Taxi Driver: quando il silenzio si fa violento

La solitudine diventa una condanna nel capolavoro di Martin Scorsese: Taxi Driver. Voto UVM: 5/5

Taxi Driver è un film del 1976 diretto da Martin Scorsese che vede come protagonisti Robert De Niro, Cybill Shepherd, Harvey Keitel e una giovanissima Jodie Foster.

Scritto da Paul Schrader, in uno dei periodi peggiori della sua vita, quando, dopo aver mandato in fumo la sua relazione e abbandonato il suo lavoro cominciò a trascorrere le notti a dormire nella propria auto. Da qui la metafora del tassista come uomo solo nella notte.

Ad accompagnare la pellicola c’è la magnifica colonna sonora di uno dei più grandi compositori della storia del cinema: Bernard Herrmann.

MARTIN SCORSESE E LA NEW HOLLYWOOD

Martin Scorsese, ad oggi considerato uno dei più grandi registi americani della storia, fu figlio della cosiddetta “New Hollywood”, quel momento del cinema americano che gli studiosi hanno delimitato tra il 1967 e il 1976 e che è a sua volta figlia di una società che stava subendo forti cambiamenti sociali, culturali ed economici. L’industria cinematografica americana era fortemente in crisi e si risollevò tramite nuove generazioni di registi e sceneggiatori che si adattavano ad un nuovo modello industriale e culturale. Martin Scorsese apparteneva a quella categoria di giovani registi cinefili che si erano formati nelle scuole di cinema o nelle riviste di critica, i cosiddetti “Movie Brats”, di cui facevano parte anche giganti come Francis Ford Coppola e Steven Spielberg

Tramite questo contesto riusciamo a dare una cornice al film e a comprenderne meglio alcune dinamiche. 

 

Martins Scorsese e Robert De Niro sul set di Taxi Driver. Produzione: Columbia Pictures.

LA TRAMA DI TAXI DRIVER

Un tassista newyorkese, di nome Travis Bickle, sprofonda lentamente in un abisso di solitudine e disillusione che lo porterà vicino alla follia per via delle ingiustizie sociali che osserva intorno a sé e che fanno in modo che la sua mente rimanga occupata per tutta la notte.

TAXI DRIVER: IDENTIKIT DI UN UOMO SOLO 

“La solitudine mi ha perseguitato per tutta la vita, dappertutto. Nei bar, in macchina, per la strada, nei negozi, ovunque. Non c’è scampo: sono nato per essere solo.”

Già la prima scena del film, in cui il protagonista fa un colloquio per diventare un tassista, ci descrive perfettamente la condizione e l’ambiente da cui il protagonista proviene: un ex marine solo, con scarsa educazione e con poco da fare nelle giornate e nelle sue notti insonni. Per tutta la durata del film vediamo, tramite la perfetta regia di Scorsese, attraverso gli occhi di Travis Bickle, un emarginato sociale che combatte in silenzio contro sé stesso e contro la sporca, corrotta e alienante società che lo circonda.

La solitudine del protagonista è continuamente rimarcata da espedienti narrativi e registici che fanno in modo di sottolinearlo ogni volta che ce n’è occasione, ad esempio tramite l’uso costante di monologhi e modi di usare la camera che evidenziano l’alienazione e l’avvicinamento alla follia di Travis. 

L’EVOLUZIONE DEL “TAXI DRIVER”

Travis viene visto dallo spettatore e da chi lo circonda per delle maschere che “rappresenta”: quella dell’ex marine e quella del tassista. Il percorso del protagonista, quello di un vero e proprio antieroe, comincia insieme al suo lavoro da tassista di notte.

Ci sono vari episodi chiave che innescano qualcosa di forte all’interno di Travis, che faranno in modo che il suo “scopo” venga portato a termine. Questi riguardano soprattutto due storie parallele. La prima ha a che fare con Sport, un uomo innamorato di Iris, una ragazzina di 12 anni, che fa in modo che altri uomini abusino sessualmente di lei per trarne profitto. 

La seconda riguarda il suo approccio con Betsy, di cui è innamorato. Travis non è istruito, lo fa presente all’inizio mentre è al colloquio di lavoro e lo dimostra in varie occasioni: dopo il primo caffè preso con Betsy decide di portarla al cinema per il secondo appuntamento, ma il film che andranno a guardare sarà una pellicola porno. Il protagonista è inconsapevole che ciò costituisca un problema e che non sia un comportamento normale ed educato. Betsy, disgustata, decide quindi di tornare a casa in taxi e da lì in poi comincerà a non rispondere più alle sue chiamate. Travis, da quel momento crede che la sua amata sia “come tutti gli altri”: fredda e insensibile.

Travis e Betsy al loro primo incontro. Produzione: Columbia Pictures.

TRAVIS BICKLE: L’ANTIEROE

“In ogni strada di questo paese c’è un nessuno che sogna di diventare qualcuno. È un uomo dimenticato e solitario che deve disperatamente provare di essere vivo.”

Il protagonista, a questo punto della storia, decide di mettersi in forze e di allenarsi con delle armi, dicendo di avere delle “cattive idee” in mente. Travis crede di avere uno scopo nella società: dover contribuire a rendere reale quel “diluvio universale che ripulirà le strade una volta per sempre”, come afferma lui stesso.

Un giorno decide di pagare Sport per poter salire in una camera di un appartamento mal ridotto insieme alla giovane Iris: il suo obiettivo è quello di convincere la ragazzina a fuggire e tornare dalla sua famiglia. Così, successivamente, le lascia 500 dollari per portare a termine il suo viaggio, è questo il modo migliore per spendere il suo denaro, al quale non dà alcun valore.

In una notte apparentemente tranquilla, mentre si trova in un supermercato, sventa una rapina a mano armata uccidendo il ladro e fuggendo. Il giorno dopo arriva la presentazione in piazza del probabile prossimo presidente Palantine e Travis si presenta tra la folla con una stravagante acconciatura nel tentativo di assassinare il candidato, fallendo. Verrà inseguito da un agente segreto, ma riuscirà a scappare. Giungerà a questo punto all’appartamento di Iris, ed è proprio qui che la sua follia troverà l’apice.

La nuova acconciatura di Travis Bickle. Produzione: Columbia Pictures.

TAXI DRIVER: LA DUPLICE NATURA DEL PROTAGONISTA E DEL FINALE

Appena arrivato inizierà una sparatoria che vedrà coinvolti Travis, Sport, il gestore della camera e un uomo che stava per abusare di Iris. La polizia arriverà alla fine della sparatoria trovando il protagonista ricoperto di sangue.

Scorsese decide appositamente di lasciare un finale misterioso, in cui vediamo Travis che, dopo la sparatoria, guarisce dal coma in cui era finito, ritorna a fare il tassista e viene visto tramite degli occhi completamente diversi da chiunque. Nel finale Travis accompagna a casa Betsy, che nel frattempo ha cambiato la propria visione su di lui. La sequenza conclusiva ci mostra ancora una volta New York, immersa tra le forti luci che hanno accompagnato le notti di Travis durante tutto il film.

È qui che nasce l’ultima maschera con la quale Travis si vede e viene visto, quella del giustiziere della notte che diventa un vero e proprio eroe agli occhi di tutti.

Ancora oggi ci si chiede se tutta la parte della sparatoria sia reale o meno, se Travis sia riuscito a portare a termine il suo scopo di liberare Iris dagli sfruttatori o se sia solo la dimostrazione del modo necessario per essere riconosciuto come un eroe da tutti: la violenza.

È tramite questa rappresentazione pessimista e senza scrupoli della realtà che Martin Scorsese e Paul Schrader cercano di smascherare la società americana mostrandone il marciume e esaminando la follia e l’alienazione alla quale riduce la gente.

L’iconica posa di Travis Bickle dopo la sparatoria. Produzione: Columbia Pictures.

 

Il capolavoro di Scorsese è disponibile in abbonamento su Netflix e in noleggio su Prime Video, Apple TV, Youtube.

 

Alessio Bombaci

La solitudine dei numeri primi

Ascolto consigliato: Everybody’s Talkin’ -Harry Nilsson

No, non si tratta di una recensione del noto libro di Paolo Giordano.

Credo che alcune frasi, alcune espressioni, abbiano un’eleganza intrinseca, che prescinde dall’interpretazione che ognuno di noi dà e che riesce ad affascinare pressocché chiunque. Ed è così che mi sento, colpito dalla semplicità di una frase che suona quasi come una sentenza, mentre cerco -a fatica- di scrivere il mio primo editoriale per UniVersoMe. Devo ammettere di non avere grandissima esperienza, ma al tempo stesso mi sento abbastanza confidente con questa forma di espressione, la scrittura, da essere entusiasta.

Mi sono arrovellato a lungo su quale importante tema trattare, quale opinione dare a riguardo: avrei potuto descrivere la disastrosa gestione italiana delle grandi opere (vedi MOSE a Venezia), il fenomeno delle sardine riunite in decine di piazze da nord a sud, i preoccupanti cambiamenti climatici e il Friday for future. Non che ognuno di questi argomenti non mi interessi, anzi. Ma in questo momento un po’ particolare della mia vita, ho preferito lasciare spazio alla parte meno razionale di me, a un flusso di coscienza che non volevo ignorare, che irrompe nei miei pensieri mentre mi appresto a scrivere questo articolo.

E mi sono venute in mente queste parole: la solitudine dei numeri primi.

Numeri primi da 0 a 1000. In matematica un numero primo è definito come un numero naturale maggiore di 1 che sia divisibile solamente per 1 e per sé stesso.

Mi sono sempre chiesto: chi sono i numeri primi?

Sono un insieme, un gruppo, una categoria di persone, una porzione della popolazione globale, che si sente particolarmente sola? Possiamo riconoscerli in qualche modo?

Nel mio microcosmo, i numeri primi sono i figli unici.

Banale”, direte voi.

D’accordo” sarebbe certamente la mia risposta.

Forse perché io stesso sono figlio unico, ma il binomio unico e solo mi appare quasi imprescindibile, magari anche per il mio carattere. Ho sempre visto la solitudine come qualcosa che un po’ si vuole, un po’ si cerca di scongiurare, un po’ ti viene e devi semplicemente accettarla. C’è persino chi pensa che essa sia indispensabile, come certi eremiti che fanno della meditazione solitaria una via privilegiata per l’illuminazione.

Tra i fautori di questa condizione troviamo sicuramente il filosofo Arthur Schopenhauer, che nei suoi Aforismi sulla saggezza del vivere scrive: “chi non ama la solitudine non ama la libertà, perché non si è liberi che essendo soli” o ancora “la solitudine offre all’uomo altolocato intellettualmente due vantaggi: il primo d’esser con sé, il secondo di non esser con gli altri”.

Ma voglio ampliare, come sempre, il mio microcosmo e riflettere più a lungo sulle parole che oggi ho preso in prestito. I numeri primi, paradossalmente, sono gli ultimiQuesta espressione nasconde un evidente e sconcertante controsenso. Da chi ha perso tutto a chi è nato senza avere niente, da chi è abbandonato dai propri cari a chi è abbandonato dal proprio Stato. Tantissimi sono gli “ultimi” che ogni giorno ci scorrono davanti agli occhi senza che nemmeno ce ne accorgiamo: strappati o isolati dalla propria comunità per i motivi più disparati (e talvolta per nessun motivo), si ritrovano ad affrontare la quotidianità solo con le proprie forze.

Scena del film Taxi Driver: Travis Bickle è un ventiseienne alienato, isolato, disadattato, ex marine reduce del Vietnam che soffre di insonnia cronica. La sua affezione lo porta a lavorare come tassista notturno. È certamente la prima pellicola alla quale associo la parola solitudine. [Fonte: La scimmia pensa, la scimmia fa]

Senzatetto, orfani, richiedenti asilo, chi vive in paesi dove anche procurarsi un pasto è difficile, dove la guerra dilaga incontrastata: sono solo alcuni esempi di persone che costantemente dimentichiamo, indaffarati nelle nostre questioni giornaliere.

Ma non “categorizziamo” la solitudine come se fosse appannaggio soltanto di alcuni gruppi di soggetti le cui condizioni rendono l’esistenza più fragile, maggiormente e necessariamente da tutelare rispetto agli altri. Rischieremmo così di fare un ragionamento troppo parziale, viziato da concetti sicuramente veri, ma non realistici.

D’altronde, questo articolo nasce da una riflessione su uno stato d’animo che può colpire chiunque in qualsiasi momento.

Ci si potrebbe aspettare che, concludendo, il redattore possa offrire una qualche “soluzione”, un suggerimento per affrontare la solitudine. In realtà, non sono in grado di dare tali risposte, anche perché potrebbero variare da soggetto a soggetto. Mi sento soltanto di dire che una condizione che accomuna più persone, di per sé suona come un invito a riunirle, in contrasto con il concetto stesso di solitudine.

E voi cosa ne pensate? La solitudine è più uno stato d’animo o una condizione sociale?

Come avrete capito, credo che siano vere un po’ entrambe le cose.

Di fatto, ho scelto di scrivere questo pezzo perché ritengo che tutti, almeno una volta, siamo stati un numero primo.

Emanuele Chiara