Reggio Calabria: storia e miti dell’antica vestigia

«Io canto Reggio, l’estrema città dell’Italia marina che si abbevera sempre all’onda di Trinacria»

Così il poeta greco Ibico elogiava la città di Reggio Calabria in una poesia tratta dall’Antologia Palatina.

Situata sulla punta dello stivale e affacciata sullo stretto di Messina, nell’esatto centro geografico di quello che per gli antichi romani era il “Mare Nostrum”, la storia di Reggio Calabria è quella della più antica colonia della Magna Grecia nell’Italia meridionale e il suo fascino attuale è ancora legato a quel periodo di splendore.

 

Reggio Calabria
Vista sullo Stretto di Messina. Fonte: touringclub.it

 

Il mito di Eracle

Sull’origine della città di Reggio Calabria si intrecciano storia e mitologia.

Uno dei personaggi più famosi a cui viene ricondotta la storia dell’origine della città è Eracle, eroe della mitologia greca dotato di forza sovrumana.

In molti tra gli studiosi collocano il semidio in ben tre versioni dei fatti, ognuna delle quali porta allo stesso risultato: la fondazione della città.

Secondo la prima ricostruzione del mito, il noto Eracle, che a Roma era conosciuto con il nome di Ercole, tornando da una delle sue leggendarie fatiche perse un vitello proprio sullo stretto. E così lo inseguì contando solo sulla forza delle sue gambe e delle sue braccia, a nuoto, fino al ritrovamento che avvenne proprio sul suolo reggino.

Il secondo mito vede Eracle scontrarsi contro il terribile mostro dello stretto, Scilla, che era solita mangiare i suoi buoi. L’eroe l’affrontò e l’uccise, riportando la pace nel territorio circostante. Da quel momento fu osannato dai suoi abitanti, che eressero statue in suo onore e celebrarono le sue gesta.

Infine, nell’ultima storia mitologica legata a Eracle, pare che il figlio di Zeus, durante una delle sue traversate, scelse Reggio per un meritato riposo. Venendo più volte interrotto dal canto delle cicale nella zona presso il fiume Halex chiese aiuto al padre, che fece smettere per sempre quel canto che non si ascoltò più in quei dintorni.

 

 

Eracle
Il semidio Eracle. Fonte: latelanera.com

 

Fondazione ed etimologia

Rhegion fu una delle prime colonie greche fondate in Italia meridionale verso la metà dell’VIII secolo ed è considerata una delle più antiche città d’Europa.

La data della fondazione di Reggio Calabria è fissata convenzionalmente all’estate dell’anno 730 a.C.

Basandosi sugli storici antichi, alcuni studiosi moderni affermano che intorno a tale data i calcidesi, dei coloni di stirpe ionica provenienti dalla città di Calcide, nell’isola di Eubea, giunsero sul luogo dove sarebbe sorta la città.

Gli storici greci Tucidide e Diodoro Siculo narrano come l’oracolo di Delfi avesse indicato ai coloni di fondare la nuova città:

«Là nel punto in cui l’Apsias, il più sacro dei fiumi, si getta in mare, dove troverai una femmina avvinghiata ad un maschio, il dio ti concede la terra ausonia.»

 

La nuova città prese il nome di Rhegion. Il termine viene riferito nelle fonti antiche al verbo greco “ρήγνυμι” (reghnümi), che significa “rompere, spezzare”, in ricordo della scissione geologica della Sicilia dalla Calabria.

Si è invece sostenuta una sua derivazione dalla radice indoeuropea protoitalica “reg”, con il significato di “capo, re“. Il riferimento è dovuto al promontorio che dominava il panorama dalla penisola e che anticamente costituiva il porto naturale.

 

Cenni storici

La polis ottenne un grande pregio artistico-culturale grazie alla sua scuola filosofica pitagorica e alle sue scuole di scultura e di poesia nelle quali si formeranno artisti come Pitagora di Reggio e Ibico.

Divenne alleata di Atene nella guerra del Peloponneso e successivamente fu espugnata dai siracusani di Dionigi I nel 387 a.C. Città autonoma nelle istituzioni governative, Rhegium fu importante alleata e socia navalis di Roma.

Fu sotto le dominazioni dei normanni, degli svevi, degli angioini e degli aragonesi.

Entrò a far parte del Regno di Napoli e del Regno delle Due Sicilie e passò quindi al Regno d’Italia.

Nel 1908 subì le distruzioni di un terribile terremoto e maremoto, quindi fu ricostruita in epoca liberty, ma poi parzialmente danneggiata dai bombardamenti della Seconda guerra mondiale

 

il Castello Aragonese, Reggio Calabria
Il Castello Aragonese. Fonte: tripadvisor.it

 

Il Castello Aragonese

Fra le antiche vestigia che testimoniano il vissuto storico del luogo vi è il Castello Aragonese, considerato uno degli emblemi della città.

Nonostante venga definito “aragonese”, la sua fondazione risale in realtà all’epoca bizantina, tra il IX e l’XI secolo, quando Reggio divenne capitale del Thema di Calabria.

Punto strategico di difesa della città, la fortezza fu nel corso dei secoli dominio di Bizantini, Normanni, Svevi e Angioini, che di volta in volta apportarono alcune modifiche.

Fu però in epoca spagnola, per volere di Re Ferdinando I d’Aragona, che la struttura subì un radicale cambiamento con l’aggiunta delle due imponenti torri circolari merlate che le conferirono l’aspetto attuale e la denominazione “aragonese”.

Il castello è situato nella parte alta della città, nell’omonima piazza. La struttura originaria era composta da quattro torri e un fossato, di cui oggi rimangono soltanto le due torri a sud-est.

La parte più antica della costruzione fu demolita dopo il terremoto del 1908 per consentire l’apertura di alcune strade cittadine.

Dichiarato inagibile negli anni successivi, fu sottoposto a ristrutturazione completa, divenendo uno spazio per eventi culturali e sociali. Testimone delle vicende storiche della città dal Medioevo ad oggi, il Castello è attualmente meta turistica e simbolo storico delle vicende legate al vissuto della città.

 

 

Santa Talia

Il messinese è “buddace”: ecco perché

La Sicilia da sempre è una terra pregna di un notevole e caratteristico patrimonio socioculturale, che spazia dalle bellezze artistiche e paesaggistiche, fino a giungere agli usi e costumi quotidiani e tradizionali. Tra questi, oltre alla profondità e alle svariate sfaccettature dei dialetti siculi, troviamo degli appellativi che spesso ci capita di ascoltare per le vie delle città mediterranee. Ponendo degli esempi, i Catanesi sono soprannominati “pedi arsi” (piedi bruciati) o “fausi” (falsi), i Palermitani “lagnusi” (lamentosi), e i Messinesi “buddaci“.

 
Esemplare di Sciarrano – Fonte: biologiamarina.org

Ma ci siamo mai chiesti perché la comunità Peloritana viene chiamata così? Cos’è un “buddaci”?

Il pesce buddace, in italiano “sciarrano“, nome scientifico Serranus Scriba (dal latino scriba,”scrivano”) vive nelle acque dello Stretto. Di anatomia abbastanza piccola, normalmente lungo circa 25 cm, possiede un manto a linee intrecciate arancioni e blu che possono somigliare a una forma di scrittura, a cui è ispirato il nome della specie. Non è pregiato o particolarmente gustoso, e sta ininterrottamente con la bocca aperta; pertanto, viene pescato con facilità, anche a causa del suo continuo appetito e della sua ingenuità. Da qui i Messinesi vengono definiti spregiativamente come buddaci: popolo poco furbo, credulone, che si vanta senza aver agito concretamente, buono a nulla.

Ma a quando risale quest’appellativo?

La parola buddace non è di certo un neologismo. Era già diffusa agli inizi del ‘900 e ciò è testimoniato anche dal titolo di un settimanale umoristico antifascista edito a Messina nel 1924, “U buddaci“. Nel 1925 però, dopo pochi numeri, fu chiuso dalla censura fascista, condividendo la stessa sorte con altre testate locali.

©Lara Maamoun – Facciata di Palazzo Zanca, Messina 2020

 

Il buddace nell’architettura cittadina

Eppure, c’è anche un altro luogo dove possiamo imbatterci nel pesciolino buddace nella realtà cittadina, oltre al mare. Camminando per le vie del centro città, giungendo a Palazzo Zanca (sede del Comune) possiamo notare sulla facciata delle decorazioni raffiguranti i pesci buddaci. La specie marina protagonista di questo articolo non è l’unica a comparire sul monumento: è accompagnata infatti da altre sculture legate alla simbologia cittadina, come la Regina del Peloro e Dina e Clarenza. Sembrerebbe proprio che l’ingegnere Palermitano Antonio Zanca, al quale nel 1914 fu affidato il progetto di ricostruzione del Municipio dopo il terremoto del 1908, non abbia ricevuto per diverso tempo nessuna remunerazione, e che quindi, come simbolo di disprezzo ai Messinesi, fece inserire i pesci buddaci sull’edificio. 

 

Dettaglio della facciata di Palazzo Zanca – Fonte: strettoweb.com

Nonostante ciò, si deve sottolineare che non tutti i messinesi sono buddaci. Non lo dice l’autrice di questo articolo, magari in difesa dei suoi concittadini, ma lo testimoniano fonti storiche: in scritti antichi la comunità messinese è descritta come vivace, intelligente, artistica, eroica ed ospitale. Seppur ancora oggi è frequente che un messinese venga chiamato buddace, adesso questo termine ha una connotazione non più unicamente dispregiativa, bensì ironica. I messinesi stessi considerano l’appellativo come facente parte del loro patrimonio linguistico e, talvolta, si autodefiniscono buddaci e ci scherzano su, con la consapevolezza di chi conosce bene la propria identità.

Corinne Marika Rianò

 

Bibliografia:

Eleonora Iannelli, Messina Ritrovata, Edizione della Libreria Bonanzinga

… dietro il fenomeno della “Fata Morgana” si nascondono antiche leggende?

Fin dai tempi dei primi colonizzatori greci lo Stretto, porta della Sicilia, è il posto in cui il confine fra la natura e il sovrannaturale diventa sfumato; così, le tempeste e i gorghi che si inghiottono le antiche navi diventano opera di terribili creature divoratrici di uomini, e i capricciosi venti che ne increspano le acque sono i figli del dio Eolo che dimora nelle vicinanze; ogni fenomeno naturale che riguarda lo Stretto trova sempre la sua spiegazione nel mito.

Forse il più spettacolare di questi fenomeni è quello della cosiddetta Fata Morgana, che si osserva comunemente su entrambe le sponde dello Stretto nei mesi torridi dell’estate, quando sulla sponda opposta appaiono immagini tremolanti nelle quali si riconoscono alberi, palazzi, figure che possono far sembrare all’osservatore la terraferma più vicina di quanto non sia.

Niente più che una questione di fisica: in particolari condizioni atmosferiche la luce viene curvata dal passaggio attraverso diversi strati d’aria a diverso indice di rifrazione, dando origine ad un effetto ottico molto simile ai miraggi del deserto. Ma questo gli antichi non lo sapevano, ed è per questo che si è diffusa la leggenda della Fata Morgana.

La storia della Fata Morgana ha origini antiche ed ignote: le prime attestazioni dell’uso di questo nome per descrivere il fenomeno risalgono al Seicento, ma la storia ha probabilmente radici più antiche, che affondano nel medioevo cavalleresco. Morgana infatti è la fata delle acque del ciclo arturiano, sorellastra di re Artù: vive in un castello di cristallo nascosto sotto le acque del mare, e con le sue illusioni porta alla rovina i naviganti. Legata al fratellastro Artù da un rapporto ambiguo di amore e odio, è la prima causa della distruzione del suo regno; ma, alla fine dell’ultima battaglia del re, riconciliatasi col fratello morente, è lei che lo trae in salvo portandolo nella magica isola di Avalon, cura le sue ferite e lo mette a riposare, nascosto sotto una montagna incantata, in attesa del giorno del suo glorioso ritorno.

Ma che ci fa un personaggio della mitologia celtica nella mediterranea Sicilia del mito omerico?

Probabilmente le leggende del ciclo arturiano sono arrivate in Sicilia al seguito dei re normanni. È infatti Gervasio di Tilbury, storico inglese al servizio del re Guglielmo sul finire del XII sec., che per la prima volta identifica nel vulcano Etna la sede dell’ultima dimora di Artù. La leggenda, ripresa da diversi altri autori medievali, si arricchisce di elementi nel tempo: la mitica Avalon sarebbe la Sicilia e l’Etna sarebbe quindi il monte incantato dove Morgana ha trasportato Artù.

È per difendere il riposo del re da eventuali intrusi che Morgana mette in atto i suoi potenti incantesimi. La troviamo quindi in diverse leggende in cui difende la Sicilia dagli invasori, facendo apparire ai comandanti nemici, giunti sulle sponde della Calabria, la terraferma talmente vicina da spingerli a buttarsi a mare per raggiungerla a nuoto, annegando miseramente; o ancora, in una altra versione della storia, è lei che offre il suo aiuto addirittura al conte Ruggero per liberare la Sicilia dai saraceni; aiuto che Ruggero, devoto al Dio dei cristiani più che a una fata pagana, cortesemente rifiuta…

Come spesso succede, quindi, storia locale e tradizioni di terre lontane finiscono con l’intrecciarsi e confondersi nelle acque dello Stretto, crocevia di popoli e di miti.

Gianpaolo Basile