Il mito del Grind e della Produttività: produrre significa vivere?

Viviamo in un’epoca che ha trasformato la produttività in una religione, con i suoi dogmi, i suoi sacerdoti e le sue eresie. Ogni giorno siamo bombardati da video, podcast e post motivazionali che ci spingono a massimizzare il nostro tempo, a svegliarci alle 4 del mattino per meditare, docce fredde, allenarci e leggere un libro prima che il resto del mondo apra gli occhi.

Ma cosa significa davvero essere produttivi? E soprattutto, questa incessante corsa all’efficienza ci sta davvero rendendo più felici e realizzati?

L’illusione della produttività infinita

Negli ultimi anni, il concetto di produttività si è trasformato in un dogma. I social network sono invasi da figure come i “guru della finanza” e da influencer che consigliano di eliminare ogni distrazione, dormire meno e trasformare ogni momento libero in un’opportunità di guadagno, monetizzare le proprie passioni, ignorando completamente le implicazioni sulla salute mentale e fisica. Frasi come “lavora mentre gli altri dormono” o “se non sei ricco è colpa tua” sono diventate i mantra di questa nuova ondata di business online.

Tutto questo va a discapito dei giovani, che si ritrovano dentro un meccanismo perfetto: gli insegnano che il tempo è denaro, che riposarsi è una colpa, che ogni momento libero è uno spreco se non viene investito nella costruzione di un capitale, di un curriculum, di una carriera. Lo addestrano a non bastare mai a se stesso: deve migliorare, deve ottimizzare, deve lavorare di più. Non è più un uomo, è un’azienda.

Il suo corpo deve farsi strumento, la sua mente una catena di montaggio. Ogni minuto dev’essere riempito di qualcosa di utile. E nel frattempo la vita gli scorre tra le dita come sabbia, e non lo sa.

 

Grind
Il tempo è denaro. Fonte: sapere.virgilio.it

Il “Grind” e il paradosso del Burnout

Il mito del “grind” si fonda su una promessa tanto seducente quanto ingannevole: se lavori senza sosta, sarai premiato con il successo. Il problema principale di questa narrazione è che ignora la realtà biologica e psicologica dell’essere umano. Tuttavia, la realtà è ben diversa: il successo dipende da molteplici fattori, inclusi privilegi sociali, opportunità economiche e perfino fortuna. L’idea che chiunque possa diventare un milionario solo con la forza di volontà è una semplificazione che ignora le complessità della vita reale.

Lavorare incessantemente non significa essere più produttivi: dopo un certo punto, la mancanza di riposo porta a un calo drastico della creatività e dell’efficienza, oltre che a gravi problemi di stress, ansia e burnout. Chi si spinge oltre i propri limiti finisce per perdere lucidità, creatività e motivazione. Le aziende e la società moderna incentivano questa corsa alla performance senza sosta, ma raramente si preoccupano delle sue conseguenze a lungo termine.

Molti studi dimostrano che la produttività non è direttamente proporzionale alle ore di lavoro, anzi, in molti casi la riduzione dell’orario lavorativo ha portato a risultati migliori. Paesi come la Finlandia e aziende come Microsoft Giappone hanno sperimentato settimane lavorative più brevi ottenendo un incremento della produttività e un miglioramento del benessere dei lavoratori.

 

Grind
Fonte: manageyourlife.it

Il vero lusso contemporaneo è fermarsi

Ma quale vita si sta costruendo questo uomo nuovo? Egli non ama, non gioca, non si ferma mai a guardare il tramonto. L’arte non gli serve, la poesia lo annoia, il pensiero lo distrae. Deve lavorare. Sempre. Deve correre. Sempre. Come il bue sotto il giogo, come l’ingranaggio dentro la macchina.

Questo mondo che produce senza sosta non ha generato più bellezza, più amore, più felicità. Ha solo prodotto stanchezza. Stanchezza nei volti spenti dei giovani, stanchezza nelle rughe premature degli adulti, stanchezza nelle città che non dormono mai.

Ribellarsi non significa rifiutare il lavoro, ma rifiutare questa religione della produttività che non ammette pause, non concede respiro. Ribellarsi significa camminare senza meta, significa guardare il cielo senza sensi di colpa, significa perdere tempo. Perché solo perdendolo si può veramente ritrovare se stessi.

Il mito della produttività deve essere decostruito: non siamo macchine e non dovremmo trattarci come tali. Forse la vera chiave del successo non sta nel fare di più, ma nel saper scegliere ciò che davvero conta.

Bisogna spezzare la catena, prima che sia troppo tardi. Prima che, alzando gli occhi dalla scrivania, ci accorgiamo che il mondo è finito e che noi non ce ne siamo nemmeno accorti.

 

Gaetano Aspa

I benefici di una camminata: tanta salute in “quattro passi”.   

“Camminare è la miglior medicina” scriveva Ippocrate già  nel IV secolo a.C., regalandoci la metafora  migliore che da tempi remoti accompagna il passaggio dell’uomo sulla Terra. Non a caso si dice che Aristotele intrattenesse i suoi discepoli passeggiando sotto le colonne del  porticato e Kant riuscisse a “ seminare i suoi gravosi pensieri “ in una passeggiata. 

Camminare era ed è l’attività più antica e naturale dell’uomo. 

    1. Benefici di una camminata 
    2. Intensità della camminata e obiettivo giornaliero
    3. Studio sperimentale
    4. Camminata lavorativa
    5. Benefici sul sistema cardiovascolare
    6. Corretto appoggio plantare
    7. Movimento delle braccia 
    8. Conclusione

 

Benefici di una camminata

“Mens sana in corpore sano” scriveva  Giovenale nelle sue Satire ( satire X, 356); a tal proposito, la scienza ha dimostrato che l’attività fisica è in grado di prevenire malattie fisiche e mentali. Per esempio, camminare ad un ritmo di 3–5 m/h (5–8 km/h) consuma energia sufficiente per soddisfare le raccomandazioni per un corretto stile di vita.
Meta-analisi hanno dimostrato che camminare ha vari benefici per la salute, inclusi effetti positivi su fitness, grasso e pressione sanguigna a riposo, controllo della pressione sanguigna,  perdita di peso,  depressione e prevenzione del rischio di malattie cardiovascolari. Inoltre favorisce la socialità, migliora l’umore e aiuta a dormire meglio. 

Intensità della camminata e obiettivo giornaliero

Sarebbero sufficienti 5 minuti di corsa al giorno per ottenere ottimi risultati, ma, come ben sappiamo, la corsa non è per tutti.  Gianfranco Beltrami, docente in Scienze motorie dell’Università di Parma, afferma che “il numero di passi va adattato all’età, alle condizioni di salute, al peso, al livello di allenamento: per un grave obeso o un paziente con problemi cardiovascolari anche 3.000 passi al giorno sono già un risultato apprezzabile. In generale, poi, può essere opportuno spezzare la camminata in due o tre volte nell’arco della giornata.».
Basterebbe una passeggiata di circa 20 minuti dopo pranzo e cena per agevolare digestionebenessere fisico.

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Studio sperimentale

Uno studio statunitense recente ha dimostrato che il “famoso obiettivo giornaliero”, di 10.000 passi, sarebbe per molti un’utopia, dato che la media si attesta tra i 5.000 e i 7.000 passi quotidiani. Sono state perciò misurate le abitudini di cammino di circa 3.500 volontari.
I ricercatori hanno osservato come anche un obiettivo più facile, come 3.000 passi al giorno ad andatura spedita, garantisca i medesimi effetti protettivi sui fattori di rischio cardiovascolari.

Camminata lavorativa

Diventa importante riuscire a non confondere la camminata benefica con la camminata dovuta ad attività ripetitive come avviene in vari settori lavorativi, per esempio nei settori agricoli, edili e persino nei lavori domestici .
Il presidente della Fondazione Centro per la Lotta contro l’infarto, Francesco Prati, afferma: «L’attività fisica lavorativa spesso è fatta di sforzi ripetitivi, posture statiche o il sollevamento di pesi, non riducono la frequenza cardiaca né la pressione, anzi le aumentano con conseguenze negative sul benessere di cuore e vasi; inoltre, sul lavoro, i tempi di recupero dallo sforzo sono inferiori e questo porta un aumento dei livelli di infiammazione >>

Benefici sul sistema cardiovascolare

Un’attività fisica, come una camminata, che prevede l’impegno della muscolatura degli arti inferiori, garantisce un pompaggio diretto dei muscoli sulle vene, così da favorire il ritorno venoso dalla periferia al centro. In particolare, a livello plantare trova luogo la Soletta venosa di Lejars che favorisce l’azione di pompa muscolare e dunque il ritorno del sangue ai distretti superiori. Si tratta però di un “letto” di capillari molto piccoli, contenente una quantità di sangue ridotta.
Lunghi periodi di tempo seduti possono causare un ristagno venoso, è quindi importante sgranchirsi spesso le gambe, o passeggiare a piedi nudi per qualche minuto.

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Corretto appoggio plantare

Ogni persona ha un suo baricentro che garantisce la corretta posizione spaziale dell’organismo. Qualsiasi causa che comporta una alterazione del baricentro viene considerata dannosa per l’organismo. Questo è fortemente vincolato dalla tipologia di appoggio del piede su qualsiasi superficie, per questo motivo è necessario appoggiare correttamente i piedi.
 Esistono due differenti tipi di appoggio:
 

  • appoggio sul tallone, utilizzato dalla maggior parte delle persone senza rendersene conto. Il tallone è la prima zona a toccare il suolo, seguita da avampiede e, per ultimo, dalle dita. Si tratta della modalità più comunemente diffusa, ma non della migliore, in quanto spesso è motivo di dolori alla colonna vertebrale oppure alle articolazioni;
  • appoggio sull’avampiede, è l’avampiede che entra per primo a contatto con il terreno, attivando i muscoli del piede e non gravando sulle ossa del tallone e della caviglia. Tale modalità contribuisce a preservare la salute di tendini, legamenti e articolazioni, potenziando anche la tonicità delle fibre muscolari.

 

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Movimento delle braccia 

Muovere le braccia in maniera giusta durante la camminata è fondamentale per una distribuzione tra lo sforzo degli arti inferiori e parte superiore del corpo.
Le braccia sono in grado di imprimere il ritmo, sia all’attività motoria, che alla respirazione: il loro movimento deve essere fluido e senza tensioni, così da evitare problemi alla schiena, spalle e collo.
Il movimento di braccia e gambe deve procedere in senso alternato: quando l’arto superiore sinistro avanza, quello inferiore rimane indietro e viceversa, allo scopo di imprimere il ritmo in maniera efficace e produttiva.

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Conclusione

Risulta davvero difficile elencare tutti i benefici che una semplice passeggiata  ci regala, ma dal momento che questa impegna corpo e mente  in tutte le sue componenti vitali non è neanche necessario  elencarli poiché  il loro benessere lo si vive e lo si sente e ci rende sereni.

 Bruce  Chatwin: “Io camminando ogni giorno raggiungo uno stato di benessere e mi lascio alle spalle ogni malanno…pensieri migliori li ho avuti mentre camminavo e non ricordo pensieri così gravosi da non poter essere lasciati alle spalle con una camminata.”

       Elena Fortuna

Per approfondire:

https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC3197470/
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6801055/
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC6313311/
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC7734587/
https://www.ncbi.nlm.nih.gov/pmc/articles/PMC4453623/
https://www.atuttasalute.it/il-piede-la-salute-e-la-bellezza-partono-dal-basso/
https://www.corriere.it/salute/muscoli-ossa-articolazioni/21_novembre_23/sul-corriere-salute-benefici-mentali-fisici-sport-piu-naturale-camminare-de005dbe-4ad6-11ec-be32-a40a18c10418.shtml

Chi ha tempo non aspetti tempo… o forse sì

La riflessione di oggi nasce spontaneamente. Potremmo dire, con estrema semplicità, dal periodo che stiamo vivendo. Con mobilità e socialità ridotte al minimo sempre più frequentemente, ogni attività – didattica e lavoro inclusi – “spostata” su piattaforme online, possiamo realmente continuare a considerare la rapidità dei mezzi del terzo millennio ancora come un vantaggio? O questi stessi mezzi, tanto utili quanto mai ora indispensabili per non rimanere paralizzati in tempi di pandemia, se da un lato fanno risparmiare tempo, dall’altro ci sottraggono qualcosa?

La risposta è tanto complessa quanto personale e articolata. A testimonianza di ciò il titolo di questo breve pezzo: più che dare risposte vuole insinuare un dubbio. E come spesso accade è la quotidianità, fatta di avvenimenti e azioni “banali”, a innescare considerazioni ben più ampie e strutturate, a dare forma a pensieri inconsci che prendono vita attraverso la parola, scritta o parlata che sia. Ecco, dunque, che mi ritrovo a dover acquistare una stampante online, come di rado mi accade ad essere onesto. Ma Messina non è né in zona arancione, né in zona rossa nazionale o regionale: è in zona “ultrarossa”, come da ordinanza del sindaco De Luca. Sono costretto quindi a fare tutto da computer: armato di buona volontà guardo qualche modello in foto, un po’ perplesso dalle descrizioni non sempre dettagliate e in grado di sostituire la “vista dal vivo”, per quanto si tratti di un oggetto che non merita sicuramente le attenzioni di un’opera d’arte (anche se gli addetti ai lavori magari mi bacchetteranno). Detto, fatto: il noto sito di e-commerce, che ho usato l’ultima volta durante il primo lockdown, ha già i miei dati, avendo creato un account. Nome, cognome, indirizzo e carta di credito. Nessuna autorizzazione al pagamento ulteriore: un click e un pacco inizia l’iter per essere consegnato. Due secondi, forse meno. Meravigliato – forse perché poco avvezzo non tanto al mezzo, quanto all’acquistare nello specifico – dalla rapidità con il quale tutto è accaduto mi sento un po’ stordito.

Poco dopo decido di acquistare anche un libro, “Il quarto comandamento: La vera storia di Mario Francese che sfidò la mafia e del figlio Giuseppe che gli rese giustizia”, della giornalista e scrittrice Francesca Barra, che narra la storia della famiglia Francese: di Mario, giornalista ucciso dalla mafia; di Giulio, Fabio, Massimo e Giuseppe, i figli che hanno lottato per far venire a galla la verità, insieme alla madre Maria. Su questo non transigo, nonostante esistano versioni “kindle” scaricabili comodamente, per me niente può sostituire un libro “in carne e ossa”. Ma i tempi di consegna non mi assistono: giorno 28 abbiamo organizzato con UniVersoMe, la nostra testata, un webinar su giornalismo di inchiesta e studenti in collaborazione con Gazzetta del Sud e UniMe, con ospite proprio Giulio Francese, Presidente dell’Ordine dei Giornalisti di Sicilia.

Evento su giornalismo d’inchiesta e studenti organizzato da UniVersoMe in collaborazione con Gazzetta del Sud e UniMe

Nonostante conosca bene la storia di Mario Francese, mi piace sempre approfondire ulteriormente tematiche come questa. Cedo dunque alla versione e-book, con un po’ di tristezza per la mia passione per la carta stampata. Ringrazio per questa deroga alle mie abitudini. Il libro non è una storia di mafia, di silenzio, di omertà, di ingiustizie e di giustizia: è la storia umana di una famiglia. La concatenazione di questi eventi, mi porta anche a un’ulteriore riflessione, che unisce il tema della conferenza al titolo di questo articolo: Mario Francese, nello svolgere il suo ruolo di giornalista d’inchiesta, voleva «raccontare diventando una cerniera tra i fatti e la loro interpretazione». Ritengo che forse questo approccio oggi si sia un po’ perso, determinando un sentimento di diffidenza e sfiducia nei confronti del giornalista. Probabilmente questa rincorsa alla rapidità nel dare la notizia, influenzata anche proprio dai nuovi mezzi di comunicazione, non lascia tempo e spazio al giornalista per porsi tra fatti e loro interpretazione, limita il racconto, l’analisi, in favore di un mero “riportare” passivamente. In questo contesto, come tornare a riportare a galla la verità? Sarebbe meglio prendersi – probabilmente – del tempo in più. Ma questo cambiamento è realmente solo legato al contesto? Od ogni giornalista ha di fatto delle responsabilità?

Copertina del libro – Rizzoli©

Lascio ad altre sedi un’analisi dettagliata di questo aspetto specifico per tornare a focalizzarmi sul tema globale di questo articolo: quel tempo in più del quale parlo poche righe sopra, dovremmo prendercelo un po’ tutti. Esempio molto discusso è l’uso esteso della DAD. Siamo sicuri che andare a scuola o all’università significhi soltanto accendere un pc ed ascoltare una video-lezione? L’atto stesso di “andare” implica svegliarsi, vestirsi, prendere un mezzo o camminare, incontrare i propri compagni/colleghi, chiacchierare con loro, studiare, fare ricreazione e pause, svolgere verifiche o esami e poi tornare a casa. Un’attività semplice ma varia, diversificata, con tempi ben scanditi, ridotta alla distanza che separa il letto dal tasto del nostro pc/tablet.

Potremmo fare lo stesso discorso per il lavoro (che da casa sembra non finire mai, sconfinando spesso oltre l’orario consueto), comprare in negozio, mangiare al ristorante e qualsiasi altra cosa che vi venga in mente. In un periodo così difficile da così tanti punti di vista, si sente spesso dire “sì lo faccio, ma non è la stessa cosa”. Gli studenti, anche i più pigri, si riscoprono desiderosi di tornare alla normalità. Chiunque, sebbene – con le dovute e tristi eccezioni – riesca a fare tutte o quasi tutte le attività che svolgeva prima, avverte più insofferenza che piacere.

L’era digitale ha compresso, con gli innumerevoli vantaggi dei quali anche io sono ben conscio, i tempi di ogni attività; lo ha fatto ormai da tanto, spinta nell’ultimo tragico anno dal fare di necessità virtù durante la pandemia. Ma penso che, in questa frenetica rincorsa alla rapidità, ci abbia tolto qualcosa: il piacere di fare. Restringendo al massimo i tempi, spesso si ha la sensazione solo di eseguire.

Per questo vorrei dirvi: chi ha tempo, aspetti. Ogni cosa ha il suo tempo. Persino comprare una stampante.

Emanuele Chiara

Articolo pubblicato in data 4/02/2021 nell’inserto NoiMagazine di Gazzetta del Sud

Immagine di copertina: La persistenza della memoria, Salvador Dalì (artewrold.it)

Alla ricerca del tempo perduto

Era il giugno scorso quando il signor Tim Cook ci ha sbattuto in faccia una realtà: <<Le persone stanno troppo tempo davanti allo smartphone>>.

E così meno di tre mesi fa è arrivata sui telefonini di casa Apple la funzione Tempo di utilizzo che informa gli utenti su quanto effettivamente stanno davanti allo schermo di un telefono. Anche la fazione Android si sta, ovviamente, mettendo al passo con la causa sociale avviata da Cupertino e le stesse App figlie di Mark Zuckerberg oggi danno la possibilità di vedere quante ore – perché di ore si parla- si sta attivamente al centro delle piazze virtuali con l’accessoria opportunità di impostare un timer giornaliero che avvisi il social addicted quando sta sforando il tempo da lui stesso prestabilito.

Insomma, se volessimo fare un parallelismo con il mondo alimentare, i signori del web sono passati da essere distributori di junk food a nutrizionisti. Ed ora ci propongono di metterci a dieta.

Una dieta da connessione.
Ma è veramente possibile? Quanto può essere possibile scollegarsi?
Privarsi di una connessione, di essere in rete. Quella stessa rete che, appunto, ci fa sentire parte di qualcosa. E quando ti disconnetti, se è davvero possibile farlo, come fai a non pagare le conseguenze di non essere parte di quel qualcosa?

Però, intanto, un giorno tutti siamo stati messi davanti a quei dati.
3,5 h su Instagram, 2h su Whatsapp, 1h su Facebook, 30 min su YouTube per un totale di… 10/12h di utilizzo di un solo dispositivo, ovvero quasi la totalità delle ore di cui disponiamo in una giornata.

E quindi c’è da chiedersi: quel qualcosa, quella rete, è davvero esterno a noi o ormai è diventato un’estensione di noi stessi?
Ogni momento, ogni singolo momento vuoto lo riempiamo con quel piccolo dispenser formato 5-6 pollici  di autostima, compagnia, felicità, conoscenza.

E quindi la domanda, che almeno a noi, è venuta spontanea è stata

Come riempivamo prima quei momenti
Dove è andato a finire quel tempo? È forse perso?

Cosa facevamo la mattina, appena svegli, senza connetterci con il mondo.

Una connessione con il mondo non fatta semplicemente di notizie, ma di aggiornamenti provenienti dalla nostra sfera di amici, follower, conoscenti, sconosciuti. Insomma, più che notizie, futilità. Futilità buone, d’altronde non di solo pane vive e ha vissuto l’uomo, ma anche di momenti di pura inutilità.

Post, foto, video, contenuti altrui che spesso ci strappano gocce di reazioni, emozioni e comportamenti contrastanti: un sorriso, felicità, commozione, invidia, gelosia… STALKING (quello buono, più o meno, che tutti facciamo), verso chi già conosciamo e verso chi vorremmo conoscere.
Ebbene, soffermiamoci su questo punto che, tra l’altro, ci sembra un po’ riassumere l’amore ai tempi del web 2.0.
Quante volte ci capita di arrivare ad un appuntamento e avere l’impressione di sapere già tutto di quella persona. Sentire di aver perso la cognizione del primo incontro, il vedo non vedo dell’amore.
Vedere quel volto che da foto diventa persona, e non più viceversa, ci ha forse fatto un po’ perdere lo stupore per lasciare spazio alla sicurezza.
Le piattaforme social, così come il web in generale, colmano le nostre conoscenze e le nostre mancanze. Abbiamo bisogno di fare lo screening totale della persona che ci troveremo davanti per non arrivare impreparati al mondo reale.
Il nostro smartphone è una piccola medicina che prendiamo ogni momento.
Più che medicina, placebo. Ci illudiamo che il mondo ideale possa essere più accogliente, perfetto, una coccola gratuita per ogni nostro calo di autostima e soddisfazione. Plasmiamo un mondo ideale che rendiamo reale virtualmente, lo viviamo, lo condividiamo, lo accresciamo – anche a pagamento – per avere approvazione e poi ci troviamo insoddisfatti, soli, delusi quando scopriamo che quel mondo, forse, non è poi così reale.
E allora quelle ore, il nostro tempo di utilizzo, perché non impiegarlo in un tempo nuovo – di nuovo – da utilizzare per riscoprire il reale e, senza cadere in inutili banalismi, renderci migliori concretamente, senza filtri. Per ricevere approvazione reale, e non attraverso facili e veloci likes.
Forse dovremmo reimparare a vivere – senza disconnetterci , per carità – ma ricollengandoci con noi stessi, i veri noi, e riprenderci un po’ di tempo perduto alla volta.

Mattia Castano, Martina Galletta