Milano, studentessa di 19 anni si toglie la vita. “Ho fallito nello studio”

Ogni anno aumentano i casi di studenti che si tolgono la vita per un personale fallimento nel percorso di studi. Questi atti sono diventanti ormai una vera e propria piaga sociale. Sono storie di giovani che non riesco a raggiungere degli standard, spesso imposti dalla società e dalla famiglia: avere una buona media dei voti, laurearsi in tempo, trovare subito un buon lavoro.

Queste pressioni sociali sono spesso controproducenti, inducono a compiere atti estremi come il suicidio. Lo scorso mercoledì 1 febbraio, una giovane studentessa di 20 anni sudamericana, è stata trovata morta nei bagni dell’Università Iulm di Milano, presso l’edificio 5 in via Santander. A dare l’allarme è stato un custode all’apertura dell’ateneo. La ragazza in un biglietto trovato dai carabinieri, parlava dei suoi “personali fallimenti nello studio”.

Un tragico risveglio. L’Università Iulm esprime il suo cordoglio

Il corpo della ragazza era adagiato a terra con una sciarpa intorno al collo. I carabinieri della stazione Barona e della sezione Investigazioni scientifiche del nucleo investigativo, che hanno effettuato i rilievi, hanno trovato un biglietto nella borsa della ragazza in cui manifestava l’intenzione di suicidarsi. I soccorsi, se pur arrivati subito, non hanno potuto far altro che constatare il decesso della ragazza. Che le cause siano quelle di un suicidio volontario, sembrerebbero essere vere. Dato che da alcuni accertamenti, sul corpo della ragazza non sono stati trovati segni di violenza. Allora si è veramente uccisa “per suoi fallimenti negli studi”. Da quanto scritto su quel biglietto.

L’ateneo dato il tragico risveglio, attraverso i propri canali social ha comunicato a tutti, le decisioni prese dal Senato Accademico riunitosi in seduta straordinaria.

 

Post di cordoglio sull’account Instagram, Fonte: Profilo Iulm

 

Un duro colpo non solo per gli studenti, ma anche per il rettore dell’Università, Gianni Canova. Dopo la tragedia scrive in una lettera ciò che per lui dovrebbe essere l’università:

Un luogo in cui tutti si sentano a casa, capiti e ascoltati. Dove non siano i voti l’unico criterio di misurazione del valore. Dove il pensiero critico, l’intelligenza emotiva e relazionale, la creatività siano valori apprezzati. Dove tutte le sensibilità siano accolte e dove nessuno debba vergognarsi delle proprie fragilità

Mette in evidenza questo forte “disagio” che non può essere “ignorato”. Fa riferimento a quanto l’esperienza della pandemia e del lockdown abbiano fatto crescere in modo esponenziale la “fragilità di un’intera generazione”. Le richieste di aiuto agli sportelli di counseling psicologico negli ultimi mesi sono raddoppiati.

Come professore ed educatore, mi sento di ribadire che l’Università non può rinunciare alla sua missione primaria, che è quella di sviluppare in tutti l’amore per la conoscenza e per lo studio…L’Università è un luogo dove apprendere e crescere. E crescere significa imparare ad affrontare la vita e le sue prove.

Non è questo un caso isolato. Ogni anno si suicidano più di 500 ragazzi

Questo è solo un caso di una lunga serie nel nostro Paese. Secondo alcuni dati ISTAT (aggiornati al 2019), si contano in Italia circa 4.000 suicidi all’anno. Circa cinquecento di questi sono compiuti da under 34. Duecento di quest’ultimi tra gli under 24, che nella maggior parte dei casi sono proprio studenti universitari. La pandemia ha certamente peggiorato lo scenario. Infatti nel 2021 (secondo sempre i dati ISTAT) in Italia 22omila ragazzi, tra i 14 e i 19 anni, si dichiaravano insoddisfatti della propria vita e in condizioni di scarso benessere psicologico.

Negli ultimi mesi ha fatto tanto scalpore anche il caso di Riccardo Faggin. Un 26enne che lo scorso novembre si è schiantato volutamente contro un albero. Si sarebbe dovuto laureare quello stesso giorno in Scienze Infermieristiche, peccato però che il suo nome non era tra le proclamazioni previste dall’ateneo. E ancora il caso dello studente abruzzese, ritrovato lo scorso ottobre tra le acque del fiume Reno, in provincia di Bologna. Aveva raccontato una bugia ai propri cari a fin di bene, perché credeva tanto di potercela fare e non deludere le loro aspettative. Però la paura del fallimento e  del non riuscire più a negare l’evidenza ha portato entrambi i ragazzi a compiere questi atti estremi.

In Italia, tra i media se ne parla appena accade il caso, ma poco dopo tutto cade nel dimenticatoio. Per lo meno fino a quando non si presenterà un altro caso ancora. Bisognerebbe mettere un fermo, trovare delle soluzioni, dire no ad altre simili tragedie. Per Camilla Piredda, coordinatrice dell’Unione degli Universitari, c’è un problema di base nel sistema

Denunciamo come il sistema universitario non solo sia incapace di ascoltare e supportare coloro che manifestano difficoltà durante il proprio percorso di studi, ma anzi li sottoponga a uno stress continuo e delle aspettative sempre maggiori!

Fallire è una vergogna, il successo è la norma

Ogni mese leggiamo, ascoltiamo di notizie tramite media di studenti che si laureano in “tempi record”, con voti eccellenti e con subito il lavoro dei loro sogni. Veniamo bombardati da titoli come

Studenti da record: Nicola a 20 anni è il più giovane laureato in legge.

Torre del Greco, laurea in tempi record: arriva in cattedra baby prof di 23 anni

Modella, influencer e laureata in medicina a soli 23 anni. Credeva che il sonno fosse una perdita di tempo

Non bisogna di certo denigrare questi ragazzi che in poco tempo raggiungono questi importanti traguardi. Ma bisognerebbe solo porre fine a questa narrazione tossica sui media, che rende queste eccezioni come degli standard per tutti. Siamo di certo uomini e donne, in una società fondata sulla competizione, sulla gara, sulla corsa contro il tempo. Andiamo tutti alla ricerca del successo e non del fallimento. Ma fallire è umano, fa parte della vita, non bisogna vergognarsene.

 

Lodo Guenzi e il cartello condiviso sul suo profilo Instagram, Fonte: Il Resto del Carlino

 

Molti sono stati gli appelli fatti in questi giorni sui social. Uno che colpisce è quello del leader del gruppo musicale “lo Stato Sociale”, Lodo Guenzi. Si è rivolto ai giovani con un toccante racconto personale, chiedendo loro di “Resistere!”

Non so neanche perché lo scrivo, e non so se è una questione di gara di eccellenza dentro il percorso formativo, come è sempre stata, o molto di più il fatto che il mondo del lavoro fuori garantisca la sopravvivenza solo per chi eccelle, sacrificando i diritti ai tempi di produzione, e trasformando la scuola non più in una palestra in cui poter sbagliare, ma in un assaggio delle frustrazioni di domani. Io vorrei dire a una ragazza che non sei tu che quel pensiero lo capisco, davvero. Ma che se resisti in quel momento, può essere che per te sia stato un attimo. E forza, davvero”.

Allora forse basterebbe solo resistere? Come dice Guenzi. O sarebbe anche giusto che le istituzioni si rendessero conto di dover aggiustare il tiro, sul racconto che fin da piccoli ci narrano?
Viviamo in un mondo in cui il futuro, tra pandemia e guerra, è diventato totalmente incerto per tutti. Le colpe dei fallimenti che spesso ci accolliamo non dipendono da noi. Ognuno ha i propri tempi, tutti possiamo fallire e sbagliare, perché  proprio “dagli errori si impara”. Sarebbe davvero significativo se la nostra società si aprisse sempre più all’inclusione, all’ascolto e al supporto psicologico. Per dire basta a questi atti così estremi!

Marta Ferrato

Immatricolarsi. Peripezie di una studentessa

Sono le 14:27. Arrivo puntualissima alla Segreteria Studenti, parcheggio il mio bolide e mi precipito a prendere il numerino. Mi barcameno tra la folla di studenti assetati di risposte ai loro quesiti universitari, e riesco finalmente a riprendere fiato e a leggere il numero “E60”. Entusiasta della mia prova atletica e sicura del mio turno, chiedo spavaldamente “a che numero siamo?”. Mi risponde una signora, di 50 anni, che probabilmente ancora sta aspettando il risultato dei test di medicina dopo averli provati 30 volte, con tono devastato “siamo all’8“. Dapprima mi illudo di aver sentito 38, poi prendo atto del fatto che avrei trascorso le seguenti due ore in piedi, sola e abbastanza turbata.

Voi potreste dire: “beh, è come alla posta… Alla fine uno fa la fila“. E no miei cari, no! Alla posta il vecchietto stanco se ne va, la badante non capisce il numero e perde il turno, il figo del momento corre a spostare la macchina. Alla segreteria studenti no! Sono tutti là, piantati. Hanno la colla sotto le scarpe. Sentono fischiare il vigile? “sticazzi“, pensano. E fanno bene, perché se ti giri sono già entrate 2 ragazze, 4 studenti di giurisprudenza e un pastore. Che poi, per inciso, mai litigare sul numerino con uno di giurisprudenza… C’hanno la dialettica… Ti trovi a dargli il tuo (che sei venti persone prima di lui) e a chiedere scusa. E niente, arriviamo dall’8 al 40. Mi guardo intorno. In effetti sentivo una strana presenza dietro di me… “Dove si prende il bigliettino?” grida uno, e la strana presenza, arrivata insieme a me praticamente un’ora prima urla di rimando “perché c’è il bigliettino?!”. Ah, la vita com’è crudele.

Attendo con pazienza che entri il numero 57, immancabilmente presente, che nella fretta mi spinge e mi fa cadere il casco. Alle mie rimostranze fugge “per non perdere il turno”. Finalmente entro, dopo che una signora, arrivata perplessa quanto me dieci minuti prima, mi passa davanti, a suo dire con il numero 59. La segretaria, con un occhio a ponente e l’altro a levante, mi indica con lo sguardo dove sedermi. Inutile dire che sbaglio posto.

Accedo. Leggo la magica parola “immatricolazione”. Ci clicco.

La segretaria stranita mi guarda (per modo di dire) e mi dice “ma tu non sei della magistrale?” E io fiera come Cesare quando attraversa il Rubiconenono, triennale.” Senza un minimo di pietà, di amor per gli altri, di considerazione la donna dice “ah, ma allora per la tua facoltà le immatricolazioni iniziano domani alle 9.Non ci sono parole. Nient’altro da aggiungere.

 

Paola Puleio