“Mare Mosso”. Un noir mediterraneo per gli amanti del mare

 

Una storia vera di mare, d’amore e mistero. L’ideale per una lettura estiva – Voto UVM: 5/5

 

Dopo il romanzo d’esordio L’attimo prima, uscito nel 2019 per Rizzoli, Francesco Musolino ritorna con Mare Mosso, edito per e/o. Raccontare una storia di mare non è sempre un’operazione semplice. Per farlo bisognerebbe prendere il largo (non solo metaforicamente). Eppure, l’autore è riuscito perfettamente a costruire l’atmosfera, studiando ogni dettaglio possibile da inserire nella storia e la lingua da utilizzare, ponendo al centro della narrazione il mare in tempesta dove un gruppo di marinai tenta in tutti i modi di portare a termine un’ardua missione di salvataggio che si infittisce di mistero.

Prima di entrare nel dettaglio della trama, è doveroso parlare in breve dello scrittore messinese.

Conosciamo lo scrittore

Francesco Musolino ( che abbiamo avuto modo di conoscere personalmente in quest’occasione!) nasce a Messina nel 1981. E’ laureato in Scienze Politiche e oggi è giornalista culturale per conto di diverse testate, tra cui L’EspressoLa Stampa.  Nel 2014 fonda il progetto no-profit di lettura @Stoleggendo per costruire una rete di rapporti su Twitter tra librai, scrittori ed editori con lo scopo principale di creare un canale concreto per la lettura di qualsiasi testo con la partecipazione simultanea dei lavoratori dell’editoria.

Lo scrittore Francesco Musolino. © Sofia Ruello

Oltre ai romanzi citati, l’autore ha pubblicato nel 2019 un saggio interessante dal nome Le incredibili curiosità della Sicilia per la casa editrice Newton Compton, il quale esplora le caratteristiche tipiche delle città siciliane e della nostra cultura. E’ inoltre anche docente di scrittura creativa presso la Scuola Holden di Torino.

L’impresa da compiere

La storia è incentrata su un salvataggio a largo della costa sarda – precisamente nella “golfatina di Santa Caterina di Pittinuri”- avvenuto la notte del 24 dicembre 1981. L’obiettivo è recuperare una nave cargo turca chiamata Izmir. È una nave imponente, quasi impossibile da trainare fino al porto, al punto tale da gettare nello sconforto i personaggi che accompagnano il protagonista, Achille Vitale, in questa impresa.

Il motivo per cui si ritrovano in mare è per via degli interessi di un uomo misterioso, Mr. K, interessato a recuperare il carico della nave. All’inizio i marinai pensano che essa contenga solo tonnellate di pesce, ma successivamente saranno costretti a ricredersi. È proprio in quel momento che prendono vita le ombre del giallo, grazie a un climax ascendente fornito da un io narrante mai ripetitivo, che non lascia alcun buco nella trama. In virtù di ciò, la storia si alterna tra l’azione dinamica e l’introspezione dei personaggi, grazie anche all’uso ben calibrato dei flashback.

L’animo forte e sensibile di Achille

Il protagonista è abituato a intraprendere il largo, al punto tale da mostrare una sintonia emozionante con il mare:

“La potenza selvaggia della natura mi ha sempre affascinato. Quella paura che ti acchiappa fra le onde, che ti aggroviglia le budella e fa tremare le gambe mentre tutto oscilla intorno, rischia di diventare come una droga e ti chiedi perché cazzo ti piace quella vita, perché non sai rinunciare alla malìa del rullaggio, alla salsedine che mangia ogni cosa e intanto l’orizzonte all’improvviso si apre, si spalanca e ti invita ad andare mentre il vento ti spinge o ti sfida, ti provoca o ti soccorre.”

Tuttavia, egli non vive soltanto nella burrasca. Infatti, nel corso della narrazione Achille si lascia andare a dei pensieri che vedono al centro Brigitta, la donna che ama tanto. Tra la bellezza primordiale dell’amore e i tormenti dovuti alla gelosia, il romanzo affronta delicatamente questi temi ponendo in risalto la sensibilità dell’eroe, dando dimostrazione del carattere solo all’apparenza “duro” di un marinaio:

“Giunti a Cagliari, la nostra routine di coppia è cambiata velocemente. Io ero spesso fuori, in mare aperto, a tutte le ore del giorno e della notte, mentre Brigitta restava da sola, in una città completamente diversa dalla sua amata Venezia. Poi è arrivata Nina e, fra alti e bassi, c’abbiamo provato. Oggi continuo a prendermi cura delle sue rose in terrazza, immergendomi con le bombole sui fondali della costa in cerca di un po’ di pace ma i ricordi possono essere acuminati come le rocce, pericolosi come una murena che ti punta dalla profondità degli abissi, ingannatori come un bagliore che luccica e ti attira, trascinandoti sempre più giù, dentro le tue stesse paure.”

È evidente l’importanza simbolica di questa missione. Tornare a casa per Achille significa anche ritornare da Brigitta, lasciare tutto e ricominciare daccapo per vivere più serenamente.

I temi e le caratteristiche del romanzo

Tra le pagine si evince una descrizione dettagliata degli ambienti sia interni, sia esterni alla nave, accompagnata da una continua suspense visiva. La scelta del mare è lungimirante poiché per lo scrittore, le storie sono estremamente importanti nella misura in cui evocano un profilo identitario che ci accomuni e che, quindi, ci appartenga. Questo principio viene rivendicato con forza grazie a una epigrafe di Stefano D’Arrigo (capitolo 20), tra le tante poste in apertura dei capitoli:

“Non c’è lido più lontano di quello dove non si approda”

Se ci pensiamo, è una condizione che nella vita quotidiana ci riguarda quasi sempre. L’autore ci sollecita a ricordare che il nostro è un viaggio continuo alla ricerca dell’appartenenza, del conflitto e, dunque, dell’approdo. Il lido spesso è lontano – come si evince dalla storia di Achille – però, solo se siamo in grado di affrontare le nostre paure, allora forse arriveremo alla meta.

“Mare Mosso”: copertina, Fonte: edizioni e/o

Chiudo questa recensione lasciandovi alla piacevole chiacchierata che ho intrattenuto con l’autore e invitandovi alla lettura del romanzo, con l’augurio che possiate prendere il mare con coraggio!

 

Federico Ferrara

Se cadono le montagne: un reportage a fumetti di Zerocalcare

 

Zerocalcare torna con il suo stile unico a raccontarci del suo viaggio nel nord dell’Iraq con incredibile sensibilità – Voto UVM:  5/5

 

Sulla copertina della recentissima uscita del settimanale Internazionale troviamo un disegno di Michele Rech in arte Zerocalcare, un assaggio del reportage a fumetti di 34 pagine, Etichette, che la rivista custodisce al suo interno. Ad accompagnare l’illustrazione in copertina c’è una frase: «Se cadono le montagne» e il sottotitolo Un reportage dal nord dell’Iraq, tra i curdi che vivono nel campo di Makhmour.

Il reportage è facilmente reperibile in edicola o con qualche click online sul sito del settimanale Internazionale; sempre online, sui social, si trova il racconto di  Zero circa la scelta di Alberto Madrigal per occuparsi della colorazione dell’illustrazione  in copertina e delle mezzetinte acquerellate all’interno del fumetto .

Zerocalcare, Con il cuore a Kobane; Internazionale. Fonte: ilbibliomane.wordpress.com

Se cadono le montagne?

Zerocalcare non è nuovo alla vicenda curda. Ci racconta infatti del suo viaggio tra il deserto e le montagne del Kurdistan qualche anno dopo l’uscita di Kobane Calling, un reportage a fumetti del viaggio di Michele in Turchia, Iraq e Siria in supporto ai combattenti curdi, un itinerario per comprendere le storie di un popolo in guerra per il proprio diritto ad esistere.

Ed è nell’introduzione del 2020 a Kobane Calling che ci scrive di un detto curdo che recita:

I curdi hanno un solo amico, le montagne.

In effetti nell’immaginario comune le montagne veicolano un significato di protezione e sicurezza. Il freddo e distaccato fascino del monte Fuji ne La grande onda di Kanagawa, qualcosa che è impossibile cada. E allora sembra che in gioco ci sia qualcosa di vitale, così la frase che leggiamo sulla copertina di Internazionale risuona in modo più decisivo e solenne, questa volta come una domanda: e se cadono le montagne?

La grande onda di Kanagawa, famosissima xilografia di Hokusai. Fonte: dueminutidiarte.com

Risposte                                    

La risposta la troviamo all’interno del fumetto: Se cadono le montagne cade tutto. Lapidaria, inscritta su uno sfondo malinconico, si vede una ragazza che siede su una roccia e regge un’arma mentre osserva i compagni che armi in spalla marciano tra le montagne.

Seguendo i dialoghi e le persone che Zerocalcare incontra nel viaggio verso il campo profughi di Makhmour, ci accorgiamo infatti che le montagne dei curdi non sono le montagne delle mappe o del nostro immaginario. Le montagne appiattite delle cartine. Sono le montagne del Pkk, dove si trovano i guerrieri curdi, considerati terroristi dai Turchi, le montagne del confederalismo democratico, le montagne da cui può arrivare l’aiuto.

Ci accorgiamo sfogliando che qualcosa non va nel nostro immaginario, che forse ci sono in gioco dinamiche più complesse a cui forse non abbiamo prestato ascolto. Dinamiche che è difficile districare e comprendere senza affidarsi ad etichette che altri hanno scelto per noi. E leggiamo ancora tra i disegni: “Le storie di guerra sono anche questo, portano con sé cose che non ci piace sentire, che ci fanno fare i conti con la realtà e la coscienza e con quello che siamo disposti ad accettare. Sono più complesse delle favole.”

 

“Se cadono le montagne”, Zerocalcare. Fonte: dalla rivista Internazionale.

Conclusioni

La complessità caratterizza le storie che Zero ci racconta con qualche battuta per alleggerire il carico emotivo.

Se cadono le montagne è una riflessione sulla complessità delle storie, 34 pagine ben riuscite che ci invitano all’ascolto e a superare i confini del – per dirla come farebbe Zero –  “così ho sentito di’ “, contro ogni riduzionismo o semplificazione. Un invito a disegni ad immaginare più da vicino i volti e i contesti, come quello dei campi profughi. Un aiuto a toccare con mano la realtà di chi abita quei luoghi e un modo per provare a prestare ascolto a voci che narrano storie diverse da quelle che siamo abituati a sentire, fuor da “etichette”.

Martina Violante

L’aracnofobia

Chiunque ne soffra in maniera lieve o grave sa come ci si sente quando si nota quel minuscolo, o un po’ più grande, insetto con 8 gambe che si dimenano.

Un brivido, misto schifo, misto paura ti assale.

Noi aracnofobici siamo dei grandi osservatori: riusciamo ad individuare la bestiola nel giro di un minuto su una superficie quadrata di 12 km. Abbiamo un radar. E quando finalmente lo scorgiamo sono due le possibilità: o ci allontaniamo con fare sospettoso, cambiando casa o automobile oppure passiamo all’attacco, mai direttamente, ma incitando gli altri a fare qualcosa.

Grazie a questa diffusissima paura, si riescono a stringere forti legami con il genere umano che, per una volta nella vita, si presenta affabile e ben educato, quasi.

Due volte mi capitò di vedere un ragno sul parabrezza della moto.

La prima volta ho rischiato di andare a sbattere perché guardavo quell’insetto demoniaco e non la strada. Mi sono fermata e ho chiesto ad una passante, sulla sessantina, dai modi poco fini, se avesse paura dei ragni e se potesse uccidere quello che si trovava lì, sul mio bolide. La signora in tutta eleganza si è tolta la ciabatta e ha dato un colpo così forte al parabrezza che anche il ragno ha detto “ao, guarda che lo rompi”.

Preferivo il ragno.

La seconda volta, per lo stesso motivo, ho chiesto ad un giovane della mia facoltà se potesse far qualcosa per allontanare il ragno, e lui, senza perdere l’occasione prima ha cacciato l’animale e poi si è dato al corteggiamento più sfrenato. È circa due mesi che siamo amici.

La situazione cambia un po’ se il ragno lo vedete a casa o comunque coi parenti, perché non c’è potenza di farlo uccidere, preferiscono muoia tu perché il ragno porta bene, tu sei inutile.

Poi ci sono i simpatici “e in Australia come fai?” “E in Congo come fai?” “E in Nicaragua come fai?” MA CHI CI VUOLE ANDARE?!

Oltre che sono povera ma poi, secondo voi, sapendo che posso incontrare un ragno grande come un gatto ho interesse a visitare il posto? Che per carità meriterà pure, ma anche mai.

Una volta persi il telefono per un ragno. Stavo guardando uno di quei video dove un ragazzo cerca di prendere un ragno grande quanto il Molise, ma la bestiola salta e finisce sulla fotocamera. Mi è partito il telefono ed è caduto fuori dalla finestra. Ma si può?! Voglio i danni.

Per l’aracnofobico puro non esistono peluche carini, giocattolini, video teneri. Quella bestiaccia rimane sempre uno strumento del Signore per punirci.

In questo caso, più che in altri, è proprio vero che le dimensioni non contano.

A tutti i ragni che ci stanno leggendo: sappiate che non vi detestiamo, cioè potete anche condividere il pianeta con noi, chiaramente, ma, possibilmente e ve ne preghiamo, sull’altro emisfero dell’equatore.

 

Paola Puleio