta, non voglio saperne niente, d’ora in poi ci sarò io il calcio, qualche porno, birra come se piovesse … è d’accordo con me, commissario?

Sono rimasto solo, ancora. Fisso le vetrine dei negozi che stanno per chiudere, sono le 21 e francamente me ne infischio (diceva qualcuno).

Che voglia di andare al cinema, almeno starò un po’ al calduccio a rilassarmi, però che pizza ci sarà sicuramente una coppia. Ma ovunque io possa andare, ci sarà sempre una coppia. Forse devo cambiare casa. Ma che sto dicendo? Vedi un po’ se devo cambiare casa per colpa di quella stronza che nemmeno vive lì, solo per non rivedere più i fantasmi di me e lei felici.

Conosco gente che si lascia e riesce a rimanere amica, o ancora gente che si lascia e, dopo tanto soffrire, riesce a ricominciare da capo e tornare insieme.

E allora perché, io e te, non riusciamo nemmeno a guardarci in faccia? Perché dobbiamo evitarci? Dividerci i luoghi o gli amici?

Perché non meritiamo di essere felici?

Perciò adesso, su questa strada e con tutti questi fari puntati contro di me, non riesco a spiegarmi come siamo arrivati a questo …

Tornerò ancora ad amare?

Lo giuro, commissario, mai più. Anzi, ritiro tutto. La prossima volta starò più attento. 

Sì, sto mentendo, lo so. A presto.

Serena Votano

Paesaggi di neve: un borgo e un castello all’ombra del Gran Sasso

Et chi andarà in cima del Corno Monte gli parrà andar sopra le nuovole (Francesco De Marchi, In cima al Corno Monte)

Se cercate un luogo in Italia dove sentirvi riparati da alte cime vertiginose e attorniati da ampie praterie, se vorreste attraversare paesaggi mozzafiato e antiche contrade, rilassarvi in mezzo alla natura e praticare sport invernali sulla neve, probabilmente l’Abruzzo è ciò di cui avete bisogno. In questa tappa di Around, la nostra rubrica dedicata ai viaggi, vi porteremo nel borgo Calascio e nel suo castello, quest’ultimo inserito da National Geographic nella classifica dei quindici castelli più belli al mondo (link).

Un giro nei dintorni

Corno Grande – La cima più elevata del Gran Sasso

A un altitudine di 2912 m s.l.m il Corno Grande è la più alta cima del massiccio del Gran Sasso e dell’intero arco appenninico. Francesco De Marchi nel XVI secolo è stato il primo alpinista a compiere l’impresa della scalata. I vari sentieri che si arrampicano lungo le rocce calcaree partono a sud dall’Osservatorio di Campo Imperatore e a nord da una funivia presso i prati di Tivo. Raggiunta la cima, gli escursionisti più allenati, godranno della vista di buona parte del territorio dell’Abruzzo, e, quando il cielo è più limpido, potranno abbracciare il panorama fino a scorgere in lontananza il mare Adriatico. Tra i guinness che la montagna detiene c’è quello di ospitare il Calderone, considerato il ghiacciaio più a sud d’Europa!

Campo Imperatore – Il Tibet di Italia

Campo Imperatore è un altopiano posto a circa 1.800 m. di altitudine modellato dalla fusione di antichi ghiacciai. Anche questa distesa ha un primato: lunga 20 km e larga tra i 3 e i 7 km rappresenta la piana più grande di Italia. Il suo territorio è disseminato da laghetti, che hanno forse un’origine meteoritica, mandrie e greggi che praticano l’alpeggio in estate, impianti di sci nella stagione invernale e addirittura set cinematografici. Sì, la sconfinata superficie nel Parco Nazionale del Gran Sasso e dei Monti della Laga ha ospitato numerosi registi attratti dal suo suggestivo paesaggio che Folco Maraini ha definito “un piccolo Tibet”: dal Deserto dei Tartari con Vittorio Gassmann e Philippe Noiret a Così è la Vita di Aldo, Giovanni e Giacomo. L’appellativo deriva dalla azione antropica e dalla elevata quota che ha reso rada la vegetazione e dal vastissimo paesaggio incuneato tra specchi d’acqua e profondi solchi.

Hotel Campo Imperatore – La prigione di Benito Mussolini

Posta sulla sommità del Campo Imperatore la struttura ricettiva, ancora in funzione, deve la sua fama a una pagina poco gloriosa della storia di Italia. Nel settembre 1945 l’operazione Quercia organizzata dalle milizie tedesche portò alla liberazione e alla fuga di Benito Mussolini, confinato sul Gran Sasso per ordine del re Vittorio Emanuele III dopo l’armistizio di Cassibile che segnò la fine ostilità verso gli alleati anglo-americani e di fatto l’inizio della resistenza. Un gruppo di paracadutisti si calò sull’albergo e qui, con una rocambolesca strategia, riuscì a prelevare Mussollini e a condurlo a Monaco dal Fuhrer.

Un borgo e un castello

Rocca Calascio – La roccaforte medioevale normanna e medicea

Con i suoi 135 abitanti, Calascio, in provincia dell’Aquila, è uno dei borghi più caratteristici dell’Abruzzo. La sua attuale circoscrizione comprende il centro di Calascio, fondato intorno all’anno 1000 dai normanni, e l’antica comunità di Rocca Calascio, passata dalla famiglia Piccolomini alla podestà dei Medici. Entrambi i centri nacquero con la funzione di controllo dell’area, ai piedi del massiccio del Gran Sasso. Un terremoto nel 1700 distrusse tuttavia la zona della Rocca, fondata probabilmente anch’essa per volontà di Ruggero D’Altavilla, che venne da allora abbandonata. Recentemente, negli ultimi decenni del’900, Rocca Calascio è tornata ad essere abitata da un piccolo nucleo di abitanti e riqualificata come meta turistica, forse anche grazie al fatto di essere stata scelta per l’ambientazione di alcuni film di successo.

Il castello di Rocca Calascio – Un set d’elezione

Uno dei castelli più elevati di Italia, costruito nel medioevo a scopo di difesa del territorio e controllo dei tratturi, i sentieri di transumanza diretti all’Adriatico, candidati patrimonio UNESCO. Da questo nucleo dovette svilupparsi in seguito il borgo sottostante. La struttura, interamente in pietra, è circondata da un muro merlato e da quattro torri ad angolo dalla forma circolare. Danneggiata dai terremoti che hanno colpito la zona, è stata più volte oggetto di restauro. Il luogo ha ospitato celebri set cinematografici, tra cui il film fantasy del 1985, Ladyhawke, scene de Il nome della rosa e di The American con George Clooney.

Michelle Pfeiffer in Ladyhawke

Chiesa di Santa Maria della Pietà – La perla a forma di ottagono

Fondata nel luogo dove, secondo la leggenda, la popolazione locale sconfisse una banda di bigranti, sul sentiero verso il Castello, la chiesa di Santa Maria della Pietà, eretta nel 1596, è un magnifico edificio a pianta ottagonale, attaccato su una parete ad una sagrestia e inserito in mezzo al verde. Probabilmente edificata su una precedente edicola rinascimentale, la struttura è oggi adibita a oratorio e meta spirituale per i pellegrini che, arrivati in cima, scorgeranno un panorama invidiabile.

Eulalia Cambria

@FOTO DI Salvatore Cambria

Budapest: la città attraversata e divisa in due dal Danubio

               “Una Buda da vedere, una Pest da vivere”

Lo scrittore Claudio Magris, nel suo libro “Il Danubio”, definisce Budapest una città signorile e imponente.

Budapest, la capitale dell’Ungheria, è divisa in due parti, “Buda” e “Pest”, dal fiume Danubio. Buda è il centro storico costituito da meravigliosi palazzi, castelli e monumenti, che raccolgono in essi la storia di questa città. Pest è la parte moderna dove si concentra la maggior parte della popolazione, anch’essa ricca di grande bellezza.

Budapest è tutta da vedere, ogni singolo angolo, ma i posti che non puoi assolutamente perderti sono:

1) Il Palazzo del Parlamento

E’ il simbolo della città e si trova sulla sponda del Danubio dalla parte di Pest ed è la sede dell’Assemblea nazionale ungherese. L’interno è un vero spettacolo per gli occhi, curato nei minimi dettagli, lascia senza fiato. Fu concepito nell’Ottocento per sottolineare, con un palazzo fastoso e rappresentativo, l’indipendenza finalmente raggiunta degli ungheresi all’interno dell’impero austro-ungarico.

2) Il Palazzo Grassalkovich

E’ un palazzo in stile barocco della cittadina ungherese di Gödöllő, costruito tra il 1741 e il 1760.
E’ sia il più grande palazzo barocco dell’Ungheria che la seconda tenuta più grande dell’Europa. Questo palazzo è noto anche per essere stato il favorito dell’imperatrice Elisabetta d’Austria, che insieme al marito, ne fece la propria residenza estiva. Nella parte posteriore del castello si estende un meraviglioso parco di 28 ettari.

3) Szimpla Kertmozi

E’ un pub composto da più stanze e un lungo e grande corridoio, decorato nei modi più assurdi con gli oggetti più assurdi, la quantità degli oggetti presenti in questo pub è enorme, parte dell’arredamento è anche un auto d’epoca. Tutto ciò è stato creato all’interno di una fabbrica abbandonata. Questo pub si trova nella zona ebraica di Budapest.

4) Bagni Széchenyi

Sono dei bagni termali di Budapest che si trovano nel parco Városliget nella XIV Circoscrizione. L’edificio più antico del complesso risale al 1881 ma, a causa della forte popolarità, prima della Prima guerra mondiale vennero costruiti altri edifici che hanno reso i Bagni Széchenyi il più grande centro termale d’Europa. Il complesso venne ultimato nel 1913. Aperti tutto il giorno, tutti i giorni, tutto l’anno, ospitano anche eventi notturni con tanto di dj e musica.

 

5) Traversata sul Danubio (DA FARE)

Una cosa che si deve assolutamente fare se si va a Budapest è la traversata sul Danubio, è consigliabile farla la sera poiché sarà possibile ammirare tutti i palazzi, che costeggiano il Danubio, illuminati.

Uno spettacolo mozzafiato, accompagnato da musica e degli ottimi cocktail.

6) Il Mercato Centrale

E’ una sala neogotica restaurata ed usata come mercato alimentare, si estende su due piani e al suo interno ci si può trovare di tutto. Il primo piano è interamente dedicato ai prodotti alimentari, tipici e non di Budapest, mentre il secondo piano è colmo di souvenir.

7) La Piazza degli Eroi

E’ una delle più importanti piazze di Budapest, ricca di elementi politici e storici. Si trova alla fine di Andrássy út, vicino al parco municipale Városliget. E’ anche una delle più belle piazze di Budapest.(Dopo averla visitata ci si può fare la foto nella scritta!!!)

 

Budapest è una città piena di cultura e di storia, e non sono solo questi i posti da visitare, consiglio di passarci più tempo possibile perché è tutta da vivere.

 

Andrea de Stefano