Referendum: Il Sì ha vinto. Cosa succederà adesso

 

Il risultato del referendum costituzionale sul taglio del numero dei parlamentari sancisce la vittoria del SI, con quasi il 70% di preferenze.

La vittoria del SI al Referendum è schiacciante. Il 69,6% degli italiani ha votato a favore della riforma costituzionale con più di 17 milioni di voti. I no si fermano a 7 milioni e 400 mila.

Con il beneplacito del popolo, la legge costituzionale n.240\2019, pubblicata in Gazzetta Ufficiale lo scorso 12 ottobre, stabilisce che quest’autunno è stagione di riforme.  Gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione saranno modificati. Il numero dei deputati, il numero dei senatori e dei senatori a vita subirà una diminuzione del 36,5% del numero totale dei parlamentari. (Approfondimento qui)

Dalla prossima legislatura, l’assetto istituzionale della Repubblica Italiana muta fisionomia. Il numero complessivo dei parlamentari passerà dall’essere 945 a 600: i deputati saranno 400 piuttosto che 630 e i senatori passeranno da 315 a 200, e il numero massimo dei senatori a vita sarà pari a 5.

Il  vero vincitore è il Movimento 5 Stelle, partito che sostiene l’attuale governo Conte, promotore della riforma.

A favore della riforma si sono espressi quasi tutti i partiti rappresentati in Parlamento. Nelle quattro letture previste per una riforma costituzionale è interessante ricordare che le prime tre letture sono avvenute sotto il governo giallo-verde, mentre la quarta sotto l’attuale.  La Lega e Fratelli d’Italia hanno votato SI in tutte le letture. Il Partito Democratico ha votato per tre letture NO e l’ultima volta SI. Più Europa ha sempre votato NO.

Cosa succederà adesso?

Nell’immediato non cambierà nulla.

Le camere non verranno sciolte e i parlamentari resteranno 945.  Il governo potrà finire il suo mandato che, se portato a fine legislatura, ci chiamerà al voto nel 2023.

Con nuove elezioni, per la prima volta nella storia della Repubblica, i parlamentari che potremo votare saranno 600: 400 Deputati e 200 Senatori. Il numero di rappresentanti per abitanti diminuirà. Con il taglio ci sarà un deputato  per ogni 151 mila e un senatore per ogni 302 mila abitanti. Saranno ridotti anche i parlamentari eletti dagli italiani all’estero: deputati e senatori passeranno da 12 a 8 e da 6 a 4.

Il processo di “normalizzazione” dei risultati appare tutt’altro che semplice. Prima di nuove elezioni c’è un problema cardine che il governo dovrà affrontare: è necessario che venga emanata una nuova legge elettorale.

La Corte Costituzionale ha già stabilito che l’attuale legge Rosato non può essere rappresentativa del volere della popolazione con il nuovo numero di rappresentanti. Nei prossimi mesi è necessario che venga proposta e approvata una nuova legge elettorale che principalmente stabilisca il sistema di voto (proporzionale, maggioritario o misto) e come verranno suddivisi i rappresentati per ogni circoscrizione e regione.

 

La nuova geografia politica delle Regioni.

Contestualmente al voto per il referendum, gli italiani di alcune regioni sono stati chiamati ad esprimere la loro preferenza in merito alle amministrazioni locali e ai governi regionali.

Approfondendo il risultato delle elezioni Regionali del 20-21 settembre, possiamo affermare: il centro-sinistra vittorioso in Toscana, in Puglia e in Campania, il centro-destra in Liguria, in Veneto e nelle Marche.

Nelle sei regioni sono state riconfermate le coalizioni uscenti. Unico cambio di “governance” significativo lo si registra nelle Marche. I confini della geografia politica italiana nell’inseme si compongono di quindici regioni governate dal centro-destra e cinque dal centro-sinistra.

 

Le regioni tra vecchi e nuovi governatori.

In Campania Vincenzo De Luca, governatore uscente, sostenuto dal centro-sinistra ha trionfato con il 69,6 per cento dei consensi, mentre il candidato del centro-destra Stefano Caldoro ha ottenuto il 17,8 per cento.

In Puglia ha vinto Michele Emiliano, governatore uscente, con il 46,9 per cento dei voti contro il 38,6 per cento di Raffaele Fitto. La regione Puglia era stata considerata tra le più a rischio per il centro-sinistra. Emiliano non era sostenuto né dal Movimento 5 stelle né dal movimento Italia Viva. Antonella Laricchia e Ivan Scalfarotto, candidati dei due partiti, hanno ottenuto l’11,11 per cento e 1,6 per cento.

In Toscana il Partito Democratico è il primo con il 34,7 per cento di preferenze. Eugenio Giani, sostenuto dalla coalizione del centro-sinistra, ha vinto con il 48,6 per cento dei voti contro il 40,4 per cento di Susanna Ceccardi, sostenuta dalla Lega.

In Veneto il leghista Luca Zaia ha stravinto, governatore uscente, giunto al terzo mandato ha superato il 75 per cento dei consensi, contro il 15,6 per cento di Arturo Lorenzoni candidato del centro-sinistra. La lista “Zaia Presidente” è il primo partito con il 44,4 per cento dei voti; la Lega il secondo, con il 16,89 per cento.

In Liguria confermato Giovanni Toti del centro-destra con circa il 55 per cento dei voti, contro il 38 per cento di Ferruccio Sansa del centro-sinistra che ha ottenuto 120mila voti in meno.

Nelle Marche ha vinto il candidato di Fratelli d’Italia Francesco Acquaroli. Appoggiato da tutto il centro-destra ha ottenuto il 49,1 per cento dei consensi contro il 37,3 per cento di Maurizio Mangialardi, candidato del centro-sinistra e sindaco di Senigallia.

L’andamento dei partiti conferma le forze di maggioranza nel governo.

Il Partito Democratico è il primo parto italiano in tutte le regioni dove si è votato, escluso il Veneto. Il segretario Nicola Zingaretti ha interpretato il voto locale come un segnale incoraggiante per il governo in carica.

Il Movimento 5 stelle, partito che governa dal 2018 con due diverse coalizioni, si è presentato con una lista autonoma in quasi tutte le regioni. I risultati ottenuti sono stati deludenti. Sia in Toscana che in Puglia i candidati del Movimento hanno ottenuto la metà dei voti rispetto a un anno fa.

Maria Cotugno

 

Approfondimento sul Referendum Costituzionale: le ragioni del SI e del NO

Approvate il testo della legge costituzionale concernente “Modifiche agli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione in materia di riduzione del numero dei parlamentari”, approvato dal Parlamento e pubblicato nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica italiana n. 240 del 12 ottobre 2019?

 

 

Tra il 20 e il 21 settembre i cittadini potranno confermare o meno il testo della legge costituzionale che modifica gli articoli 56, 57 e 59 della Costituzione.

La legge, approvata in doppia lettura da entrambe le Camere a maggioranza assoluta, come previsto dall’articolo 138 della Costituzione per qualsiasi proposta di revisione costituzionale, non ha superato la soglia della maggioranza qualificata dei due terzi ed è stato dunque possibile per 71 senatori richiedere la consultazione referendaria. Originariamente prevista per il 29 marzo di quest’anno, e rinviata per le problematiche note ormai a tutti noi, la consultazione potrà finalmente svolgersi a quasi un anno di distanza dall’approvazione in via definitiva della legge.

Oggetto della riforma costituzionale proposta dalle forze di maggioranza al Parlamento è l’abbassamento del numero dei deputati da 630 a 400 e dei senatori eletti da 315 a 200 nonché la fissazione di un numero massimo dei senatori a vita pari a 5. Il quadro che si delineerebbe in caso di esito favorevole sarebbe quello di una diminuzione del 36,5% del numero totale dei parlamentari, che passerebbero dall’essere 945 a 600, di cui 12 per i cittadini italiani residenti all’estero, invece di 18, e una riformulazione dei criteri di ripartizione dei seggi per il Senato che tenga in considerazione non solo le Regioni ma anche le Province Autonome.

Si tratta del quarto referendum costituzionale nella storia repubblicana e come i precedenti, datati 2001, 2006 e 2016, sarà destinato a far discutere a lungo indipendentemente dal risultato finale.

Le ragioni che hanno spinto le forze attualmente al governo, in particolar modo il Movimento 5 Stelle, a promuovere e varare questa riforma possono essere riassunte nella necessità di rendere il Parlamento più celere nello svolgimento delle sue funzioni, soprattutto per quel che riguardai tempi dell’iter di approvazione legislativo, e l’assicurare allo Stato un risparmio in termini di spesa derivante dal minor numero di deputati e senatori.

Questi due fattori (risparmio e efficienza dei lavori parlamentari) sono i punti focali intorno a cui i sostenitori del SI hanno incentrato la loro campagna referendaria nonché quelli maggiormente criticati da chi invece si oppone alla riforma. Analizziamo quindi più nel dettaglio le ragioni che vengono adottate dei sostenitori del SI e quelle a sostegno del NO.

Ragioni del SI

La riduzione dei costi della politica: secondo gli esponenti delle forze politiche di maggioranza promotrici del SI la riduzione della spesa pubblica ottenuta grazie al taglio dei parlamentari garantirà un risparmio di circa 100 milioni di euro annui allo Stato che diventeranno 500 milioni a legislatura. Fondi che potranno essere destinati ai settori maggiormente bisognosi già dalla prossima legislatura.

Maggiore efficienza dei lavori parlamentari: fin dagli anni settanta si è avvertita l’esigenza di riformare il meccanismo parlamentare e più volte nella storia repubblicana sono state presentate proposte di riforme che hanno però avuto sempre esito negativo. L’idea è che un numero minore di soggetti attivi all’interno delle Camere possa garantire una riduzione dei tempi di discussione, del numero delle polemiche, e una partecipazione più attiva da parte di ciascun parlamentare. La diminuzione del 36,5% del totale dei parlamentari garantirebbe inoltre una maggiore responsabilizzazione degli stessi dato che un deputato arriverebbe a rappresentare circa 151 mila cittadini invece dei 96 mila odierni.

Il passaggio a 600 parlamentari inoltre avvicinerebbe il nostro parlamento ai numeri delle altre principali esperienze parlamentari: il nostro è uno dei legislativi più numerosi al mondo nonché il secondo in Europa dietro al solo Regno Unito, ormai uscito dall’UE causa Brexit. Dopo la riforma scenderebbe al quinto posto dietro Regno Unito, Germania, Francia e Spagna.

Ragioni del NO

Sul versante economico il fronte del no è contrario perché i problemi che deriverebbero dalla diminuzione del numero dei parlamentari non giustificherebbero il limitato risparmio: secondo l’Osservatorio dei conti pubblici italiani  il risparmio effettivo sarebbe nettamente inferiore rispetto ai numeri pubblicizzati dalle forze di maggioranza e sarebbe di 285 milioni a legislatura ovvero 57 milioni di euro annui, circa lo 0,007 per cento della spesa pubblica italiana.

Inoltre la riduzione del numero dei parlamentari non inciderebbe concretamente sull’efficienza dei lavori parlamentari: il bicameralismo perfetto che caratterizza il nostro legislativo rimarrebbe inalterato con le due Camere che continuerebbero ad avere esattamente le stesse funzioni ma che lavorerebbero in maniera depotenziata. L’aumento dell’efficienza del Parlamento non sarebbe automaticamente legato al minor numero di parlamentari ma potrebbe essere ottenuto grazie a una revisione dei meccanismi di formazione del processo legislativo, aspetto che la riforma non tocca e che potrebbe essere solamente in parte raggiunto con una modificazione urgente dei regolamenti parlamentari.

La principale contestazione del fronte del No riguarda però la riduzione di rappresentatività del Parlamento. Attualmente l’Italia ha un rapporto di 1 eletto ogni 64mila persone, con 945 parlamentari eletti e 60,4 milioni di abitanti. Se la riforma costituzionale dovesse essere approvata, con 600 parlamentari eletti, il rapporto diventerebbe di un eletto ogni 101mila persone. Soltanto la Germania, con un eletto ogni 117 mila, la Francia con uno ogni 116mila e l’Olanda con uno ogni 115 mila avrebbero un rapporto più elevato.

In caso di vittoria del SI vi sarebbe il rischio concreto di avere territori sotto-rappresentati, soprattutto al Senato essendo quest’ultimo eletto su base regionale. Anche se la Costituzione prevede per ogni territorio un numero minimo di seggi (sette senatori per ogni regione, tranne due per il Molise e uno per la Valle d’Aosta), le regioni più piccole non sarebbero più adeguatamente rappresentate.

Altra criticità per i contrari alla riforma è che nei collegi divenuti più piccoli , dovendosi eleggere meno deputati e senatori, possano essere maggiormente incisivi ed ottenere seggi solo i partiti più grandi, riducendo la rappresentanza delle comunità a livello locale.

 

In conclusione, indipendentemente dalle idee politiche e dalle posizioni proprie di ognuno, rimane un’unica grande verità: la Costituzione è di tutti e in quanto tale abbiamo il dovere prima che il diritto di partecipare a qualsiasi modificazione della stessa.

Filippo Giletto