Dal XIII secolo uno sguardo dall’alto su Messina: il Santuario di Montalto

img_9853Uno dei luoghi più belli e ricchi di storia a Messina è sicuramente il Santuario di Montalto. Bello perché si staglia alto, sul colle della Caperrina, con la sua caratteristica facciata affiancata da due campanili cuspidi e, così, si rende visibile e si fa riconoscere da diversi punti della città. Ricco di storia perché la sua nascita e la sua presenza a Messina sono legate a diversi episodi storici che hanno scandito la vita della città.

 

 

 
Le sue origini, innanzitutto, sono da ricercare secoli addietro: durante i Vespri Siciliani, allorquando anche Messina, il 28 aprile 1282, un mese dopo Palermo, decise di ribellarsi alla dominazione degli Angioini. Tradizione vuole che la Madonna, sotto le vesti di una Signora Bianca, rincuorasse la popolazione messinese, con il suo manto proteggesse le mura della città e, con le mani, deviasse le frecce dei nemici. Fu proprio la Madonna a volere la costruzione del santuario: apparve nel 1294 ad un fraticello, un eremita di nome Nicola, e gli ordinò di radunare sul colle della Caperrina la cittadinanza. Lì, il 12 giugno, a mezzogiorno, una colomba bianca con il suo volo disegnò il perimetro della chiesa da costruire. Alla posa della prima pietra partecipò anche la Casa reale Aragonese, con la Regina Costanza. Nel 1295 la chiesa fu terminata e dedicata a Santa Maria dell’Alto, poi divenuta S. Maria di Montalto. L’8 settembre 1300 giunse a Messina, su una nave proveniente dall’Oriente, un quadro raffigurante la Vergine Maria col Bambino. Doveva essere donato alla Cattedrale, tuttavia divenne così pesante che nessuno riuscì a spostarlo. Una “Signora Bianca” apparve in sogno ad un marinaio e gli confidò di voler vedere quel quadro nella chiesa a lei dedicata. L’icona così, ridiventata leggera, fu portata subito nel Santuario di S. Maria dell’Alto e lì ancora si trova: dopo i danni subiti a causa del terremoto del 1908 (la manta d’argento che ne rivestiva il corpo l’ha in parte protetto, ma i visi sono stati irrimediabilmente rovinati) e il restauro degli anni ’80, è stata posta sull’altare maggiore della chiesa.

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img_9854Durante la battaglia di Lepanto (7 ottobre 1571), poi, il popolo messinese si raccolse in preghiera proprio a Montalto. A perpetua memoria dell’aiuto materno dato alla città in quella occasione, il Senato messinese fece scolpire una statua marmorea della Madonna che fu posta su una torre accanto alla chiesa, e ora si trova sulla facciata del nuovo santuario fra le due torri campanarie. Ogni anno, il 12 giugno, in occasione della festa della Colomba, viene issato lo stendardo della città nelle mani della Madonna, come a volersi affidare costantemente a Lei.

Un’altra data storica legata a questo santuario è il 1743: in quell’anno la peste imperversava a Messina, così il Senato si rivolse direttamente alla Vergine perché liberasse la città e fece voto di offrire ogni anno un cero. Un voto, o una semplice tradizione oramai, che ancora oggi viene rispettata: nel giorno della festa della Colomba, infatti, l’Amministrazione comunale offre alla Vergine di Montalto un cero votivo di 25 libbre.

Arriviamo ora alla storia recente, in particolare al terremoto del 1908 che fece con questo santuario quello che fece con la maggior parte degli edifici di Messina: lo ridusse ad un cumulo di macerie. Nel 1911, però, la chiesa era di nuovo in piedi, la prima a risorgere dalle rovine.
Nel 1928 si operò un ampliamento dell’edificio, secondo il progetto dell’architetto Francesco Valenti, che comportò anche qualche modifica alla struttura originaria. Oggi l’architettura della chiesa si presenta come un misto di romanico e gotico.

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Nelle due torri campanarie ci sono ben 27 campane: due sono state salvate dal terremoto; le altre 25 sono state ottenute, nel 1929, fondendo il bronzo dei cannoni tolti ai nemici nella guerra del ‘15/’18 e donati dal Governo al Vescovo di Messina, S.E. Mons. Paino. Le campane sono di grandezza differente (la più grande pesa 19 quintali e ha un diametro di 1,5 m, la più piccola pesa 23 kg e ha un diametro di 36cm) e possono riprodurre qualsiasi melodia; ogni campana ha un nome, la figura del Santo a cui è dedicata, un motto e l’anno di fusione.
Dal piazzale antistante la chiesa si può godere di una vista mozzafiato su Messina e lo Stretto. Un panorama che lasciò estasiato anche papa Wojtyla, quando, nel corso della sua visita nella città peloritana, nel giugno del 1988, ebbe modo di conoscere anche questo luogo. Ed è per tenere viva la memoria di quell’avvenimento che nel 2014 una statua ad altezza naturale di Giovanni Paolo II è stata posta nel punto esatto dove, posando la mano sulla ringhiera, egli espresse il suo stupore dinanzi a cotanta meraviglia.

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In conclusione, possiamo dire che il Santuario di Montalto rappresenta uno dei simboli di Messina, tanto che esso compare anche nello “spettacolo” di musica e automi in bronzo a cui dà vita ogni giorno a mezzogiorno l’orologio astronomico del Campanile del Duomo. In particolare, ad essere rappresentata è la tradizione della fondazione: una colomba sorvola un colle e subito dopo da questo, lentamente, emerge il Santuario. Tutto ciò a riprova del fatto che Montalto è una tappa imprescindibile se si vuole tracciare una storia della città dello Stretto.

Francesca Giofrè

Foto Giulia Greco

Cinema e Grande Guerra: si può rappresentare l’irrappresentabile?

“Quando il tuo sguardo passa sulla terra di nessuno, non c’è letteralmente niente che balza all’occhio se non una sofferente desolazione di nulla. Al primo momento sei orribilmente contrariato. Non c’è altro che sporcizia e marciume e nauseabondi odori pestiferi che ti fanno vomitare l’anima. (…) È troppo colossale per essere drammatico. Nessuno lo può descrivere; potresti allo stesso modo provare a descrivere l’oceano e la Via Lattea. Un grandissimo scrittore potrebbe descrivere Waterloo, ma chi potrebbe descrivere l’avanzata di Haig? Chiunque ne ha visto solo la millesima parte.”
David Wark Griffith (Regista)
Le parole di Griffith sono chiare: ci sono cose che non si possono descrivere, che non si possono raccontare. Eppure il cinema è un racconto per immagini. Sentire queste parole da colui che può essere considerato il padre del cinema classico fa capire a che cosa ci troviamo davanti. La Grande Guerra è stato un evento “troppo colossale per essere drammatico”. Qualcosa di così grande non può essere raccontato se non si esalta a dovere la sua grandezza.
Si è svolto ieri, martedì 10 maggio 2016, il secondo incontro facente parte del ciclo di seminari “Research & Mobility” che hanno lo scopo di analizzare come può essere rappresentato l’irrappresentabile, appunto la Grande Guerra. Nell’incontro odierno è intervenuta la professoressa Alessia Cervini, insegnante di storia del cinema presso il Dipartimento COSPECS, che ha portato avanti un interessante tesi sul cinema del primo decennio in relazione al primo conflitto mondiale contemporaneamente scoppiato. L’incontro è stato moderato dalla professoressa Caterina Resta.
Il cinema in quel periodo (parliamo della seconda metà degli anni 10 del ‘900) era giovane, aveva appena 20 anni di vita. La prima guerra mondiale è vista come l’occasione per rispondere ad una domanda primordiale: che cos’è il cinema? A questa domanda hanno cercato di rispondere alcuni registi dell’epoca che hanno provato, in modi diversi, a rappresentare quello che il mondo stava affrontando: la guerra. La professoressa Cervini ha analizzato 5 diversi film dell’epoca per sottolineare l’evoluzione e la risposta che il cinema ha dato alla guerra. Ognuno di questi film è presente su YouTube.
Il primo film è The Battle of the Somme del 1916. In realtà questo più che un film è un documentario. All’epoca riscosse un gran successo in termini di pubblico nonostante presentasse dei limiti tecnici che non consentivano a un documentario di poter seguire al meglio la vicenda. Questi limiti sono ben evidenti, infatti possiamo vedere solo i margini della battaglia. Vediamo cosa succede prima e cosa succede dopo, non la battaglia in sé. I quattro film che sono stati presi in esame dopo sono una risposta a questi limiti tecnici e diegetici.
La professoressa Cervini porta avanti una tesi, quella dello sdoppiamento. Per essere efficaci nel loro racconto i registi hanno cercato di sdoppiare le vicende di guerra con degli espedienti (tutti diversi tra loro) che consentissero la resa cinematografica della storia. Il secondo film analizzato è proprio di Griffith ed è Cuori del mondo, film del 1918. Qui alla storia di guerra viene affiancata una storia d’amore. Questo è possibile grazie ad un innovazione tecnica introdotta da Griffith che è il montaggio parallelo. Questo consente al regista di sdoppiare la propria storia tra le vicende dell’uomo in guerra e le vicende dell’amata che lo aspetta a casa. È attraverso la storia d’amore che la guerra ha senso.
Il terzo film citato è un film di Charlie Chaplin del 1918, Charlot soldato. In questo medio metraggio lo sdoppiamento lo troviamo all’interno dello stesso personaggio. Charlot, infatti, è un soldato con la testa altrove. Il suo corpo è in guerra ma con la testa sembra fluttuare in ben altri luoghi. Tutto questo diviene possibile anche grazie alla cifra grottesca, comica e ironica tipica dei personaggi di Chaplin che garantisce la raccontabilità di un evento che altrimenti sarebbe stato irraccontabile.
Il quarto e il quinto film usano un espediente simile per quanto riguarda lo sdoppiamento, ma in maniera diversa. Il primo dei due è La guerra e il sogno di Momi del 1917. In questo film durante la lettura di una lettera dal fronte vediamo come la lettere diventi il racconto cinematografico. Questo avviene tramite il sogno. Infatti il piccolo Momi si addormenta e il suo sogno prende vita grazie ad una tecnica rudimentale di animazione con protagonisti due marionette. Anche il secondo dei due film usa il sogno come espediente per lo sdoppiamento. Ma lo fa in modo diverso. Parliamo del lungometraggio di Abel Gance, J’accuse (la prima versione del 1919). Qui le immagini sono molto simboliche. Vediamo i soldati morti riprendere vita dopo la fine della guerra e lo schermo, ad un certo punto, si divide a metà: sopra ci sono i morti che riprendono vita, sotto i sopravvissuti che marciano sotto l’Arco di trionfo come se fossero automi. Questo espediente risulta essere straordinariamente efficace. Possiamo descriverlo in tre momenti: tesi, antitesi e sintesi (prendendo in prestito le teorie di Hegel). In questo caso la tesi potrebbe essere il cinema, l’antitesi la guerra e la sintesi il sogno, che alla fine coincide proprio con la tesi ovvero il cinema.
Abbiamo comunque una presa di coscienza da parte del cinema che si vede inadeguato per raccontare la guerra. I tentativi sono però degni di nota e riescono a sopperire anche ai limiti tecnici dell’epoca. Il cinema non rinuncia al racconto. Cerca da sempre strade alternative per superare le difficoltà tecniche e diegetiche e forse è proprio questa la risposta alla domanda “Che cos’è il cinema?”: raccontare un avvenimento, che sia reale o fittizio, attraverso il potere delle immagini che diventano amore, ironia e sogno.
A conclusione dell’incontro c’è stata una discussione sull’argomento e l’invito a seguire i prossimi appuntamenti del ciclo di seminari. A tal proposito il professor Fabio Rossi ha spiegato l’iniziativa: “Gli incontri di Research & Mobility rappresentare l’irrappresentabile: la Grande Guerra consistono in una serie di incontri di studio aperti a tutti, specialmente agli studenti, su la Grande Guerra da un punto di vista non necessariamente storico, anzi anche filosofico, semiotico e linguistico. Riguarda tutto ciò che si può dire sul fenomeno della Grande Guerra che non sia già stato detto e che non dipende solamente dagli eventi storici. Questa decina di incontri si svolgono solitamente il martedì e dureranno fino al mese di ottobre.”
Di seguito la locandina con tutti gli appuntamenti.

Nicola Ripepi

 

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Messina: la città dove la Storia gioca a nascondino

Inauguriamo con questa prima uscita sulla testata universitaria “UniVersoME” la rubrica “Messina da scoprire”, nella quale proporremo, con cadenza settimanale, approfondimenti tematici volti alla divulgazione del patrimonio storico, artistico e culturale della città di Messina, la città sede del nostro Ateneo. Scrivere di arte e cultura locale a Messina, è innanzitutto un atto d’amore e, per certi versi, una provocazione.

Messina è una città antichissima, con secoli di storia sulle spalle: ciò nonostante, oggi, la sua struttura urbana per la maggior parte ha su per giù appena un centinaio d’anni, essendo successiva al terribile terremoto del 28 dicembre 1908 che la rase al suolo pressoché totalmente, uccidendo circa 70.000 dei suoi abitanti e distruggendo buona parte dei principali monumenti storici. L’ammirevole fervore ricostruttivo dei primi decenni successivi al sisma dovette scontrarsi con il corso della storia di quel tumultuoso XX Secolo: due Guerre Mondiali, le difficoltà dei relativi dopoguerra, il progressivo degrado urbanistico (si pensi alla cementificazione selvaggia iniziata negli anni ’60 e forse non ancora conclusa…) hanno dato alla città il suo volto odierno, ed è un volto carico di cicatrici fin troppo evidenti.Scrivendo di Messina dunque, scriviamo di una città che, per uno sfortunato destino, è stata violentemente privata non soltanto di gran parte del proprio patrimonio artistico ed architettonico, ma, quel che è peggio, del rapporto con il proprio passato e quindi, inevitabilmente, con la propria cultura. Da qui la provocazione: che senso ha, dunque, parlare di Storia e di Arte in una città in cui l’Arte ha subito, dalla Storia, un così doloroso colpo?

Cercheremo insieme di trovare una risposta a questa domanda, guardando a ciò che Messina è stata in quel passato con cui il presente pare aver perduto contatto: un passato che inizia dalla Zancle degli antichi greci, e passa attraverso le molteplici dominazioni, bizantine, arabe e normanne, il Rinascimento, i fasti del seicento barocco, i secoli a venire nei quali Messina crebbe e fiorì come ricca città portuale, imprescindibile piazzaforte strategica, porta della Sicilia e del Mediterraneo. Di una storia cittadina così importante oggi non resta che qualche vaga traccia, mascherata nel contesto di una realtà urbana caotica e spesso trascurata: vestigia di un passato glorioso disseminate, e talvolta dimenticate, qua e là in un presente dai colori non troppo rosei. Eppure, forse proprio in questo risiede il fascino della nostra città: a Messina la storia e l’arte non vanno “addosso” al visitatore; si lasciano inseguire, si fanno cercare, e si rivelano solo a chi sa dove trovarle. Così, per esempio, mentre si attraversa un trafficato incrocio in pieno centro, fra Viale Boccetta e Via Cavour, si potrebbe senza accorgersene abbassare lo sguardo sull’elegante profilo settecentesco della Fontana della Pigna; o ancora, magari mentre si cerca parcheggio un po’ disorientati fra i vari sensi unici e le macchine in doppia fila, ci si potrebbe imbattere, in via Romagnosi, in una curiosa chiesetta risparmiata dai terremoti, dedicata a San Tommaso il Vecchio, datata 1531 ma la cui architettura tradisce origini più antiche, influssi arabi e bizantini; e se uscendo dalla sede dell’Università in centro ci si dirige verso il Duomo passando da via Venezian, seminascosto fra i rami degli alberi si potrebbe notare, ricostruito e murato, l’antico portale monumentale del collegio gesuita che di quell’Università rappresenta il primo nucleo storico; mentre se si entra in un palazzo al numero 171 di via I settembre si può avere la gradita sorpresa di trovarsi sopra la testa nientemeno che le campate gotiche della antica e perduta chiesa di rito greco di Santa Maria del Graffeo, inglobata nella struttura dell’atrio. Insomma, a Messina è come se la Storia, più che avere realmente fatto perdere le proprie tracce, si divertisse a giocare a nascondino: e quello che questa rubrica si propone di fare, almeno nelle nostre intenzioni, è guidarvi virtualmente in questo gioco, che speriamo possa tramutarsi, per chi è interessato, in una affascinante caccia al tesoro…

Gianpaolo Basile