Stefano d’Arrigo, il narratore “epico” dello Stretto

Figura dal quale non si può prescindere se si parla di letterati dello Stretto, Stefano d’Arrigo è stato tra i più importanti scrittori del secondo Novecento italiano. Nato ad Alì Terme il 15 ottobre del 1919, lo ricordiamo principalmente per il suo romanzo più importante (e più grande letteralmente in termini di pagine): Horcynus Orca. Uscì dapprima a puntate per la rivista Il Menabò nel 1960, fondata a Torino nel 1959 da Elio Vittorini e Italo Calvino. Successivamente, l’opera venne raccolta nelle bozze dei cosiddetti “Fatti della fera” sottoposte ad un lavoro di revisione, durato circa quindici anni. La stesura definitiva uscì per Mondadori nel 1975. Scrisse anche “Cima delle nobildonne” il quale uscì nel 1985 e presenta uno stile decisamente diverso dal primo citato.

Spiegare l’importanza dello scrittore e del suo romanzo a tratti epico, a tratti post-moderno, è interessante sia perché nasce in un clima fortemente sperimentale per la narrativa italiana dell’epoca e perché, chiaramente, è una storia ambientata sullo Stretto. Dunque, riaffiora tra le 1257 pagine il profilo identitario di questo luogo/nonluogo, districandosi tra rivisitazione del mito e un richiamo parodico (ma non troppo) all’Odissea di Omero, affermandosi a tutti gli effetti nel genere post-moderno.

Horcynus Orca

 

Copertina di Horcynus Orca (fonte: ibs.it)

 

Il sole tramontò quattro volte sul suo viaggio e alla fine del quarto giorno, che era il quattro di ottobre del millenovecentoquarantatre, il marinaio nocchiero semplice della fu regia Maria ‘Ndrja Cambrìa arrivò al paese delle Femmine, sui mari dello scill’ e cariddi

 

Muovendosi sulla falsa riga del poema epico, strutturato in prosa a differenza dell’Odissea, Horcynus Orca è “un’opera sinfonica, l’omaggio a una civiltà scomparsa, la comunità pagana dei cariddoti dello Stretto di Messina «straviati» dalla guerra che ha spazzato via e stravolto ogni segno del loro universo regolato dalle leggi senza tempo del mito”[1]. L’autore affronta diversi temi, tra cui “il rapporto tra l’uomo e il mare, i traumi della age of anxiety che si traducono nel flusso di coscienza e il nostos, il ritorno in patria di un eroe dalla guerra”[2].

 

La lingua “darrighiana”

La lingua di Horcynus Orca, definita “composita e polifonica” da Marco Trainito, determina il destino dei personaggi e il potere rigeneratore delle parole contro il silenzio, costituisce il discrimine che separa chi dopo la guerra torna alla vita e chi rimane tra le macerie.

Questa strategia, secondo Virginia Fattori “rappresenta il modo trovato dall’autore per insegnare la sua lingua ibrida ai futuri lettori”. Le particolarità linguistiche, così come le tematiche, “vengono introdotte in modo tale che la deviazione dalla norma turbi in maniera controllata e controllabile la percezione e la comprensione del testo dimodoché a lungo andare queste parole diventino per il lettore comuni”[3]. Da qui si comprende che dalla lingua, probabilmente, si ritrova l’origine dell’immaginario, poiché si afferma come atto di ribellione contro un mondo impoverito e dilaniato dalla guerra, e anche per comprendere le radici culturali di un luogo. Prendiamo come esempio il seguente passaggio:

 

Voi sapete la differenza che passa fra il sentitodire e il vistocogliocchi? È la stessa che passa, figuratevi, tra la notte e il giorno. E la notte, non so se lo sapete, è femmina e fa chiacchiere, mentre il giorno è maschio, piscia al muro e porta il fatto

 

A cosa e a chi si riferisce D’Arrigo? Il vistocogliocchi rappresenta la sicurezza dell’osservare diurno, presuppone dunque la verità assoluta. Il sentitodire, al contrario, rappresenta il classico curtigghio di queste parti, dove però la verità non si presenta in forma assoluta. Se è vero che la letteratura è racconto dell’invisibile che non esiste, ma che si materializza, in Horcynus Orca tutto si incastra alla perfezione, nonostante l’evidente mescolanza di generi e l’alternanza del registro linguistico tra basso e alto, neologismi (“nuovolare”, che unisce “nuotare” e “volare”, “orcaferone” da “orca” e “fera” con il suffisso accrescitivo “-one”). Ciò non è da interpretare “tanto come una volontà straniante nei confronti del lettore” secondo Gina Bellomo, bensì come “una spinta verso la normalizzazione dei nuovi termini introdotti in modo da permettere al lettore di entrare più in fretta in sintonia con essi.”

Nonostante D’Arrigo ponga il livello della narrazione in una dimensione illusoria e mitica, tutto ciò è funzionale per comprendere la storia di Messina stimolandone la memoria. Si può trovare conforto cercando, nei versi che raccontano il mare e la città rifugio e oblio, esotismo e mistero, aspetti che probabilmente inducono al paradosso. Eppure, senza di essi non esisterebbe la letteratura, né quel fascino verso l’ignoto da scoprire, specialmente se la storia è ambientata a casa nostra.

Federico Ferrara

 

Le fonti citate sono contenute nel lavoro di tesi triennale del redattore, il cui titolo è “L’immaginario dello Stretto. Un’indagine letteraria”.

[1] Ambra Carta, In una lingua che non so più dire, in «Biblioteca di Via Senato», anno XI, n.5 (maggio 2019)

[2] Gina Bellomo, Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo come epopea della parola sperimentale, 24 gennaio 2020

[3] Virginia Fattori, Un’indagine sull’Horcynus Orca di Stefano D’Arrigo, 14 settembre 2020

 

Edoardo Giacomo Boner: il cantore del Bosforo d’Italia

Continuiamo l’approfondimento sugli “Scrittori dei due Mari”, dopo avervi raccontato della puitissa  Maria Costa, oggi scriviamo di uno degli autori più importanti della città di Messina, Edoardo Giacomo Boner. 

Gli inizi

Edoardo Giacomo Boner nacque a Messina nel 1864, da padre svizzero e madre italiana. Già durante l’adolescenza mostrò una grande predilezione per la letteratura italiana, ma anche per quella tedesca, della quale negli anni sarebbe divenuto profondo conoscitore. Finiti gli studi letterari sia in Italia che in Germania, divenne insegnante di tedesco all’istituto tecnico “Carlo Gemmellaro” di Catania e poi , dal 1893, lettore di lingua e letteratura tedesca all’Università di Messina. Nello stesso periodo insegno letteratura italiana presso il Liceo classico Maurolico

Successivamente fece tappa a Roma, dove divenne docente di letteratura tedesca all’università.

Facciata del Rettorato dell’Università degli Studi di Messina. Fonte: Archivio UvM

Un instancabile intellettuale

Boner non fu solo insegnante, ma fu un importante traduttore, poeta, e letterato. Tra le sue opere si ricorda Sui miti delle acque, una raccolta di racconti sui miti che il letterato rivisita, affrontando la tematica lontana da schemi idealistici e veristi. La prima edizione risale al 1895. Mentre è del 1896 un’altra opera dell’autore; I Saggi di letterature straniere, che spaziano fra tanti argomenti. Dal pessimismo nel romanzo russo, passando per lo studio del Natale e del Capo d’Anno nella letteratura nordica, per analizzare infine l’influenza italica nella letteratura tedesca. Insomma, l’autore qui non si lasciò sfuggire nulla.

Copertina Sui miti delle acque, di G.Boner2

L’amicizia con Rapisardi

Come accennato, Boner ha insegnato anche a Catania. Egli era noto fra i più importanti intellettuali italiani, tra i quali spicca in particolare G.Pascoli , che lo stimava moltissimo. Lo stesso Pirandello dedicò a Boner le sue Elegie renane. Ma tra le sue amicizie migliori vi era quella con il poeta e traduttore Mario Rapisardi, nato e deceduto a Catania. I due intellettuali spesso si scambiavano lettere, dove si aggiornavano costantemente sulla loro quotidianità. Boner però morì prima, a causa di un tragico terremoto, mentre Rapisardi morì nel 1912.

L’ultima raccolta

L’ultima opera del poeta è Le Siciliane, una raccolta di versi, probabilmente in omaggio alla Sicilia. La prima edizione è del 1900, ma nel corso del tempo è stata più volte rivista, fino ad arrivare alle recenti edizioni del 2018 e del 2019. Dopo quest’opera non ce ne furono altre, anche perché il poeta morì nel 1908, a seguito del terremoto che colpì le città di Messina e Reggio Calabria.

 

Lapide funebre di Boner nel cimitero monumentale di Messina. Fonte: Messinatoday1

La morte tra mito e realtà

Il poeta morì nel 1908, a seguito del devastante terremoto. Il suo corpo fu ritrovato solo diciotto mesi dopo e il luogo del ritrovamento è oggi noto come Via Edoardo Boner. Interessanti le circostanze e le modalità del suo ritrovamento. Ad indicare il luogo dove giaceva il corpo del poeta fu una bambina che affermò di aver fatto un sogno, nel quale era il poeta stesso a dirle dove si trovava il proprio corpo. E così l’intellettuale fu ritrovato e oggi  sepolto al cimitero monumentale di Messina. Vi è anche un piccolo monumento a lui dedicato, sul quale è scolpita anche la figura simbolica della bambina.

 

Roberto Fortugno

Fonti:

Edoardo Giacomo Boner – Luciano Zagari – Dizionario Biografico degli Italiani – Volume 11 (1969)

Treccani : https://www.treccani.it/enciclopedia/edoardo-giacomo-boner_%28Dizionario-Biografico%29/

1 – L’immagine della lapide funebre di E.G.Boner è stata presa da: https://www.messinatoday.it/attualita/gran-camposanto-monumenti-curiosita-intervista-principato.html

2 – Edoardo Giacomo Boner, Sui miti delle acque, La Coda di Paglia, ed. 2017.

 

Stretto di Messina: accolto il ricorso per attraversare senza Super Green Pass

Il Tribunale civile di Reggio Calabria ha accolto il ricorso presentato dai legali di Fabio Messina, l’agente di commercio palermitano bloccato da giorni a Villa San Giovanni poiché sprovvisto di Green Pass. Lunedì mattina aveva tentato di attraversare lo stretto ma non avendo nemmeno iniziato il ciclo vaccinale si è visto respinto dagli addetti al controllo della società di trasporto.

Il ricorso

Per cinque giorni il signor Messina si è visto costretto a rimanere in Calabria, arrivando a dormire in un sacco a pelo e venendo ospitato per le ultime due notti da una famiglia di Villa San Giovanni. Impossibilitato a recarsi in un albergo per le stesse ragioni per cui non ha potuto attraversare lo stretto, ha aspettato che il tribunale civile di Reggio Calabria si esprimesse sul ricorso presentato dai suoi legali, gli avvocati Grazia Cutino e Maura Galletta. Ricorso che infine è stato accolto dal giudice Elena Luppino che ha disposto la messa in condizione dell’attraversamento del cittadino siciliano. Il signor Messina può regolarmente fare ritorno in Sicilia se: munito di “esito di un test antigenico attestante la sua attuale negatività al virus con espressa esenzione dall’esibizione della certificazione verde” e con l’obbligo di tenere una mascherina FFP2. L’accoglimento del ricorso in questione però non pregiudica in alcuna maniera l’effettività delle regole attualmente in vigore. Continuerà infatti ad essere necessario il possesso della certificazione verde per attraversare lo stretto. Ma la vicenda deve sollevare l’attenzione circa esigenze collegate alla geografia del nostro Paese richiedenti un intervento preciso da parte dell’autorità.

Il principio di continuità territoriale

Come spiegato all’interno del ricorso presentato dai legali di Fabio Messina, il nodo centrale di questa discussione è quello di dovere salvaguardare la continuità territoriale. Nella penisola il passaggio tra una regione e l’altra non è stato minimamente inficiato dall’estensione dell’obbligo del Super Green Pass, essendo infatti possibile per chi sprovvisto di certificato verde di spostarsi da nord a sud con un proprio mezzo. Cosa invece non realizzabile per chi decide di recarsi dalla terraferma alle isole o viceversa. Lo stesso agente di commercio ha descritto il tutto come un “problema di diseguaglianza tra italiani, a prescindere dal documento che si ha per salire a bordo di una nave”.

La medesima questione è stata sottolineata nella lettera scritta al Presidente del Consiglio Mario Draghi e al Presidente della Regione Nello Musumeci dalla vicepresidente dell’Ars (Assemblea Regionale Siciliana) Angela Foti. L’obbligo del Super Green Pass sui mezzi di trasporto come aerei e navi limiterebbe gravemente la libera circolazione di chi vive nelle isole come Sicilia e Sardegna. Come detto precedentemente, chi abita nel resto della penisola munito di un mezzo proprio e non in possesso del certificato verde non è gravato dalle medesime limitazioni di un cittadino insulare.

L’uso di mezzi di fortuna o la rinuncia al viaggio

Il signor Messina non è stato il solo a incappare in questo problema. Ricordiamo infatti che la vicenda è avvenuta lunedì 10 gennaio, la data prevista dal decreto governativo del 29 dicembre recante “Misure urgenti per il contenimento della diffusione dell’epidemia da COVID-19 e disposizioni in materia di sorveglianza sanitaria” che ha esteso ai mezzi di trasporto pubblici l’obbligo del cosiddetto Green Pass rafforzato (o Super Green Pass). Secondo quanto riferito dagli operatori degli imbarcaderi altre persone sono state bloccate nel tentativo di attraversare lo stretto poiché sprovviste del certificato verde. Alcuni di loro hanno deciso semplicemente i tornare di indietro mentre altri, spinti evidentemente da impellenti necessità, hanno fatto ricorso a mezzi di fortuna, usando magari imbarcazioni messe a disposizione dai privati e con costi elevati.

fonte: messindaindiretta.it

L’appello di Cateno De Luca

Ad unirsi al coro è stato anche il Sindaco di Messina Cateno De Luca. Il primo cittadino messinese, in collegamento con il programma di canale 5 “Mattino 5”, ha denunciato quanto avvenuto e, successivamente all’aver preso conoscenza dell’esito positivo del ricorso, ha annunciato che avrebbe contattato il Premier Draghi e il Ministro Speranza. Per De Luca:

“… lo Stato deve deve concedere “una fase transitoria per potersi adeguare a quelle che sono le richieste della nuova normativa e quindi consentire di tenere presente la specificità del pendolarismo dello Stretto di Messina”

Filippo Giletto

Il “Villaggio Svizzero” di Messina

Tutta la popolazione dello Stretto di Messina, ancora oggi, ha memoria del catastrofico sisma, avvenuto alle prime luci del mattino -05:21- del 28 dicembre 1908. Il terremoto, con una magnitudo di 7.1, fece vibrare per trenta interminabili secondi la terra e rase al suolo l’omonima città dello Stretto e in parte anche Reggio Calabria, causando centinaia di migliaia di morti.

Le vie di Messina dopo la catastrofeFonte: storia.redcross.ch

Il sostegno della Svizzera

Di fronte a questo spettacolo raccapricciante di morte, distruzione e disperazione, tutta l’Italia -e non solo- si mobilitò per soccorrere i popoli colpiti. Un aiuto, rimasto indelebile nella memoria dei cittadini, fu quello dato dalla Svizzera, che, non appena giunta la notizia, il 2 gennaio 1909 lanciò una raccolta fondi nazionale per aiutare la loro “nazione amica” rivolgendo al popolo svizzero il seguente appello tramite la stampa:

«In presenza di un simile disastro, la Svizzera non può rimanere inattiva. La nostra vicina, l’Italia, alla quale ci accomunano la lingua, l’industria e tanti legami intellettuali, deve sapere in quale misura il nostro popolo intero partecipa alla sventura che la colpisce in modo tanto brutale e terribile.» 

Poche settimane dopo giunsero così alle due città dello Stretto denaro, viveri, coperte, kit medici, cioccolata e abbigliamento.

Fonte: mutualpass.it

La nascita del “Villaggio Svizzero”

Il sostegno più importante però non si limitava ai beni di prima necessità. Grazie ai fondi inviati dalla Croce Rossa Svizzera e al contributo dell’ingegnere Spychiger, di origini svizzere ma residente in Calabria, furono costruite 21 case di legno a Messina su dei terreni che il governo italiano mise a diposizione in maniera gratuita. Queste erano ispirate al modello degli chalet svizzeri, coi tetti spioventi e costruite secondo criteri antisismici; nonostante fossero di piccole dimensioni, offrivano a chi le abitava tutto ciò di cui avevano bisogno.

Le casette bifamiliari erano di due tipi: il primo, previsto per la campagna, comprendeva quattro camere e due cucine, mentre il secondo, di stile borghese, era costituito da otto camere e due cucine e all’esterno vi erano anche delle piccole aree verdi.

Così nacque il Villaggio Svizzero”, che diede un barlume di speranza a circa 30 famiglie messinesi.

La Croce Rossa Svizzera aveva dettato una sola e inviolabile condizione: “le case non diventino oggetto di traffico, ma siano proprietà gratuita di quelli che hanno perduto la loro casa nella catastrofe”.

Lo chalet Rütli di Messina – Fonte: storia.redcross.ch

L’altra faccia dello Stretto: Reggio Calabria

Anche l’altra città dello Stretto Reggio Calabria cercò di risollevarsi dalla distruzione causata dallo stesso sisma; gli aiuti ricevuti furono preziosi tanto quanto lo erano stati per Messina.

La stessa Croce Rossa Svizzera avviò nel febbraio 1909, la costruzione di 16 chalet uguali a quelli fabbricati nella vicina Messina. Le abitazioni occupavano un’area di quattrocento metri quadrati, con un giardinetto attorno; erano bifamiliari, a due piani, con una scaletta esterna e con le ante delle finestre decorate con cuoricino.

Ad ogni chalet, i donatori svizzeri assegnarono un nome: Guglielmo Tell, Altdorf, Jungfrau, Sempione, San Gottardo, Cervino, Spluga, Sentis, Reno, Rodano, Keller, Pestalozzi, Haller.

La strada dove vennero poste queste case, venne denominata “Via dei Villini Svizzeri”. Entrambi i “villaggi Svizzeri” accolsero in totale 74 famiglie, ridando a circa 400 persone, un tetto sulla testa.

Le maestranze svizzere insieme all’ingegnere Spychiger a Reggio Calabria – Fonte: storia.redcross.ch

La via Svizzera e il “Villaggio Svizzero” oggi

L’intervento della Croce Rossa Svizzera nella zona terremotata di Messina si concluse nel novembre 1909.

Nonostante sia passato più di un secolo dal sisma e ormai di quelle casette costruite sia rimasto ben poco a livello materiale, l’aiuto svizzero non è mai stato obliato; ancora oggi, la zona -all’incrocio fra il viale Giostra e il viale Regina Elena- in cui sorgevano le abitazioni è chiamata “Villaggio Svizzero” e via Svizzera è denominata la strada che la attraversa.

 

                                                                                                                                                                              Marika Costantino                      

 

Fonti:

mutualpass.it/la-svizzera-a-messina

storia.redcross.ch/il-terremoto-di-messina

strill.it/la-storia-dei-qvillini-svizzeri

I torrenti di Messina: da elementi costitutivi della città a discariche a cielo aperto

Poco più di un mese fa lo Stretto di Messina è stato oggetto di un servizio del Tg1. Sarebbe stato bello vedere un reportage sulla bellezza del nostro tratto di mare, o magari sui suoi mostri ed eroi leggendari, oppure sulla pesca del pescespada. Purtroppo niente di tutto ciò. La notiza riguardava un triste primato, per il quale lo Stretto di Messina è la più grande discarica sottomarina al mondo.

La ricerca è stata condotta dall’Università di Barcellona, in collaborazione con il Joint Research Centre (JCR) della Commissione Europea e altri enti, soprattutto italiani. Attraverso dei robot sottomarini è stato scoperto un enorme deposito di rifiuti -tra cui persino un’automobile-, con una densità superiore al milione di oggetti per chilometro quadrato. La presenza soprattutto di metalli e plastiche è pericolosissimo per la tenuta del sistema ecologico dello Stretto.

L’inquinamento sui fondali dello Stretto di Messina – Fonte: ansa.it

I rifiuti provengono principalmente dai torrenti

Ma da dove proviene tutta questa mole di rifiuti? Sicuramente molti oggetti sono stati gettati direttamente in mare, ma la maggior parte proviene dalle discariche abusive presenti nei numerosi torrenti della città. Infatti, con le grandi piogge, i corsi d’acqua, normalmente secchi, si riempiono e trascinano tutti i detriti, trasportandoli direttamente a mare.

Il problema dell’inquinamento dei torrenti è uno dei principali della nostra città e da anni si susseguono tentativi da parte delle istituzioni per arginarlo. Per verificare i risultati degli interventi svolti siamo andati alla foce di quattro dei numerosi torrenti cittadini. Prima di riportare la nostra esperienza, però, vogliamo viaggiare nel tempo per raccontare, a grande linee, la storia del rapporto tra la città di Messina e i suoi torrenti.

I torrenti nella storia della città di Messina

I torrenti sono stati elementi costitutitivi della città di Messina sin dai primi insedimaneti preistorici; infatti il primo villaggio, vasto e diffuso, sorgeva tra gli attuali torrenti Gazzi e Annunziata. Nel corso dei secoli l’insediamento urbano si è trasformato, ma con il costante ruolo di confine svolto dalle principali fiumare (o ciumare, in dialetto).

I torrenti, inoltre, erano corsi d’acqua fondamentali per la cittadinanza. Il principale era sicuramente il Camaro, raffigurato nella Fontana di Orione insieme ai prestigiosi fiumi Ebro, Tevere e Nilo. Essendo il più vicino al porto, si tentò di deviare il suo corso in diversi rami, tra cui quello corrispondente alla via Santa Marta, un tempo chiamata “a ciumaredda“.

Un altro corso d’acqua d’importanza storica è il torrente Portalegni, chiamato così perché era utilizzato per portare la legna dalle colline a valle. L’antico corso del Portalegni attraversava Piazza Duomo e sfociava nel Porto – nello spazio antistante la Chiesa dei Catalani-; per evitarne l’insabiamento si è provveduto a deviare il corso dove attualmente sorge la via Tommaso Cannizzaro.

Il torrente Boccetta, ancora scoperto – Fonte: normanno.com

I torrenti nella Messina di oggi

Al giorno d’oggi la maggior parte dei torrenti del centro città è stata coperta, sepolta sotto il manto stradale; i più importanti sono diventati assi viari degli svincoli autostradali.

Il problema principale relativo ai torrenti non è tanto legato alle tonnellate di veicoli che li perocorrono, ma al loro utilizzo come discariche abusive da parte di cittadini incivili.

Per arginare questa triste piaga poco più di un anno fa il sindaco Cateno De Luca ha annunciato lo stanziamento di 7,5 milioni per i lavori di messa in sicurezza – fondamentali per una città a grande rischio idrogeologico come la nostra – e di puliza dei 72 torrenti presenti nel nostro comune.

Gli interventi sono iniziati il 26 agosto con la pulizia della foce del torrente Annunziata, a cura della Protezione Civile comunale. L’8 settembre si è conclusa l’opera di messa in sicurezza e di igienizzazione del torrente Giostra. Attualmente i lavori stanno proseguendo, spinte anche da messaggi di denuncia, come quella del consigliere Libero Gioveni sulla “bomba ecologica” del torrente San Filippo.

Il sindaco Cateno De Luca durante i lavori di riqualificazione del torrente Giostra – Fonte: normanno.com

Pochi giorni fa siamo andati a verificare lo stato di salute dei torrenti di Giostra e dell’Annunziata e le condizioni delle foci del torrente San Filippo e del limitrofo torrente Zafferia. La differenza è netta. Nelle prime due fiumare la sporcizia non manca – segno che non bastano gli interventi istituzionali per arginare l’inciviltà di alcuni soggetti – ma non è paragonabile a ciò che abbiamo riscontrato nei due torrenti della zona sud, delle vere e proprie discariche a cielo aperto.

Torrente Giostra

San Filippo

Torrente Zafferia

Un punto di non ritorno

Siamo arrivati ad un punto di non ritorno. Da cittadini siamo rimasti impietriti di fronte allo scempio che abbiamo riscontrato, anche perché l’inquinamento è a pochi passi dalle abitazioni, a pochi passi da dove si stanno svolgendo le vaccinazioni contro il Covid-19, a pochi passi da tutti noi.

Gli interventi per salvare il nostro territorio e il nostro mare devono essere permanenti, ma questo non basta. Il vaccino più potente contro l’inquinamento è la creazione di cultura cittadina, forgiata dalla memoria di un passato glorioso e permeata da una solidarietà collettiva.

Non c’è più tempo da perdere.

Foto di Carlotta Faraci

Mario Antonio Spiritosanto

 

Fonti:

ilfattoquotidiano.it

normanno.com/cultura/cera-una-volta-messina-viaggio-nel-passato-tra-i-torrenti-della-citta-dello-stretto

normanno.com/attualita/pulizia-torrenti-messina

normanno.com/attualita/messina-al-via-la-pulizia-dei-torrenti-interventi-previsti-assessorato-alla-protezione-civile

normanno.com/attualita/messina-il-torrente-san-filippo-invaso-dai-rifiuti-cronache-da-una-bomba-ecologica

normanno.com/attualita/lavori-in-corso-sui-torrenti-di-messina-ma-ce-chi-continua-a-gettarvi-rifiuti

youtube.com

 

 

Perché abbiamo paura del Ponte sullo Stretto?

Paura: stato emotivo consistente in un senso di insicurezza, di smarrimento e di ansia di fronte a un pericolo reale o immaginario o dinanzi a cosa o a fatto che sia o si creda dannoso […]

Questa è parte della definizione di paura tratta dall’enciclopedia Treccani; come potete notare, non sono esclusi i pericoli immaginari, elemento che rende valido il titolo di questo articolo. Perché – ad oggi – siamo ancora sul piano dell’immaginazione.

Fare un bilancio dei pro e contro sulla realizzazione di un’infrastruttura così imponente potrebbe sembrare una sfida ardua per chiunque: basti pensare ai numerosi aspetti da tenere in considerazione, che richiederebbero certamente un approccio multidisciplinare. Approccio che, per ovvi motivi, non sono in grado di adottare e che – in questi casi – è affidato, tra le altre possibilità, a una VIA (Valutazione dell’Impatto Ambientale) per comprendere a fondo quale sarà l’effetto a breve e lungo termine della realizzazione di una nuova opera pubblica nel contesto in cui sarà edificata.

La valutazione di impatto ambientale (VIA) è una procedura amministrativa di supporto per l’autorità competente (come Ministero dell’Ambiente o Regione) finalizzata ad individuare, descrivere e valutare gli impatti ambientali di un’opera, il cui progetto è sottoposto ad approvazione o autorizzazione (DL 152/06 – art. 5, lettera b) – Fonte: tuttoambiente.com

Mi sono chiesto, da cittadino messinese, cosa mi spaventasse realmente di questa gigantesca opera edilizia; già in questa definizione ho trovato alcune risposte.  Ma andiamo per ordine: ricostruire le complesse vicende che hanno portato alla progettazione e – ad oggi – mancata realizzazione del Ponte non basterebbe un articolo ben approfondito. In breve, dopo oltre 20 anni di progetti, annunci e gare d’appalto, con il Dpcm del 15 aprile 2013, Stretto di Messina S.p.A. ovvero la società concessionaria costituita nel 1981 (in attuazione della Legge 1158/71) “per la progettazione, la realizzazione e l’esercizio dell’attraversamento stabile stradale e ferroviario tra la Sicilia e il Continente”, viene posta in liquidazione con la nomina di un Commissario Liquidatore. Da quella data in avanti nessuna società ha avuto l’incarico di “occuparsi” del ponte, nonostante vari proclami politici.

Il tema è tornato prepotentemente attuale in vista della gigantesca iniezione di liquidità (seppur in parte con modalità di prestito) che arriverà nei prossimi anni dall’Europa, con il tanto faticosamente raggiunto accordo sul Recovery Fund: l’UE stessa ci chiede di rendere più efficiente l’amministrazione del nostro Paese. Ed è proprio questo il punto cruciale: come ci “comportiamo” in Italia quando si tratta di grandi opere pubbliche?

L’ormai celebre foto scattata ai principali leader europei con la Presidente della Commissione Europea

Ammetto di aver cercato tanti esempi a riguardo, provando anche a chiudere un occhio sulle macroscopiche differenze tra nord e sud; sta anche a voi, cari lettori, documentarvi in tal senso. La mia impressione è però certamente negativa, tra progetti finanziati ma mai realizzati e strutture abbandonate all’incuria. Anche il fattore tempo non sembra giocare a nostro favore, con ritardi su ritardi accavallati a proroghe, rinvii e tutti i sinonimi che più vi aggradano.

Introduco a questo punto la “questione ambientale”: giusto qualche settimana fa, pubblicavamo un articolo su flora e fauna dello Stretto, dopo una piacevole chiacchierata con la prof.ssa Nancy Spanò, delegata UniMe alle politiche ambientali. Cosa accadrebbe alla biodiversità, unica nel suo genere, del nostro mare? E alla buona qualità delle acque, oggetto dello studio coordinato proprio dalla professoressa? Difficile negare un “intoppo” di questo tipo, in un mondo che è sempre stato poco attento all’ambiente e che a fatica cerca di cambiare rotta. Anche mettendo da parte il mio sostegno incondizionato alle green policies, il problema, oggettivamente, permane.

Fondali dello Stretto

Come districarsi dunque in questa annosa questione? Si tratta, come sempre, di una bilancia rischio-beneficio. Tuttavia questo non significa aver risolto i dubbi con facilità; piuttosto, è necessario soppesare entrambi i lati della bilancia metaforica per comprendere quale sarebbe la scelta migliore. Sicuramente non un gioco da ragazzi.

Ma qual è l’altro lato della bilancia? Facile intuire che stiamo per parlare di economia. Una delle prime “preoccupazioni” delle civiltà più antiche di cui ci sono pervenute testimonianze è stata certamente la vicinanza a fonti di sostentamento per stabilirsi in una determinata zona. Il problema immediatamente successivo è stato collegare aree diverse, qualora le risorse fossero non sufficienti o comunque non successivamente diversificate. Non a caso, le zone più impervie sono sempre state le meno popolate. Le comuni strade, che hanno reso celebri civiltà come l’antica Roma, sono state la chiave per il progresso, sia dal punto di vista commerciale che culturale, mettendo in contatto realtà diverse (non sempre con intento propriamente pacifico).

Via Appia, Roma – Fonte: Wikipedia

Basti pensare a quanto oggi questo concetto sia esasperato dalle moderne tecnologie, che permettono di collegare in un attimo – seppur in forma digitale – qualsiasi luogo o persona nel globo terrestre. Dunque, di per sé la condizione di “isolamento”, che fisicamente si incarna nella insularità della regione Sicilia, non può che essere storicamente connessa a una difficoltà nell’accedere (e ancora oggi vi invito a dare un’occhiata ai prezzi dei voli aerei, emergenza a parte) alla nostra terra. Difficoltà oggettiva, tanto per le merci quanto per le persone. È innegabile che un’opera come il ponte ovvierebbe a questo enorme problema di connessione, con benefici a cascata su tantissimi settori economici. Connessione come sinonimo di progresso: anche se c’è chi nega questo binomio, lo scenario che stiamo vivendo nel terzo millennio è nettamente orientato in questa direzione.

Arrivati a questo punto abbiamo compreso come siano presenti una quantità non indifferente di complessi punti di vista, ai quali siamo costantemente esposti; risultato: paralisi. Ed è questo che è accaduto fino ad oggi. Così il ponte diventa la terza figura mitologica dello Stretto, aggiungendosi ai mostri Scilla e Cariddi: un colosso di circa 3 km, che si erge sospeso tra fattibilità e inconsistenza tra le sponde di Sicilia e Calabria.

Ulisse fra Scilla e Cariddi, Johann Heinrich Füssli- Fonte: Wikipedia

Rimane una sensazione: è possibile limitare al minimo i contro per fare rendere al massimo i pro. Sensazione del tutto personale, per carità, e giocata solo su due elementi, ambiente ed economia, quando la partita è molto più ampia (proprio mentre scrivo questa frase penso al noto rischio sismico dello Stretto). Ma da ottimista e fiducioso nei progressi di scienza e tecnica, la sensazione potrebbe essere non troppo lontana dalla realtà. Mi direte: sì, tutto molto bello, ma poi?

Poi ci sono i fatti. E questi raccontano un Paese che, il più delle volte, è incapace di reggere il peso delle grandi opere. Ed è proprio qui che ritorna la famosa paura, vocabolo presentato in apertura di articolo; ecco che la risposta al quesito nel titolo mi appare chiara: se mi chiedessero quale dei miei discendenti (se mio figlio, nipote o bisnipote) riuscirà a viaggiare sul ponte ad opera compiuta, se fosse deciso di realizzarla oggi, non sarei mai in grado di rispondere. E così via, a tanti altri dubbi non riuscirei a controbattere con convinzione: sicurezza della struttura, materiali, ingerenza delle mafie, inchieste, processi, ammanchi e tangenti.

Tutto ciò gravita nella mia mente intorno al concetto grande opera all’italiana.

Ed è così che l’ottimismo sbandierato poco sopra cede il passo alla paura.

Emanuele Chiara

Immagine in evidenza: ilsole24ore.com

… dietro il fenomeno della “Fata Morgana” si nascondono antiche leggende?

Fin dai tempi dei primi colonizzatori greci lo Stretto, porta della Sicilia, è il posto in cui il confine fra la natura e il sovrannaturale diventa sfumato; così, le tempeste e i gorghi che si inghiottono le antiche navi diventano opera di terribili creature divoratrici di uomini, e i capricciosi venti che ne increspano le acque sono i figli del dio Eolo che dimora nelle vicinanze; ogni fenomeno naturale che riguarda lo Stretto trova sempre la sua spiegazione nel mito.

Forse il più spettacolare di questi fenomeni è quello della cosiddetta Fata Morgana, che si osserva comunemente su entrambe le sponde dello Stretto nei mesi torridi dell’estate, quando sulla sponda opposta appaiono immagini tremolanti nelle quali si riconoscono alberi, palazzi, figure che possono far sembrare all’osservatore la terraferma più vicina di quanto non sia.

Niente più che una questione di fisica: in particolari condizioni atmosferiche la luce viene curvata dal passaggio attraverso diversi strati d’aria a diverso indice di rifrazione, dando origine ad un effetto ottico molto simile ai miraggi del deserto. Ma questo gli antichi non lo sapevano, ed è per questo che si è diffusa la leggenda della Fata Morgana.

La storia della Fata Morgana ha origini antiche ed ignote: le prime attestazioni dell’uso di questo nome per descrivere il fenomeno risalgono al Seicento, ma la storia ha probabilmente radici più antiche, che affondano nel medioevo cavalleresco. Morgana infatti è la fata delle acque del ciclo arturiano, sorellastra di re Artù: vive in un castello di cristallo nascosto sotto le acque del mare, e con le sue illusioni porta alla rovina i naviganti. Legata al fratellastro Artù da un rapporto ambiguo di amore e odio, è la prima causa della distruzione del suo regno; ma, alla fine dell’ultima battaglia del re, riconciliatasi col fratello morente, è lei che lo trae in salvo portandolo nella magica isola di Avalon, cura le sue ferite e lo mette a riposare, nascosto sotto una montagna incantata, in attesa del giorno del suo glorioso ritorno.

Ma che ci fa un personaggio della mitologia celtica nella mediterranea Sicilia del mito omerico?

Probabilmente le leggende del ciclo arturiano sono arrivate in Sicilia al seguito dei re normanni. È infatti Gervasio di Tilbury, storico inglese al servizio del re Guglielmo sul finire del XII sec., che per la prima volta identifica nel vulcano Etna la sede dell’ultima dimora di Artù. La leggenda, ripresa da diversi altri autori medievali, si arricchisce di elementi nel tempo: la mitica Avalon sarebbe la Sicilia e l’Etna sarebbe quindi il monte incantato dove Morgana ha trasportato Artù.

È per difendere il riposo del re da eventuali intrusi che Morgana mette in atto i suoi potenti incantesimi. La troviamo quindi in diverse leggende in cui difende la Sicilia dagli invasori, facendo apparire ai comandanti nemici, giunti sulle sponde della Calabria, la terraferma talmente vicina da spingerli a buttarsi a mare per raggiungerla a nuoto, annegando miseramente; o ancora, in una altra versione della storia, è lei che offre il suo aiuto addirittura al conte Ruggero per liberare la Sicilia dai saraceni; aiuto che Ruggero, devoto al Dio dei cristiani più che a una fata pagana, cortesemente rifiuta…

Come spesso succede, quindi, storia locale e tradizioni di terre lontane finiscono con l’intrecciarsi e confondersi nelle acque dello Stretto, crocevia di popoli e di miti.

Gianpaolo Basile

Street art tour – tra il mare ed il caffè per raccontare la bellezza

IMG_4404“Bisognerebbe educare la gente alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui più l’abitudine e la rassegnazione ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore” questa riflessione di Peppino Impastato ha ispirato la consigliera comunale Lucy Fenech ad organizzare per la prima volta a Messina un tour dedicato alla Street Art, forma artistica urbana ed alla portata di tutti, che si sta sempre più affermando nella nostra città. Il giro è stato guidato da Enrica Carnazza, curatrice dei due progetti protagonisti dell’iniziativa: Distrart – distretti d’arte urbana e Arte e caffè a cielo aperto.

Con la collaborazione dell’ATM, che ha messo a disposizione due dei bus nuovi che girano da poco per le strade, la prima tappa è stato lo stabilimento di Miscela d’oro; per i suoi 70 anni di attività, l’azienda ha voluto fare un doppio regalo, per se e per la città: “Non volevamo organizzare i soliti festeggiamenti ai quali partecipano poche persone e dei quali sarebbe rimasto poco o niente, ma volevamo lasciare il segno, qualcosa che durasse nel tempo, e che fosse anche per la città, che tutti i messinesi ne potessero godere-  le parole della responsabile marketing di Miscela d’oro Eliana Ferrarada qui nasce il progetto Arte e caffè a cielo aperto: i muri del nostro stabilimento erano ingrigiti, e direi sterili, così abbiamo bussato alla porta di Enrica Carnazza la quale è stata entusiasta di partecipare e rendere reale questa idea, mettendosi immediatamente all’opera”Dodici gli artisti che si sono impegnati nel progetto, riempiendo di colori e stili diversi la striscia di mattoni e calcestruzzo che circonda la sede dell’azienda messinese. Il soggetto dei disegni è indubbiamente il caffè, ed ognuno ne ha dato una propria interpretazione: dal minimal alla pop art, dallo stilizzato al fauvismo, ispirandosi a grandi artisti moderni e contemporanei. 

Dalla diversa interpretazione del caffè alla diversa interpretazione delle pensiline, poste lungo la linea tranviaria: qui si concentra il progetto Distrart – distretti d’arte urbana, sogno nel cassetto dell’assessore alla cultura Tonino Perna, il progetto si prefigge la rigenerazione del tessuto urbano messinese attraverso il linguaggio artistico della Street Art. “Mi chiese di valorizzare una zona degradata e periferica della città. Ma io, bastian contraria per natura, ho evidenziato il fatto che, proprio perché non tutti i cittadini avrebbero avuto il piacere di ammirare le opere, ci saremmo dovuti concentrare su un luogo che fosse alla portata di tutti, e che dovesse essere rivalutato: quelle pensiline tristi e degradate erano perfette per il nostro progetto” ha spiegato la Carnazza. Dialogando, infatti, con il flusso dinamico che passa da una parte all’altra di Messina, gli interventi degli artisti chiamati per il progetto hanno come comune denominatore il mare, elemento fondamentale del territorio. Nelle varie opere, le acque dello Stretto sono state rappresentate evidenziando la forte connessione tra l’animo umano e la natura, della quale, molto spesso, sottovalutiamo l’importanza. Si può notare che alcuni disegni sono esterni ed altri interni alle pensiline, proprio per dare la possibilità a chiunque di poter osservare le opere: ad esempio quando si è in macchina fermi (si spera) al semaforo, o quando si aspetta, con molta speranza nel cuore, che arrivi il tram.

Il giro si è trattenuto solo su alcune fermate della linea (sfortunatamente anche per motivi di tempistica) quali Dante, Cairoli e Repubblica, per poi spostarsi verso la zona portuale, in cui si trovano 4 grandi nuove opere di artisti italiani famosi a livello internazionale. Con la presenza di vecchi e nuovi “pezzi” la zona più vicina al via vai marittimo si è riempita di colori, pensieri e critiche sulla società contemporanea che perde di vista la grandezza di essere uomini. Prima di salutare la manifestazione, abbiamo voluto lasciare alla consigliera Fenech una copia del nostro editoriale riguardante l’abbandono dell’opera di BLU, perchè possa essere uno sprono a riqualificare un’opera di rilevanza internazionale lasciata ormai a se stessa.

Giulia Greco, Alessio Gugliotta