Cafè Society: leggerezza e ironia amara nel nuovo film di Woody Allen

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Se l’autunno che avanza diffonde sulle nostre vite una ventata malinconica in grado di allontanare i ricordi briosi e dolci dell’estate, l’avvio della nuova annata di cinema offre un efficace antidoto capace di risollevarci, o almeno di incanalare nel giusto cantuccio le emozioni che erano rimaste a lungo assopite sotto l’ombrellone. Il ritorno di Woody Allen, regolare come quello delle stagioni, rischiara i sentimenti con tocco soave, riconducendoli al proprio ordine naturale. Appaiono vivaci i riferimenti consueti del cineasta in un’opera che racconta l’amore non senza sganciarsi dagli aspetti beffardi dell’esistenza. E che ancora attraversa con nostalgia le lancette del tempo.

 

Siamo nei colorati anni ’30 dello star system di Hollywood. Bobby Dorfman (Jesse Eisenberg) è un giovane ebreo di New York figlio di un orefice per nulla attratto dalla prospettiva desolante e noiosa che la permanenza in città e il lavoro del padre paiono offrirgli. Con l’ambizione di inserirsi nell’industria del cinema si rivolge allo zio Phil (Steve Carell) manager di attori famosi, presenza attiva alle feste eleganti a bordo piscina. Il rapporto coi divi e la società frivola di Los Angeles si impadroniscono della sua nuova vita e sarà così, alla fine, l’incontro con la disinvolta e magnetica Vonnie (Kristen Stewart), segretaria di Phil, a stravolgere ogni suo progetto. Il triangolo amoroso che coinvolge i tre protagonisti scaverà con intensità il dubbio della scelta dell’amata. La delusione al ritorno nella città natale farà crescere Bobby senza inibizioni e lo spingerà a fondare un locale notturno frequentato da alcune teste coronate d’Europa, da signori mondani e altolocati della società dell’epoca, nonché da esponenti della malavita italo-americana.

 

In Cafè Society, frutto delle 80 candeline spente dal regista lo scorso dicembre, i temi dei film di Woody Allen ricorrono senza esclusione di colpi: l’umorismo corale dei personaggi brulicanti e caratterizzati di Radio Days, il fascino fiabesco verso altre epoche, i due poli in antitesi di New York e Los Angeles alla maniera di Annie Hall, il sempre eterno ritorno alle proprie origini newyorkesi e quel senso di attesa e di oscuro presagio rappresentato dal futuro che incombe. Non sono nuovi gli argomenti cari al regista, affrontati senza dubbio con ben diverso spessore e profondità che in altre storiche pellicole precedenti. Eppure l’apparente giocosità e mancanza di pesantezza di questa nuova brillante amara commedia romantica lascia posto a espedienti tecnici e a una rinnovata cura del dettaglio, specialmente visivo, realmente sorprendenti.

cafesocietIl peso di Vittorio Storaro alla fotografia (premio oscar per Apocalypse Now) si palesa su una storia semplice, priva di novità clamorose, nel solco di una rappresentazione tipica e prevedibile, ma accompagnata da immagini e sensazioni che lasciano il segno. A catturare lo schermo è l’eccezionale bellezza di Kristen Stewart, vera nuova musa di Woody. Ma è anche l’ironia, cifra del suo cinema, che non subisce increspature, incrinature, segni del tempo. L’esito finale è quello di un regista che dopo ben 47 film mantiene ancora in piedi la sua freschezza. Cafè Society è un film imperfetto, così come lo sono talvolta le opere che arrivano a sedimentarsi nel nostro immaginario per arricchirlo e costruirci intorno altre storie. E questo proprio perché, come uno dei personaggi afferma in una scena, la vita è una commedia scritta da un sadico che fa il commediografo. Il film scorre veloce e a tratti con passaggi frettolosi, ma non perde di vista la sua efficace unità espressiva fortemente inquieta e drammatica dietro la patina di leggerezza.

 

Messo da parte il tono sarcastico delle origini, la verve comica cerebrale e nevrotica dei primi film, Cafè Society è un’opera della piena maturità, formalmente riuscita, in buona misura riassuntiva e emblematica (immancabile la colonna sonora jazz nei titoli di coda e la magia che l’avvolge). Un film che vale la pena andare a vedere nelle sale, e che, alla fine della proiezione, accantonate le incertezze e le riserve sulla sceneggiatura, rimane come puro esempio di cinema.

Eulalia Cambria

Uragano Netflix

netflix-everywhereAvevo iniziato a scrivere questo articolo per recensire una delle migliori serie comiche che abbia visto negli ultimi anni, “Grace & Frankie”, e mentre scrivevo ho avuto una sorta di rivelazione.

Mia nonna di 88 anni mi ha chiesto cosa fosse  quella cosa che sentiva spesso nominare da me: Netflix.

Con uno sguardo fisso e un tono serio le ho risposto , senza pensarci due volte “Nonna, Netflix è il futuro”.

Dopo averle spiegato più o meno cosa fosse e come funzionasse, la mia cara nonna ha annuito ed approvato la mia affermazione.  

 

Nata nel 1997 inizialmente l’azienda noleggiava dvd e videogiochi; nel 2008 la svolta quando venne attivato il servizio di streaming online on demand. Nel 2010 furono avviate le produzioni originali.

Nel 2013 la produzione due serie tv che diverranno immediatamente dei cult: House of cards con Kevin Spacey nei panni del politico spietato Frank Underwood e Orange is the new black che , ispirato dall’omonimo libro di Piper Kerman ed ideato dal genio di Jenji Kohan, racconta le vite delle donne nel carcere femminile di Litchfield.

Fiumi di candidature e vittorie fra Emmy, Golden Globes e SAG per i protagonisti di entrambe le serie.

 

Dall’ottobre 2015 Netflix è arrivato anche in Italia e nel gennaio del 2016 il servizio streaming è ormai accessibile in più di 190 paesi con 74 milioni di utenti.

L’offerta è enorme: dalle serie tv ai film , come “Beast of no nation” con Idris Elba che è stato presentato l’anno scorso al festival di Venezia. Giorno 29 luglio sarà disponibile sulla piattaforma “Tallulah” che vede protagoniste Ellen Page e Allison Janney.

Passando dal drama di “Sens8” e “Narcos” alla comicità di “Unbreakable Kimmy Schmidt” ideata dalla comica Tina Fey (SNL, 30 Rock) e Robert Carlock e “Master of None” creata da Aziz Ansari altro rinomato stand up comedian americano.

Ma Netflix non si ferma e per voi amanti dei fumetti ha fatto entrare nella sua famiglia anche i supereroi della Marvel in primis con “Jessica Jones” interpretata da Krysten Ritter e “Daredevil” che è già alla sua terza stagione.

Fresche notizie dal Comic-Con di San Diego sono “Luke Cage” e “Iron Fist” e il teaser di “The Defenders” con tutti i difensori uniti. Uscite previste per il 2017.

Insomma un sodalizio forte e produttivo.

Per non parlare dei documentari fra i quali spiccano “What happened Miss Simone?” “Virunga” e “The Square”.

C’è anche un tv show : “Chelsea” di Chelsea Handler , conduttrice rinomata per la sua schiettezza e satira.

I prodotti originali non prevedono cast con protagonisti solo americani : in “Marco Polo” , rinnovata per una seconda stagione, troviamo Lorenzo Richelmy nei panni del mercante e Pierfrancesco Favino in quelli del padre.

 

Oltre alle produzioni originali il catalogo comprende una quantità di film che spaziano dal “Buio oltre la siepe” a “Suburra” passando per “Persepolis” La terrazza” “Nella casa” “Moliere in bicicletta” “Broken flowers”. Produzioni varie, da tutto il mondo e di tutte le epoche.

E’ un catalogo che sicuramente andrà espandendosi.

Proprio in tema di accordi recentissima notizia è l’annuncio del primo accordo globale con la 20th Century Fox Television per la concessione in licenza dello streaming video on demand, il cui primo contenuto oggetto dell’intesa sarà “American Crime Story”, la serie più seguita del 2016 sui canali via cavo ed ha ottenuto il numero massimo di candidature agli Emmy di quest’anno.

 

La caratteristica delle opere di Netflix è la libertà, non ci sono limiti all’espressione sia nel linguaggio che negli argomenti trattati.

E’ questo che la rende una piattaforma innovativa e di successo. Non ci sono limiti.

Si producono lavori di alta qualità e vengono prodotti i lavori di persone che io definirei menti aperte e  probabilmente visionarie.

Diversità di prodotti e di soggetti che stanno davanti e dietro la telecamera.

Il cast di OITNB ne è la prova tangibile, le quali per ben due volte si sono aggiudicate il SAG award (i premi assegnati dalla gilda degli attori) come “Miglior cast in una serie commedia” facendo urlare Laura Prepon sul palco “This is what we talk about when we talk about diversity”.

 

Jenji Kohan, Martha Kaufmann, Beau Willimon, Tina Fey,  Aziz Ansari, Chris Brancato, Melissa Rosenberg, Brian Bendis sono solo alcuni dei nomi delle penne dietro i vari show.

Per non parlare degli interpreti delle serie tv: Kevin Spacey, Jane Fonda , Lily Tomlin, Kate Mulgrew, Uzo Aduba, Taylor Schilling, Laura Prepon, Danielle Brooks, Kyle Chandler, Natasha Lyonne, Samira Wiley, Lea DeLaria, Titus Burgess, Jane Krakowsi, Carol Kane.

Diversi di questi hanno raggiunto la notorietà proprio grazie ai ruoli che interpretano per le serie in questione. Dire che sono dei bravi attori è riduttivo.

 

Oggi, nonostante i grandi passi avanti nell’industria dell’intrattenimento per l’uguaglianza fra sessi orientamenti sessuali e religione, mi sono chiesta quale altro network avrebbe prodotto una serie tv su due 70enni e la vita a quella età? Una serie tv che è già alla sua terza stagione e che quest’anno ha acquistato ancora più successo.

Chi avrebbe finanziato quattro episodi in uno dei quali la conduttrice prova in diretta gli effetti delle iterazioni delle droghe e farmaci con l’alcol e non solo? La cui conduttrice ha ora un show tutto suo sulla stessa piattaforma. Probabilmente nessuno, né in Italia né in USA.

Anche se i premi non sono elementi molto validi su cui basarsi , sei nomination e sei vittorie ai premi Peabody vorranno pur dire qualcosa.

Senza fare troppo rumore le loro produzioni si sono insinuate nella cultura di massa divenendo dei cult, insomma chi non ha mai sentito parlare di Frank Underwood o ha letto qualche sua frase sui social? Questo per fare un piccolo esempio.

Oppure basta guardare una qualsiasi intervista di Uzo Aduba o Danielle Brooks in cui raccontano l’istantaneo cambiamento della loro quotidianità , venendo spesso fermate per strada per una foto.

 

La libertà di internet che spesso è un’arma a doppio taglio Netflix l’ha utilizzata per la diffusione di cultura ed intrattenimento con la possibilità di raggiungere veramente ogni parte del mondo trattando qualunque tipo di argomento e raccontando qualunque tipo di storia.

E questo è solo l’inizio.

 

Netflix è il futuro. E lo dice anche mia nonna.

 

Arianna De Arcangelis

Film Cult: la cruda verità delle nostre trame preferite

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La rubrica delle recensioni si occupa di recensire (oh, quale SORPRESA) cose belle e farle conoscere allo studente medio. MA, la rubrica delle recensioni non PUO’, in coscienza, occuparsi solo di questo. Da buoni CRITICI, ma sì diamoci cariche a caso senza motivo alcuno, abbiamo deciso che è nostro compito aprirvi gli occhi su fatti sconvolgenti: ebbene, ci sono certi film, certi CULT, che vogliono prenderci tutti in giro con un mix di banalità e fatti senza senso che essi narrano.

Siamo stanche, stanche di chi non apre gli occhi così, dentro una cabina telefonica, abbiamo indossato la nostra tuta da super eroine per aprirveli noi e mostrarvi, a muso duro, la realtà.

In queste trame si susseguono una serie di fatti volti a dimostrare che l’AMORE VINCE SEMPRE. No, non è così. Che tu abbia 18, 30 o 40 anni, alla fine rimarrai sempre con il tuo ‘’MAI NA GIOIA’’ in tasca.

Si sa che nel dolore ci si sente tutti più vicini, accomunati. Sarà per questo motivo che, almeno ogni anno, un qualche regista a caso (ma anche sempre lo stesso) decida di sfornare un film tratto da un libro su malati terminali. Storie d’amore tra adolescenti con problemi inimmaginabili, con la personalità e la maturità di un quarantenne. A quale film di incassi ci stiamo riferendo? COLPA DELLE STELLE, pubblico di UniVersoMe, che non ha solo vinto svariati premi per il film ma anche, appunto, per il romanzo. E sapete dove sono le stelle? Nello champagne che i due gustano prima di andare a fare all’ammore. Perchè, è ovvio, quale medico non consiglia una bella dose di alcol in questi casi. 97469

Ovviamente sarà la malattia ma anche il loro carattere unico che li farà innamorare con un solo sguardo perché, si sa, gli occhi sono lo specchio dell’anima. Ovviamente questi ragazzi si vedranno quando vorranno, a qualsiasi ora del giorno e in posti improbabili, perchè i loro genitori sono sempre libertini e permissivi, mica come i nostri che ci mandano un messaggio alle 23.00 dicendoci di tornare a casa in quanto si è fatto tardi.

Alla fine? Uno dei due muore e all’altro, fondamentalmente, gliene sbatte poco, mentre guarda le stelle ridendo (strafatto di farmaci).

Uno dei film che tutti adorate, se lo analizzaste bene sapreste davvero di cosa parla. Il protagonista, il solito poveraccio di turno, bello, con un gran cuore (praticamente inesistente nella realtà), in cerca di un sogno, che ci prova in modo molesto con la ricca di turno, che sta con il cattivo di turno, che fa anche nascere spontaneamente una domanda in ognuno di noi: ” ma se è sempre stato così stronzo, ma perchè ci stava insieme?”. Avete capito, no? TITANIC. Titanic-sinking

Ovviamente parliamo sempre di amori al primo sguardo: “sarà sicuramente una donna meravigliosa, anche se si comporta da stronza viziata, perchè guarda l’orizzonte in modo enigmatico“.  Dopo essere inevitabilmente nato, questo piccolo grande amore (cit.), il tempo di bere un bicchiere d’acqua ed aver consumato in posti improbabili il loro amore, il tempo di alzare una serranda, capita una catastrofe che sommata a drammi vari, crea panico e speranza.

Alla fine? Uno dei due muore e all’altro, fondamentalmente, gliene sbatte poco, mentre butta a mare un medaglione da 3944039 $.

E se avessi 40 anni, la mia età fertile stesse volgendo al termine e non fossi Carrie Bradshaw? Potrei conoscere un gran figo in un bar che mi offre un caffè e mi fa innamorare follemente mentre mastica pancake con la bocca aperta. Mi ricordo del mio fidanzato stronzo solo sulla soglia del locale e, mentre le nostre strade si dividono, non mi volto nemmeno indietro. Meglio, perché la Morte quella mattina si è svegliata ed ha deciso di farsi un giro di shopping sulla terra, ha scelto il figaccione come corpo e lo fa finire crudelmente sotto un camion che lo sbatte all’aria più e più volte (spoiler: alla fine del film il tizio resuscita e poi mi dovete spiegare come lo spiega alla sua famiglia, ma va bene). E’ lui, è proprio lui: Vi Presento Joe Black. vi_presento_joe_black

A parte che già è assurdo di per sé che la Morte venga a farci una visita, ma che essa sia anche “vestita” da Brad Pitt, diventi nostra amica e si stabilisca come un barbone abusivo a casa nostra è molto BOH (per usare termini eruditi). Successivamente scopriamo anche che ha dei sentimenti e che le piace il BURRO DI ARACHIDI, particolare che per il regista, non se ne capisce il motivo, sembra di VITALE importanza.

Quindi si innamora della figlia del tizio che dovrà morire ma che sta risparmiando solo perché gli serve una guida turistica sulla terra e, ullallà, ci prova con l’espressione e la personalità di un acciuga in scatola. Ovviamente lei, che è solo bella, ci casca e poi gli insegna anche a fare all’ammmore. La Morte che fa l’amore ma non lo sa fare e viene sverginata. OK.

Alla fine? La Morte muore.

 

E, adesso, buona visione.

Elena Anna Andronico

Elisia Lo Schiavo

Death note: uno sguardo al mondo degli Anime!

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Insoddisfazione, noia, disgusto, verso un mondo distrutto dalla criminalità e dalle ingiustizie: sono questi i sentimenti che dominano l’animo di Light Yagami. Bello, desiderato da tutte le ragazze e il miglior studente della scuola, eppure per nulla contento della sua vita, tanto perfetta quanto vuota. Ben presto, la svolta: un quaderno nero con la scritta “Death Note”. Uno scherzo? Una trovata geniale?  Chissà, nel dubbio Light lo raccoglie ed è così che fa la conoscenza di Ryuk, uno shinigami (dio della morte) che, animato dalla stessa noia del protagonista, ha deciso di far cadere il suo quaderno sulla terra per divertirsi. Un po’ per curiosità, un po’ per mettersi alla prova, Light quindi decide di usare il quaderno della morte per scrivere i nomi dei più grandi criminali del Giappone; di cui deve necessariamente conoscere il nome ed il volto.

Pian piano imparerà a usare sempre meglio questo strumento, sperimenterà nuove regole riguardo le condizioni e le modalità dei suoi omicidi. Quella che inizialmente doveva essere una piccola missione, ovvero ripulire il mondo dai criminali, diventa per Light una vera e propria impresa. Solo lui può eliminare il male dal mondo, solo lui può essere giudice delle ingiustizie, tanto da arrivare a credersi una sorta di divinità.

Tuttavia, il suo lavoro è ostacolato prima dall’intervento della polizia Giapponese, poi dall’istituzione di una squadra speciale incaricata di indicare su Kira (“assassino”, soprannome assunto da Light), di cui fa parte anche il suo stesso padre, Soichiro Yagami, sovrintendente della polizia giapponese ed Elle, giovane detective dalle strabilianti capacità. Proprio Elle si rivela essere l’immagine speculare di Light. Entrambi eccessivamente intelligenti, sicuri di sé, ciascuno con un proprio senso della giustizia ma con un obiettivo comune: battere l’altro per portare avanti il proprio ideale. Light per divenire il giustiziere di questo mondo malato, Elle per combattere proprio ciò che lui giudica il sommo male.

Sarà una lotta assolutamente pari, con colpi bassi, acute rivelazioni e sorprese da parte di entrambi. “Death note” è una serie interessante, complessa oserei dire, perché sdogana il classico concetto di bene e male, di giusto e sbagliato. Riesce a tenere con il fiato sospeso a ogni puntata, nonostante le scene d’azione siano quasi inesistenti, in quanto sono proprio le elucubrazioni, le macchinazioni e l’introspezione psicologica dei protagonisti che tengono le fila della trama e che ci portano a capire ed a immedesimarci nei loro pensieri, fino a giustificare o addirittura a supportare le loro decisioni, non sempre edificabili.

E voi, da che parte state?

Edvige Attivissimo

Misstress America: quando si ha paura di diventare grandi

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Tracy (Lola Kirke) si è appena trasferita a New York per frequentare il college, la vita dello studente nella grande mela non è quello che immaginava, soprattutto nel relazionarsi con i compagni di corso. Sua madre si sta per risposare e le propone di chiamare la figlia del suo futuro marito , la quale abita a New York da tempo. Così ha inizio questa simbiosi fra Tracy e Brooke (Greta Gerwig) , questa donna che incarna l’anima newyorkese : dinamica, entusiasta e fortemente logorroica ai limiti dell’egocentrismo.

Tracy si fa rapire dallo stile di vita di Brooke, che vive la vita “come ogni giovane donna che vuole impiegare bene la propria giovinezza dovrebbe”  ed inoltre la ispira per il racconto che deve scrivere per entrare a far parte di un circolo letterario estremamente esclusivo del college.

Brooke sta per aprire un ristorante, ma il sogno si spezza quando il fidanzato greco la lascia e deve trovare nuovi investitori. Dietro suggerimento di Tracy parte verso Greenwich, Connetticut “dove vivono i ricchi” accompagnata dal compagno di classe di Tracy Tony (Matthew Shear) e dalla sua fidanzata possessiva e paranoica, per andare a chiedere un prestito all’ex migliore amica e al marito.

 

Mistress America potrebbe venire definita una screwball comedy  ma in realtà non evoca il piacere leggero di quel genere, ricorda più il Woody Allen di “Harry a pezzi” ma le cui battute taglienti non sostengono tutto il film.

Brooke è ben incarnata da Greta Gerwig, il personaggio è fuori dai modelli odierni e ricorda alcune delle donne alleniane , il fascino e la bravura della Gerwig è tale che rende Brooke amabile anche quando si comporta volontariamente da naif.

 

La sceneggiatura è scritta a quattro mani da Noah Baumbach e la sua compagna Greta Gerwig, ci sono reminiscenze dei loro precedenti lavori “Frances Ha”  e “Giovani si diventa”, è una commedia piacevole sulle differenze di età e le conseguenti dissonanze ed assonanze, sul desiderio di seguire i propri desideri, quasi a pretenderli, ferendo chi ci sta vicino.

La difficoltà di accettare di essere adulti, le proprie responsabilità e la necessità di avere un posto nel mondo confluiscono nella frase detta da Brooke ,riferendosi a Tracy, al chiaroveggente “Non è così più giovane di me, 10-12 anni, siamo praticamente coetanee!”.

Se la sceneggiatura non è delle più intriganti , vale la pena vederlo per l’interpretazione di Greta Gerwig la quale si pone fra le migliori attrici della sua generazione soprattutto per la naturale indole comica.

Arianna De Arcangelis

Veloce Come Il Vento: Adrenalina e Sensibilità nell’ultimo film di Matteo Rovere

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«Disperati veri si è rimasti in pochi», dice Loris, nell’ultimo film di Matteo Rovere Veloce come il vento, viaggio a tavoletta nel mondo del campionato italiano GT e delle corse clandestine, in sala dal 7 aprile.

E se la disperazione predomina da anni in Italia, tra registi e spettatori, Veloce come il vento, insieme ad altri titoli come Lo chiamavano Jeeg Robot, Suburra o Non essere cattivo, sembra illuminare il fondo di quel vaso di Pandora rimasto aperto dagli anni ’80, in un 2016 insolitamente felice. Sì perché negli anni ’80 inizia forse un gap tra il cinema italiano e quello internazionale, in cui gli Stati Uniti la facevano e la fanno tutt’ora da padrone, grazie all’arrivo della computer grafica e degli effetti speciali ad alto budget.

 

Rovere centra in pieno il problema e affonda le mani, con determinazione e (metaforica) disperazione, nelle risorse, rimaste neglette ma non per questo prive di forza ed impatto visivo(un po’ come la vecchia auto da corsa di Loris), e che appartenevano al nostro cinema di genere, nello specifico quello dei “film di macchine”. Se l’espressione – alquanto infelice, invero – vi fa pensare solo all’ennesimo Fast and Furious o, andando a ritroso nel tempo, a Driver – l’imprendibile, allora dovreste dare un’occhiata a Le Mans – Scorciatoia per l’inferno, Speed Driver e Velocità massima (solo per citarne alcuni), tutti film italiani e tutti, tra i più e meno riusciti, appartenenti al filone in cui Rovere ha deciso, per dichiarata passione personale, di lanciarsi.

 

La trama, vagamente ispirata alla vera storia del pilota Carlo Capone, vede la giovane pilota Giulia (un’esordiente e promettente Matilda de Angelis), gareggiare nel campionato GT per mantenere la casa di famiglia, dopo l’abbandono da parte della madre e la morte del padre. La situazione, già precaria, è complicata dal ritorno del fratello maggiore di Giulia, Loris (Stefano Accorsi), ex pilota tossicodipendente abbandonato a se stesso, che decide di aiutarla.

 

Rovere è qui alle prese con un film completamente diverso dai suoi precedenti, basato su un soggetto verso cui nutre un interesse innegabile, sensibile al fascino del soggetto macchina nelle sue forme, rumori, colori, movimenti. Il rumore e l’immagine diventano di fatti vitali, in un film sulle corse automobilistiche: il montaggio sonoro è eseguito in maniera impeccabile, mentre l’occhio cinematografico del regista mostra un apprezzamento quasi voyeuristico per il rallenty, in svariate inquadrature, che però non mirano alla spettacolarità volgare viziosa americana di una sequenza, quanto piuttosto alla poesia del particolare, al piacere puro di contemplare la ghiaia smossa dagli pneumatici, evitando perciò la morbosità. L’uso dell’effetto digitale rimane marginale, tirato fuori alla sola occorrenza.

Piccole cose, insomma. Nugae di stile, che pure sono parte di una ricetta fatta di ingredienti che funzionano, come le musiche di Andrea Farri (già collaboratore di Rovere), tappeto elettronico sotto impalcatura indie rock, che accompagnano una sceneggiatura atta a fondere (parole del regista) la sensibilità di un dramma familiare ed il rombo dei motori, riuscendovi con perfetta armonia.

Il personaggio di Accorsi è decisamente il punto forte della sceneggiatura, raffigurando un’idea di tossicodipendente lontana dallo stereotipo, una combinazione di realismo sporco e stoner comedy che il pubblico italiano ha potuto vedere raramente, finora. L’attore bolognese si è calato perfettamente nella parte, libero di arricchire il personaggio con regionalismi emiliani spinti e, diete drasticamente hollywoodiane a parte, ha espresso al meglio momenti già promettenti sulla carta, come quelli che lo vedono in cortile con la sorella o in vasca da bagno con la fidanzata – anch’essa tossicodipendente – intento a sciogliere o complicare i nodi della sgangherata matassa familiare; momenti che rendono proprio quella vasca da bagno e quel cortile riconducibili, in qualche modo, da una parte a Paura e delirio a Las Vegas, in cui un lisergico Benicio del Toro delirava con Johnny Depp nel bagno di una camera d’hotel, dall’altra ai letti fassbinderiani, luoghi di riflessione e confronto intimo.

 

Veloce come il vento risulta dunque l’opera più riuscita di Matteo Rovere, presentando una formula che non ha solo gli ottani come carta vincente e che è già pronta per essere esportata nelle sale straniere. Un piccolo successo, squisitamente italiano, in grado di farsi apprezzare anche dai non amanti dei motori (come, del resto, chi scrive).

 

 

Andrea Donato

”Seconda Primavera” di Francesco Calogero: intervista al regista

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Francesco Calogero è nato a Messina nel 1957 ed è uno dei registi che potremmo annoverare nell’ambito underground del cinema italiano, quello cioè che risulta ad oggi più vivo, più interessante e più intenso della sua controparte mainstream, colpevole di avere invece affossato un’industria e un’arte prima valide a livello internazionale.

Il 4 febbraio 2016, a sedici anni dall’ultimo lungometraggio Metronotte, è uscito nelle sale Seconda Primavera, toccante sesta prova della sensibilità da cui la filmografia di Calogero è attraversata. Stato, pochi mesi fa, nelle sale, Seconda Primavera racconta, nell’arco di sei stagioni, le storie incrociate di quattro personaggi, ciascuno rappresentativo di una diversa età della vita.

 

Lo abbiamo intervistato per via telematica per parlare con lui di Seconda Primavera e di cinema.

 

  1. Come nasce l’idea per Seconda Primavera?

 

Credo che tutto sia partito da una visita casuale alla villa che costituisce il set principale del film, in un plumbeo giorno d’autunno. Quel giardino, di cui avevo apprezzato la magnificenza in estate o in primavera, si presentava ostile, il suolo cosparso di foglie secche, i rovi cresciuti a dismisura, quasi a voler impedire l’ingresso ai visitatori, sferzati dal vento e dalla pioggia. In una villa lontana dal centro abitato, a rischio isolamento perché raggiungibile solo attraverso una strada sterrata sulla riva del mare, pronto a inghiottirla, è piacevole stare solo nella bella stagione: col cattivo tempo i suoi occupanti possono passare giorni rinchiusi dentro, in perenne stato di esasperazione. Ho provato a immaginare come potessero cambiare i rapporti tra alcuni personaggi, stagione dopo stagione, confinati in una casa piccola come quella, in una situazione in cui è stata data più importanza al giardino, alla vita all’aria aperta. Da lì, tra vita vissuta e numi tutelari di turno, è cominciata la consueta stratificazione: voci diverse alla Thomas Stearns Eliot, potrei dire, sottolineando così quanto io gli debba in termini distruttura sinfonica, o per le associazioni di temi e simboli. L’inizio dei Quattro quartetti sembra offrirci anche lo scenario, lo specchio d’acqua dove si alzano i fiori del loto alla luce del sole, ed il celebre giardino delle rose, quello a cui si accede attraverso la porta che non abbiamo mai aperto: in Seconda primavera è testimone di un abbraccio, dopo un divertito inseguimento, che nasconde il reciproco turbamento di Andrea e Hikma (due dei personaggi principali). Lo raccontiamo già nel manifesto del film, in cui la grafica Katia Donato rende brillantemente tali temi.

 

  1. Nel tuo film c’è tanto (buon) gusto per la citazione. Non solo T. S. Eliot, come riferisci adesso, ma anche Philip K. Dick, e poi Shakespeare e Bellini… e soprattutto, è impossibile vedere il personaggio di Hikma (interpretata da Desirée Noferini) senza pensare a La donna che visse due volte.Da cosa è derivato il bisogno di questi riferimenti?

 

Non è un vero e proprio bisogno, ma forse solo un desiderio di conforto, necessario per vincere le insicurezze che ti assalgono nel corso della tua ricerca: ti aiuta molto avvertire certe assonanze, rendersi conto che già qualcuno prima di te si è soffermato allo stesso modo sul medesimo dettaglio. Del resto, chi pensa di star creando qualcosa di inedito e rivoluzionario, è un illuso: i grandi libri sono stati scritti, e i grandi detti sono stati pronunciati. Per quanto riguarda Shakespeare, la vicenda del Sogno ci mostra anch’essa coppie che si scompongono e ricompongono, e un andirivieni tra città e campagna. Se seguiamo la suggestione di alcuni critici, e lo guardiamo dal punto di vista di Hikma, questo movimento dalla corte di Atene alla foresta rappresenta il passaggio dall’istintività giovanile alla razionalità della vita adulta: Seconda primavera non è soltanto la storia di una senilità, intesa in senso sveviano, ma anche un coming-of-age movie. In realtà tutto il Sogno, con i suoi continui richiami alla trasformazione – vedi quel che accade a Puck e Bottom, non a caso presenti entrambi nelle due scene esplicitamente citate nel film – rappresenta un’allegoria delle metamorfosi che avvengono nella vita di ognuno: dunque il discorso riguarda anche Andrea, e i ripetuti cambiamenti della sua vita nel teatro del suo giardino, piccola foresta incantata… E come il Sogno, anche Seconda primavera è una storia d’amore in tutte le sue forme, in cui si spazia da un sentimento irrazionale a quello frutto di calcolo; dall’amore platonico, in qualche misura rispettoso delle convenzioni sociali, a quello infedele, disgregatore di equilibri. In questo senso Riccardo è ora costruttore, ora sabotatore di una razionalità in perenne conflitto con la sua parte più oscura. Se si vuol leggere la vicenda in chiave psicoanalitica, c’è infatti un’ulteriore corrispondenza con il Sogno: laddove i due luoghi nei quali si svolge quella storia, la corte di Atene e la foresta, diventano per noi la città con tutte le sue pastoie giornaliere, dove bisogna rispettare le leggi (anche quelle edilizie), e dunque è la ragione a comandare (il Super-Io); e in opposizione c’è il giardino, l’Es, il nostro lato oscuro, la parte subconscia e irrazionale, il luogo notturno e magico dove a regnare sono i desideri e gli istinti. Tutti i personaggi della commedia, allo spuntar del sole, affermano di aver sognato: e in qualche modo lo fa anche Hikma, che sembra voler rinnegare la sua esperienza d’amore in quella notte (chiedendosi, “Forse ero sonnambula”). La citazione belliniana parte da qui, ma non solo. Quando ho messo in scena La sonnambula, alcuni anni fa, già meditando su Seconda primavera, avevo appuntato l’attenzione sul pericoloso percorso finale di Amina, imposto dal libretto, un camminamento alto e infido che da noi era diventato un ponte mobile. Ma prima di allora, ritrovare sul nostro set un ponte simile aveva fatto sì che mi imponessi di utilizzarlo a scopi narrativi. Parliamo di un elemento largamente simbolico: basti pensare all’etimo della parola “pontifex”, i sacerdoti sono coloro che costruiscono il ponte, che aiutano il passaggio tra la terra dei vivi e il regno dei morti. L’idea forte c’era già, il ponte era stato chiesto all’architetto Andrea dalla moglie Sofia, dopo la scoperta quasi casuale della terrazza, da quel giorno diventata il suo regno: così ho immaginato Andrea impossibilitato a tornare in quello spazio, a cui è legato da troppi ricordi dolorosi. Ammesso che non sia soltanto una sua immaginazione, ci riuscirà solo nel finale, come attratto da Sofia, ma anche commosso e suggestionato dal percorso rischioso di Amina, che sta ammirando a teatro. Anche l’eroina belliniana vive una condizione di revenante, quando il conte Rodolfo si turba nel rivedere nei suoi occhi quelli della donna profondamente amata nel passato. In realtà il tema dell’eterno ritorno è certamente più decadente e tardoromantico, e anche più anglosassone – pensiamo, per dire, a tanti personaggi di Edgar Allan Poe – rispetto al milieu in cui agivano il librettista Felice Romani e lo stesso Bellini. La verità è che un libretto dalla genesi tormentata aveva costretto il conte ad atteggiamenti contraddittori: così, caduta l’ipotesi che la fanciulla potesse essere sua figlia, non restava che accettare l’idea del Doppelgänger. E quando Amina, in stato di sonnambulismo, praticamente gli si offre, il conte resiste: insomma, anche lì la soppressione del sentimento erotico, vuoi per la situazione, vuoi per la notevole differenza d’età, vuoi soprattutto per quell’impressionante somiglianza che turba e blocca… Già, siamo giunti a Hitchcock. Ovviamente è un paragone che temo: Vertigo (La donna che visse due volte) è uno dei film più importanti della storia del cinema. In realtà, considerati i punti di contatto tra le due storie, mi sono limitato a mandare leggeri segnali, giocando sul filo dell’ironia. Parlando prima di camminamenti a rischio, di altezze, di equilibri precari, ho già fatto riferimento al tema dell’acrofobia, centrale nell’intrigo hitchcockiano. E così di seguito, mi è venuto naturale chiamare Scottie – utilizzando dunque il nomignolo del personaggio di James Stewart nel film – il nostro Jack Russell Terrier, scelto perché abile a scavare buche nel giardino: un aggancio al delirio di Riccardo, che nota il disappunto di Andrea per l’azione del cagnetto, e lo sospetta di aver occultato il cadavere della moglie (e dunque di temere un’eventuale involontaria riesumazione), infilando una suggestione simile nella revisione del suo romanzo. Se il racconto di un animale che rivela la presenza di un cadavere fa nuovamente pensare a Poe e al suo Gatto nero, in realtà qui ritorniamo alla Terra desolata, al monito rivolto a Stetson – che è un uomo d’affari della City misteriosamente associato alla battaglia navale di Mylae (cioè Capo Milazzo, un luogo molto vicino al nostro set di Acqualadroni) – a badare al cane che vorrebbe dissotterrare il cadavere da lui seppellito in giardino. Anche se il racconto fatto dal cane è verosimilmente rubato da Riccardo a Roog, il primo racconto che Philip K. Dick riuscì a vendere, ispirato dall’animale posseduto dal suo vicino… Tornando a Hitchcock, mi è sembrato pertinente chiamare “La moda che visse due volte” il negozio di abiti vintage appartenuti a Sofia: lo intravediamo nella foto custodita nel baule. Ma certamente i vestiti dell’una che finiscono addosso all’altra è un riferimento non da poco, e la scena dello chignon una citazione diretta, anche se con una netta differenza temporale: Kim Novak/Judy oppone una piccola resistenza a James Stewart sulla richiesta di raccogliere i capelli in uno chignon, esattamente come faceva la defunta Madeleine, perché teme che la macchinazione sia scoperta, ma poi rientra in bagno, e lo accontenta; Hikma si rifiuta recisamente, quasi a muso duro, anche lei impaurita dal fatto che Andrea la stia troppo pericolosamente assimilando a Sofia, ma poi ci pensa su, e la sera dopo decide di sfoggiarlo durante la cena, sente di doverglielo… Andrea appare poi inizialmente depresso perché si sente anche lui responsabile della morte della moglie, e da lì affetto da una sorta di necrofilia “per fedeltà”: esattamente come Scottie Ferguson “vuole andare a letto con una morta” (Hitch dixit). Lo stesso regista chiama “sesso psicologico” questo desiderio di ricreare un’immagine sessuale impossibile: è il sottile crinale su abbiamo deciso di far camminare il personaggio di Andrea, preparando il film con Claudio Botosso, che lo interpreta in maniera assai partecipata. Per quanto riguarda i sensi di colpa, il tormento per il ricordo di Sofia lo avvicina anche al personaggio di Laurence Olivier in Rebecca, la prima moglie, giusto per restare su Hitchcock. Anche per quel sospetto di omicidio che Riccardo getta su di lui…

 

  1. Personalmente ho sempre trovato difficile inquadrare la tua filmografia come quella di un cineasta di genere o d’essai. Alla luce dei dibattiti sulla validità di queste etichette, dobbiamo pensare ad un tuo rifiuto di esse, oppure pensi di farne parte?

Parlare di cineasta d’essai mi suona strano… in fondo, i miei film non sono così estremi, di quelli che piacciono solo ai critici o ai selezionatori dei festival. Anzi, direi che sono addirittura più contento, rispetto alla lettura delle recensioni favorevoli, quando percepisco chiaramente l’emozione provocata nel pubblico delle sale. E per fortuna è accaduto spesso, soprattutto con quest’ultimo film. Se parliamo di generi, l’ambito in cui mi muovo è sempre quello del dramedy, la commedia drammatica, a volte più carica di toni foschi, come accade in Seconda primavera, in altre circostanze più incline alla leggerezza. Un termine che mi fa pensare al mio primo film professionale, La gentilezza del tocco, il cui titolo fu spesso storpiato: erano gli anni della celebre Insostenibile leggerezza dell’essere di Kundera. A questo proposito, ricordo che quando scrisse la prefazione al volume che racchiudeva le mie prime tre sceneggiature – si chiamava appunto anch’esso La gentilezza del tocco, fu pubblicato da Sellerio nel 1994 – Enrico Ghezzi definì i miei film “polizieschi del cuore”. Io mi ci ritrovo, mi accorgo che continuo a scrivere storie in cui il tema della quest, lievemente avvolta nel mistero (come avviene anche in Seconda primavera), è solo un pretesto per un’analisi amorosa, ed esistenziale lato sensu. Uno dei cineasti che ammiro maggiormente,l’americano John Cassavetes, dichiarava in un’intervista che nessuno può vivere senza filosofia. Ma lui attribuiva al termine filosofia un’accezione… come posso dire, rovesciata. L’amore per la saggezza, secondo l’etimo greco, era diventato per lui anche la sapienza, lo studio dell’amore. Come dire, ogni cineasta non può girare film senza analizzare l’amore. Ecco, direi che il mio genere – sempre senza mai perdere di vista il contesto sociale in cui si muovono i personaggi – sono i film filosofici d’amore.

 

  1. Un’ultima domanda.Seconda Primavera è uscito in un anno particolarmente prolifico per il cinema italiano. Oltre ai film di autori già affermati, come Sorrentino o Tornatore, l’opera ultima del compianto Claudio Caligari, Non essere cattivo, sono arrivati nelle sale giovani registi come Gabriele Mainetti ed il suo Lo chiamavano Jeeg Robot, premiato ai David di Donatello e Matteo Rovere, al suo terzo film con Veloce come il vento, che sembrerebbero promettere bene, in un panorama cinematografico da tempo artisticamente sterile. Hai dei nomi, tra i giovani registi nostrani, in cui riponi speranze concrete per risollevare le sorti del cinema nostrano?

 

Ovviamente per me non ha senso qui citare nomi fin troppo conosciuti. Io ripongo speranza nei giovani cineasti che si allontanano dal mainstream, spinti da un’ispirazione autentica, senza mirare ad épater le bourgeois, come si diceva un tempo, ma assumendosi dei rischi, e accettando la loro marginalità nei confronti di un sistema marcio – vedi quel che è successo al succitato Caligari, osteggiato in vita e celebrato solo dopo morto – come il nostro. Se faccio i nomi dei gemelli De Serio, o di Michelangelo Frammartino, sono certo che al grosso pubblico dicano poco, e questo racconta bene come sia irrimediabilmente compromessa la situazione italiana…

 

 

 

 

Angelo Scuderi e Andrea Donato

La “pazza gioia” di Paolo Virzì: la vulnerabilità incontenibile della felicità

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L’oblio dei ricordi che riaffiorano nella memoria frammentata e nella quotidianità dolorosa di due donne. Il desiderio travolgente di scappare dagli spettri del passato e da un’esistenza che si riesce a contenere a fatica. Può il disagio della sofferenza psichica accordarsi con i vessilli della felicità? L’ultimo film di Paolo Virzì, nelle sale da martedì 17 maggio, è il punto di contatto tra universi che spesso entrano in collisione, al cinema come nella vita: la “normalità” della sanità mentale e l’instabilità dei deviati e degli ultimi.
Il nuovo lavoro del regista livornese, d’origine siciliana per parte paterna, scritto con la collaborazione di Francesca Archibugi, una brillante commedia drammatica on the road che mette insieme divertimento intelligente a momenti genuini di commozione, ha raccolto ben quindici minuti applausi nella sezione Quinzaine des realizateurs del Festival di Cannes e un successo al botteghino già nei primissimi giorni di programmazione sugli schermi. Come lo stesso Paolo Virzì ha dichiarato durante un’intervista proprio in occasione della presentazione al festival la vicenda racconta una storia di follia che parla del forte legame di amicizia, o meglio della “relazione affettiva tempestosa”, tra due figure femminili dalla vita complicata in un turbine di ribellione alle regole imposte.
Dopo la Brianza del Capitale umano, torna ancora ad essere protagonista il paesaggio della Toscana. Nella campagna pistoiese si trova Villa Biondi, immersa nei fasti di un antico casolare, gestita dai servizi sociali e dal personale medico psichiatrico, e trasformata in una comunità terapeutica che accoglie donne ritenute socialmente pericolose in custodia giudiziaria. E’ in questo luogo che si incrociano per caso gli sguardi di Beatrice (Valeria Bruni Tedeschi, già nel Capitale umano e vincitrice di tre David di Donatello) e di Donatella (Micaela Ramazzotti, a fianco di Paolo Virzì in Tutta la vita davanti e ne La prima cosa bella), donne dal carattere differente ma dai tratti psicopatologici ugualmente profondamente segnati: esuberante, mitomane, loquace, la prima è scossa dall’arrivo in comunità di Donatella, ragazza fragile e silenziosa che ascolta senza sosta dalle cuffiette del cellulare la canzone Senza Fine di Gino Paoli. L’incontro le porterà a ritrovarsi in una circostanza fortuita che provocherà una fuga verso un altrove non pianificato; così seguiranno una serie di accadimenti tragicomici e rocamboleschi, l’incontro con dei personaggi che metteranno in discussione il concetto di normalità psichica, il furto di un auto, il giro notturno nella movida, e infine l’avvicinamento coraggioso alle ombre passato: il legame affettivo impetuoso che scaturirà proprio grazie alla diversità si concretizzerà in un esortazione ad andare avanti nonostante il buio interiore e gli errori commessi.
I personaggi di Paolo Virzì sono delle figure complesse indagate nella loro interezza umana e psichica, senza nessuno spazio lasciato alla facile impronta macchiettistica. Nel cast accanto alle attrici professioniste non a caso, sono state selezionate delle pazienti dei centri del dipartimento di salute mentale della Ausl, che è arduo distinguere dalle altre attrici. L’introspezione della sensibilità femminile è uno degli aspetti più riusciti. Le due donne appaiono in misura diversa alienate dalla realtà e allontanate dai loro affetti. Il percorso alla ricerca della normalità, se di normalità si può parlare in quel “manicomio a cielo aperto che è l’Italia”, sarà un lento risalire fuori dall’acqua, come nell’incidente che ha coinvolto Donatella e il figlioletto Elia. Il mare che può inghiottire ma anche fare da palcoscenico agli spruzzi e alle risate di una ritrovata ma sempre incerta e mai ferma serenità, rappresentata dalla toccante scena finale in Versilia.
Il delicato tema del disagio mentale, ancora molto spesso tabù in Italia, è trattato senza arrivare a conclusioni affrettate e a giudizi lapidari: gli operatori sanitari sono figure allo stesso modo convincenti e reali. Ma è nell’oscillazione tra l’euforia e l’amarezza che si incunea l’emotività delle protagoniste che coinvolge il senso della fugace possibilità di vivere la pazza gioia. Per citare la scrittrice Mignon McLaughlin: “molte cose possono farti infelice per settimane; poche possono portare un giorno intero di felicità”. 
Eulalia Cambria

Civil War, tutto il dolore per un’amicizia distrutta… e Spiderman

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Succede, spesso, che due persone abbiano un incomprensione. Si può litigare, urlare, allontanarsi e nei casi più estremi arrivare alle mani. I motivi per litigare possono essere molteplici: cause esterne alla coppia, cause interne, incomprensioni o fraintendimenti.  Se sei un supereroe con la capacità di distruggere tutto e litighi con un altro supereroe che ha la stessa capacità, beh forse non finirà proprio bene. Sicuramente, sia per quanto riguarda i supereroi che per quanto riguarda le persone normali, tornare ad essere “amici come prima” è dura. Una cosa è sicura: da un litigio si può o uscirne più forti o non uscirne mai.

Captain America: Civil War si presenta proprio così. Un grosso litigio, una grossa incomprensione che non si sa come andrà a finire. Il film, che dovrebbe rappresentare il terzo della saga di Captain America, risulta essere un sequel dei film degli Avengers. I protagonisti assoluti sono Captain America e Iron Man ma il team degli Avengers è quasi al completo. Questo perché non ci troviamo semplicemente all’ennesimo sequel, ma al primo film che inaugura ufficialmente la terza fase cinematografica del Marvel Cinematic Universe. Infatti gli studios, di proprietà della Disney, ci hanno abituato nel corso degli anni a seguire con ansia tutti i film in uscita in quanto tutti collegati tra loro. Una grande scelta di marketing.

Proprio a proposito del marketing di casa Marvel quello che ha preceduto il film parlava piuttosto chiaro: #teamcap o #teamironman, tu da che parte stai? L’intento è stato subito quello di far schierare il pubblico. Sì, proprio come se tu fossi l’amico di una coppia che sta per disfarsi e sei tenuto a scegliere da che parte stare. Questa idea è stata assolutamente vincente facendo scatenare sul web le due fazioni contro, come se si stesse veramente combattendo una guerra civile. Però, fra tutte le guerre, questo tipo di contesa è quella che lascia di più l’amaro in bocca. Siamo sempre stati abituati a vedere i film con i supereroi che combattono il male. Nella guerra civile il male è difficile da identificare, quasi non c’è. Quando vedi due amici che lottano fino alla morte quello che desideri con tutto il cuore è che smettano di lottare e che torni tutto come prima. Ma non torna mai tutto come prima. Ripeto: ottima scelta di marketing, Marvel. Ci troviamo, così, inermi davanti a questa lotta. Le fazioni si sfaldano. Chi tifava per Iron Man o chi tifava per Captain America non ha più importanza: ci importa che tutto finisca.

Non si rimane indifferenti ad un film del genere. Rimaniamo travolti da una trama che prende così una svolta inaspettata e grazie anche al consolidamento e all’introduzione di nuovi personaggi. Molto convincente Black Panther che nel corso della pellicola sembra essere l’ago della bilancia della situazione. Per non parlare dell’entrata in scena mozzafiato. Però c’è da dire che tutti gli occhi erano puntati sul nuovo Spider-Man. Tom Holland, che interpreta il “bimbo-ragno”, si è dimostrato perfetto per la parte. In tutte le scene in cui è presente riesce a strappare un sorriso. È divertentissimo. Bello (magari da approfondire nel film di Spiderman che uscirà nel 2017) il rapporto con Tony Stark che diventa per lui come una figura paterna. Il loro primo incontro ci dà da subito l’impressione che con loro due non ci annoieremo facilmente anche grazie al grande feeling che sembrano avere Tom Holland e Robert Downey Jr.

Per i fan Marvel questo film rappresenta una spaccatura non da poco. I film che seguiranno saranno sicuramente molto interessanti. Ancora una volta la Marvel è riuscita a darci un valido motivo per continuare a guardare i suoi prodotti. Questo rende MOLTO felici loro ma anche a noi non dispiace.

Nicola Ripepi

Vinyl: l’epoca d’oro del rock secondo Mick Jagger e Martin Scorsese

 

La New York degli astri nascenti del punk e del rock and roll, gli ultimi bagliori di Elvis e della Factory di Andy Warhol, la vita notturna a Greenwich Village con David Bowie e i Velvet Underground, i concerti elitari della esordiente musica disco afroamericana, innovativa e destinata a un ruolo di primo piano negli anni a venire: l’epoca felice in cui l’industria discografica e le major che controllavano il mercato musicale erano all’apice del loro ingranaggio e le vendite dei vinili schizzavano come i giri infuocati della puntina sul piatto del giradischi. La fine degli anni ’60 e il principio degli anni ’70 rappresentano un periodo cruciale nella storia della musica; il rock di maniera si avviava ad estinguersi riducendosi a comparire tuttalpiù sulle copertine imbolsite di alcuni dischi in occasione delle compilation natalizie, mentre band come i New York Dolls mandavano in estasi il pubblico e venivano trasmesse nelle radio fuori dai confini americani.

Tutto questo e molto altro raccontano – o vorrebbero raccontare – le 10 puntate che compongono la prima serie di Vinyl, trasmesse in Italia su SkyAtlantic. L’obiettivo è senza dubbio ambizioso e non privo di rischi. Del resto quando l’ideatore della serie è l’interprete più famoso di quella generazione, ovvero Mick Jagger, e i registi e produttori sono Martin Scorsese e Terence Winter, il progetto non può che accendere grandi aspettative. Se poi il personaggio protagonista di fantasia è uno degli addetti ai lavori che si muovono con maggiore disinvoltura tra le opportunità e le insidie di questo ambiente fatto di statistiche commerciali e passione genuina, le possibilità di offrire una narrazione esaustiva accattivante di quegli anni sono servite.

Richie Finestra (l’attore di origine italiana Bobby Cannavale) è il presidente dell’American Century Records. L’industria musicale e i contatti con gli artisti, la ricerca dei gruppi da immettere sul mercato e costruire in alcuni casi a tavolino seguendo un’estetica mirata, costituiscono gli obiettivi dell’etichetta. Il precipizio della crisi finanziaria che potrebbe portare al licenziamento coatto degli impiegati e persino alla chiusura dell’American Century Records costringe nel corso degli episodi Richie Finestra e i suoi più stretti collaboratori a manovre politiche azzardate che vanno dalla proposta di vendita a un colosso tedesco, la Polygram, al coinvolgimento di esponenti senza scrupoli della mafia locale. Fa da sfondo la vita privata “normale” delle persone che gravitano intorno agli uffici: quella di Devon (Olivia Wilde), musa e modella di Andy Warhol prima di diventare la moglie di Richie, e di Jamie C. Vine (Juno Temple), giovane segretaria dell’etichetta che nutre aspirazioni come talent scout e che riesce a scritturare i Nasty Bits. Gli elementi originali di Vinyl sono presentati attraverso un filtro che descrive l’ascesa e il declino dei miti e che fa intravedere la condizione personale di fragilità nascosta dietro i riflettori. Le incursioni curatissime nel mondo della musica dei primi anni ‘70, con una colonna sonora ricca di canzoni che spaziano dai Led Zeppelin agli Slade fino ai cantanti blues, e la cura scrupolosa per la scenografia, il vestiario e la fotografia, contrastano con alcuni difetti nella sceneggiatura, che risulta a volte calante e non in grado di tenere alta l’attenzione dello spettatore con una trama ben strutturata in tutti gli episodi. Ci aspettiamo che queste carenze vengano colmate a partire dalla prossima stagione. Nel frattempo l’attesa è comunque abbondantemente ripagata grazie a un tuffo nel passato che nelle sue note e nei suoi colori sgargianti ci riporta con nostalgia agli anni migliori dell’industria culturale.

Eulalia Cambria