Musica, Maestro! Breve passeggiata storica e musicale fino al teatro Vittorio Emanuele di Messina

img_9555

L’argomento della storia della musica messinese, particolarmente caro agli storici locali, non è altrettanto caro al grande pubblico: i nomi dei compositori messinesi sembrano essere stati totalmente cancellati dalla memoria collettiva, le loro musiche paiono quasi bandite dai programmi di concerti ed eventi culturali, e forse non è un caso se l’attuale Conservatorio di Messina è intitolato ad Arcangelo Corelli, grandissimo violinista e compositore settecentesco, che, ciò nondimeno, con Messina e la sua storia musicale ha ben poco a che spartire…

Eppure pare che negli scorsi secoli Messina sia stata una città di primissimo piano nel panorama musicale siciliano e nazionale. Nel suo periodo d’oro, che culmina nel XVII sec. per concludersi con la tragica parentesi della rivolta antispagnola del 1674-1678, la produzione musicale a Messina era fiorente e riguardava prevalentemente musica sacra e strumentale: la Cappella Senatoria del Duomo di Messina era seconda per prestigio solo a quella di Palermo, e vide l’operato di musicisti come Bernardo Storace, Michelangelo Falvetti, Giovanni Antonio Pandolfi Mealli e Vincenzo Tozzi, tutti nomi assolutamente ignoti ai più ma che (soprattutto i primi due) di recente iniziano ad essere oggetto di un rinnovato interesse da parte degli addetti ai lavori e degli esecutori di musica antica.

 

Meno si sa invece per quanto riguarda la musica teatrale: le già scarse notizie riguardanti il ‘600 diventano ancora più sparute per quel che riguarda il ‘700, anche se già da tempo è documentata in città la presenza di un teatro regio, il cosiddetto Teatro della Munizione, così chiamato perché ricavato a partire da un deposito di armi e munizioni nei pressi della via omonima, nel centro della città. È invece nel secolo successivo, con lo svilupparsi e il diffondersi del genere dell’Opera lirica, che si sentì il bisogno di dotare la città di un teatro nuovo e più grande: il vecchio Teatro della Munizione, infatti, secondo le testimonianze del La Farina, scrittore e letterato locale, era ormai decisamente attempato, e non più adatto alle esigenze dell’epoca. In quel periodo, oltretutto, Messina aveva visto la nascita di diversi compositori di opera lirica, fra i quali il più celebre è indubbiamente Antonio Laudamo, a cui oggi è intitolata l’omonima Filarmonica; diversi di loro però, come il meno conosciuto Mario Aspa, autore di diverse opere, o il provinciale Placido Mandanici, originario di Barcellona Pozzo di Gotto, preferivano lasciare la città per fare successo e far eseguire le proprie opere in teatri più grandi e famosi, come il Fondo e il San Carlo di Napoli, o la Scala di Milano.

A Messina, insomma, la mancanza di un teatro al passo coi tempi impediva lo sviluppo di una scena musicale attiva e vivace, tanto che, all’epoca, era diffusa l’opinione secondo la quale i messinesi non avessero gusto per il teatro: luogo comune contro il quale si trovò a polemizzare prima, nel 1836, il pubblicista messinese Carlo Gemelli e in seguito, nel 1840, lo stesso La Farina.
Fu anche per questo motivo che, dietro ordine regio, si decise di edificare un nuovo teatro per la città di Messina, teatro che sarebbe sorto al posto di una prigione sita sulla centrale via Ferdinanda, oggi via Garibaldi, e il cui progetto fu affidato al napoletano Pietro Valente e al messinese Carlo Falconieri. I lavori, iniziati nel 1842, diedero vita al teatro “Santa Elisabetta”, che, inaugurato nel 1852 con l’esecuzione di una opera del Laudamo, sarà poi rinominato dopo l’Unità d’Italia, col nome che porta tutt’oggi: “Vittorio Emanuele II”.

 

Ai giorni nostri il teatro, rimasto quasi illeso dopo il terremoto del 1908 ma ampiamente danneggiato dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale e smantellato negli anni ’50, è stato ricostruito interamente: la facciata, abbastanza fedele al progetto ottocentesco, è arricchita da fregi e bassorilievi rappresentanti effigi di musicisti e drammaturghi celebri e scene mitologiche, opera di Saro Zagari, ed è sormontata da un gruppo marmoreo allegorico, scolpito dallo stesso autore: rappresenta il Tempo, alato e con la clessidra in mano, che disvela la Verità, a sinistra, mostrandola alla città di Messina, personificata nella figura a destra. L’interno invece, completamente moderno nella struttura, è adornato, sulla volta, da un celeberrimo dipinto raffigurante la leggenda di Colapesce, opera di Renato Guttuso del 1985.

Attivo ogni anno con la sua stagione teatrale e operistica, il Vittorio Emanuele continua a essere uno dei centri principali dell’intrattenimento culturale della città; e magari sarebbe interessante se al suo interno potessero tornare a suonare un po’ più spesso le note di Laudamo, Aspa, o di qualcun altro dei tanti compositori messinesi che il tempo e l’incuria hanno, forse immeritatamente, consegnato all’oblio…

Gianpaolo Basile

Ph: Giulia Greco

Nuovo Cinema Italiano, la rinascita è in corso

lo-chiamavano-jeeg-robot-700x400_1200x628_[1]

Mi è capitato, ultimamente, di portare la mia attenzione di assiduo cinefilo ad un fenomeno che dagli  addetti ai lavori è stato ribattezzato come “Il rinascimento del cinema italiano”. Questo fiorente periodo del mercato cinematografico del nostro paese è da collocare soprattutto negli ultimi anni dove le uscite in sala sono state sicuramente variegate e di alto livello. Personalmente mi ritengo fortunato (e anche un po’ bravo dai) nell’essere riuscito a visionare nell’ultimo anno, al cinema, alcune delle pellicole più interessanti che mi hanno fatto ricredere sul livello del cinema italiano e su quello che ancora mi può offrire. Ci tengo quindi a fare una riflessione e il punto della situazione sulle condizioni del cinema nostrano, anche alla luce dei recenti David di Donatello cercando, magari, di consigliarvi la visione dei film più meritevoli. Partiamo.

Il mio ricordo va a, più o meno, un anno fa. Era il 14 maggio del 2015, il giorno del mio compleanno. Decisi di andare al cinema, da solo. Il film che in quel periodo ha attirato la mia attenzione è stato “Il racconto dei racconti”, pellicola diretta da Matteo Garrone. Arrivato al piccolo cinema della mia città, mi resi conto che la sala era completamente vuota. Non c’era nessuno. Subito pensai che tutto questo fosse molto triste, anche se guardare un film al cinema con la sala tutta per me è stata un esperienza straordinaria. Le mie attese per il film erano molto alte: un film italiano fantasy. Bastava questo per far salire l’hype per il film (anche perché ero reduce da una maratona de “Il trono di spade” che un tantino ti fa appassionare al genere). Devo dire che le attese sono state pienamente rispettate. Mi sono trovato davanti un’esperienza cinematografica straordinaria: le storie, i luoghi, i paesaggi e i personaggi erano tutti sconvolgenti. La prima cosa che ho pensato è stata: “Davvero un bel film, e non un bel film per essere un film italiano, ma proprio un bel film.”

Il punto sulla mia, appena nata, riflessione sull’argomento si era incentrato su come Garrone fosse riuscito in questo intento. Ne ho visti di bei film fantasy stranieri, ma questo era diverso. Non faceva il verso ai film americani, ma allo stesso tempo mi dava le stesse emozioni di una grande produzione d’oltreoceano. Garrone era riuscito a prendere un genere come il fantasy e farlo diventare italiano. Non mi trovavo di fronte ad una brutta copia de “Il Signore degli Anelli”, ma di fronte ad una storia italiana (il film infatti è tratto dalle fiabe dell’autore italiano del ‘600 Giambattista Basile) che usava un linguaggio nuovo, il linguaggio italiano. E finalmente ho trovato il punto della mia riflessione. L’Italia è riuscita ha prendere un genere come il fantasy (con tutti i rischi che questo può comportare) e lo ha reso italiano. L’Italia fa i generi cinematografici e li fa bene.

Da quel momento mi è capitato di vedere altri film di genere al cinema. Ricordo con piacere il noir politico di Sollima in “Suburra”. Ricordo con tantissimo piacere un film come “Lo chiamavano Jeeg Robot” di uno straordinario Gabriele Mainetti che è riuscito a rendere italiano un genere come il Cinecomic, con una produzione di neanche 2 milioni di euro, a testimonianza che quando si ha un’ idea solida i soldi passano in secondo piano. Ricordo con altrettanto piacere il recente film di Matteo Rovere “Veloce come il vento” che mi ha fatto saltare sulla poltroncina del cinema dall’emozione con un film d’azione/sportivo. Tutti questi film hanno reso generi che a noi sembravano sconosciuti e addirittura inarrivabili come generi “italiani DOP”.

Oltre a questi film di genere ci tengo a consigliare altri film usciti nell’ultimo anno dall’Italia. Se siete fan di Maccio Capatonda apprezzerete tantissimo la sua “fantozziana” commedia “Italiano Medio” che fa una sprezzante critica al nostro paese in pieno stile Maccio. Se amate i film estremamente drammatici di Muccino non perdetevi “Padri e Figlie” con uno straordinario Russel Crowe. Personalmente ho amato anche l’ultimo film del maestro Paolo Sorrentino “Youth – La giovinezza”, un romantico e surreale modo di guardare la terza età. Da guardare anche l’ultimo film del compianto Claudio Caligari “Non essere cattivo” con due giovani attori italiani lanciatissimi in questo momento come Luca Marinelli e Alessandro Borghi. E per finire vorrei consigliare anche “Perfetti sconosciuti”, il film di Paolo Genovese (vincitore quest’anno del David di Donatello come miglior film), non vi troverete davanti la solita commedia italiana. La lista potrebbe essere più lunga ma mi fermo qui.

Insomma direi che di carne al fuoco ce ne è parecchia. Film nuovi, freschi e che attirano il pubblico in sala. Il cinema italiano si prepara ad un nuovo fiorente periodo, grazie anche a chi ha messo le basi in questi ultimi anni. È infatti grazie ai registi e agli autori che negli ultimi anni hanno avuto il coraggio di sperimentare e di azzardare che oggi possiamo guardare al futuro speranzosi. Naturalmente continueremo a vedere nelle sale italiane i cinepanettoni e le commediole-svuotacervello ma la speranza è che il pubblico, piano piano, decida di cambiare sala in favore di film come quelli sopracitati. Il cambiamento è iniziato, sta a noi riempire i cinema italiani e favorire il Made in Italy. Quello di qualità. Quello che ci fa saltare sulle poltroncine. Quello che riesce ad emozionarci e sorprenderci. Quello del Nuovo Cinema Italiano.

Nicola Ripepi

 

Teatro dei Naviganti: una speranza verde per il Fondo Pugliatti

Forse non in molti sanno che a Messina esiste una realtà teatrale chiamata Teatro dei Naviganti: un’associazione culturale nata nel 1996, fondata dagli attori Domenico Cucinotta e Mariapia Rizzo.
Cominciata l’avventura come teatro “nomade” (spintosi in tournée fin oltreoceano) il gruppo ha via via sentito il bisogno di avere uno spazio teatrale proprio: “volevamo essere anche noi un porto di approdo per le altre compagnie”, racconta Domenico Cucinotta. Ed è così che dal 2000, il gruppo teatrale sceglie come sede i Magazzini del Sale, in Via Del Santo, parte del quartiere Fondo Pugliatti: un quartiere che, tra abusivismo e rifiuti, si trova in stato di abbandono totale. Il Teatro dei Naviganti, oltre al raggiungimento degli obiettivi di ricerca teatrale, non ha mai perso di vista le sue finalità pedagogiche e sociali.
Non a caso, con il tempo, il teatro è stato integrato nel quartiere e, grazie all’entusiasmo degli abitanti, si è venuto a creare un clima di vera e propria collaborazione.

Un’unione di forze che, nel pomeriggio di Domenica 17 Aprile, ha generato un evento che potremmo definire di “svago artistico”.
Il palcoscenico? Il parcheggio della Via del Santo.
Ad aprire il tutto è stato un momento di gioiosa animazione per bambini con il versatile giocoliere del quartiere Mario Taviano.
A seguire, il fulcro dell’evento: una performance di danza contemporaneaFuori-dentro, dentro-fuori”, curata da Giovanni Scarcella, Giorgia di Giovanni e Mariapia Rizzo. I ballerini, infatti, dopo una studiata e toccante improvvisazione nel parcheggio, hanno attirato e coinvolto gli spettatori, conducendoli fin dentro i Magazzini del Sale dove si è svolta la seconda parte della performance, quasi a sottolineare l’unione tra teatro e territorio.

Abbiamo scelto il parcheggio come luogo simbolo dell’abbandono”, ci viene spiegato.
In effetti, il parcheggio è ormai da tempo utilizzato come discarica di amianto, elettrodomestici e cimitero di macchine carbonizzate.
Con l’evento, gli abitanti hanno voluto evidenziare lo stato di degrado del luogo, lanciando, allo stesso tempo, un’iniziativa: realizzare uno spazio verde, “”- come la chiama Domenico Cucinotta- con l’aiuto di chiunque vorrà contribuire. A contornare il tutto, poi, due cantori del luogo, musicisti, trampolieri, rapper e ballerini di breakdance: un momento di artisticità “made in Fondo Pugliatti” che, si spera, esploda concretamente nella speranza verde dei suoi abitanti.

 

Martina Galletta

Unime e la “bellezza ovunque”

“Ovunque è bellezza” è il titolo del nuovo laboratorio teatrale che l’Ersu sta organizzando in collaborazione con UniversiTeatrali, il Centro Internazionale di Studi sulle Arti Performative del Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e Studi Culturali.

In questo momento in cui tutto si fa sempre più difficile, occorre immediatamente ritrovare il contatto con la Bellezza, rialzare lo sguardo al mondo. Lo si percepisce nel silenzio dei tram, nei lunghi corridoi dei centri commerciali, negli sguardi alienati della gente davanti ai loro telefoni cellulari. In quegli sguardi persi nel vuoto è come se ognuno, senza saperlo, si chiedesse: “cosa ci sta accadendo?”

Ecco perché dedicare, a partire da uno studio del Verbo degli uccelli del maestro persiano Farid-ad-din Attar (1145-1220), un laboratorio alla Bellezza che sta nella riscoperta dell’altro come altrove, familiare e straniante al contempo, giacché quella familiarità e quella estraneità sono, in primo luogo, dentro di noi e nessun “social” potrà rivelarle quanto un confronto franco, diretto, autentico.

Gli organizzatori dell’evento sottolineano che mai come oggi, il teatro ha la grande responsabilità di sciogliere i nodi e i travisamenti dell’io. Il lavoro del drammaturgo, del regista, dell’attore, deve puntare verso un senso più alto di responsabilità. L’Arte tutta è, infine, un percorso di ricerca che parte da un’urgenza, da una necessità. Solo quando questa vocazione è autentica, la mente e il corpo cospirano affinché, di là da essi, tale necessità possa essere espressa, nella sua più̀ profonda essenza.

Il primo incontro del laboratorio, aperto a tutti gli studenti, sarà martedì 19 gennaio 2016 alle ore 16.00 presso il Dipartimento di Scienze Cognitive, Psicologiche, Pedagogiche e Studi Culturali sito via Concezione 6.

Pietro Genovese