Nasi all’insù: tutti in attesa della Super- Luna

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Bentornati a tutti amici della scienza! Questa settimana parliamo di un avvenimento che accadrà Lunedì 14 Novembre (tra 4 giorni, per essere pratici) e che vi spronerà a tenere i nasi all’insù.

La Luna, il nostro bellissimo satellite, in quella data sarà, infatti, piena al perigeo (ovvero il punto più vicino alla terra, al contrario dell’apogeo che è il punto più lontano dalla terra). Sembrerà incredibilmente vicina, tanto che, in modo poco scientifico, si è meritata l’appellativo di Super- Luna.

Ovviamente tutti gli anni la Luna, ad un certo punto, si trova al perigeo. La curiosità dell’evento sta nel fatto che si troverà nel pieno del plenilunio: non capitava da circa 70 anni. L’ultima volta si vide così grande nel 1948 e la prossima sarà nel 2034.

Mentre i complottisti si stanno già scatenando sul significato apocalittico del caso, noi vi diamo appuntamento in questo ordine: alle 12:24 ore italiane, la Luna si troverà alla minima distanza dalla Terra, 356.511 km. Poco meno di due ore e mezza più tardi, alle 14:52 ore italiane, il nostro satellite raggiungerà il culmine della fase di Luna piena. Dalle 18:35 ore italiane, sarà possibile per tutti ammirarla.

 

Risulterà il 14% più grande e il 30% più brillante, salvo complicazioni: nebbia, luci artificiali, nubi. E quindi vi consigliamo di passare la sera in un punto alto e scuro, lontano dai lampioni. Magari in compagnia di qualcuno. E poi, chissà…

Elena Anna Andronico

“Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze”: con questo libro si fa il pieno di Bukowski

9788807885235_quarta“Dalle Sue dita uscivano carbone e diamanti”: leggete e piangete con questo capolavoro di Bukowski

La maggior parte delle poesie che conosciamo ci ricordano di un tempo ormai passato, di un romanticismo oggi più che mai superato, di amori struggenti narrati dalla nobile penna dei grandi poeti che la storia ricorda, nulla a che vedere con quello che Charles Bukowski ci ha lasciato in questo libro e in tutti gli altri suoi capolavori di una vita vissuta intensamente e, spesso, al di fuori delle righe…

“Scrivo poesie solo per portarmi a letto le ragazze” è un libro di “poesie” anomalo. Non segue la rima, non cura il particolare, non descrive paesaggi maestosi o umidi amori sotto la pioggia d’estate, ma ci fa toccare con mano le viscere della passione di un uomo. Con estrema durezza ci catapulta in una realtà a noi distante fatta di alcol, donne e sesso, contornata da una decadenza asfissiante tipica dei bassifondi dell’America degli anni Settanta.

Il protagonista dei racconti è quasi sempre lo stesso scrittore che narra in prima persona ciò che vede, sente e vive ogni giorno, tra un bicchiere di troppo e l’amore fugace con le donne che incontra durante i suoi continui vagabondaggi. Le storie non seguono un filo logico, ma tutte hanno una volontà comune: la voglia di raccontare il vero senza veli né farse, anche ciò che può far disgustare i più deboli e storcere il naso al lettore medio. Le descrizioni degli intrecci passionali tra il suo corpo e quello delle donne con cui passa le notti sono la perfetta trasposizione su carne di ciò che rappresenta un ossimoro, intensità e dolcezza, rabbia e debolezza, piacere carnale e sentimento astratto, tutto costruito in modo da rendere ogni parola tagliente, senza smussarne gli angoli.

Fiumi di alcol attraversano le pagine di questo libro. È un testo ubriaco di sentimento, di quello grezzo che ci sporca le mani e che difficilmente si lava via. Ci invita a pensare, ci fa imprecare, ci impressiona, ma sempre insegnandoci qualcosa…

“Molta gente scrive poesie che non sente pienamente. Lo faccio anch’io, a volte. Vita dura genera verso duro e con verso duro intendo un verso vero privo di orpelli.” 

È una lettura consigliata per chi ama le storie, quelle concrete, pure e spesso anche dure da comprendere. Per chi vuole superare lo stereotipo dell’amore romantico per poter vedere con i propri occhi il vero, a volte osceno, ma pur sempre reale sentimento umano.

Giorgio Muzzupappa

Abbatti lo stereotipo- Il terrone fuori sede

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Chi non ha un amico che studia lontano dalla sua calda e amata terra natia?

Dalle regioni più vicine fino ai freddi centri trafficati del nord, lo studente meridionale si insinua nella vita universitaria dei romani, dei polentoni ( chi più ne ha, più ne metta) regalando assaggi della terronia e creando, spesso, degli stereotipi che oggi, una volta per tutte, abbatteremo.

 

Ecco a voi i quattro cliché del terrone fuori sede:

  1. Le valigie piene di cibo. Leggende narrano che, per gli aeroporti italiani, viaggino solitarie e profumate, valigie cariche di braciole, di cannoli, di arancini ( o arancine, così nessuno si arrabbia). Probabilmente qualcuna ce ne sarà in circolazione, ma demitizziamo questi racconti: la verità è che il vero terrone, rientrando a casa per le vacanze, si rimpinza di questo cibo fino a scoppiare e, tornando su, il frigo è in dieta e le valigie sono solo piene di quei maglioni pesanti che al sud nessuno mai oserebbe indossare.
  2. La nonna al telefono, prima di salutare, dice: “ Hai mangiato?”. Beh sì, lo chiedono, ma non prima di aver fatto una serie di domande che la rassicurano sulla tua incolumità. Il questionario della nonna si struttura in: “ Hai chiuso la porta a chiave?”, “ Hai spento il gas?”, “Non è che cammini in strade buie ed isolate?” ed infine “ Hai mangiato, vero? Quando torni ti faccio mangiare io!”. Mi sembra doveroso, però, precisare che la telefonata è rigorosamente in dialetto .
  3. Uscire è transitivo. Touché. Regola grammaticale completamente introdotta da noi meridionali e che, con molta, troppa difficoltà, abbandoniamo. Ed ogni volta che il povero studente fuori sede prepara, per lui e per il coinquilino, il caffè ed urla “ È uscito il caffè”, le orecchie di un polentone sanguinano. Difficile sfatare questo mito, ma i terroni imparano in fretta: “uscire” come transitivo è off-limits.
  1. Ritardatari cronici. “ Fra un PAIO di minuti sono pronto” quel “paio” meridionale che va da una decina di minuti all’ora spaccata. Il terrone soggetto a questo pregiudizio, però, ormai è puntuale come un milanese, addirittura arriva in anticipo e, asserendosi paladino della giustizia sociale, sfata ogni cliché sulla non puntualità dei terroni.N.B.: il genere femminile, chiaramente, si astiene dallo smentire il mito della non puntualità.

     

     

    Terroni fuori sede, siete vittime di altri stereotipi? Scriveteci e li sfateremo tutti ( o almeno, ci proviamo).

     

    Jessica Cardullo

     

Moonlight: un film da non perdere

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Negli ultimi anni l’industria cinematografica e televisiva ha avuto come tema ricorrente la questione di genere e la comunità LGBT. Pochi film però sono stati così delicatamente incisivi e toccanti come “Moonlight”, film di apertura dei festival di Telluride e Roma di quest’anno, è stato proiettato anche al NYFF, al TIFF e al BFI di Londra.

Seconda opera di Berry Jenkins racconta la vita di un ragazzino di colore nei bassifondi di Miami e l’accettazione della sua sessualità.

Strutturato in tre capitoli, per tre fasce di età, denominati col nome con cui Chiron si fa chiamare o viene chiamato. Da piccolo Chiron attira l’attenzione di uno spacciatore (interpretato da Mahershala Ali il cui nome non vi dirà nulla ma che avete visto in molti film e tv series fra cui House of cards nei panni di Remy Danton, l’avvocato che diventa capo dello staff di Underwood) che , insieme alla moglie (la cantante Janelle Monae) lo accoglie in casa, e sopperisce alla figura paterna.

I bulli che lo perseguitano fin da piccolo lo faranno diventare un’ altra persona da adulto. O forse sarà una semplice corazza. Chiron è una persona taciturna, quasi muto, sensibilissimo e timido. Il mare dietro quello sguardo profondissimo. La spiaggia e il mare: i luoghi in cui è libero di essere se stesso.

E’ un film necessario per l’America dopo la strage di Orlando e per gli spettatori di tutto il mondo, perché racconta la battaglia interiore ed esteriore di un ragazzo di colore , sessualità e bullismo. Delicato e prorompente, non scade mai nel cliché. Jenkins ha una visione unica e mai vista fino ad ora , permette agli spettatori di riflettere sulle ferite visibili ed invisibili dell’altro, argomento che probabilmente non aveva mai sfiorato la loro mente.

Insomma è un’opera da non perdere.

Arianna De Arcangelis

Le 7 tipologie di parenti degli Universitari

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Se sei una matricola, questo articolo potrà esserti utile a difenderti dalle trasformazioni che la tua intera famiglia subirà non appena varcherai la porta di casa da Universitario.  Se invece sei una vecchia gloria dell’Ateneo, ti divertirai a riconoscere i tuoi parenti in queste 7  esasperate categorie. Scopriamole insieme.

1. “Mio figlio studia all’Università”

Qui vanno piazzate di sicuro tutte quelle mamme che, dall’immatricolazione in poi, se ne andranno in giro esibendoti come un trofeo. La sorprenderai al telefono con la sua migliore amica, mentre elenca tutte le materie del tuo corso di laurea. Vi capiterà di sentirla persino alla cassa del supermercato che esordisce con un “Niente sconto? Mio figlio va all’Università”. Stai tranquillo, non è una cosa duratura. Prima o poi si renderà conto del fatto che non sei un super eroe.

2. “Hai preso 28?”

Ecco, proprio quando tua madre smetterà di crederti un extra terrestre, succederà più o meno questo: Tu che torni a casa, sei stanco ma contento di aver finalmente passato l’esame per il quale hai penato per circa 2 mesi, rinunciando alla tua vita sociale e pure a quella igienica (perchè diciamocelo, sotto esami pure il tempo che impiegheresti a fare una doccia diventa prezioso). Lei ti scruta curiosa, non sta più nella pelle. Tu non vedi l’ora di mostrarle soddisfatto il tuo libretto, glielo dai. Lei lo apre, lo guarda, ti guarda, lo riguarda, ti riguarda e finalmente esclama: “Solo 28? hai preso solo 28?”. Ecco, forse non smetteranno mai di crederci degli extra terrestri.

3. “Stai mangiando, vero?”

Tua nonna. Da sempre la miglior infornatrice di parmigiana di melanzane, e la migliore decoratrice di torte del quartiere. Ti ha ingozzato fin dai tempi dell’asilo, nascondendoti nel piccolo zaino il panino salame, formaggio e pomodori secchi che, se lo riportavi indietro rischiavi di farla finire al pronto soccorso e allora ti inventavi le peggiori trattative coi tuoi compagni che i cartelli messicani ciao proprio. Ecco, nella sua testa l’ostacolo adesso è ai massimi livelli. Ti vede andare a lezione, poi studiare e passare le notti insonni a ripetere. Sente l’ansia gironzolare per casa e vorrebbe abbatterla al posto tuo, a colpi di mattarello e lievito di birra. Ma lei ha di sicuro la ricetta perfetta: Sta già infornando l’ennesima teglia di pasta al forno perchè oh, “ti vedo sciupato”. E niente, forse tua nonna non è troppo cambiata da quando facevi l’asilo.

4. “Quando ti laurei?”

Se sei single ti chiederà: “Ma quando ti trovi un/a  fidanzato/a?”.  Se il/la  fidanzato/a  ce l’hai già, ti chiederà: “Ma quando ti sposi?”. Se sei felicemente sposato/a ti chiederà: “Ma quando te li fai due bei bambini?”. Se nessuna di queste categorie ti appartiene perchè sei fermo al primo punto e ti sei pure arreso al fatto che no, non ti fidanzerai mai perchè una relazione richiede troppo tempo, allora preparati perchè lei sarà lì. Tua zia, quella che sei costretto a vedere una volta ogni quattro mesi alle riunioni di famiglia. Colei che non aspetta altro che infierire sulla tua già infelice vita da studente senza bambini, ne matrimonio, ne fidanzata/o. Puntualmente ve lo chiederà con quel ghigno malefico “Ma quanto ti manca alla laurea, ancora molto?” e tu magari ti sei appena immatricolato e vorresti solo metterle del lassativo nel bicchiere.

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5. “Tua sorella ha finito in tempo”

Tutti abbiamo una sorella più intelligente. Anche tu, figlio unico che di sorelle e fratelli non ne hai mai visto nessuno. Una volta entrato a far parte del mondo universitario, ti ritroverai a dover lottare non solo con dispense, professori ed esami improponibili. La tua sarà una gara contro il modello perfetto al quale ti paragoneranno costantemente. Non hai una una sorella ne un fratello? Sono sicura che se ti fermi 30 secondi a pensare al tuo albero genealogico, ecco che ti salta in mente il 110 e lode in giurisprudenza di tua cugina, il master in ingegneria nucleare del fratello di tua cugina, la laurea in medicina e chirurgia della tua vicina di casa, tutte rigorosamente conquistate lontano dal fuoricorso che mamma mia, ho l’ansia solo a pensarci mi sa che vado a studiare.

6. “C’è sempre il prossimo appello”

Ecco, forse è il momento di descrivere gli alleati. Si, perché in mezzo a tutta questa ansia avrai di sicuro degli alleati. Se sei cresciuto in una famiglia numerosa, i compagni di gioco non ti saranno mancati; I tuoi cugini coetanei o semi coetanei, quelli con i quali dividevi il ruolo dei power rangers (io sono quello rosso che è il più forte, se vuoi giocare resta solo quello rosa) o delle super chicche. Adesso siete chiaramente tutti in lizza per il titolo più prestigioso della famiglia, ma stavolta siete tutti seduti dalla stessa parte del tavolo. “Io lo do al prossimo appello, tu?”  e finalmente ti sembra di aver trovato un oasi in mezzo al deserto.

7. “Il super eroe di te stesso”

E alla fine,  ci sei tu. Tu che volente o nolente, una volta oltreppassata la linea da studente universitario, ti sentirai un po cambiato. Tu che riesci a rinunciare ad una birra il venerdì sera, per rimanere a casa e non sentirti in colpa. Tu che non hai paura di rinunciare al sonno, per finire di sfogliare tutte le pagine che avevi previsto sulla tua tabella di marcia. Tu che ti siedi, senza timore, davanti al peggior professore d’Ateneo, anche se sai solo l’argomento a piacere. Tu che punti 7 sveglie ad intervalli di 3 minuti, per non fare tardi a lezione. Tu che hai scelto, con coraggio, di continuare gli studi, rinunciando a zappare la vigna di tuo nonno. Tu che in fondo, ogni giorno, sei il super eroe di te stesso. 

Vanessa Munaò

Se una notte d’inverno un viaggiatore – Italo Calvino

Possiamo impedire di leggere: ma nel decreto che proibisce la lettura si leggerà pur qualcosa della verità che non vorremmo venisse mai letta.

La lettura ci permette di vivere storie fantastiche, amori passionali, intrighi, scontri, avventure. La lettura, attraverso gli scrittori che cercano di trasmettere con la propria arte ciò che la loro mente gli detta, da vita a personaggi ideali, eroi di altri tempi, miti e leggende. Ma cosa succede quando un libro si incentra sulla lettura? Quando il personaggio principale è il Lettore e la sua insaziabile voglia di sapere? In “Se una notte d’inverno un viaggiatore” Italo Calvino riesce a spiegarcelo impeccabilmente creando un romanzo con al suo interno l’incipit di dieci ulteriori storie di autori, tutti diversi, ma tutti strettamente correlati.

Il libro inizia, paradossalmente, con le parole dell’autore che invitano a trovare la giusta “posizione” per iniziare la lettura, poiché non ci si può successivamente distrarre perché “non siamo più comodi”. Il momento della lettura è un qualcosa di sacro che non va interrotto per futilità. Allora il Lettore (“nome” del protagonista) si immerge nella lettura del nuovo romanzo di Italo Calvino, “Se una notte d’inverno un viaggiatore” appunto. Il libro parla di un uomo avvolto dalla nebbia e dal grigio di una stazione ferroviaria in cui è appena arrivato, non per scelta, ma per caso. È come se sentisse di aver perso la coincidenza con un altro treno. L’impalpabilità della scena è resa perfettamente non solo con aggettivi o similitudini, ma soprattutto con la cadenza con la quale l’autore inserisce la punteggiatura e le descrizioni di ciò che pian piano affiora dal pallore della lettura. Il tutto è estremamente rallentato e l’unico spiraglio di vitalità è dato dall’incontro del protagonista con una donna misteriosa nel bar della stazione con la quale intraprende una conversazione che lo risveglierà dal torpore delle prime pagine. Il felice colloqui verrà bruscamente interrotto quando un ufficiale di polizia consegnerà all’uomo un messaggio che lo invita a lasciare la città prendendo il primo treno disponibile, l’ultimo treno della giornata. Il libro attrae il Lettore che però si accorge di un errore, ciò che ha letto nelle ultime pagine si ripete anche nelle successive e questo per tutto il libro. Da qui si darà inizio all’avventura del nostro protagonista, fatta di una ricerca incessante della parte mancante del libro che lo porterà a imbattersi nella Lettrice, Ludmilla, e negli altri nove romanzi che inizierà per nove volte, ma non riuscirà a terminare poiché tutti, in un modo o nell’altro, vengono bruscamente interrotti.

Così ogni incipit di un nuovo romanzo viene inserito nella cornice della storia più ampia del Lettore e della Lettrice che ne viene influenzata e a sua volta influenza la lettura successiva. Il tutto è “aggrovigliato” nella fitta rete intessuta dall’autore con dialoghi pungenti, descrizioni dettagliate, momenti di passione, narrazioni che portano a smarrirsi nella storia e momenti di eccitazione per la scoperta di un particolare mancante. È un metaromanzo che ci porta a vivere una storia dentro altre storie alla ricerca di una verità che viene continuamente nascosta dalla falsità, dal processo di mistificazione che vedrà partecipi anche i due Lettori-protagonisti, poiché “Non c’è certezza fuori dalla falsificazione”. È un romanzo che non ha un finale preciso, ma aspira a trovarlo fino all’ultima pagina e in contemporanea contrappone bellissimi inizi.

È un libro che non ci sazia subito della sua lettura, ma ci costringe ad una scalata continua verso una vetta incerta da raggiungere. Ci fa sognare e innamorare, ma poi ci sveglia brutalmente. Molte volte ci porterà quasi a gettarlo via, a interromperne la lettura, ma inevitabilmente ci ritroveremo a raccoglierlo e ricominciarlo per immergerci di nuovo nel turbinio di eventi, storie, lingue, nomi, autori e personaggi che lo scrittore ha sapientemente inserito.

È una lettura consigliata a tutti coloro che amano leggere, indipendentemente dai generi, dagli autori o dalle storie. È un libro che ci rende protagonisti della nostra stessa lettura, quasi per magia, senza accorgercene, ci trasporta all’interno delle pagine e ci fa vivere un’esperienza unica nel suo genere che solo un Maestro come Italo Calvino poteva ideare.

Giorgio Muzzupappa

Scusate il Disordine!

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La musica non la si prendeva. Mai!”

 

 

 

In “Scusate il disordine” Luciano Ligabue lascia di nuovo, dopo “Il rumore dei baci a vuoto”, senza parole. Una raccolta di racconti che lascia sempre incompleti e liberi di interpretare a modo proprio quello che succederà dopo. Una chiave di lettura: la musica. Presente in tutte le sue inclinazioni, con diversi amore verso di essa ma racchiusa tutta in uno spartito che ha proprio il sapore di Ligabue.

Ogni racconto si concentra sulla musica e sul rapporto che il personaggio ha con essa, fama o non fama, portandoci realtà che conosciamo ma spesso ignoriamo. Come Anchise che, nonostante la sua età, pur di continuare a suonare paga i componenti della sua band di tasca propria e si lega le bacchette alla mano a causa dell’artrosi; o un rapper che raggiunto il successo crede di potersi permettere una qualsiasi azione, probabilmente l’aspetto più raccapricciante dell’essere famosi.

Durante il primo pezzo ti hanno mitragliato di foto. Poi hai chiesto se adesso potevano mettere via macchinette e telefonini. Non c’è stato verso, hanno continuato a scattare ininterrottamente. Sei lì. È inevitabile. Per un attimo ti chiedi se non sanno, ma poi ti dici che sanno, sanno

Ligabue usa un linguaggio semplice e diretto, cambiando spesso registro a seconda del messaggio che vuole trasmettere. Consigliato a chi non ha paura di mostrare il disordine dei pensieri dentro di sé, le proprie emozioni e i propri dolori. A chi non nega il disordine della propria vita perché, per quanto si cerchi di regolarla, di dirigerla, non ci riusciamo e dobbiamo ammetterne l’impotenza. Non si può controllare.

Recentemente, il 24 e il 25 settembre, il ritorno live di Ligabue al Parco di Monza.

 

Serena Votano

Game Over: ultime memorie di un (quasi) neo laureato

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Game over. È finita (quasi). Mi sto per laureare. Veramente molto bello. No dai, una buona fetta di sarcasmo ce la metto perché non è bello manco per niente. È come trovarsi alla fine della maratona, dopo aver percorso 42 km e aver faticato tantissimo per un lungo periodo di tempo e iniziare a vedere davanti a te, finalmente, il traguardo. Peccato questa sia la maratona di Boston.

Ebbene sì, ho deciso di congedarmi con una buona dose di black humor. E, suvvia, non fate i moralisti proprio adesso, sto scherzando. Però la metafora rende perfettamente il concetto. Sì, perché ho faticato veramente tanto in questi tre anni, ho fatto esami, seguito lezioni e altre cose stupende che si fanno all’università. E adesso sono qui, con la mia manina protesa a prendere “il mio bel pezzo di carta” che dovrà darmi un futuro, ma il futuro non lo vedo. No dai, non voglio farvi deprimere, lo siete già abbastanza probabilmente. Cioè siete studenti universitari, per lo più, non può essere altrimenti. La mia è solo una considerazione sulla vita, sul futuro, sulle possibilità del nostro paese.

Vi confesso subito una cosa: io non ci capisco molto di politica e non sono nella posizione di fare un’analisi sull’argomento. Ma me ne frego altamente e la faccio lo stesso: BENVENUTI IN ITALIA, SE NON VI STA BENE EMIGRATE CHE QUI STIAMO DIVENTANDO UN PO’ TROPPI. Già, alla faccia del Fertility Day. Ma torniamo a noi, il futuro. Ora, visto che ho aperto il mio cuore con voi e sapete bene che non ho le conoscenze adatte per parlare del futuro di un giovane laureato in Italia, mi limiterò ad utilizzare un’espressione che su entrambe le rive dello stretto viene adoperata per descrivere al meglio la situazione: “Non c’è nenti”.

Esatto, la sentite la satira? Tutto in una frase, poche parole ed hai già detto tutto. Argomentare? Pff, lasciamolo fare a quei cervelloni che governano il paese. Ma, ora, mi chiedo se sia veramente così… Beh probabilmente sì. Mi riferisco soprattutto al sud, dove le alternative spesso mancano e dove i giovani sono costretti ad emigrare. E lo fanno veramente. Secondo una statistica, fatta da me, 3 ragazzi su 3 una volta finita la triennale al sud decidono di proseguire gli studi al nord. Ok, ammetto che non ho fatto un gran lavoro di ricerca. Ho chiesto ai miei tre colleghi che si stanno laureando con me dove pensano di proseguire gli studi e mi hanno risposto: “Lontano da qui!”. Pensavo bastasse come ricerca statistica. Forse non ho seguito al meglio i corsi di statistica sociale.

Eppure non sono completamente convinto che qui, al sud, non ci sia niente. Basta avere un po’ di fantasia, estro e creatività. Non vedete possibilità? Createle voi! Alzate il vostro bel culetto dal divano e cercate di cambiare le cose. Beh sì, forse mi faccio sgamare un’altra volta, ma non è che sono la persona più adatta di questo mondo per dire una cosa del genere. Ehi, non biasimatemi però, non è colpa mia se Netflix decide di aggiornare il suo catalogo ogni santo giorno. EHILÀ VOI DI NETFLIX? QUI C’È UN’ORDA DI GIOVANI CHE STA CERCANDO DI COSTRUIRSI UN FUTURO. POTETE, PER FAVORE, SMETTERLA DI PRODURRE COSÌ TANTI PRODOTTI DI QUALITÀ? GRAZIE. Già sempre a dare la colpa agli altri… Ho già detto “benvenuti in Italia”?

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Ed eccomi che mi trovo qui, in procinto di prendere una laurea considerata sfigata (anche più sfigata di quella in “Scienze della comunicazione”, quella quantomeno a furia di prenderla in giro è diventata famosa), che mi guardo indietro e ripenso a questi anni passati qui all’università. Sono stati dei begli anni. Beh forse lo devo dire per forza, non posso mica dire che mi hanno fatto schifo… Vi immaginate se dovessi ricevere qualche denuncia o qualche querela per questo? Sono troppo povero per potermi permettere di pagare un avvocato e se mi dovessi difendere da solo continuerei a dire qualcosa del tipo: “Ehm mi appello all’Articolo 21… quello sulla libertà d’espressione… o almeno credo sia il 21… no no, ne sono sicuro è il 21… l’ho studiato all’università… vedete, qualcosa l’ho imparata!” Non finirebbe tanto bene per me.

Però anche se probabilmente “il mio pezzo di carta”, di questi tempi, non mi garantisce un futuro lavorativo, sono contento di aver passato questi anni all’università. È un’esperienza e come ogni esperienza ti segna nel profondo. Ora, per i più svariati motivi personali (di cui non ve ne frega niente), probabilmente non utilizzerò le conoscenze acquisite in questi anni nel mondo del lavoro. Ho semplicemente deciso di cambiare percorso. Ma non sono abbattuto, anzi sono felice di aver provato questa esperienza e di aver vissuto così tante cose. E credetemi ne ho viste di cose strane e assurde all’università, dagli esami, alle lezioni, ai professori, alle code in segreteria. Tutte queste cose mi hanno formato e mi hanno fatto crescere, in un modo o nell’altro. Potrei raccontarvene tantissime e rimanere qui a discutere per ore. Ma vi ricordate il discorso sull’avvocato, l’articolo 21, ecc…? Ecco, come vi dicevo, sono stati veramente degli anni bellissimi.

Nicola Ripepi

Il pugno di ferro del potere: Messina e la Real Cittadella.

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È il 1678 quando, dopo quattro anni di sanguinosi scontri per terra e per mare, la rivolta della città di Messina contro il dominio spagnolo si chiude con una resa.

Abbandonata dagli alleati francesi a seguito della Pace di Nimega, la città viene lasciata al suo destino: è l’inizio di una vigorosa repressione che segna una cesura definitiva nella storia della città di Messina, chiudendo definitivamente il suo periodo d’oro durato quasi tre secoli, che l’aveva vista crescere e svilupparsi come la seconda maggiore città di Sicilia dopo Palermo. L’ira del governo spagnolo si abbatte sulla città, che viene dichiarata “morta civilmente” e privata di ogni diritto e privilegio fino ad allora ottenuto: il Senato, che fino a quel momento aveva rappresentato in maniera quasi autonoma gli interessi dell’aristocrazia cittadina, viene sciolto; il Palazzo Senatorio viene raso al suolo e le sue fondamenta cosparse di sale; al suo posto, viene fatta edificare una monumentale statua raffigurante il re di Spagna, Carlo II, col bronzo ottenuto dalla fusione delle campane del Duomo; la Zecca viene distrutta, vengono sciolti il Consolato del Mare e il Consolato della Seta, secolari organi di controllo mercantile; viene chiusa l’Università, che era stata fondata circa un secolo prima dai Gesuiti.

porta graziaA porre un sigillo definitivo sopra la rivolta ormai conclusa, qualche anno dopo, nel 1680, si intraprende la costruzione di una poderosa fortezza che viene posta a occupare uno spazio chiave della topografia della città, il braccio di San Ranieri, oggi noto come Zona Falcata. Una fortezza in più, in una città come Messina, da sempre in una posizione strategica prominente e che già all’epoca era difesa su tutti i fronti dai tre forti Gonzaga, Castellaccio e Matagrifone, potrebbe sembrare forse qualcosa di superfluo, ma, questa volta, i fini dietro la sua costruzione erano di tutt’altro tipo rispetto al passato.

Questa fortezza, la cui costruzione si protrasse nei primi decenni del ‘700, e che passò alla storia col nome di Real Cittadella, era infatti, nelle intenzioni, un autentico atto intimidatorio: la sua posizione di totale e perfetto controllo sulla cala del porto la rendeva adatta a far fuoco non solo contro eventuali nemici dal mare, ma anche e soprattutto contro la città stessa, se mai una altra volta avesse osato ribellarsi. Il progetto, affidato all’ingegnere militare fiammingo Karl von Grunenbergh, rappresentava un modello esemplare di “fortificazione alla moderna“, adatta a difendersi dagli assalti dell’artiglieria; si basava su una pianta a base pentagonale, con cinque bastioni che costituivano una sorta di stella a cinque punte, circondata da fossati che le avrebbero permesso, in caso di necessità, di isolarsi totalmente tanto dalla città quanto dal resto della penisola dimg_5893i San Ranieri (la cui punta era ed è tuttora difesa dal forte del SS. Salvatore), con cui era collegata per mezzo di ponti mobili.

Nonostante il notevole effetto deterrente, più volte i cannoni della Cittadella si trovarono a tuonare contro la città; ad esempio nel 1848, quando si sollevò contro la monarchia dei Borbone, le cannonate arrivarono a danneggiare un braccio della statua di Scilla, nella montorsoliana fontana del Nettuno; gli insorti, che riuscirono a prendere il Castellaccio, Forte Gonzaga, Matagrifone e il forte Real Basso, nulla poterono contro i 300 cannoni della Cittadella che permisero alle truppe borboniche di mantenere la città e a Ferdinando II di guadagnarsi il poco onorevole epiteto di “Re Bomba”. Anche nel 1861, con la conquista di Messina da parte delle truppe piemontesi, la Cittadella fu l’ultima a cadere, dopo una tanto strenua quanto inutile difesa, il 13 marzo 1861.

Oggi di questa fortezza enorme e possente non resta quasi nulla. Il suo aspetto, che conosciamo bene dalle numerose stampe e raffigurazioni storiche, è stato completamente stravolto a partire dagli anni ’20, con la costruzione della Stazione Marittima e la graduale trasformazione della Zona Falcata in cantiere navale e zona militare. Progresimg_5890sivamente abbandonato e parzialmente smantellato, il forte conserva oggi solo due dei cinque bastioni originali in uno stato di pressochè totale rovina. Il grande portale d’accesso principale, Porta Grazia, è stato però smontato nel 1961 e rimontato in piazza Casa Pia, dove oggi è possibile ammirarne la sontuosa decorazione in stile barocco, opera di Domenico Biundo, eloquente materializzazione dell’estetica del potere. Restano però, ancora nel sito originale, diverse delle strutture murarie e alcune vestigia di portali settecenteschi, abbandonati al degrado.

La rivalutazione della Zona Falcata è oggi un tema caldo nella politica cittadina: è dunque utopico immaginare che un giorno ciò che resta della Cittadella possa essere reso nuovamente fruibile al pubblico e valorizzato come patrimonio storico e artistico e che, magari, Porta Grazia possa tornare alla sua sede originale?

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Gran Camposanto: un gioiello dell’arte messinese

cimitero monumentaleIMG_5352Camposanto: un termine che solitamente richiama sentimenti di dispiacere e dolore, nonché il ricordo dei propri cari defunti. Eppure vi è il Gran Camposanto di Messina che, se visto con occhi giusti, può richiamare anche altro: stupore, curiosità, meraviglia. Non si tratta, infatti, di un semplice cimitero: le tombe non sono semplici tombe, ma mirabili sculture; le cappelle non sono semplici cappelle, ma espressioni di una pregiata architettura. Il Cimitero Monumentale messinese, costruito nella seconda metà dell’Ottocento, è, insomma, una vera e propria raccolta di opere d’arte a cielo aperto. E il suo valore s’ingigantisce nel momento in cui ci si rende conto che si tratta di una delle poche testimonianze rimaste, dopo il terremoto del 1908, delle abilità artistiche degli scultori e architetti nostrani, che hanno vissuto ed operato nel XIX secolo. Al suo interno troviamo, infatti, innumerevoli (ed uniche) testimonianze della statuaria e dell’architettura in stile prevalentemente neoclassico, stile molto in voga a Messina nella seconda metà dell’Ottocento.

Il Gran Camposanto sorge in una zona centrale della città; l’ingresso principale è posto su via Catania, di fronte a Villa Dante. Il bando per la sua costruzione fu emanato dal Comune nel 1854, in un periodo particolarmente difficile per la città che era flagellata da una terribile epidemia di colera. A vincere fu l’architetto messinese Leone Savoja. I lavori furono avviati, però, solo nel 1865 e si giunse all’inaugurazione nel 1872. Savoja concepì il cimitero come un enorme giardino, con ampi spazi verdi e tanti viali alberati lungo i quali sarebbero state disposte tombe e cappelle. Così, oltre che di arte, il cimitero è ricco anche di vegetazione, basti pensare al piazzale che si apre di fronte all’ingresso principale: piante, fiori e piccole siepi che vanno a disegnare lo stemma della città e poco sopra la scritta “Orate pro defuntibus”, il tutto al di sotto della maestosa cappella di San Basilio degli Azzurri; insomma, appena varcato l’ingresso, l’effetto scenografico è assicurato.

Da qui partono poi due ampi viali, che insieme al Famedio, ospitano i sepolcri dei messinesi illustri. Nel viale sinistro, che termina nei pressi del cimitero degli Inglesi, troviamo perlopiù le tombe di politici, patrioti e militari; mentre in quello destro, le tombe di letterati e giuristi.

In asse con l’ingresso centrale, in posizione rialzata, troviamo il Famedio. Questo termine è un neologismo coniato dalle parole latine “fama” (fama) e “aedes” (tempio), dunque letteralmente significa “tempio della fama”. Ed effettivamente il Famedio è l’edificio destinato alla sepoltura dei personaggi più illustri. Quello del nostro Gran Camposanto non fu mai completato a causa della morte di Savoja; per di più è stato danneggiato dal terremoto del 1908, che ha provocato in particolare il crollo della copertura, che non è mai stata ricostruita. Ad oggi, tale costruzione presenta una galleria sotterranea per la tumulazione dei morti, quasi a mo’ di catacomba, e la facciata caratterizzata da un imponente colonnato. Lungo questo colonnato troviamo i monumenti dedicati ad alcuni celebri cittadini messinesi.

Vi è in primis quello dedicato a Giuseppe La Farina, le cui ceneri vennero trasferite da Torino nel 1872, in occasione dell’inaugurazione del Camposanto. Questo monumento, costruito dallo scultore Gregorio Zappalà, è costituito da un basamento su cui poggia il sarcofago sormontato dal busto del patriota, scrittore e politico messinese; dinnanzi al sarcofago, l’Italia, raffigurata con le sembianze di una giovane e malinconica donna, porge al monumento un ramo di quercia, simbolo di fortezza d’animo.

 

Vi è poi il monumento dedicato a Felice Bisazza, realizzato da Giuseppe Russo e costituito da un basamento con al centro il ritratto del poeta messinese, su cui poggia il sarcofago sormontato da un’elegante allegoria femminile della poesia e affiancato da due splendidi angeli.

Da ricordare, infine, il monumento in memoria di Giuseppe Natoli, realizzato da Lio Gangeri e costituito da un sarcofago sormontato da un bellissimo angelo che regge in mano la torcia dei geni mortuari.

Ancora in asse con l’ingresso principale, sulla sommità della collina, troviamo il Cenobio. L’edificio, in perfetto stile neo-gotico, fu progettato da Giacomo Fiore. Inizialmente fu utilizzato per lo svolgimento delle funzioni religiose e come sede degli uffici del Cimitero, nonché come alloggio del cappellano- direttore, per poi cadere in parziale (e dopo totale) disuso in seguito al terremoto del 1908.

Nella spianata circostante il Cenobio si ergono numerosissimi monumenti, lapidi e sculture, quasi tutti realizzati tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento.

Sul Gran Camposanto ci sarebbe tanto altro ancora da dire: ci sarebbero da spendere parole su parole per ogni singola lapide, per ogni singola statua. Quel che è certo è che il nostro Gran Camposanto dovrebbe essere affollato non solo da chi va a portare un fiore ai propri cari, ma anche da cittadini, da curiosi e da turisti, come accade in altre città. Del resto il nostro è uno dei cimiteri più artistici d’Italia, secondo solo a quello di Genova. E in più ci permette di rivivere l’atmosfera romantica e neoclassica della Messina del pre-terremoto, occasione più unica che rara.

Francesca Giofrè

Ph: Giulia Greco