Assurdo isolano: i vent’anni di UNIVERSITEATRALI

In occasione del suo ventesimo anniversario, UNIVERSITEATRALI, il centro studi sulla Performatività delle Arti e degli Immaginari Sociali, ha deciso di festeggiare in modo particolare, organizzando un laboratorio di pratica attoriale diverso dal solito.

Come ogni anno, il centro studi UNIVERSITEATRALI propone laboratori di pratica attoriale curati dal professore Dario Tomasello, coordinatore del corso di laurea in DAMS dell’Università di Messina. Tra gli eventi più significativi delle edizioni passate,  possiamo ricordare, ad esempio, le restituzioni teatrali Un Tamerlano di meno nel paesaggio drammaturgico dello Stretto (2023) e La seduzione dei Mulini a vento (2024). Entrambe  le rappresentazioni sono state accolte con grande successo e, soprattutto, hanno offerto agli studenti e alle studentesse un’importante occasione di formazione e sperimentazione scenica.

Per celebrare il traguardo dei vent’anni, in maniera del tutto eccezionale, il laboratorio di quest’anno vedrà la partecipazione straordinaria, accanto al professore Tomasello, di due importanti figure quali Roberto Bonaventura e Luciana Maniaci.

Assurdo isolano
Gli studenti e le studentesse alle prese con lo spettacolo “La seduzione dei Mulini a vento”

L’appuntamento inaugurale del progetto avrà luogo mercoledì 2 Aprile alle ore 16 presso l’aula magna del dipartimento COSPECS. Il lavoro degli studenti ruoterà attorno a un enigmatico Assurdo Isolano, titolo dell’esibizione finale. Questo intrigante progetto nasce anche grazie al contributo dei professori Pierluca Marzo (docente di Sociologia), Francesco Parisi (docente di Fotografia), Katia Trifirò (docente di Storia del teatro e della danza) e Pierpaolo Zampieri (docente di Sociologia).

 

Il laboratorio UNIVERSITEATRALI 2025 si presenta dunque come un’iniziativa ambiziosa e innovativa, resa possibile dalla collaborazione di un team di esperti e dalla passione degli studenti. Un evento che si preannuncia unico, perfetto per celebrare nel migliore dei modi il ventesimo anniversario del centro studi. Non non vediamo l’ora di assistervi.

 

Rosanna Bonfiglio

Marco Castiglia

Fedra: l’opera di Racine al Teatro Vittorio Emanuele

La Fedra di Jean Racine è approdata al Teatro Vittorio Emanuele per tre sere consecutive: 14, 15 e 16 marzo 2025. Alla regia Federico Tiezzi, che nelle due ore complessive di spettacolo -senza intervallo- ripropone una delle più riuscite rese artistiche delle passioni umane. Fedra ci viene presentata da una raffinatissima Catherine Bertoni de Laet, accompagnata da Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro.

Sinossi

Ippolito, figlio di Teseo, vuole partire alla ricerca del padre del quale non si hanno più notizie. Ma il vero motivo del suo viaggio è l’intenzione di fuggire dal fascino di Aricia, di cui è innamorato. Intanto Fedra, moribonda moglie di Teseo, confessa a Enone del suo amore per il figliastro Ippolito, nonostante avesse sempre ostentato odio nei suoi confronti, nell’inutile tentativo di celarne il suo desiderio.

Panope annuncia la morte di Teseo, così Enone esorta la regina a lottare per la vita e per il trono, che altrimenti sarebbe andato a Ippolito e Aricia. Fedra pensa di poter finalmente confessare il suo amore a Ippolito. Ippolito, però, inorridito la respinge e lei chiede a quel punto di essere uccisa per mano sua, ma Enone lo impedisce. Panope comunica che il re è invece ancora in vita e Fedra teme che Ippolito dica tutto e la umili davanti a Teseo; chiede allora consiglio a Enone e questa dice a Teseo che il figlio ha tentato di violentare la regina.

Ippolito lascia Trezene. Teseo chiede al dio del mare Nettuno di punire il figlio, che ritiene colpevole. Fedra sta per scagionare Ippolito dall’ingiusta accusa ma, quando viene a sapere che Ippolito ama Aricia e non lei, abbandona il giovane al suo destino. Enone, invece, presa dal rimorso, si uccide gettandosi in mare. 

Un compagno di Ippolito, Teramene, sopraggiunge per raccontare che il giovane è stato assalito e straziato da un mostro mandato da Nettuno.Intanto, Fedra confessa a Teseo tutto il male che ha fatto e, dopo aver preso del veleno, muore ai suoi piedi. A Teseo non resta che tributare gli onori funebri al figlio e, secondo il voto espresso da quest’ultimo in punto di morte, adottare Aricia come propria figlia ed erede.

Fedra
Catherine Bertoni de Laet, accompagnata da Martino D’Amico, Valentina Elia, Elena Ghiaurov, Riccardo Livermore, Bruna Rossi, Massimo Verdastro neòòa Fedra di Federico Tiezzi.

Fedra: la potenza distruttiva delle passioni in un limbo tra Eros e Thanathos

Ispirata alla Fedra di Euripide e Seneca, viene riscritta da Racine nel 1677 e contaminata di una visione prettamente francese, si tratta di un’opera che ha il suo focus sul linguaggio che rende gli istinti palpabili e razionalizzati. Fedra vive un’esistenza claustrofobica, incatenata al proprio desiderio ancestrale, divorata dai mostri del suo inconscio. La protagonista si ritrova attanagliata da una voglia incresciosa, che rompe con l’ordine sociale precostituito. Causa un cortocircuito mentale che si traduce in un tracollo fisico: Fedra ci appare per la prima volta come un’esile ombra traballante, precaria e fragile. Il regista insiste sull’indagine dei personaggi e le loro trasformazioni in un atteggiamento psicanalitico quasi Freudiano. Racine ci presenta una Fedra imbevuta di giansenismo e di filosofia morale. L’opera consente di ritrovarsi in Fedra e a solidarizzare con l’illecito, sospinti verso un torto fatale, che ci ripresenta il topos della contrapposizione tra Eros e Thanathos.

Fedra: un incubo ambientato nella mente umana

Racine trasla Euripide in una dimensione borghese di cui mostra tutte le contraddizioni e colpe e peccati, in cui della Grecia restano solo le teste marmoree esposte e frammiste ad elementi degli anni ruggenti nelle splendide scenografie di Raggi, Zurla e Tiezzi stesso. Vediamo sul palco una Grecia onirica e mentale, scura da sembrare senza fondo, un ambiente freddo con arredi preziosi. É un baratro che nasconde nel suo buio i segreti di ognuno dei personaggi. In questo buio sono i movimenti di luce a scandire i momenti clou della rappresentazione. I costumi sono sospesi in una dimensione atemporale in cui coesistono vistose gorgiere del Seicento di Racine, paillettes, tuniche, abiti da sera e vestaglie. Per Fedra, Giovanna Buzzi, ai costumi, ha puntato sul concept della Femme fatale del tempo dell’Art Deco`.

Carla Fiorentino 

 

Atene contro Melo, l’importanza di correggersi

Voce e archi, narrazione e musica, storia e arte in Atene contro Melo rappresentato al Teatro Antico di Taormina domenica 23 giugno.

Protagoniste la voce e la musica che si fondono in un duetto in cui l’una accompagna l’altra.

Ideato e narrato da Alessandro Baricco, lo spettacolo rievoca le pagine de La Guerra del Peloponneso di Tucidide  interpretate dalle attrici Stefania Rocca e Valeria Solarino con le musiche composte e suonate da Giovanni Sollima insieme a cento violoncellisti, i 100cellos diretti da Enrico Melozzi.

 

Alessandro Baricco e Enrico Melozzi. © Alessandro Fucilla, Ernesto Ruscio, Cristina Mikhaiel

 

Un dialogo tra note e parole in cui le immagini si susseguono vivide nella mente dello spettatore. A cominciare dal ritratto di Atene e Sparta, delle loro usanze e della loro identità. La prima dedita alla cultura e alle arti, la seconda dedita alla guerra.

“Arrendetevi o vi distruggeremo” è l’ultimatum dato dagli ateniesi agli abitanti dell’isola di Melo nel 416 a.C. che si rifiutavano a prendere parte alla guerra contro gli spartani. I meli volevano pace, non violenza. Volevano libertà, non guerra e sottomissione.

 

Dettaglio spettacolo Atene contro Melo. © Alessandro Fucilla, Ernesto Ruscio, Cristina Mikhaiel

 

La disputa si conclude con l’arroganza e la sicurezza della superiorità bellica di Atene che rade al suolo l’isola di Melo.  Baricco non lascia questa ultima impresa come conclusione dell’intera rappresentazione. Decide di narrare al pubblico un’altra vicenda che assume il volto della speranza: la rivolta di Mitilene contro Atene. E l’immagine di due navi, la prima inviata con l’ordine di distruggere Milo e la seconda con l’ordine contrario. La seconda si getta nel mare alla ricerca della prima con l’intento di salvare gli uomini dalla loro stessa decisione di morte.

Un invito, dice Baricco, ad avere la “capacità di correggersi in continuazione, di pensare con forza e di ripensare, poi, con forza anche maggiore, di armare una nave dopo l’altra, e spedirle a attraversare il mondo portando il nostro instancabile tentativo di capire la realtà e noi stessi”.

Alessandra Cutrupia 

Taobuk Festival 2023, un inno alle libertà

L’azione umana, la potenza creativa, l’espressione personale sono la più diretta manifestazione dell’essenza umana dettate dalla condizione di libertà o dalla sua ricerca.

Per lo scrittore Luis Sepulveda la libertà è uno stato di grazia, e si è liberi solo mentre si lotta per conquistarla.

Le lotte per la conquista dei diritti fondamentali hanno scritto pagine della storia di ogni Paese. Alcuni capitoli sono conclusi, altri sono ancora in fase di stesura, ma anche quando la storia sembra compiuta bisogna ricordarsi di custodire il libro, affinché quelle pagine così importanti, scritte con il sangue e bagnate dalle lacrime, non vengano strappate via.

Se la conquista è fondamentale, la salvaguardia è altrettanto necessaria. Godere delle libertà fondamentali è diritto di ogni individuo, proteggerle è il proprio compito.
 
Quello delle libertà è il tema scelto per la XIII edizione del Taormina Book Festival, evento che dal 15 al 19 giugno ha ospitato scrittori autorevoli, artisti, registi e divulgatori per una serie di incontri in cui importanti personalità provenienti da tutto il mondo hanno reso ancora una volta Taormina polo di cultura, scienza e sapere. 

libertà
Le libertà, Palazzo dei Duchi di Santo Stefano. © UVM

Una libertà declinata al plurale

La libertà è un concetto che racchiude in sé molteplici sfumature e che, come affermava Benedetto Croce, è raggiungibile solo attraverso l’acquisizione delle varie forme di libertà, individuali e collettive. È questo il motivo della declinazione al plurale della tematica di quest’anno, il cui simbolo è la mongolfiera di Velasco Vitali, mezzo che permette di librarsi per osservare il mondo da un’altra prospettiva e superare i confini tra i popoli.
 
La concezione personale di libertà è differente per ogni individuo ed è intorno a queste varie forme che ha orbitato il festival, i cui diversi punti di vista hanno contribuito a plasmare un’idea sempre più ricca e diversificata del concetto di libertà.

 

La libertà è donna

“Siamo nel posto in cui l’acqua può essere trasformata in vino” ha esordito così la scrittrice iraniana Azar Nafisi, autrice di Leggere Lolita a Theran, da sempre impegnata nella lotta per la rivendicazione dei diritti delle donne in Iran e contraria a ogni forma di censura letteraria. La Nafisi ha dichiarato di aver conosciuto l’Italia molto tempo prima di visitarla, grazie a Dante, Calvino, Eco e Montale e ai più famosi cineasti, Pasolini, Fellini e Rossellini, ricordando il potere del diritto all’immaginazione.

Il mio popolo si è connesso al mondo così quando il mondo gli è stato portato via, attraverso le vostre grandi opere di immaginazione, la vostra musica, la vostra arte, i vostri libri. 
Un buon film è di per sé politicamente sovversivo, mette in dubbio la morte, conferma la vita e combatte le menzogne.

Le menzogne sono la base su cui si erge ogni sistema totalitario, compreso quello presente in Iran.
Per controllare la popolazione i regimi sottraggono l’identità storica, sociale, culturale, l’identità delle donne.
Le donne in Iran combattono la violenza con l’immaginazione, cantano e danzano per le strade per coprire il rumore dei proiettili.

Tra gli ospiti la scrittrice francese Annie Ernaux, vincitrice del premio Nobel per la letteratura 2022. Per l’autrice la scrittura diventa atto politico di denuncia dei vincoli sociali e delle sovrastrutture che intralciano la libertà. In questo senso l’Ernaux predilige alla parola “libertà” il termine liberazione che presuppone l’azione concreta e la continua ricerca di quest’ultima.
 
Per l’autrice statunitense Joyce Carol Oates, la libertà è come l’aria che respiriamo, nel momento in cui viene a mancare ne soffriamo la privazione.

 

Taobuk
I redattori con l’autrice Joyce Carol Oates. © Giulia Cavallaro

 

Sotto il cielo di Taormina: cultura…

Fra gli eventi più attesi il tradizionale appuntamento con la serata di gala di Taobuk tenutasi sabato 17 giugno al Teatro Antico di Taormina, per una notte palcoscenico dei Taobuk Award, premi conferiti a eccellenze del mondo della letteratura, della scienza, delle arti e dello spettacolo nel corso di un evento diretto da Antonella Ferrara, ideatrice del Festival, e Massimiliano Ossini.

Ospiti d’onore le tre autrici internazionali Annie Ernaux, Azar Nafisi e Joyce Carol Oates. Tre figure femminili distanti nell’itinerario umano e artistico, ma accomunate dall’impegno sociale e dalla lotta per l’emancipazione femminile, premiate col Taobuk Award per l’eccellenza letteraria.

Il Taobuk Award per la scienza è stato conferito a David Quammen, divulgatore scientifico statunitense e giornalista del National Geographic.

 

Le autrici Annie Enaux, Joyce C. Oates e Azar Nafisi alla conferenza stampa. © Giulia Cavallaro

 

…ma anche musica e spettacolo

 
Coinvolgente è stata esibizione del celebre musicista tedesco David Garret, definito il più grande violinista della sua generazione, che si è esibito in un crossover tra musica classica e sonorità pop.
 
Nel corso dell’evento non sono mancati i momenti di commozione, come il monologo di Edoardo Leo sulla libertà di espressione degli artisti, primo bersaglio in una democrazia che vacilla.

Noi siamo le sentinelle della democrazia, parliamo al cuore delle persone e allora ci considerano pericolosi.
In ogni paese dove c’è un rischio di libertà gli artisti sono sempre i primi ad essere imbavagliati, censurati e controllati. La comicità, la satira, l’umorismo si fa sempre dal basso verso l’alto, è sempre una critica all’egemonia, è il compito della commedia. Fare la commedia è fare cultura e la cultura è sempre l’ultimo raggio di sole prima del buio.

Fra i momenti più attesi l’esibizione della cantautrice siciliana Claudia Lagona, in arte Levante, che ha emozionato il pubblico con il brano Mi manchi, ricevendo il Taobuk Award come narratrice di storie di luce e di buio, di gioia e scoramento, con uno stile limpido e intenso che arriva dritto al cuore di tutti.
 
Sono stati premiati nel corso della serata anche attori e registi a livello italiano e internazionale.

L’attrice Valeria Golino, acclamata per il suo ultimo lavoro, la serie Netflix La vita bugiarda degli adulti e Michele Placido, vincitore dell’Orso d’argento per il miglior attore al Festival di Berlino e del premio Federico Fellini 8½ per l’eccellenza artistica.

 

Taobuk
La serata di gala al Teatro Antico di Taormina. © Giulia Cavallaro

 

Taobuk aperto a nuove prospettive

Anche quest’anno il Taobuk Festival, grazie alla sua natura trasversale, è stato capace di spaziare in ambiti e discipline apparentemente diversi coniugandoli in una direzione comune.

Il raggiungimento della libertà come condizione comune a tutti gli esseri umani è un processo in fieri, ostacolato dalle limitazioni delle libertà fondamentali minacciate o addirittura negate in molti Paesi.

Ma una scintilla di speranza si è accesa al centro del Mediterraneo, alimentata da spiriti tanto diversi quanto affini, uniti dall’amore per la cultura, l’arte e la musica. Armati di conoscenza per contrastare la violenza.

Camminando per le strade di un luogo come Taormina durante il Taobuk Festival perfino l’aria sa di speranza e anche la più assurda delle utopie sembra realizzabile, come godere tutti, un giorno, delle stesse libertà. 

 

 

Santa Talia

 

Il Teatro Vittorio Emanuele: origini e storia

Le origini del progetto architettonico

Il Teatro Vittorio Emanuele, situato tra il Viale Garibaldi e il Corso Cavour, è il primo teatro siciliano in stile ottocentesco. Progettato dal napoletano Pietro Valente e inaugurato nel 1852. In origine fu chiamato Teatro Elisabetta in onore della madre del Re e dopo l’impresa di Garibaldi prese il nome del primo Re d’Italia.

Voluto da Ferdinando di Borbone tra il 1842 e il 1852, il primitivo progetto architettonico consisteva nella comunione di un apparato strutturale esterno e un apparato decorativo interno da far coincidere in perfetta simbiosi in maniera che l’uno diventasse diretta funzione dell’altro.

Nell’opera Lineamenti della storia artistica di Messina, l’autore Francesco Basile scrive:

“La decorazione interna del teatro secondava con felici tocchi, con fine misura ottocentesca, le forme architettoniche
degli ambienti, smorzando ogni crudezza di passaggi con lineari ricami, con sottili e sfumati chiaroscuri. Gli ambulacri i vestiboli i ridotti, avevano una grazia semplice, un calmo splendore.”

Al fine di realizzare il Teatro venne emessa un’ordinanza da Ferdinando II in cui si dichiara la necessità di  spostare i carcerati nel Castello di Roccaguelfonia, una fortezza oggi meglio conosciuta come Tempio del Cristo Re.

Alla presente affermazione ne consegue che il 2 ottobre 1838 il barone Don Nicola Santangelo, reggente il Ministero degli Affari Interni, comunica all’Intendente del Vallo di Messina Don Giuseppe De Liguoro, l’ordinanza di Ferdinando II re delle Due Sicilie. In un passo, si legge:

“[…] desiderando di veder soddisfatto il voto unanime della città di Messina per la pronta costruzione di un teatro, e volendo ad un tempo, che questa nuova opera contribuisca in particolar modo ad accrescere il decoro, ed il lustro di sì bella città, e che soddisfi ancora al bisogno della sua numerosa popolazione […] ha quindi S.M. risoluto, che il Teatro della città di Messina sia costruito nell’edifizio che attualmente è addetto ad uso di prigione centrale di cotesta provincia […]”.

 

Facciata antica del Teatro Vittorio Emanule, Messina. Fonte: teatrovittorioemanuele.it

 

Complessivamente le dimensioni progettate per il teatro erano di circa metri 38 di larghezza e di circa metri 67 di lunghezza con una capienza in platea di 342 poltrone e circa 600 posti nei palchi.

Nel 1857 vengono collocati, sulla facciata del Teatro, i due bassorilievi con scene della vita di Ercole e gli otto medaglioni in marmo con i profili di famosi musicisti e drammaturghi, scolpiti da Saro Zagari. I bassorilievi raffigurano “Ercole che aborrendo dalla voluttà seduttrice, appigliasi alla Virtù ch’è seguita delle Muse” ed “Ercole che per avere scelto la Virtù fatto immortale, è assunto all’olimpo ed ha in sposa Ebe dea della giovinezza”

La sala Laudamo

Nonostante il terremoto del 1908, il teatro rimane in piedi; presenta solo alcune lesioni sui muri perimetrali e il crollo di alcune pareti. Nel 1921 viene inaugurato un progetto di restaurazione con l’idea di ampliare il palcoscenico al fine di ricavarne una sala adibita ai concerti: la sala Laudamo.

La Filarmonica Laudamo è la più antica società di concerti siciliana da cui prende il nome la sala del teatro riservata ai concerti e che ha istituito nel 1948 la scuola di musica “A. Laudamo”, successivamente convertitasi in Liceo Musicale ed oggi definitivamente trasformata in Conservatorio “A. Corelli”.

Negli anni ’40 si è occupata dell’allestimento di stagioni liriche dovute alla mancata attività del teatro Vittorio Emanuele colpito dal sisma del 1908.

 

Il mito di Colapesce

Il soffitto, affrescato nel 1985 dal pittore Renato Guttuso con una rappresentazione del mito di Colapesce è ciò che rende unica l’esperienza visiva in teatro. Si tratta di una leggenda la cui versione più famosa è ambientata a Messina cui protagonista è Nicola, il figlio di un pescatore messinese. Essendo un amante del mare egli è solito raccontare i tesori presenti sul fondale marino. La sua fama giunge all’imperatore Federico II di Svevia che decide di metterlo alla prova. Il re, la sua corte e Nicola, saliti su un’imbarcazione verso il largo dello Stretto di Messina, assistono ad una prova delle abilità di Colapesce voluta dallo stesso Federico II che  gettò in acqua una coppa e chiese al ragazzo di recuperarla.

 

Renato Guttuso: Colapesce, 1985, pannelli dipinti ad olio, Teatro Vittorio Emanuele, Messina. Fonte: pinterest

 

Quando vide ritornare a galla Colapesce con l’oggetto, lanciò la sua corona in un punto ancora più profondo. Anche questa volta però Nicola non ebbe difficoltà a recuperarla. Il re allora fece spostare la barca in un punto ancora più profondo e lanciò il suo anello. Questa volta però Colapesce non tornò più in superficie. La leggenda racconta che Nicola si accorse che la Sicilia era retta su tre colonne. Una di queste però era fratturata e rischiava di rompersi, facendo così sprofondare l’intera isola. Per questo motivo decise di rimanere sott’acqua e reggere da solo il peso della Sicilia.

 

Alessandra Cutrupia

Massimo Troisi: l’ultimo pulcinella

Io penso che Massimo Troisi appartenga a una rarissima categoria di uomini che si sono espressi in arti o in lavori — pittura, musica, letteratura, altro — senza che ce ne fosse assolutamente bisogno. Perché Troisi era una scultura vivente, un incendio pittorico lui stesso. E il fatto che abbia sputato parte della sua grandezza in pochissimi film non ha alcun valore, se non quello di fissarlo nella nostra memoria o nei nostri schermetti. Voglio dire questo, voglio tentare di farmi capire: Massimo Troisi è il quadro, la partitura, l’Opera. Non ha bisogno di esprimersi.

( Giovanni Benincasa su Massimo Troisi)

 

Tra le strade di Napoli, tra le lenzuola appese e i murales, 70 anni fa veniva al mondo Massimo Troisi. Pino Daniele, in una delle sue canzoni lo identificò come l’ultimo Pulcinella, la maschera più famosa di carnevale e della bella Napoli.

Nacque il 19 Febbraio del 1953, da tutti considerato come il pulcinella senza maschera, il comico dei sentimenti.  Massimo rientra tra i nomi dei principali attori italiani come Totò, Monica Vitti, Anna Magnani, Alberto Sordi e tantissimi altri attori che hanno consacrato la cinepresa.

Troisi era dotato di un talento straordinario, la sua mimica facciale, le doti verbali e gestuali lo rendevano un attore unico, capace di far provare empatia. Le capacità attoriali di Troisi, hanno donato una nuova luce alla società borghese napoletana e italiana. Paladino attoriale dei diritti delle nuove ideologie, come il femminismo e l’individualismo. Gli fu donata la figura dell’antieroe, fu il rappresentate degli emarginati, colui che pose l’accento sugli individui che non hanno una forma, come la nostra generazione, e quelle dopo di noi.

Troisi iniziò la sua carriera a soli 15 anni nel teatro parrocchiale della Chiesa di Sant’Anna. Negli anni ’80, passò al grande schermo con il film del 1981 “Ricomincio da Tre”. Con il passare degli anni, passò all’esordio televisivo con il trio de La Smorfia, sketch teatrali, in cui venivano messe in scena le abitudini odierne della società umile.

A disoccupazione pure è un grave problema a Napoli, chae pure stanno cercando di risolvere… di venirci incontro… stanno cercando di risolverlo con gli investimenti… no, soltanto ca poi, la volontà ce l’hanno misa… però hanno visto ca nu camion, eh… quante disoccupate ponno investi’? […] cioè, effettivamente, se in questo campo ci vogliono aiutare, vogliono venirci incontro… na politica seria, e ccose… hann’ ‘a fa’ ‘e camiòn cchiù gruosse.

Massimo Troisi  ne il film “Ricomincio da Tre”. Fonte: Nuova Irpinia

 

Sono tanti e sono troppi i film di Massimo, oggi vi parlerò di due che mi sono entranti non solo “into coré”  mio, ma in tutti i cuori degli italiani.

Che ora è? (1989)

“Mamma mia io…24 ore su 24, sempre aperto, tutto aperto, correre, miche’ correre, io non voglio stà 24 ore aperto papà, io voglio chiudere!

E’ un film del 1989, diretto dal regista Ettore Scola, con protagonisti Marcello Mastroianni  considerato come uno tra i maggiori artisti di sempre, e il nostro Troisi. I due interpretano Marcello (Marcello) e Michele (Massimo), che sono esattamente padre e figlio, il quale hanno perso ogni tipo di rapporto. In questo lungometraggio, Marcello è un avvocato che cercherà di riconquistare l’amore della propria “creatura”. Michele è un giovane laureato in lettere, che sta per terminare la leva obbligatoria.

Marcello cercherà di regalare al proprio figlio regali lussuosi, ma per Michele rappresentano solo dei beni materiali senza alcun significato, a parte l’orologio d’argento appartenuto al nonno.

Nel lungometraggio potremo vedere un rapporto difficile, composto da incomprensioni e litigi, ma pian piano i due si riavvicineranno tra loro. Marcello nutre tante aspettative verso Michele, senza capire che la sua è solo una banalità egoista.

Marcello Mastroianni e Massimo Troisi in una scena del filmFonte: Comune di Cesena
Marcello Mastroianni e Massimo Troisi in una scena del film Fonte: Comune di Cesena

 

Il Postino (1994)

“E’ colpa tua se mi sono innamorato… perché mi hai insegnato ad usare la lingua non solo per attaccare francobolli!”

 Il Postino, è un film diretto da Michael Radford, ispirato al romanzo “Il Postino di Neruda”  dello scrittore cileno Antonio Skármeta. Massimo Troisi, poco ore dopo la fine delle riprese, morì a solo 41 anni per un arresto cardiaco.

Il lungometraggio ebbe un grande successo, non solo in Italia ma anche all’estero, ottenendo cinque candidature agli oscar. Ma ne vinse solo una per la “miglior colonna sonora drammatica”, una tra le musiche più belle al mondo, composta da Luis Enríquez Bacalov.

Ma vinse tanti altri premi come  il David di Donatello per il miglior montatore.

Massimo Troisi, in una scena del film. Fonte: Metropolitan Megazine

 

La storia è ambientata in un’isola del sud Italia del 1952, dove la maggior parte degli abitanti sono pescatori. Mario Ruoppolo (Massimo Troisi) è un giovane figlio di un pescatore vedovo. Mario della pesca non né vuole sapere niente, decide quindi di lavorare come postino. Nell’isola, vi è il poeta cileno Pablo Neruda (Philippe Noiret), che è stato esiliato dalla sua terra e ha richiesto l’asilo politico, perché perseguitato per le sue idee  comuniste. Il direttore della posta, spiega a Mario che dovrà consegnare la posta con la sua bicicletta, solamente a Neruda, giacché il resto della popolazione è analfabeta. Ogni giorno che passa, Mario si interesserà sempre di più al poeta, tra i due nascerà una amicizia sincera. Le loro passeggiate saranno costellate di dialoghi che vanno dall’arte alla politica, pian piano il postino si avvicinerà alle ideologie comuniste.

Mario incontrerà la bellissima Beatrice Russo (Maria Grazia Cucinotta), di cui si innamorerà a prima vista. Mario cercherà di conquistare l’amore di Beatrice, recitandole proprio le poesie di Neruda.

Massimo e Maria, in una scena del film. Fonte: Vigilianza Tv

 

Mario: ‘Don Pablo, vi devo parlare, è importante… mi sono innamorato!’

Pablo Neruda: ‘Ah meno male, non è grave c’è rimedio.’

Mario: ‘No no! Che rimedio, io voglio stare malato.

 

Massimo ci manchi tanto, il tuo sorriso e le tue smorfie hanno dato una speranza a tutte le nuove generazioni, ci hai insegnato cos’è l’amore con tutte le sfumature che esso comprende. Ci hai parlato della comunità, di quanto essa sia dispensabile per ogni essere umano e di come il teatro rappresenti il vero. Ti ringraziamo “de coré” Pulcinella senza maschera, non riesco a spiegare appieno cosa hai rappresentato per lo spettacolo. Tu stesso quando leggevi le poesie di Neruda o quando interpretavi il teatro, non riuscivi a dare un senso, come si può spiegare cos’è realmente l’arte?

 

Alessia Orsa

Totò: 125 anni dalla nascita del principe della risata

Nel mondo del cinema italiano, c’è chi ha avuto il privilegio (e chi no) di poter assistere, sul grande schermo e a teatro, alle grandiose performances attoriali di note donne e uomini appartenenti al filone della commedia all’italiana, genere cinematografico affermatosi nel secondo Dopoguerra. Tra questi, uno in particolare lo ricordiamo affettuosamente e con grande stima: Totò! Al secolo Antonio de Curtis, l’attore napoletano è stato tra i più grandi della scena italiana e regionale per le sue doti sia come attore, ma anche come paroliere, poeta e filantropo.

L’esordio a teatro e l’approdo al cinema

Signori si nasce e io lo nacqui, modestamente! (frase tratta dal film Signori si nasce)

Nato nel 1898, Totò iniziò, in età giovanissima, a frequentare i teatrini periferici esibendosi – con lo pseudonimo di “Clerment“— in macchiette e imitazioni del repertorio di Gustavo De Marco, illustre interprete napoletano dalla grande mimica e dalle movenze snodate, simili a quelle di un burattino. Proprio su quei palcoscenici di periferia incontrò attori come Eduardo De Filippo e suo fratello Peppino.

Nel 1927 fu scritturato da Achille Maresca, titolare di due diverse compagnie. Due anni dopo, venne contattato dal barone Vincenzo Scala, titolare del botteghino del teatro Nuovo di Napoli per scritturarlo come “vedetta” in alcuni spettacoli di Mario Mangini e di Eduardo Scarpetta, tra cui Miseria e nobiltàMessalina e I tre moschettieri (dove impersonò d’Artagnan), accanto a Titina De Filippo, sorella di Eduardo e Peppino.

Debutta sul grande schermo con il film Fermo con le mani (1937), il quale però non riscuote grande successo. L’attore continua comunque la sua attività alternando teatro e cinema, producendo un repertorio molto vasto che lo ha portato al grande successo solo più tardi, negli anni ’50, recitando in compagnia di Aldo Fabrizi (celebre la pellicola Guardie e ladri) e di Peppino de Filippo (tra le più straordinarie pellicole ricordiamo Totò, Peppino e la malafimmina, La banda degli onesti, Totò, Peppino e i fuorilegge) , anche lui consacratosi al cinema dopo aver rotto con il fratello maggiore.

Totò, Peppino de Filippo e Giacomo Furia in una celebre scena del film La banda degli onesti (1956).

Totò interpretò dal 1937 fino alla morte (nel 1967) ben 97 film per il grande schermo, quasi sempre come attore protagonista, per una media di oltre 4 all’anno (numero che non tiene conto della sua pausa durante la guerra). Lavorò con 42 registi differenti, quelli con cui produsse maggiormente furono Mario Mattoli (16 film), Steno (14 film), Camillo Mastrocinque (11 film), Sergio Corbucci (7 film), Mario Monicelli (7 film) e Carlo Ludovico Bragaglia (6 film).

Il totoismo: aspetti della lingua di Totò

Oltre le abilità attoriali, risaltano anche quelle linguistiche, peculiarità non indifferente della figura dell’attore la quale è stata (e ancora lo è) oggetto di studio di noti linguisti e cinematografi. Citando alcuni passi del libro del prof. Fabio RossiLa lingua in gioco. Da Totò a lezione di retorica”, la lingua dei film con Totò è:

puro suono fine a sé stesso, malleabile, manipolabile all’infinito, spesso senza alcuna apparente utilità. […] l’ascoltatore-spettatore è perturbato nell’assistere al dissolvimento del codice di comunicazione ridotto a mero suono o a veicolo di significati lontanissimi. (pp. 18-19)

Sembra che emerga un tentativo di confondere il pubblico, ma in realtà l’operazione adottata da Totò è lungimirante:

l’importanza linguistica di Totò non è consistita tanto nell’invenzione o nell’abuso di singole forme, ma nell’aver portato il linguaggio al centro dei propri spettacoli, della propria riflessione, e nell’aver svolto un ruolo non marginale. (p. 24)

La sua lingua diventa, così, “iper parlata”, poiché è composta da un insieme di “gradazioni possibili a scopo ora ludico-deformante, ora ironico-satirico”(Lingua italiana e cinema, Fabio Rossi, p.81). Volendo scendere nel pratico, tra le formule più care ricordiamo che che, è (o fa) d’uopo, etiandio, quisquillie, bazzecole e pinzillacchere (“cosa da nulla” “reca proprio, come prima attestazione nota nei vocabolari, il 1930 ed è attribuita a Totò” cit.) Tutti i suoi film sono costruiti “sul gioco verbale”, servendosi di due figure retoriche: la paronomasia, per la quale si accostano due parole di suono simile o uguale ma di significato differente, e la polisemia, vale a dire “lo scambio tra significati diversi di una medesima parola”.

L’anima poetica

Fotografia in bianco e nero di Totò.

La livella è le escroveto che l’usa il muratore per nivelari il muro, dunqueOgn’anno, il due novembre, c’é l’usanzaPer i defunti andare al CimiteroOgnuno ll’adda fà chesta crianzaOgnuno adda tené chistu penzieroOgn’anno, puntualmente, in questo giornoDi questa triste e mesta ricorrenzaAnch’io ci vado, e con dei fiori adornoIl loculo marmoreo ‘e zi’ Vicenza

Tra le poesie più note, ‘A Livella rappresenta un unicum nella vita artistica di Totò. Composta nel 1964 e formata da 104 versi, la poesia affronta con ironia il tema della morte, dimostrando come al di là dello status che possediamo in vita, davanti all’ultimo passo siamo tutti uguali e umani, come se tutto si azzerasse:

‘Nu rre,’nu maggistrato,’nu grand’ommo,
trasenno stu canciello ha fatt’o punto
c’ha perzo tutto,’a vita e pure ‘o nomme:
tu nu t’hè fatto ancora chistu cunto?

Perciò, stamme a ssenti…nun fa”o restivo,
suppuorteme vicino-che te ‘mporta?

Sti ppagliacciate ‘e ffanno sulo ‘e vive:
nuje simmo serie…appartenimmo à morte!

Tra innumerevoli successi, – ma anche dispiaceri, come la morte del figlio e la malattia agli occhi, – Totò è stato l’attore napoletano che più di tutti, all’epoca, ha interpretato egregiamente i vizi e le caratteristiche tipiche dell’italiano medio, e anche del napoletano, omaggiando sempre la sua terra. Non è dato sapere se un altro come lui possa rinascere, quel che è certo è che ha ispirato generazioni di attori e commediografi napoletani e continua ancora, poiché il suo immaginario non si può mica dimenticare. Per dirla con una sua frase: “ma mi faccia il piacere!

 

Federico Ferrara

“Molto rumore per nulla”, l’opera di Shakespeare ambientata a Messina

La locuzione “molto rumore per nulla” viene frequentemente utilizzata nel linguaggio comune per indicare un’esagerazione o un’assurdità riferita ad un fatto del tutto trascurabile o inconsistente. Eppure, non tutti sanno che questa espressione trae origine dal titolo di una famosa commedia di William Shakespeare, scritta tra il 1598 e il 1599 e ambientata a Messina.

Genere e influenze principali

Opera breve e brillante, “Molto rumore per nulla” rientra nel novero delle tragicommedie, nelle quali l’elemento comico si fonde a quello tragico e propriamente drammatico.

Il nucleo dell’intera commedia è riconducibile a una novella di Matteo Bandello, precisamente la XXII del primo libro delle Novelle, di cui Shakespeare lesse la traduzione francese, mantenendo anche il nome di alcuni personaggi.

Un’altra opera italiana che presenta caratteristiche comuni è l’Orlando furioso di Ludovico Ariosto, pubblicato quasi un secolo prima del dramma di Shakespeare.

Considerata a lungo commedia romantica per i temi amorosi e per la struttura ricca di elementi farseschi, l’opera è stata fortunata sul versante della rappresentazione teatrale, restando nei secoli una delle commedie shakespeariane più conosciute e portate sulle scene.

Fonte: shakespearitalia.com

Ambientazione

La scelta di Shakespeare di ambientare la commedia a Messina è stata molte volte argomento di discussione fra gli storici e gli intellettuali locali e non. Qualcuno sostiene addirittura che Shakespeare fosse originario di Messina, mentre altri affermano che lo scrittore abbia solo immaginato la città, senza mai vederla. Sta di fatto che nessuno ha mai fornito prove inconfutabili per potere dimostrare una delle ipotesi.

Il dato certo è che all’epoca in cui il drammaturgo inglese scrisse la commedia, Messina era una città molto conosciuta all’estero, perché ricca, fiorente e politicamente importante. Il contesto storico nel quale si inserisce la commedia non è ben delineato. Dato il carattere giocoso dell’opera, non è stata data una forte caratterizzazione reale all’ambientazione, rappresentata da una città assolata e accogliente agli occhi degli ospiti che vi giungono in seguito a un’impresa d’armi.

Nel periodo di composizione dell’opera, intorno alla fine del XVI secolo, la Sicilia era sotto la dominazione spagnola. Per questo motivo alcuni personaggi, più precisamente il principe Pedro d’Aragona ed il suo seguito, sono evidentemente di nazionalità spagnola e legati da rapporti di amicizia con il governatore di Messina, Leonato.

Il cast della rappresentazione teatrale di “Molto rumore per nulla” del regista messinese Giampiero Ciccò, in scena al Teatro Vittorio Emanuele dal 22 al 24 ottobre 2021 – Fonte: messina.gazzettadelsud.it

Trama

La commedia si apre a Messina, dove il principe Pedro d’Aragona si reca in visita al governatore Leonato. Al seguito del principe vi sono il conte fiorentino Claudio, il giovane Benedetto di Padova e Don Juan, fratello illegittimo del principe.

L’opera vede lo sviluppo di due vicende parallele: quella principale della relazione tra Claudio ed Ero, figlia del governatore, e quella tra Benedetto e Beatrice, nipote di Leonato.

Claudio, innamoratosi di Ero, la chiede in sposa, mentre Benedetto, personaggio misogino e sprezzante delle relazioni amorose, instaura con Beatrice un rapporto di scherni e battibecchi. È a questo punto che entrano in gioco una serie di stratagemmi, complotti ed equivoci posti in essere dai personaggi della vicenda, alcuni con lo scopo di allontanare i due innamorati, altri con quello di far innamorare i giovani (apparentemente) opposti.

Benedetto e Beatrice vengono portati, attraverso alcuni espedienti, a rivelare i loro sentimenti, mentre Don Juan convince Claudio dell’infedeltà di Ero che, accusata di tradimento il giorno delle nozze, finge la sua morte.

La morte di Ero rappresenta la climax della vicenda, l’elemento tragico che mette a repentaglio il lieto fine della commedia a cui, tuttavia, si approda grazie alla confessione del braccio destro di Don Juan. Claudio accetta di sposare una cugina di Ero che si rivela essere la giovane amata, ancora viva, e Benedetto chiede a Beatrice di sposarlo.

La commedia si chiude con una danza degli amanti che celebrano il doppio matrimonio.

Fonte: shakespearitalia.com

Il potere della parola

in “Much Ado About Nothing” il vero cuore pulsante della commedia è la parola. William Shakespeare orchestra una magistrale beffa giocata sul sentito dire, sul riportare informazioni errate o una frase ascoltata in segreto, dimostrando che spesso la realtà che crediamo tangibile altro non è che l’immagine creata da ciò che diciamo.

In questa farsa, dove tutto quello che si vede è in realtà una costruzione, la parola è la vera divinità che gioca con i personaggi, modificandone il comportamento e il destino. È sufficiente una semplice diceria, un “niente” per passare da una commedia giocosa a una tragedia, causando tutto l’inutile “rumore”.

Il genio di Shakespeare si esprime in questa commedia soprattutto nelle schermaglie, negli scambi arguti, nelle battute vivaci e taglienti, a eterna riprova che può più la parola della spada e che la vita altro non è che un piccolo mondo di fittizie contrapposizioni che in un attimo il Caso dissolve nel nulla.

Una scena del film “Much Ado For Nothing” (1993), diretto da Kenneth Branagh – Fonte: programma.sorrisi.com

 

Santa Talia

 

Fonti:           

shakespeareinitaly.it/

scuola-e-cultura.it/

spiegato.com/

it.wikipedia.org/  (fonte immagine in evidenza)

Qui rido io: l’esistenza come teatro


Martone dipinge magistralmente “miserie e nobiltà” di uno dei più grandi autori teatrali di sempre. Voto UVM: 4/5

 

Che la vita è un teatro è  massima proclamata dalle penne di poeti come William Shakespeare, dalle bocche di saggi di ogni tempo e luogo, ma anche verità sottintesa nei detti dei comuni mortali, incisa nel DNA di ciascuno di noi perché – come diceva Marlon Brando– ogni uomo in fondo è attore. Poi a seconda di gusti e inclinazioni personali, c’è chi intende l’esistenza come un’immane tragedia, chi come un dramma dell’assurdo senza capo né coda e altri ancora come una commedia o ancor meglio un’esilarante farsa in cui gli sforzi dell’attore sono ripagati dalla ricompensa più preziosa del suo pubblico: la risata.

Affamato dell’amore del pubblico e incapace di dividere farsa e vita vera era Eduardo Scarpetta, nome non nuovo per tanti cresciuti a pane, Miseria e nobiltà, nel mito di quel Felice Sciosciammocca con la pasta int’a sacca immortalato dal genio di Totò nella trasposizione cinematografica del ’54.  Affamato di vita e di teatro – come lo era la sua macchietta Sciosciammocca di pane – è soprattutto lo Scarpetta dipinto da Mario Martone in Qui rido io, film presentato alla 78esima Mostra di Venezia, con un magistrale Toni Servillo.

 Show must og on

Siamo agli inizi del Novecento, Eduardo Scarpetta (Toni Servillo) è l’attore e commediografo più famoso di Napoli, una personalità imponente e arrogante, un vero e proprio divo ante litteram acclamato dal pubblico e chiacchierato da tutti, prima ancora dell’avvento di Hollywood e Cinecittà.   Ma Scarpetta è prima di tutto padre, un padre sui generis: padre affezionato di Sciosciammocca, macchietta comica che soppianta a fine Ottocento la maschera di Pulcinella, padre prolifico di celebri commedie (Miseria e nobiltà, O miedeco d’e pazze, Nu turco napulitano, Na Santarella) così come di una famiglia difficile e ingarbugliata stile tribù da patriarca biblico, un’intera dinastia di talenti che incarneranno la teatralità napoletana.

Eduardo Scarpetta, discendente reale del noto Scarpetta, impersona Vincenzo, figlio legittimo del commediografo. Accanto Alessandro Manna nei panni di un piccolo Eduardo De Filippo. Fonte. amica.it

Tra tutti i De Filippo (Titina, Eduardo, Peppino), concepiti con Luisa, nipote della moglie, che non ereditano il cognome, ma sicuramente l’amore per il teatro, trasmesso quasi come un mestiere artigianale di padre in figlio, come quel Peppiniello che tutti i piccoli della famiglia – figli illegittimi compresi – a turno impersoneranno in una sorta di rito di iniziazione sancito da quel «Vincenzo m’è patre a me!». Proprio in quella battuta è condensato l’intreccio tra vita e teatro che è il focus dell’opera di Martone; nelle luci calde della fotografia di Renato Berta i due palchi – quello dell’esistenza e della commedia- si confondono : quello del povero scrivano Sciosciammocca che si finge Principe di Casador e quello del padre padrone Scarpetta che si fa chiamare zio dai piccoli De Filippo; le quinte dietro cui si nasconde all’incipit lo sguardo attento del piccolo Edoardo e la sua condizione di figlio nascosto del genio.

Toni Servillo e il bravissimo Alessandro Manna in una delle scene più toccanti del film. Fonte: madmass.it

Inizia nel teatro, nel mezzo di quella Miseria e nobiltà che è l’apoteosi di Scarpetta- e finisce sempre nel teatro inconsueto del tribunale, Qui rido io: il perno è quel palco da cui Eduardo Scarpetta non vuole proprio saperne di scendere, di rinunciare a ridere e a far ridere.

Martone scosta il sipario e inquadra solo un piccolo scorcio della vita del commediografo: il periodo difficile del contenzioso con D’Annunzio per aver parodiato il dramma La figlia di Iorio, l’avvento dei cabaret e del cinematografo che sembrano soppiantare la commedia napoletana. Certo si poteva raccontare molto di più per arricchire la trama: nella biografia di Scarpetta e della sua tribù si poteva persino pescare a piene mani per un’avvincente saga familiare (e magari qualcuno lo farà in futuro). Non era questo tuttavia l’intento di regista e sceneggiatori che hanno preferito puntare i riflettori sul teatro che è vita e sulla vita che è teatro, sul rapporto più palpabile e difficile attore teatrale/pubblico, così come padre/figlio, sullo spettacolo che continua mai uguale a sé stesso e va avanti nonostante tutto, nonostante “u scuornu” che una famiglia di teatranti come quella di Scarpetta non sa cos’è.

Felice Sciosciammocca diletta il suo pubblico. Fonte: labiennale.org

Giullare nato

«Volevo essere il re delle feste» afferma un Servillo da dolce vita ne La grande bellezza. Edonista nato, ma decisamente meno malinconico è anche l’Eduardo Scarpetta di Qui rido io, incapace di prendere sul serio persino un processo, farsesco e arrogante, prepotente persino coi suoi figli , non meno diverso per certi aspetti dal Berlusconi mondano di Loro. Insomma Servillo si rivela ancora una volta adatto a vestire i panni di personalità eccentriche e discutibili, ma c’è qualcosa in questo Scarpetta che ce lo fa amare – nonostante tutto- più degli altri personaggi ed è quella napoletanità che ha nel sangue e in questo film può far sprizzare da tutti i pori. Mentre parla con una cadenza partenopea pronunciata, mentre gesticola anche fuori dal palco, Servillo si sente a casa e si vede!

Scarpetta e Servillo a confronto. Fonte: notizie.it

Un film per tutti?

Bisogna essere amanti di Napoli, del suo teatro, dei suoi colori e della sua storia, della sua musica che suona anche nel dialetto, per apprezzare davvero il film di Martone. Bisogna conoscere una grande commedia come Miseria e nobiltà, i De Filippo e la loro storia paradossale: loro non riconoscuti dal padre – a differenza di quanto avviene nella finzione per il piccolo Peppiniello – diverranno per assurdo i figli più famosi del grande Scarpetta, segnando profondamente teatro e cinema del XX secolo.

Bisogna collegare tutti questi fili della matassa per sentire i brividi sulla pelle quando il piccolo Eduardo indicando il palco a un indisciplinato Peppino dice: «a libertà nostra sta là!». E forse tanti giovani purtroppo non conoscono questi personaggi, la loro storia, sono digiuni di teatro. O forse non serve: magari guardando il film, possono avvicinarsi a questo mondo perchè – ad ogni modo – anche i giovani sanno cos’è la vita e il teatro, in fondo, è la stessa cosa.

Angelica Rocca

 

 

“Tutto è possibile… basta crederci” – intervista a Fabio La Rosa e Titti Mazza

“Tutto è possibile… basta crederci” è lo spettacolo teatrale che andrà in scena sabato 15 giugno ’19 alle ore 21:00 presso il Palacultura a Messina.

Promosso dall’associazione culturale teatrale “I giovani di Pirandello”scritto da Titti Mazza con la regia di Fabio La  Rosa, terzo spettacolo nella loro collaborazione, è caratterizzato dall’integrazione spontanea e completa tra ragazzi diversamente abili, operatori del settore e studenti del Dipartimento Cospecs dell’Università di Messina.
Uno spettacolo fondato sul corpo che domina il palco, che affronta temi delicati, quasi denunciando una società assente e molto più apparente, ancora utopica ed anacronistica.
Noi di UVM abbiamo avuto il piacere di assistere alle prove e scambiare quattro chiacchiere con loro.

©GiuliaGreco, Fabio La Rosa e Titti Mazza – Messina, 2019

“I Naviganti” ed il diritto alla felicità, “La libertà di essere folle” ed a breve “tutto è possibile…basta crederci”: c’è un filo che lega le storie dei tre spettacoli?

Titti: In effetti si e riguarda la dignità della persona, quello che sente di essere e di voler dimostrare senza il timore del giudizio, del peso della società.

Fabio: Il filo conduttore sicuramente è il viaggio. Gli spettacoli sono frutto di un percorso laboratoriale, non si tratta di un semplice spettacolo ma viene applicato un metodo ben preciso per affrontare l’avventura che vivono i nostri attori e poter sfruttare la forza che accumulano nella loro vita quotidiana. È un viaggio emozionale, già i titoli possono suggerire il movimento che si crea attraverso la fantasia, le emozioni ed il tempo.

Bene avete così anticipato la mia prossima domanda: leggendo mi sono incuriosita del vostro modus operandi, in che consiste il teatro emozionale?

Fabio: il teatro emozionale è un percorso particolare che unisce gli aspetti tecnici del teatro e il mondo della psiche. Parte da Grotowski (Jerzy Grotowski – regista teatrale polacco ndr), il quale affermava che il teatro deve essere povero e spoglio di scenografie e costumi, dando spazio all’anima dell’attore e quindi proprio questo è il fulcro: che cos’ha l’attore come arma per poter arrivare al pubblico? L’emozione, e proprio questa è qualcosa che non si può non avere, perché si nasce con i sentimenti, e chiunque li ha. Automaticamente se si punta sulle emozioni nessuno ne è deficitario, non si può parlare più di disabilità, anzi in questo caso i ragazzi diventano guida per gli operatori del settore perché loro sono in grado di vivere le emozioni allo stato puro.

Come è nata la vostra collaborazione?

Titti: la nostra collaborazione è nata per caso, diciamo: io ero nella giuria di un percorso teatrale, e Fabio fece uno spettacolo. Quando lo vidi ne rimasi particolarmente impressionata perché si percepiva una persona con un animo forte e peculiare, sia dal punto di vista lavorativo che umano.

Qual è il riscontro che vedete da parte del pubblico? E qual è la risposta della società al vostro lavoro…

Fabio: Chi viene a vedere lo spettacolo è sempre poco rispetto alle nostre aspettative, e non perché siano alte ma perché, sfortunatamente, ci si è un po’ più abituati a criticare che a vedere ed osservare. Credo che queste siano realtà che bisogna necessariamente vedere perché è difficile spiegare a parole il percorso affrontato ed i risultati raggiunti, vederlo con i propri occhi sicuramente è più esaustivo, si parla sempre di emozioni ed ognuno ha la propria percezione. Quando si spengono le luci sul palco chi è venuto a vedere lo spettacolo, spesso ci dice che non si è accorto dove fosse la disabilità degli attori, il che significa che il percorso effettuato riesce ad arginare il disagio che viene additato ricoprendolo della dignità che merita.

©GiuliaGreco – Attori dello spettacolo “Tutto è possibile… basta crederci” , Messina, 2019

 

 

Giulia Greco