Il sincretismo. Quando le affinità uniscono popoli e religioni

Quando nel corso della storia si origina una collisione tra due realtà culturali diverse, sono due le possibilità che si presentano come ipotetico futuro: che una delle due collassi o che esse si fondano.

Il sincretismo è un concetto profondamente complesso dell’antropologia e della geografia antropica. Esso è il processo di assimilazione di ciò che è nuovo e inconsueto. L’appropriazione di ciò che è “tuo” e che, unito a ciò che è “mio”, diventa dunque “nostro”.  Usi, costumi, lingua.

Il sincretismo annienta la frammistione culturale, mandando in scena un’unica, meravigliosa, commedia fatta di diversità che nel corso dell’opera si fondono ed emergono come forme di vita ibride.

Il significato etimologico del termine è “unione dei Cretesi”.

La domanda sorge spontanea: che legame ha l’unione dei Cretesi con la fusione di tratti  conciliabili di due civiltà?

Presto detto nessuno, ma il significato del termine “sincretismo” nel corso della storia assunse questa accezione. Dapprima, fu utilizzato da Plutarco per indicare l’unificazione delle varie comunità dell’isola di Creta, nel Mediterraneo Orientale, per far fronte ai pericoli incombenti. Col tempo, questo termine indicò, in senso lato, due realtà che, condividendo elementi ideologici affini, si fondono.

Ecco alcuni esempi per comprendere meglio il fenomeno.

Quando nel II millennio a.C. Babilonia si espanse, diventando una potenza regionale sotto il comando del famosissimo Hammurabi, il re babilonese capì ben presto che la sua terra non si sarebbe stabilizzata solo con la promulgazione di leggi (il famoso codice di Hammurabi, ricordate?).

Egli decise di unire tutti i vari culti del proprio impero, ponendo a capo di questo nuovo pantheon il dio sovrano di Babilonia, Marduk. Una riunificazione politica, ma soprattutto religiosa.

Spostiamo le lancette di qualche anno più avanti.

Con l’avvento delle colonizzazioni e delle campagne di conquista di Alessandro Magno, la cultura ellenica si espanse per gran parte del Mar Mediterraneo e del mondo orientale, entrando in contatto con decine di culture diverse.

I greci che seguirono Alessandro nella marcia verso Oriente finirono per essere sedotti dal lusso e dalle meraviglie di quella terra così affascinante, ma al tempo stesso così diversa dalla madrepatria Grecia. La cultura greca fu così esportata nei regni orientali, originando nuove ed affascinanti realtà.

I regni ellenistici nati dalle ceneri dell’impero macedone presentavano caratteristiche sia della cultura greca sia del mondo orientale.

Si venerava il sovrano, proprio come nei regni orientali, ma si combatteva alla greca. Serrati in falange. Seppur con qualche piccola modifica, come gli elefanti seleucidi.

All’incirca sempre negli stessi luoghi, ma a distanza di quasi mille anni, l’intera produzione filosofica, artistica e letteraria occidentale e orientale confluì nella cultura islamica. Con l’espansione islamica che raggiunse il continente europeo e il subcontinente indiano, i seguaci di Maometto incontrarono realtà molto diverse dalla propria. Gli arabi si fecero portavoce delle teorie pitagoriche, della diffusione della carta, dell’astronomia medio-orientale e della filosofia indiana.

Tre sfumature diverse dello stesso concetto: sincretismo religioso, sincretismo sociopolitico, sincretismo culturale.

Questo fenomeno rappresenta un forza generatrice che rimescola le carte dell’umanità. Dà vita a nuove religioni, nuove correnti politiche, nuove culture.
Le sue intricate dinamiche ci permettono di comprendere l’unicità e, al tempo stesso, la dinamicità della nostra identità culturale. Perchè, spesso, le affinità sono ben più grandi delle differenze.

Fortunato Nunnari

 

 

Da Babilonia a Baghdad: sulle tracce di Hammurabi

Manca, ormai, poco più di un mese al termine dell’affascinante mostra tenuta presso il Museo dei Saperi e delle Mirabilia Siciliane di Catania. Curata dall’archeologo Nicola Laneri e dalla direttrice del museo Germana Barone, entrambi docenti dell’Università di Catania, l’esposizione offre ai visitatori un esaustivo scorcio della storia di Hammurabi, sovrano babilonese di origine amorrea che, nel XVIII secolo a.C., riuscì, tra guerre ed alleanze, a riunificare la Mesopotamia sotto il dominio babilonese e ad assumere il titolo di “Re delle quattro parti del mondo”, la più alta titolatura del mondo vicino-orientale antico.

Un viaggio alla scoperta di una delle personalità più brillanti della storia antica, il cui lascito, tutt’oggi, costituisce le fondamenta del nostro mondo.

Celebre per la sua raccolta di leggi, il famoso Codice di Hammurabi, egli diventa migliaia di anni dopo il protagonista di una mostra che propone reperti forniti da altre realtà culturali quali il British Museum di Londra, il Louvre di Parigi, il Pergamonmuseum di Berlino e il Museo reale di Torino.

 

La stele di diorite, alta 2,25 m, su cui è inciso il Codice di Hammurabi
Fonte: https://www.worldhistory.org/image/14341/code-of-hammurabi/

Con il sostegno di questi celebri musei, viene proposta ai visitatori una riproduzione accurata della stele, oltre ad una serie di reperti archeologici della prima dinastia babilonese ritrovati negli scavi del 1850 a Tell Muhammed e riproduzioni fotografiche delle varie campagne di scavo condotte nel sito iracheno.

L’esposizione, totalmente gratuita, sarà fruibile fino all’11 febbraio dal lunedì al giovedì alle ore 09:00-13:30, 14:30-17:30; venerdì ore 09:00-13:30.

L’iniziativa, di respiro internazionale, volta a finalizzare le ricerche archeologiche, che dal 2022 sono condotte da un gruppo di ricercatori universitari catanesi, il Baghdad Urban Archaeological Project, rappresenta certamente un percorso di formazione e arricchimento culturale imperdibile che dipana le ombre di un mondo, alla fine, non tanto lontano dal nostro.

 

Sulle orme del re

Nel pensar comune, un sovrano che si rispetti deve essere un dominatore di popoli, un temerario condottiero che sottomette con la forza regni vicini e lontani. Chi non conosce Hammurabi cade nella tentazione di ritenerlo, in quanto sovrano ricordato dalla tradizione (perciò importante), un militarista.

Le campagne militari di Hammurabi effettivamente riuscirono ad unificare un territorio discretamente ampio, rendendo città un tempo fiorenti capitali, come Eshnunna o Uruk, semplici capoluoghi provinciali. E se, da un lato, la conquista babilonese del Paese di Sumer, la zona meridionale della Mesopotamia, costituisce un interessante esempio di intraprendenza militare e abilità burocratiche, dall’altro, però, non costituisce un forte vincolo per la figura storica di Hammurabi. Le sue campagne militari si svolsero negli ultimi anni del suo regno, e non ne costituiscono la centralità.

L’azione del sovrano amorreo (amorrea è l’etnia della stirpe di Hammurabi, re di Babilonia) si condensò, oltre a iniziative sociali di cui la famosa stele ne è l’esempio più tangibile, anche in altre due diverse direzioni: potenziamento delle capacità produttive del regno e unificazione del patrimonio religioso locale.

La crisi agricola che colpì la Bassa Mesopotamia nel XIX secolo a.C. obbligò i sovrani a interessarsi personalmente al miglioramento dei sistemi di produzione. Hammurabi si impegnò a far defluire il flusso delle acque diretto verso sud, con una serie di ristrutturazioni dei canali, in modo da contrastare l’eccessiva salinizzazione del suolo che ne limitava la capacità produttiva.  Questi miglioramenti, insieme ad una colonizzazione diffusa (il re assegnava personalmente le terre ai veterani al termine delle campagne belliche), riuscirono a contenere le difficoltà economiche del regno.

Un particolare contributo, forse il più interessante, diede il sovrano babilonese all’introduzione, nel panorama religioso locale, del culto di Marduk, dio della città di Babilonia. La sua è una vera ristrutturazione del pantheon mesopotamico, per cui diverse divinità vengono equiparate, altre messe in secondo piano, tutte quante sotto la luce del dio Marduk.

Cos’altro vi è più potente della politica e del denaro per unire gli uomini, se non la religione? Collocare un dio locale a capo degli dèi mesopotamici, imponendone la devozione, è un processo complesso e rischioso che otterrà piena maturazione solo con il sovrano Nabucodonosor I, diversi secoli dopo.

Hammurabi di Babilonia fu uno dei più importanti regnanti della storia antica, una personalità a cui molti sovrani posteri si ispirarono per governare i loro regni. Il suo lignaggio, difficilmente emulato dai posteri, resta tutt’oggi oggetto di dibattito tra gli studiosi.

 

Bibliografia:
Mario Liverani, Antico Oriente: storia, società, economia. Laterza, 2009.
Federico Giusfredi, Il Vicino Oriente antico: breve storia dalle origini alla caduta di Babilonia. Carrocci, 2020.

 

Nietzsche è ancora vivo e probabilmente ascolta Jazz

Un gigante tra passato e presente

Sebbene sia ormai morto da quasi duecento anni, Friedrich Nietzsche ha scosso le fondamenta della Filosofia contemporanea, provocando grande divisione, nel corso degli anni, tra i suoi più accaniti sostenitori e coloro che non sopportano la brutale onestà con cui la sua oscura penna sputa sentenze sulla bianca carta dei libri.

Un solo aspetto del celebre filosofo nichilista riesce a mettere d’accordo tutti: egli rappresenta un punto di non ritorno nella storia della Filosofia. Il grande successo delle sue opere è sicuramente dovuto alla grande attualità dei temi affrontati: il modo che ha l’uomo di fronteggiare il dolore, la sottile linea che separa la fede cieca dall’illusione e il contrasto tra la morale imposta dalla società e la volontà del singolo individuo sono soltanto alcune delle tematiche che Nietzsche tratta nelle sue opere.

Possiamo dunque affermare che il pensiero di Nietzsche non va relegato al semplice studio accademico, bensì va considerato come un importante chiave di lettura per l’esistenza dell’essere umano in tutte le epoche.

L’apollineo contro il dionisiaco

Il concetto su cui si basa l’intera concezione che Nietzsche ha dell’universo che ci circonda è lo scontro tra l’apollineo e il dionisiaco.

Apollo era il dio greco delle arti e dei canoni, simbolo della razionalità umana. Dioniso era un dio introdotto dai greci nei loro culti a causa di influenze dei popoli asiatici con cui si sono rapportati nel corso del tempo.

Dioniso, a differenza di Apollo, non rispetta alcun canone. Non è razionale, bensì si abbatte sugli uomini come un vento impetuoso. Li spinge ad abbandonarsi ai loro istinti più primitivi, li fa sprofondare nella tentazione e li mette in contatto con la natura.

Inutile dire che la totale irrazionalità di Dioniso non può che divorare le fragili regole imposte da Apollo agli uomini.

Per Nietzsche, dunque, il mondo è stato, è e sarà sempre Dioniso e la sofferenza umana è dovuta dalla difficoltà che l’uomo ha ad accettare il disordine.

All’inizio del secolo scorso è nato un nuovo genere musicale che come tema centrale ebbe proprio il disordine: il Jazz.

Tra ordine e caos: il Jazz

Quando la popolarità di un nuovo genere musicale chiamato Jazz (si pensa il nome derivi da un vocabolo francese che richiama una sensazione di allegria e movimento) esplose a New Orleans, intorno al 1915, Friedrich Nietzsche era già morto da quindici anni.

Ci sono, però, incredibili somiglianze tra il messaggio contenuto nella filosofia di Nietzsche e la musica Jazz.

Questo nuovo genere musicale ha da subito colpito il pubblico per l’utilizzo di svariati virtuosismi e scale musicali alternative, capaci di suscitare nell’ascoltatore un grande senso di disordine e caos. Un richiamo verso gli istinti primordiali dell’uomo, un innato senso di movimento che getterebbe nella confusione anche la più razionale delle menti.

Il Jazz fa uso di un attento studio di scale musicali e virtuosismi per veicolare verso le orecchie dell’ascoltatore quella che è la natura umana: il disordine.

Proprio lo stesso senso di disordine e spaesamento si trova all’inizio del percorso che, secondo Nietzsche, deve portare l’uomo a diventare Übermensch, ovvero oltre-uomo.

La tappa iniziale di questo arduo cammino è segnata dalla morte di Dio, ovvero dalla morte di ogni certezza metafisica. Che essa sia una cieca fede in qualsivoglia religione o un’incrollabile fede nella scienza e nel progresso, ogni convinzione che serva a portare avanti il fragile ottimismo dell’uomo nei confronti della vita è destinata a crollare di fronte alla brutale verità. L’esistenza è sofferenza. L’uomo non può fare uso di alcun costrutto razionale per consolare sé stesso.

La musica come linguaggio universale

E coloro che furono visti danzare, vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica.

Nietzsche F., La gaia scienza e idilli di Messina

Con questo aforisma della Gaia scienza, una delle sue più celebri raccolte di aforismi, Nietzsche evidenzia innanzitutto la centralità della musica come linguaggio nell’esistenza umana.

Come affermato da lui stesso ne La nascita della tragedia, una delle sue prime opere, la musica è uno dei pochi mezzi di cui l’uomo dispone per «andare in concerto di fronte alla propria anima», comprendere sé stesso in modo autentico e senza alcun filtro esterno, libero dai dettami morali di una società schiava delle illusioni.

In un mondo in cui gli uomini cercano disperatamente la consolazione, tramite mezzi razionali che non hanno alcuna efficacia, la musica è un’arte comunicativa, svincolata dalla parola umana, che necessita della conoscenza preliminare di una lingua per essere compresa. Ma arriva in modo diretto all’ascoltatore, suscitando immediatamente sensazioni forti e innate nell’anima umana.

Proprio partendo dall’evoluzione nella concezione greca delle opere teatrali, Nietzsche effettua un’approfondita disamina del cambiamento del rapporto tra l’uomo e il disordine.

Mentre, in un periodo iniziale della produzione di tragedie in Grecia, l’uomo si rapportava in modo diretto e spietato col dolore, come vorrebbe il Dioniso, in un secondo momento la tragedia greca è stata appesantita da artifici scenici ed elementi narrativi come il deus ex machina. Greci hanno dunque provato ad introdurre Apollo nella loro produzione tragica, allontanandosi dalla comprensione della vita come puro caos.

Il viaggio dell’uomo: dal dolore all’accettazione

Risulta quasi immediato il passaggio della centralità del caos, come base dell’esistenza e della sofferenza, nella filosofia di Nietzsche, alla centralità del disordine e dell’apparente insensatezza nei componimenti Jazz.

L’aggettivo apparente non è usato in modo superficiale: c’è un attento studio schematico dietro la musica Jazz, proprio come c’è una parvenza di ragione nel caos della filosofia di Nietzsche.

Senza anni di teoria musicale e senza lo studio delle complicate scale che ne costituiscono le fondamenta, sarebbe impossibile comporre un pezzo Jazz.

Allo stesso modo Nietzsche individua una via di fuga dalla ripetitività della sofferenza nell’esistenza umana. Una volta constatato il tramonto di tutte le certezze (la morte di Dio), l’unico modo che ha l’uomo per andare avanti è costruire i propri valori, obbedire unicamente alla propria morale, in modo tale da diventare oltre-uomo. Tutto ciò deve avvenire secondo una ragione interna all’uomo, che apre le porte al concetto di prospettivismo: non esiste qualcosa di oggettivamente giusto, ma i concetti di buono cattivo dipendono dalla prospettiva soggettiva da cui vengono osservati.

Filosofia e musica: la cura per l’anima

Gli anni della pandemia e del lock-down hanno gettato la società nel silenzio più totale. Non si sentiva alcun veicolo circolare in strada, niente serate nei locali, nessun evento sociale che coinvolgesse grandi gruppi di persone. Il silenzio assoluto.

Noi, in quanto esseri umani, abbiamo provato un grande sconforto nel vedere una società figlia del positivismo e della razionalità collassare su sé stessa.

Tutto ciò che la ragione aveva costruito stava crollando davanti ai nostri occhi e noi non potevamo accettarlo.

Ciò che venne teorizzato da Nietzsche nel XIX secolo non fa che ripetersi ciclicamente. Le convinzioni che l’uomo costruisce tramite la ragione crollano una dopo l’altra al presentarsi di nuovi problemi, causandoci sofferenza.

Negli anni del covid-19, è stata proprio la musica ad avere un ruolo centrale nella vita della maggior parte della popolazione globale.

Nietzsche continua a spronarci a trovare il nostro equilibrio personale nel caos, e il mezzo più potente che abbiamo per farlo è sicuramente la musica.

Possiamo, dunque, concludere, alla luce della grande attualità del suo pensiero, che Nietzsche è ancora vivo e probabilmente ascolta Jazz.

Bibliografia:
Nietzsche F., Così parlò Zarathustra, Firenze, Giunti, 2021
Nietzsche F., Genealogia della morale, Trento, Rusconi, 2023
Nietzsche F., La gaia scienza, Milano, Adelphi, 1977
Nietzsche F., La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1977
Nietzsche F., Tutto sarà allora Dioniso, Firenze, Giunti, 2023
Storia del Jazz: https://www.elegancecafe.it/storia-del-jazz-le-origini/?srsltid=AfmBOoo1hBV-T2HUjr8EJEswe2wLtnOsIL_4HW0Vbvl00RPX0mvD558y

 

Berlinguer: la grande ambizione – L’uomo oltre il politico

Berlinguer: La Grande ambizione
Berlinguer: la grande ambizione racconta la storia di un partito e di un uomo in maniera oggettiva – Voto UVM 4/5

Berlinguer: la grande ambizione è un biopic di Andrea Segre con protagonista Elio Germano. Presentato in anteprima all’apertura della Festa del Cinema di Roma 2024, ha già superato i tre milioni di incassi al box office. Proprio al festival romano, Germano è riuscito a portarsi a casa il premio come miglior attore, a testimonianza dell’ottima interpretazione portata in scena.

La Grande Ambizione: non solo storia, ma anche società

Il film si ambienta fra il 1973 e il 1978, anni dove il Partito Comunista Italiano vive il suo miglior periodo in termini elettorali. Il protagonista è, come suggerisce il titolo, Enrico Berlinguer, segretario del PCI all’indomani del golpe in Cile contro Salvador Allende. In piena guerra fredda, neanche l’Italia vive tempi sereni: è infatti reduce dai movimenti del ‘68, dove studenti e operai si mobilitarono in massa. Ad aggravare la situazione di inizio degli anni ’70 sono le violenze di carattere politico perpetrate dalle organizzazioni terroristiche. Queste continueranno per tutto il decennio, che verrà ricordato come il decennio degli “anni di piombo”. In questa intricata tela sociale, Berlinguer deve anche riuscire a distaccarsi dell’Unione Sovietica, che vede nel suo modello di stato l’unica via per il socialismo.

Dopo i fatti in Cile, per timore di una deriva antidemocratica anche in Italia, Berlinguer teorizza la sua grande ambizione, il compromesso storico. Capisce che per arrivare al governo non bastano i consensi, ma è necessaria un’alleanza con gli altri partiti sorti dalla resistenza antifascista. Il quadro politico della prima repubblica è infatti influenzato dalla conventio ad excludendum, una legge non scritta che esclude a priori le forze di sinistra dagli accordi di governo. Berlinguer quindi ambisce all’apertura al fine di instaurare un dialogo con i democristiani, altra principale forza popolare, in carica dalla nascita della repubblica.

Berlinguer: La Grande Ambizione
“Un italiano su tre vota comunista!” – Fonte: esquire.com

Nonostante un attentato fallito da parte dei servizi segreti bulgari, con il quale il film si apre, continua comunque imperterrito per la sua strada. Riuscirà pian piano, come vedremo, a separarsi anche pubblicamente dal giogo di Mosca, affermando il partito come forza democratica. Seguendo il segretario nel suo tragitto, incontriamo altri maggiori esponenti del PCI: Pietro Ingrao, Ugo Pecchioli, Nilde Iotti e molti altri. Questi lo affiancano nelle sue visite alle fabbriche popolari o durante i grandi comizi, credendo in Berlinguer tanto quanto credono nel loro ideale politico comune.

Il film però non ci parla solamente del Berlinguer politico. Accanto alla vita politica, c’è quella privata composta dalle figure della moglie Letizia Laurenti e dei quattro figli Bianca, Maria Stella, Marco e Laura. Il ruolo di Enrico si fa quindi duplice: non solo funzionario maggiore di partito, ma anche padre di famiglia e fedele marito. Purtroppo le due vite sono difficilmente sovrapponibili, con la prima che toglie continuamente spazio all’altra con suo grande rammarico. Nei rapporti con la famiglia però la politica non manca affatto: vengono infatti continuamente dibattuti accadimenti e questioni dell’epoca.

La Grande Ambizione: l’altra Italia di Berlinguer

L’Italia raccontata in Berlinguer – La grande ambizione, quella della “prima repubblica”, è sì lo spaccato di una società diversa dalla nostra, ma che non è troppo distante. La differenza più evidente sta proprio nel coinvolgimento popolare nella politica. Questa è molto più partecipata e sentita rispetto ad oggi, a testimonianza del fatto che il tema dell’affluenza è oggi più centrale che mai. Impressionante è ad esempio la scena finale che mostra il funerale del segretario. Il corteo che si forma per rendergli onore è immenso e anche le emozioni viste in sala testimoniano quanto sia cambiata la situazione.

Berlinguer: La Grande Ambizione
Festa dell’Unità di Firenze, 1975 – Fonte: iodonna.it

Berlinguer, come mostrano le scene, si batte fino all’ultimo per un comunismo dal volto umano, volto a portare il volere dei lavoratori in alto. Quando Andreotti, in occasione della formazione del suo terzo governo spera di convincerlo, lui risponde “non è me che dovete convincere, ma i lavoratori”. Attraverso interviste e testimonianze, il film mostra anche un uomo riservato e profondamente etico, che riuscì a conquistare la fiducia di molti italiani. La pellicola invita a riflettere sulla politica di oggi, sull’assenza di figure di simile statura morale e sulla necessità di rinnovamento della società odierna.

Giuseppe Micari

Simòn Bolìvar, ”El Libertador” d’America

Simòn Bolìvar, proclamato ”El Libertador” del Sud America, è una delle personalità più affascinanti e complesse della storia dell’umanità. Il mito e la realtà si fondono nella storia della sua persona e delle sue gesta. La sua stessa vita venne definita esemplare da Santiago Key-Ayala, in un saggio a lui dedicato.

Simòn Bolìvar nacque nel 1783 nella città di Caracas, all’epoca parte del Vicereame della Nuova Granada (territori che oggi sono compresi dentro gli Stati odierni di Panama, Colombia, Ecuador, e Venezuela). Fu un sincero patriota sudamericano e si distinse non soltanto come generale, ma anche come scrittore, politico, statista e tribuno.

Segnato nel profondo fin dall’infanzia dalle vicissitudini della sua vita personale, vide sempre negatagli dalla vita gli affetti di cui ogni essere umano ha bisogno durante la propria esistenza. Bolìvar reagì con la ricerca di un obiettivo all’altezza di dare un senso alla sua vita. Scelse senza mai pentirsene di dedicare la sua esistenza alla causa della liberazione del Sud America dalla dominazione spagnola.

La figura del ”Libertador” sembrerebbe uscita dalla penna di Gabriel Garcìa Màrquez, il cui inchiostro ha dato vita al romanzo ”il generale nel suo labirinto” dove il protagonista è proprio Bolìvar.

La figura storica di Simòn Bolìvar fu talmente audace che la sue azioni sono al pari di una leggenda. Le pagine del romanzo di Màrquez rendono proprio l’idea del genere letterario di cui il premio nobel per la letteratura è uno dei massimi esponenti, ovvero il realismo magico.

Nella vita di Bolìvar, oltre che nel suo pensiero e nelle sue azioni, vi è tanto realismo quanto magia. La magia dei sogni, degli ideali, dei valori che hanno infiammato lo spirito sia di Bolìvar che lo spirito del  tempo.

 

Una vita in cui l’amore è morto

Figlio di genitori aristocratici creoli, appartenenti a due importanti casate fondatrici della città di Caracas (oggi capitale della Repubblica Bolivariana del Venezuela), Simòn Bolìvar venne privato dell’affetto fin da bambino. La vita lo rese orfano del padre al suo terzo anno di vita, e all’età di nove perse anche la madre.

Rimasto orfano, ereditò ampi possedimenti nell’allora Vicereame della Nuova Granada. Per via della giovane età venne affidato a suo nonno, da cui scappò a dodici anni per via del suo carattere ribelle. Andò a rifugiarsi dalla sorella María Antonia.

Successivamente, in seguito a una disputa legale su chi dovesse amministrare l’eredità del bambino, Bolìvar venne forzatamente trasferito nella casa di un insegnante, Simòn Rodrìguez. La figura di questo maestro sarà fondamentale per la formazione culturale e lo sviluppo della personalità di Bolìvar.

All’età dei suoi sedici anni, nel 1799, morì il nonno.

In seguito, venne imbarcato verso la Spagna per ricevere gli insegnamenti necessari per un giovane del suo rango, destinato a governare gli ampi possedimenti per conto della corona di Spagna.

Una volta giunto a Madrid, iniziò a studiare. Lingue straniere, danza, matematica, equitazione e storia.

 

Orfano e vedovo prematuramente

Durante il suo soggiorno a Madrid, conobbe e si innamorò perdutamente di  María Teresa Rodríguez del Toro, la quale sposò nel 1802.

Dopo le nozze decise di tornare a Caracas, ormai adulto, era giunto il momento di prendersi cura dei suoi possedimenti.

Pochi mesi dopo il suo ritorno nel nuovo mondo, però, la sua amata moglie fu colpita dalla febbre gialla, che la uccise.

Questa perdita devastò il cuore del Simòn Bolìvar. Fu forse questo avvenimento che assunse il ruolo di spartiacque tra quello che era stata la sua vita fino a quel momento e l’uomo che sarebbe divenuto.

Probabilmente, la storia di Simòn Bolìvar e di tutto il Sud America sarebbe stata completamente diversa se egli non avesse perso la sua giovane sposa.

 Bolìvar, devastato, giurò che non si sarebbe mai più sposato. Fu il suo primo e ultimo amore.

 

La ricerca di un senso degno per la propria vita 

Orfano, vedovo e svuotato di ogni scopo, Bolìvar si imbarcò nuovamente verso la Spagna.

Dopo poco tempo, tuttavia, decise di trasferirsi a Parigi, per scappare dai ricordi dell’amata scomparsa che lo seguivano in ogni angolo delle strade di Madrid.

Giunto a Parigi, si lasciò andare a una vita dissoluta, attingendo al suo patrimonio fino a che non fu raggiunto da una notizia. Il  suo caro ex maetro di Caracas, Simòn Rodrìguez, si trovava anch’egli a Parigi.

Bolìvar lo incontrò e Rodrìguez lo persuase dal buttar il tempo della sua vita nell’effimero, spingendolo a studiare i grandi pensatori del suo tempo, ovvero Montesquieu, Rousseau, Voltaire e gli enciclopedisti.

Fu forse anche lo studio di questi autori che contribuì a rendere Simòn Bolìvar la figura  scolpita nel granito della storia.

 

Il viaggio in Italia e il giuramento sull’Aventino

Rodrìguez, amico e maestro di Bolìvar, gli propose di intraprendere un viaggio insieme per l’Italia, convincendolo che lo avrebbe aiutato a superare la fragilità emotiva che lo attanagliava. Fu proprio in Italia che due eventi cambiarono le prospettive per il futuro del giovane Bolìvar.

Il primo di questi fu l’incontro ravvicinato a Milano con il suo ammirato eroe, Napoleone Bonaparte, all’epoca Re d’Italia. Presto, però, lo rinnegò e criticò aspramente, quando, nel 1804, fu incoronato Imperatore di Francia a Parigi, tradendo agli occhi di Bolìvar gli ideali rivoluzionari che animavano lo spirito del tempo ed avevano entusiasmato il giovane aristocratico ispano-americano.

Successivamente, proseguì il suo viaggio in Italia giungendo nella Città Eterna. Qui vi è il racconto, forse un po’ romanzato dallo stesso Rodrìguez, che diede inizio alla simbiosi tra realtà storica e leggenda.

Il maestro e l’allievo si recarono sul monte sacro dell’Aventino a Roma e proprio lì, secondo il maestro di Caracas, Simòn Bolìvar pronunciò un giuramento, un voto per  il quale spenderà tutta la sua vita e i suoi averi.

Lì, sul monte dell’Aventino,  pronunciò:

                                        Non darò riposo al mio braccio né alla mia spada fino al giorno in cui spezzeremo le catene del dominio spagnolo che ci opprime.

 

Monumento dedicato a Simòn Bolìvar, situato a piazzale Simòn Bolìvar, RomaFonte: https://www.sovraintendenzaroma.it/sites/default/files/Bolivar_1_1024x512.jpg
Monumento dedicato a Simòn Bolìvar, situato a piazzale Simòn Bolìvar, Roma
Fonte: https://www.sovraintendenzaroma.it/sites/default/files/Bolivar_1_1024x512.jpg

Il sottile filo della storia che collega passato e presente

Vi è un sottile filo conduttore, un filo storico-culturale dell’epoca di cui scrivo, che ha rilegato la storia dei popoli del mondo. Un filo conduttore che ci guida fino alle società in cui viviamo oggi.

Questo filo inizia con la Rivoluzione francese e la Guerra d’Indipendenza nordamericana, e si collega direttamente alle guerre d’Indipendenza sudamericane condotte da Simòn Bolìvar e gli altri protagonisti.

Questo filo non si è mai spezzato. Si è spostato in lungo e in largo nel mondo, tornando, ad esempio, in Italia, con le guerre d’indipendenza risorgimentali contro il dominio austriaco, e ha continuato fino alla storia moderna, con le guerre d’Indipendenza che hanno portato alla decolonizzazione europea dell’Africa e dell’Asia, tra le due guerre mondiali fino alla fine del XX secolo.

Un filo che continua a essere il filo che rilega le pagine dell’immenso libro della storia del mondo. Un filo che rilega al giorno d’oggi il capitolo della quasi secolare lotta per l’indipendenza della Palestina.

È il filo d’oro dell’autodeterminazione dei popoli.

L’inizio della liberazione Sud Americana

Mappa illustrativa del sistema coloniale europeo nel mondo conosciuto nel XVIII secolo all'alba delle guerre d'indipendenza americane
Mappa illustrativa del sistema coloniale delle potenze europee e del traffico di merci e schiavi da e per le colonie all’alba delle guerre d’indipendenza americane.
[Carta di Laura Canali] https://www.limesonline.com/carte/colonie-europee-traffici-rotte-14656194/

Nel 1806, il patriota venezuelano Francisco de Miranda diede avvio al primo tentativo di liberazione del Sud America. Miranda tentò di liberare la città di Coro, situata vicino la costa venezuelana, ma non ebbe successo. La sua iniziativa, però, fece divampare ancora di più la fiamma del sogno di Bolìvar, che decise di ritornare nella terra patria per dedicare la sua vita al giuramento fatto.

Le concomitanze geopolitiche dell’epoca giocarono a favore dei patrioti ispano-americani, in quanto, nel 1808, Napoleone pose la corona di Spagna sulla testa di suo fratello Giuseppe. Questo atto scatenò una guerra nella penisola iberica che sconvolgerà la Spagna fino al 1814.

La guerra indebolì il potere, l’influenza e la deterrenza spagnola nei territori d’oltre mare.

Le notizie della lotta per il trono spagnolo diedero ulteriore spinta agli ideali indipendentisti che andavano maturando in tutto il Sud America.

Nel 1810, a Caracas, nacque il movimento secessionista, l’anno successivo la città di Caracas dichiarò la sua indipendenza dalla corona di Spagna.

L’ascesa di Bolìvar in politica e nei campi di battaglia

Fu con la creazione della Repubblica di Caracas e la firma dell’atto d’Indipendenza che Bolìvar iniziò a farsi notare.

I suoi interventi fortemente indipendentisti e radicali non passarono inosservati. Inoltre, si unì all’esercito di Francisco de Miranda, con il ruolo di colonnello, per difendere la neonata Repubblica dalla reazione spagnola.

La prima esperienza repubblicana però non superò il biennio. L’esercito realista spagnolo, meglio armato e addestrato, sconfisse i repubblicani venezuelani.

Nella sconfitta pesò anche un errore commesso dall’inesperto Bolìvar, che perse la piazza di Puerto Cabello, dove i repubblicani conservavano la loro scorta di armi e munizioni.

Impossibilitati nella continuazione della guerra, il generale Miranda trattò la capitolazione con gli spagnoli e pose fine all’esperienza della Prima Repubblica Venezuelana.

 

L’assunzione della leadership indipendentista e la “Campagna ammirabile”

L’accettazione senza riserve di tutti i termini della capitolazione, imposti dagli spagnoli al generale Miranda, provocò la fine dell’ammirazione e fiducia da parte dei suoi sottoposti compreso lo stesso Bolìvar che vide in questa condotta una sorta di tradimento alla causa indipendentista. Miranda fu così deposto dalla guida rivoluzionaria e arrestato. Lo stesso Bolìvar partecipò al suo arresto, avvenuto il 31 luglio 1812. Miranda morirà nella prigione Spagnola di La Carraca a Cadice, nel 1816.

Simòn Bolìvar aveva fatto un giuramento e non si diede per vinto. Nel 1812, scappò a Curaçao e nello stesso anno si trasferì a Cartagena de Indias. Il suo progetto era liberare sia la Venezuela che la Nuova Granada.

Proprio a Cartagena, Bolìvar scrisse uno dei suoi più importanti testi politici, il “Manifesto di Cartagena“, nel quale propose la riconquista di Caracas come passo fondamentale per la liberazione dell’intero continente sudamericano, da cui sarebbe dovuto nascere un grande stato unitario chiamato Gran Colombia.

Sulla base ideologica del manifesto di Cartagena, radunò un esercito.

Il 14 maggio 1813, attraversò a cavallo le Ande, conseguendo una vittoria dopo l’altra. Una marcia, tra audacia e strategia, che ricordò quella di Annibale, questa impresa fu chiamata la ”campagna ammirabile”.

In appena tre mesi, entrò trionfalmente nella città di Caracas.

Bolìvar era il capitano generale degli eserciti della Nuova Granada e Venezuela e la città di Caracas gli conferì il titolo di ”Libertador”.

Ebbe così inizio la Seconda Repubblica di Venezuela.

 

Ande venezuelane
Ande Venezuelane
Fonte: https://lacgeo.com/sites/default/files/valle_de_mifaf%C3%AD_opt.jpg

 

Tra nemici interni ed esterni si spegne la Seconda Repubblica di Venezuela

Conclusasi l’ebrezza della vittoria, Bolìvar  si trovò ad affrontare i gravi problemi in cui versava la nuova Repubblica di Venezuela. Mancanza di organizzazione, anarchia, rivalità interne e sete di potere nel nuovo Stato crearono coalizioni di nemici interni, i quali si sommarono alla minaccia Spagnola che era ancora ben lontana dall’essere debellata.

Alla fine, la situazione per Bolìvar e i suoi fedeli fu insostenibile e fu costretto ad emigrare nell’Est del paese, seguito da quasi tutta la popolazione di Caracas.

Fu la fine della Seconda Repubblica di Venezuela.

I viaggi dalla Colombia alla Jamaica fino all’isola di Haiti e la lotta alla schiavitù

Bolìvar era stato sconfitto, ma in cuor suo aveva perso una battaglia, non la guerra.

Così, si spostò a Cartagena e poi a Bogotà.

Ormai, Bolìvar era ridotto in povertà, avendo speso tutte le sue fortune per la causa indipendentista.

Decise di imbarcarsi per la Jamaica e giunse alla città di Kingston. Era in cerca di appoggio finanziario e militare dalla corona inglese.

Nell’attesa della risposta inglese, decise di partire alla volta della giovane Repubblica di Haiti, che aveva ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1804, divenendo il secondo Stato indipendente delle Americhe dopo gli Stati Uniti.

Haiti fu il primo Stato nato da una rivoluzione anti-schiavista, portata avanti proprio da un gruppo di schiavi liberati che si opposero al sistema schiavista francese e al suo sistema coloniale.

Fu proprio la missione di abolire la schiavitù in tutte le Americhe e liberarle dal gioco coloniale europeo che il Presidente haitiano, Alexandre Pétion, offrì rifugio a Bolìvar e appoggiò la sua causa indipendentista, fornendogli un generoso aiuto in uomini e mezzi.

L’aiuto venne concesso a patto che Bolìvar abolisse la schiavitù in tutto il Sud America.

Bolìvar divenne anch’egli un fervente rivoluzionario, non solo in chiave anti-coloniale ma anche anti-schiavista.

Bolìvar, forte dell’appoggio haitiano, salpò alla conquista dell’isola venezuelana di Margarita.

Il 16 giugno 1816 dichiarò l’abolizione della schiavitù in tutta la Venezuela e ottenne, di riflesso, l’appoggio della popolazione nera, che si arruolò nelle file repubblicane.

La battaglia di Vertières, tra haitiani e francesi
La battaglia di Vertières

La liberazione della Nuova Granada e  Venezuela e la creazione della Gran Colombia

Nel 1817, Bolìvar era riuscito a dare nuovamente slancio alla causa indipendentista.

Conquistò la regione venezuelana della Guayana, rendendola una roccaforte repubblicana inespugnabile. Lì, fondò il giornale ”Correo del Orinoco”, che fu pubblicato dal 1818 al 1821.

Stampato nella città di Angostura (oggi Ciudad Bolìvar), sarà il primo giornale sovrano di tutto il Sud America e le sue copie verranno diffuse anche in Europa.

Sempre nella città di Angostura, nel 1819, convocò un congresso dove pronunciò il più celebre dei suoi discorsi politici.

Organizzò un nuovo esercito indipendentista, forte di tremila uomini, e consacrò alla storia per una seconda volta la sua audacia.

Replicò la traversata del 1813 delle Ande, durante la stagione delle piogge. La sua strategia si rivelò vincente e colse alla sprovvista gli spagnoli, che furono sconfitti nella battaglia decisiva di Boyacá, il 7 agosto 1819.

Il 10 agosto Bolìvar entrò trionfalmente a Bogotà. La Nuova Granada era stata liberata.

Bolìvar tornò nella sua roccaforte di Angostura e riuscì a far approvare una nuova Costituzione, dando vita alla Repubblica di Colombia (o Gran Colombia).

La nuova repubblica accorpava i territori di quello che oggi sono la Venezuela e la Colombia odierna. Tuttavia la Venezuela rimaneva ancora sotto il dominio spagnolo.

Nel 1821, l’esercito indipendentista sconfisse gli spagnoli nella pianura di Carabobo, vicino Caracas, consacrando l’indipendenza venezuelana dalla Spagna per la terza volta.

Successivamente, fu indetto il congresso di Cúcuta, che elesse Bolìvar Presidente della Colombia e gli conferì ampi poteri esecutivi, ratificando il suo modello di Stato centralizzato che scongiurava gli estremi sia della monarchia sia dell’anarchia democratica.

 

La cacciata definitiva degli spagnoli dal Sud America

Le ambizioni di liberazione di Bolìvar non erano terminate.

Insieme ai suoi più fidati generali, liberò i territori dell’attuale Ecuador, Bolivia e Perù.

In concerto con un altro rivoluzionario e patriota sudamericano, l’argentino José de San Martín, che liberò il Cile e l’Argentina dal gioco spagnolo.

Alla fine del 1824, si concludevano le guerre d’indipendenza sudamericane, combattute contro gli spagnoli nell’arco di dodici anni.

Gli spagnoli non riconquisteranno mai più territori sudamericani continentali e, entro la fine del secolo, perderanno gli ultimi possedimenti insulari di Cuba e Puerto Rico.

 

La guerra contro il colonialismo era finita, ma quella per il potere interno era appena iniziata

Bolìvar vide il  sogno a cui aveva dedicato la vita realizzarsi nel concreto. Era all’apice della sua popolarità. Lui, il Libertador di tutto il continente sudamericano, era celebrato in tutte le città.

Ben presto, però, molti dei suoi amici divennero nemici. Iniziarono a formarsi fazioni contrapposte e intrighi.

La Gran Colombia, da lui presieduta, comprendeva la metà settentrionale del Sud America. Gli attuali stati di Venezuela, Colombia, Ecuador, Panama, Perù e Bolivia, liberati da lui e dal suo fidato generale Sucre. Bolìvar, però, andò ancora oltre.

Già presidente della Gran Colombia, sognava una “lega americana” che avrebbe unito le sue repubbliche con gli altri stati ispano-americani indipendenti (Messico, Cile e Argentina). Sognava una federazione che avrebbe avuto una propria presenza nella politica internazionale, capace di contare sullo scacchiere geopolitico e confrontarsi alla pari con le potenze europee, come iniziavano a fare i giovani Stati Uniti nordamericani.

 

La fine di un sogno e la frammentazione in piccoli stati sud americani

El Libertador fu accusato dai suoi rivali di aspirazioni imperiali. I suoi ex compagni d’armi rivendicavano per se stessi il potere nelle nuove repubbliche costituite.

I suoi rivali interni fecero franare il sogno di Bolìvar. Era esausto dei numerosi attentati alla sua persona e di una vita in lotta per un sogno che sì, era suo, ma anche del popolo sudamericano che tanto amava.

Decise così di arrendersi alle lotte intestine che stavano corrodendo la nuova società costituita. Frustrato dagli eventi, dichiarò di

”aver arato il mare”.

Nel gennaio del 1830, rassegnò le dimissioni definitive da Presidente della Gran Colombia e si ritirò dalla scena pubblica.

Nel giro di pochi mesi, la sua Gran Colombia si sciolse e sorsero dalle ceneri una serie di staterelli indipendenti governati da leader militari, tradizione sudamericana che continuò fino e per tutto il ‘900.

 

La fine di Simòn Bolìvar

Fedele a se stesso e alle sue parole, come uomo d’altri tempi quale è stato, Bolìvar dedicò la sua vita e il suo intero patrimonio a mantenere il giuramento prestato al suo maestro ai piedi dell’Aventino.

Morì a Santa Marta il 17 dicembre 1830, a quarantasette anni. In povertà, lontano dalla vita pubblica, calunniato dall’accusa di mire imperiali. Perseguitato in maniera accanita dai suoi nemici invidiosi della sua gloria.

L’ultimo desiderio, espresso nel suo testamento politico, rivela il suo valore e la figura storica eccezionale che è stato fino alla fine dei suoi giorni.

El Libertador nelle sue ultime parole scrisse:

Se la mia morte contribuirà alla cessazione delle fazioni e al consolidamento dell’unione, scenderò serenamente nella tomba. 

Così si concluse la storia di Simòn Bolìvar, l’eroe del nuovo mondo, El Libertador che per venti anni a cavallo ha percorso il Sud America per liberare quella terra che per secoli era stata sotto il dominio spagnolo.

Può essere considerato il primo anti-imperialista del continente sudamericano.

 Viva la memoria di  Simòn Bolìvar!

Antonino Giorgio Saffo.

 

Trailer del film The Liberator (2014), basato sulla vita di Simòn Bolìvar, di Édgar Ramírez

Fonti:

https://www.storicang.it/a/simon-bolivar-il-liberatore-dellamerica_16872

Vita esemplare di Simon Bolìvar, Santiago Key-Ayala, Oaks Editrice, 2021

https://it.wikipedia.org/wiki/Sim%C3%B3n_Bol%C3%ADvar

https://it.wikipedia.org/wiki/Jos%C3%A9_de_San_Mart%C3%ADn

https://it.wikipedia.org/wiki/Haiti

https://it.wikipedia.org/wiki/Francisco_de_Miranda

https://www.storicang.it/a/gabriel-garcia-marquez-il-maestro-realismo-magico_16634

 

 

L’umanità e il ciclo della guerra

L’Insegnamento del Dolore

 

Fonte: https://www.elconfidencial.com/cultura/2018-10-23/robert-capa-fotografia-segunda-guerra-mundial-frank-scherschel_1634364/

 

L’essere umano, sin dai suoi albori, ha vissuto l’atrocità della guerra come un marchio indelebile sulla propria storia. 

Le cronache antiche raccontano di battaglie sanguinose e conflitti che hanno segnato il destino di intere civiltà.
Da Omero, che nella “Iliade” descrive il dolore e la perdita di vite umane, a Tolstoj, il cui “Guerra e Pace” offre una riflessione profonda sulla condizione umana in tempo di conflitto. La letteratura ha sempre cercato di catturare l’essenza della sofferenza causata dalla guerra.

Eppure, la storia sembra ripetersi.
Le attuali guerre in Ucraina e Palestina riaccendono la discussione su quanto, realmente, abbiamo imparato dal nostro passato.

Il sangue versato nel corso dei secoli potrebbe suggerire che, in effetti, l’umanità tende a ripercorrere gli stessi sentieri di violenza. L’atroce ciclo della guerra sembra non avere fine, e ci si chiede: perché l’uomo continua a imporsi con violenza?

La risposta è complessa e affonda le radici nella nostra natura.

Come scrisse Erich Fromm, “l’uomo è un animale sociale, ma è anche un animale aggressivo”.

Questa dualità ci porta a esplorare le ragioni che spingono le nazioni e i popoli a risolvere le proprie divergenze attraverso l’uso della forza. L’umanità, anziché apprendere dalla sofferenza, sembra a volte rimanere intrappolata in un ciclo di vendetta e ritorsione.

Il conflitto in Ucraina e la situazione in Palestina evidenziano il dramma di popoli oppressi e combattenti, ognuno con le proprie ragioni, le proprie sofferenze, ma anche le proprie speranze. La questione è se, davanti a tanta desolazione, si possa davvero intraprendere un percorso di dialogo e comprensione reciproca.

Gandhi, con la sua filosofia di non violenza, ci ricorda che “la vera forza non consiste nel colpire, ma nel resistere alla tentazione di farlo”.

Eppure, la tentazione è spesso irresistibile.

Il dolore e la perdita che derivano dalla guerra hanno la capacità di risvegliare in noi una compassione profonda, ma il rischio è quello di trasformare questa empatia in una reazione di difesa e aggressività.

L’insegnamento del passato, quindi, non dovrebbe essere solo un monito, ma un’opportunità di riflessione.

Come scrisse Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”, perché solo attraverso la conoscenza possiamo sperare di spezzare il ciclo della violenza.

Fonte: https://glamourdaze.com/2018/05/heroic-hardass-women-of-ww11.html
Fonte: https://glamourdaze.com/2018/05/heroic-hardass-women-of-ww11.html

Abbiamo la responsabilità di guardare alla storia non solo come un catalogo di atrocità, ma come un insieme di lezioni da apprendere. Ogni conflitto, ogni guerra, dovrebbe insegnarci a cercare alternative alla violenza, a promuovere il dialogo e la pace.

La vera sfida è quella di trasformare il dolore in comprensione, di utilizzare la sofferenza come carburante per costruire ponti anziché muri.

In questo momento critico, in cui la guerra continua a mietere vittime, è fondamentale che l’umanità si fermi a riflettere.

Dobbiamo chiederci: cosa abbiamo imparato? Possiamo costruire un futuro in cui la guerra non sia più una risposta?

La risposta è nelle nostre mani. Solo attraverso il dialogo e la comprensione reciproca possiamo sperare di superare il passato e costruire un mondo in cui il sangue versato non sia stato vano, ma diventi il seme di una nuova era di pace e coesistenza.

 

Soldato in guerra Fonte: https://cherrieswriter.com/bdf1c94a093ab348eec161f2057bfd14/
Fonte: https://glamourdaze.com/2018/05/heroic-hardass-women-of-ww11.html

Nel cuore dell’Europa, dove la storia è costellata di cicatrici profonde, la nostra società si trova oggi di fronte a una sfida cruciale: la difesa dei diritti umani.

Gli eventi che hanno segnato il Novecento ci ricordano che il sangue versato per la libertà non deve essere dimenticato. Ogni passo indietro in termini di diritti civili è un passo verso l’oscurità, un’involuzione che nessuno di noi può permettersi.

In un momento in cui il mondo sembra essere lacerato da conflitti e divisioni, l’Italia deve essere un faro di speranza.

Dobbiamo rispondere all’odio con l’amore, alla paura con la compassione. Ogni persona merita di essere ascoltata, ogni storia merita di essere raccontata. Non possiamo lasciare che la narrazione sia dominata dalla disumanizzazione e dall’indifferenza.

Riflettiamo, dunque, sulle nostre scelte e sul futuro che vogliamo costruire.

L’umanità ha pagato un prezzo altissimo per i diritti che oggi diamo per scontati. Non dimentichiamo, non voltiamo le spalle. Lottiamo insieme per un’Italia che rappresenti davvero tutti, dove il rispetto e la dignità siano i pilastri su cui costruire la nostra società. La nostra voce è potente; usiamola per promuovere la pace e i diritti di ogni individuo.

The Apprentice: il lato di Trump che non vi voleva svelare

The Apprentice non si perde in chiacchiere ed è attuale. Voto UvM: 4/5

 

A poco meno di un mese dalle elezioni presidenziali negli USA, esce nelle sale un film incentrato proprio sulla figura di uno dei due candidati alla Casa Bianca: Donald J. Trump. “The Apprentice – Alle origini di Trump” è stato mostrato in anteprima al Festival di Cannes in quanto concorrente per la prestigiosa Palma d’Oro. L’ambientazione degli anni ’70 e ‘80 lo vede agli albori della sua lunga attività imprenditoriale, interessandosi all’apprendimento dei trucchi del mestiere. L’ex presidente è magistralmente interpretato da Sebastian Stan, conosciuto per l’interpretazione del Soldato d’Inverno nei film Marvel, affiancato da Jeremy Strong nei panni dello spietato Roy Cohn.

Da piccolo gestore immobiliare alla Trump Tower

La storia del film inizia con un Donald irriconoscibile che cerca di barcamenarsi nell’adrenalinica New York. All’ombra del padre, il rude Fred Trump, è poco considerato quando si tratta di chiudere affari. La sua fortuna risiede nell’azienda immobiliare di famiglia, anche se Fred pone poche speranze nel figlio. Il loro rapporto è di fatti per lo più composto da conflitti, soprattutto quando si parla del processo federale in cui la famiglia è coinvolta. In una delle serate dell’alta società newyorkese, fa la conoscenza di Roy Cohn, rinomato avvocato che viene visto come la soluzione ai problemi legali. Roy si presenta apparentemente senza un briciolo di umanità, non sapendo che ciò farà la fortuna di Trump.

Con un po’ di insistenza Donald riesce a diventare suo cliente: l’incontro gli cambierà la vita poiché l’avvocato gli trasmette i propri insegnamenti. Tre spietate regole per vincere nel mondo degli affari, dei processi e della vita che diventeranno un vero e proprio mantra per il costruttore. Il suo primo obiettivo è quello di farsi notare vincendo una grande scommessa: l’acquisizione del Commodore, un lussuoso hotel in rovina, al fine di rilanciare l’economia cittadina. Grazie all’aiuto di Cohn, che non si fa scrupoli di nessun genere, riesce a vincere il processo contro l’azienda. In seguito riesce anche ad ottenere la struttura del Commodore senza tassazione. Questo lo porta ad affermarsi nella scena pubblica come costruttore, come gli piace definirsi, in ascesa nella grande mela.

Il rapporto col mentore

Il suo avvocato gli insegna anche come curare la sua immagine, che presto imparerà a elevare sopra ogni cosa attorno a lui, tanto da affermare che l’utilizzo del suo nome per oggetti di lusso o grandi edifici “non ha niente a che vedere con l’ego, semplicemente vende”. La sua vera vocazione si palesa essere quella della figura di spicco più che del grande uomo d’affari che non sbaglia un colpo, anzi tutt’altro. Lo stesso Cohn, colui che l’ha costruito, inizia ad essere fatto da parte.

The Apprentice: Individualismo oltre ogni cosa

Dopo l’apertura della Trump Tower e l’espansione spropositata dei casinò ad Atlantic City iniziano a sorgere i problemi relativi ai mutui accumulati per queste grandi costruzioni. Anche la relazione con la sua prima moglie, Ivana, conosciuta durante una delle tante cene della New York per bene, inizia a scricchiolare. L’avanzamento dell’età e la fama portano Donald a compiere scelte ambigue ed egoistiche: la scarsa considerazione del fratello Fred Jr. porterà alla sua morte, perde interesse in Ivana, costretta a sottoporsi a una mastoplastica, e allontana definitivamente Roy Cohn. Nel film ci sono continui riferimenti ad avvenimenti futuri, come la creazione del motto “Make America Great Again”. Non mancano neanche domande riguardo una eventuale candidatura come presidente.

The Apprentice
Lo stile del maccartista.  Fonte: npcmagazine.it

La figura di Cohn come specchio della società

Per analizzare bene The Apprentice è necessario dare uno sguardo anche al mentore dell’imprenditore. L’avvocato Roy Cohn, seguace del maccartismo, è additato come il diavolo, anche se andrà a creare una creatura ben più spregevole. Come già accennato, il mantra di Donald sono state le determinate tre regole di Cohn: attaccare, attaccare, attaccare, senza dare tregua, negare la verità fino a crearsi la propria verità e infine mai confessare, al fine di risultare sempre vincitore. Tutto questo, unito a qualche trucchetto non propriamente legale, fanno di Roy l’avvocato e il maestro perfetto, ma solo all’apparenza. Dietro i suoi processi contro comunisti e omosessuali, si nasconde un uomo anch’esso omosessuale, che finirà per contrarre l’AIDS negli anni dell’epidemia. La rivelazione del suo lato umano, anche nei confronti del compagno, porterà Trump ad allontanarlo e a ripudiarlo per la sua malattia.

The Apprentice
Roy Cohn interpretato da Jeremy Strong. Fonte: bbc.com

Conclusioni su The Apprentice

La de-umanizzazione di Donald passa dalla liposuzione e dalla chirurgia estetica fino all’abuso della moglie. Questa scena in particolare ha creato problemi nella distribuzione del film stesso, che si pensava fosse ideato per celebrare ancora di più la figura del candidato presidente. Lo stesso Trump ha cercato di oscurarlo, minacciando azioni per vie legali, ma mai effettivamente attuandole. The Apprentice si conclude con il climax della scrittura dei primi libri del magnate, che ormai diventato un uomo copertina si prepara a prendersi il mondo intero con insaziabile ambizione.

 

Giuseppe Micari

Kennedy moriva 60 anni fa: uno zoom sul politico

John Fitzgerald Kennedy nasce il 29 maggio del 1917 a Brookline nel Massachusetts. La sua famiglia aveva origini irlandesi; suo padre Joseph Kennedy era il presidente della commissione Borsa e Finanze a Wall Street.

Nel 1937 John Kennedy si laurea ad Harvard e durante la Seconda Guerra Mondiale partecipa come volontario in Marina. Congedato con onore, decise di intraprendere la carriera politica in parte anche per compensare il vuoto lasciato dal popolare fratello Joseph Jr., deceduto in guerra. Si confronta con il candidato repubblicano Richard Nixon nel primo dibattito presidenziale trasmesso alla televisione.

Qui Kennedy trasmise al pubblico un’immagine sicura e composta a differenza del suo rivale. Nel novembre del 1960  il nuovo Presidente degli Stati Uniti d’America divenne proprio Kennedy. E’ stato il primo Presidente ad essere nato nel XX secolo ed il più giovane a morire mentre era in carica.

“Non chiedete cosa il vostro Paese può fare per voi; chiedete cosa potete fare voi per il vostro Paese”.

Vita privata di Kennedy

Il 12 settembre 1953 John Kennedy sposa Jacqueline Bouvier detta Jackie:  con lei ha avuto ben quattro figli. Le morti premature dei suoi figli, gli omicidi dello stesso John (assassinato nel 1963) e del fratello Robert (assassinato nel 1968), oltre alla lobotomia per un ritardo mentale alla sorella Rosemary (che la danneggiò a livello sia fisico che mentale) hanno diffuso la credenza della maledizione dei Kennedy.

Kennedy
Kennedy con la moglie. Fonte: Toda Matéria

Sono state molte le amanti di John negli anni, tra queste anche personaggi di spicco di Hollywood come l’attrice Marilyn Monroe (Blonde): le note di Happy Birthday Mr. President” sembrano risuonare ancora oggi tra le mura del Madison Square Garden di New York. La performance, avvenuta dieci giorni prima dell’effettivo compleanno di Kennedy, è ancora oggi ricordata. Marilyn Monroe indossava il suo famoso abito color carne, impreziosito da una cascata di duemilacinquecento perline luccicanti cucite a mano. A cause delle voci in merito alla liason amorosa tra Marilyn Monroe e il presidente, i servizi segreti si erano occupati di distruggere tutte le prove di quell’incontro.

Politica interna e riforme sociali

John ha promosso leggi a favore dell’istruzione e contro la discriminazione razziale nei luoghi pubblici e nelle scuole. Con la sua ‘’Nuova Frontiera’’ infatti, Kennedy sostenne l’integrazione razziale e i diritti civili. Chiamò inoltre a sé durante la campagna elettorale del 1960 la moglie dell’imprigionato reverendo Martin Luther King, guadagnandosi il consenso della popolazione nera alla sua candidatura.

Kennedy fece  pressione affinché gli Stati Uniti guidassero l’esplorazione dello spazio. Chiese al Congresso di finanziare il Programma Apollo per oltre 22 miliardi di dollari, con lo scopo di portare un uomo statunitense sulla Luna entro la fine del decennio.

“nessuna nazione che aspiri a essere alla guida delle altre può attendersi di rimanere indietro nella corsa per lo spazio, abbiamo scelto di andare sulla Luna e di fare altre cose, non perché sono facili, ma perché sono difficili”.

Politica estera: i rapporti con l’Unione Sovietica

John Kennedy, in piena Guerra Fredda, si disse favorevole al disarmo nucleare e una politica distensiva nei confronti del blocco sovietico. Kennedy considerava Berlino parte della Germania Federale, mentre i tedeschi la volevano libera. La costruzione del Muro di Berlino fu allora la risposta che rendeva impossibili le fughe.

Il confronto più drammatico tra le due potenze ebbe luogo a Cuba: Kennedy cercò subito di soffocare il regime di Fidel Castro. Lo sbarco alla Baia dei Porci (Bahìa de Cochinos), l’avventuroso tentativo di invasione effettuato il 17 aprile 1961 si risolse in un insuccesso completo. Il giorno seguente gli assalitori si resero conto della situazione insostenibile e fu ordinato il ritiro.

La celebre frase «Ich bin ein Berliner», pronunciata il 26 giugno 1963 a Berlino Ovest dal Presidente Kennedy, aveva l’intento di comunicare alla città di Berlino e alla Germania stessa, seppur entrambe divise, una sorta di vicinanza e amicizia degli Stati Uniti.

Kennedy
Kennedy in auto. Fonte: National Geographic

22/11/63: l’assassinio

Il 22 novembre 1963 Kennedy fu ucciso a Dallas in un attentato il cui colpevole non fu mai realmente identificato. Kennedy si trovava in visita ufficiale nel Texas. Mentre il Presidente e sua moglie Jacqueline salutavano la folla, diversi colpi di arma da fuoco furono esplosi da un fucile in direzione della vettura: uno di essi colpì JFK alla testa. Responsabile dell’assassinio venne ritenuto Lee Harvey Oswald, un impiegato. Dopo la morte di Kennedy, venne immediatamente eletto nuovo presidente Lyndon Johnson.

John Kennedy non è stato soltanto un personaggio storico e un uomo di potere, ma è entrato nell’immaginario collettivo, insieme alla sua famiglia, come un vero e proprio mito. Oggi ricorrono i 60 anni dal suo assassinio: i proiettili che quel giorno lo assassinarono colpirono al cuore la sua nazione e sconvolsero anche tutto il mondo intero.

Kennedy nella cultura contemporanea

Il mistero dell’assassinio del presidente Kennedy affascina ancora il grande pubblico. Questo è uno dei motivi per cui sono presenti così tanti esempi di adattamento cinematografico o letterario a questo singolo avvenimento. Si pensi già solamente al noto romanzo di Stephen King 22/11/63: il libro, portato anche sul grande schermo con una serie adattamento con James Franco e George McKay (1917), racconta il viaggio nel tempo di Jake per evitare l’uccisione del presidente.

La morte di Kennedy viene analizzata nel cinema da vari punti di vista: il dramma Jackie con Natalie Portman nel ruolo di Jacqueline Kennedy ne è un esempio. Il film, diretto dal regista Pablo Larrain (Spencer), analizza l’avvenimento con un focus sulla first lady.

Sarebbero moltissimi gli altri esempi da ricordare. Qui ci limiteremo a sottolineare come questo evento abbia colpito nel profondo la comunità mondiale e come ancora oggi la morte di un grande presidente come Kennedy venga ricordata in tutto il mondo.

 

Carmen Nicolino

Il cinema è nato a Messina

Il cinema a Messina nacque in un epoca contemporanea alla prima proiezione cinematografica avvenuta a Parigi.

Dal febbraio del 1897 Messina fiorisce di locali cinematografici in pianta stabile e di conseguenza si fa strada un primordiale quanto efficace mezzo pubblicitario, la locandina cinematografica affissa nelle strade o nelle vetture delle imprese mobili, che raccoglieva tutte le informazioni utili per l’evento cinematografico così  affacciando la società messinese del tempo ad una nuova forma di arte.

Cinématographe Lumière. © Musèe des arts et mètiers-Cnam/photo studio Cnam.

 

Il primo cinema a pianta stabile si ha con l’apertura del Reale Cinematografo Lumière in Via S. Camillo, successivamente tra il 1905 e il 1908 si registrano la Sala Italia in Corso Vittorio Emanuele con trasferimento di sede nel periodo invernale in Piazza S. Giacomo, a seguire s’inaugura l’Edison Cinématographe  allo Chalet in Corso Vittorio Emanuele. Il Cinematografo imperiale” in via Cardines e il  Cinematografo Mignon ad opera di Ernesto Mastrojeni sino ad essere inaugurato il “Moderno” al palazzo Cianciafara e il “Cinematografo Iris”.

Nel periodo post terremoto sorgono diversi cinema tra cui: il cinema “Progresso”; l’indimenticabile cinema “Trinacria” e il cinema più frequentato da giovani e famiglie il cinema “Star” ad angolo tra la via Consolare Vecchia e via Bonino, trasformato in un supermercato. Infine l'”Eden cinema-concerto” nel quale il giovane Giovanni Rappazzo inventa il cinema sonoro.

 

Il Cinema Teatro EDEN-Messina. Fonte: Pinterest
Il Cinema Teatro EDEN-Messina. Fonte: Pinterest

 

Insomma, Messina zampilla di nuovi locali che racchiudono l’arte del cinema.

A seguire il cinema messinese è perfezionato dal Cinematografo Lumière che presenterà i suoi film in tre occasioni: al Teatro La Munizione nell’ottobre 1898, al Reale Cinematografo Lumière in Via S. Camillo nel 1898 e al Teatro di Villa Manzini nel 1905.

Preceduto dalla prima cassetta che proiettava delle immagini in movimento, il Kinetoscopio di Edison, il vero apparecchio cinematografico inaugurato a Messina fu il Kinefotografo di origine inglese registrato in una strada adiacente al Teatro Vittorio Emanuele, periodo coincidente con il Cinematografo dei fratelli Lentini. Sono questi gli anni in cui i registi utilizzano apparecchiature per riprendere scene dal vivo, come accadde per Lo sbarco dei passeggeri dal Ferry-Boat, Il convegno dei ciclisti messinesi allo Chalet.

Kinetoscopio di Edison. Fonte: occhiovolante.it

 

Fu altresì frequente la realizzazione di film a soggetto, all’indomani del terremoto del 1908,  come Dalla pietà all’amore (Il disastro di Messina). Negli anni dieci e quaranta del ‘900, Messina inaugura i film d’epoca in cui viene risaltato il magnifico paesaggio che divide lo Stretto dalla penisola e che ancora oggi incanta i cittadini e migliaia di turisti. Sono diversi i registi che includono scene dell’attraversamento dello stretto come al tempo fu la scelta di Giuseppe Tornatore in L’uomo delle stelle.

Il cinema a Messina introduce anche un’altra novità non ancora registrata sul territorio, la presenza di cinecircoli e associazioni culturali cinematografiche. Già a partire dagli anni ’30 esisteva un CineGUF interamente gestito e dedicato agli studenti universitari che diede vita anche alla produzione di documentari.

 

L’attrice Jayne Mansfield al Rassegna Internazionale del Cinema di Messina e Taormina nel ’62. Fonte: Taorminafilmfest

 

Infine, nel dopoguerra fu inaugurato il Circolo messinese del cinema che cambiò denominazione negli anni.

Ma il vero periodo aureo del cinema messinese del dopoguerra, si ebbe grazie alla vicinanza di Taormina protagonista di diverse edizioni cinematografiche con una fama che conserva ancora oggi.

Siamo così giunti ai giorni nostri in cui, grazie a questo excursus storico-cinematografico, possiamo vantare che il cinema è nato a Messina.

Sarebbe interessante organizzare una serie di eventi da “tuffo nel passato” da trascorrere nei cinema storici ancora presenti sul territorio messinese,  riproponendo un film di quegli anni.

 

Elena Zappia

Fonti:

Storia e civiltà Messina, Ed. GBM, 1997, Messina

Paradiso, Contemplazione e Pace

Il declivio della catena montagnosa, dolcemente digradante verso il Faro, è popolato da villini deliziosi, mentre occhieggiano, tra il verde smeraldino dei vigneti e quello cupo degli agrumeti, le piccole case coloniche. E si traversa una serie di villaggetti, poveri ma gai e pittoreschi, dai nomi curiosi, taluno d’origine germanica che rimonta ad un’età cavalleresca come il Ringo, altri che riportano le tracce della dominazione araba come Ganzirri, alcuni di origine greca come Rodia e tanti altri di carattere soavemente religioso come Paradiso, Pace, Contemplazione…             

La Civiltà Cattolica, Volume 63, Edizione 1

È questo il panorama che si apre agli occhi degli osservatori, una volta superato il confine immaginario fra la parte più urbana di Messina e la riviera.

Collocate esattamente dopo le “colonne d’Ercole” ed estese fino al torrente Sant’Agata, si susseguono lungo tutta la costa, fra spiagge, barche di pescatori e i luoghi che accolgono la movida estiva messinese, le frazioni “ultraterrene” di Paradiso, Contemplazione e Pace.

Ma cosa si cela dietro questa artistica e particolare scelta di toponomastica?

Paradiso

 

Villaggio Paradiso
Villaggio Paradiso negli anni ’70. Fonte: https://pin.it/73oDjmx

 

Ebbene, la questione è molto più semplice di ciò che ci viene suggerito. Nessun intervento dantesco, né tantomeno divino, ha collaborato nell’attribuzione di queste denominazioni. L’edenica Paradiso, secondo un’ipotesi dell’erudito gesuita Placido Samperi, deve il suo nome a Villa Paradiso.

Una villa sontuosa, con tanta dovizia di copiose fontane, artificiose spalliere di mortine, gelsomini, limoni, arance e per l’abbondanza di ottimi frutti da meritare un tale nome.

Il cavaliere Raimondo Marquett fece edificare la magione su di un podere che aveva acquistato alle pendici dei monti Peloritani, nella contrada di Belviso.

Qui, dal 1648 fino alla sua morte, ne fu il duca per volere del re Filippo IV di Spagna. La residenza godette di un notevole prestigio: i viceré e altri ospiti illustri vi si recavano e vi soggiornavano con piacere prima dell’ingresso in città.

Al suo interno, Villa Paradiso nascondeva diverse meraviglie storiche, naturalistiche e artistiche: oggetti rari e bizzarri, come fossili, strumenti astronomici e apparati liturgici

Himera, romanzo dello scrittore locale Nando Romano, prende proprio spunto da questa sorta di wunderkammer, ruotando intorno alla figura del Signor Paradiso, ispirato al proprietario Raimondo Marquett.

Un’altra interpretazione, invece, attribuisce l’origine del nome ad un oratorio esistente nella zona e dedicato alla Madonna del Paradiso, di cui oggi, sfortunatamente, non resta traccia.

Il Paradiso ai giorni nostri

Il villaggio ha perso da tempo la sua maestosità e le sontuose ville padronali affacciate sulla riviera che sono state sostituite e affogate da un mare di cemento.

La cementificazione iniziò poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando Villa Costarelli, detta anche Villa Luce, venne rasa al suolo per lasciar posto ad un esclusivo complesso residenziale.

Villa Costarelli ad inizio '900.Fonte: https://i.pinimg.com/736x/78/80/05/788005c92f4d1d8e81f1cef7584ee266.jpg
Villa Costarelli ad inizio ‘900.Fonte: https://i.pinimg.com/736x/78/80/05/788005c92f4d1d8e81f1cef7584ee266.jpg

 

Seguirono, poi, le costruzioni realizzate fra gli anni ’70 e gli anni ’80, e le lottizzazioni previste dalla variante al piano regolatore generale del 2002.

 

Il Paradis Hotel
Il Paradis Hotel negli anni ’70. Fonte: https://pin.it/4Zvd7Tb

 

Della vera Paradiso, oggi, non resta che il quartiere delle cosiddette “Case Basse”, anch’esso minacciato dagli appetiti dei privati.

Contemplazione: ieri e oggi

Continuando lungo la via Consolare Pompea, un tempo attraversata da un tram a vapore che giungeva sino a Villafranca, incontriamo l’altrettanto celestiale Contemplazione.

Questa prende il nome dalla chiesa dedicata alla Madonna della Contemplazione.

 

Il Paradis Hotel
Chiesa della Madonna della Contemplazione  Fonte: https://www.ganzirri.it/IMG/arton63.jpg?1189606428

 

L’antica costruzione sorgeva nella salita di Fondelli e sorse nel secolo XVII, per volere di una famiglia privata che la mise a disposizione per l’esercizio del culto.

Nel 1908, venne danneggiata dal terremoto e successivamente restaurata dai Frati Minori di Portosalvo che, nei giorni festivi, continuarono ad officiarla.  Svolse le funzioni parrocchiali fino al 13 maggio 1960, quando la Chiesa Cuore Immacolato di Maria venne inaugurata.

Dopo la sua apertura, l’edificio venne abbandonato a se stesso e lasciato al degrado. Anche Contemplazione, come Paradiso, può vantare di un suntuoso trascorso.

Ne è testimonianza Villa Florio, attribuita a Ernesto Basile e rappresentante uno dei pochi esempi di liberty puro in città. Il villaggio è oggi meta di molti turisti e, con le sue spiagge dorate e un mare trasparente, rende giustizia al suo nome.

Riviera Contemplazione
La Riviera di Contemplazione vista dal terrazzino sulla spiaggia del Bar Gravino negli anni ’70. Fonte: https://pin.it/6p9hKzP

Pace

 

Pace
Uno scorcio di Pace e della Chiesa Santa Maria della Grotta
Fonte: https://www.parrocchiadipace.it/wp-content/uploads/2019/04/cropped-11985418294_24fe7bb5b2_k.jpg

 

Il lieto borgo è così denominato, proprio come la vicina Contemplazione, per la chiesa, ormai scomparsa, intitolata alla Madonna della Pace. Ancora presente, invece, è la simbolica Chiesa Santa Maria della Grotta o Santa Maria delle Grazie. Verosimilmente edificata sul tempio di Diana, sito sulla strada verso capo Peloro, la chiesa nacque come oratorio nel 1500.

Da qui, l’Ordine dei Frati Predicatori divulgò la devozione verso il dipinto miracoloso della Vergine, invocata con il titolo Madonna della grotta proprio in virtù della grotta in cui venne lasciato arenare per sua stessa volontàTrasformata in un tempio nella prima metà del 1600, con il trascorrere dei secoli, i vari proprietari la arricchirono e impreziosirono oltre lo sfarzo.

 

Chiesa di Santa Maria della Grotta
La Chiesa di Santa Maria delle Grazie alla Grotta in una fotografia di Ledru Mauro del 1890 circa
Fonte: https://www.pinterest.it/pin/782711610216687197/

 

L’edificio resistette al terremoto del 1783, ma non ebbe la stessa fortuna con quello del 1908. Venne, in seguito, fatto riedificare, ma solo nel 1931, sullo stesso modello del tempio originario.

 

Villa Pace
Villa Pace. Fonte: https://www.messinamedica.it/wpcontent/uploads/2019/11/VILLA-PACE-1024×547.png

Una preziosa eredità

La dimensione surreale della frazione di Pace è alimentata dalla maestosità dell’omonima villa. Villa Pace è stata, in passato, sede degli eventi e dei ricevimenti della facoltosa borghesia cittadina.

Si rese celebre per l’ospitalità offerta a illustri personaggi, legati alla storia sociopolitica della città, come il Kaiser Guglielmo II e diversi esponenti di Casa Savoia. Acquistata e rivenduta da vari proprietari, nel 1922, l’Università, al fine di proteggere i beni custoditi e adibirla a centro convegni e mostre, ottenne la residenza a “costo 0”, direttamente dal Tribunale di Messina.

Il 28 giugno 2003, la famiglia Imbesi, l’Università e l’Ordine dei Farmacisti inaugurano a Villa Pace il Museo storico della Farmacia del Mediterraneo che, grazie ai numerosi cimeli e documenti donati dal luminare docente Antonio Imbesi, aumenta il suo valore storico-culturale.

Durante il suo soggiorno, un diplomatico tedesco descrisse Villa Pace come il luogo dell’anima. D’altronde, come poterlo contraddire?

Paradiso, Contemplazione e Pace in poesia

Paradiso, Contemplazione e Pace, con il loro ricco patrimonio paesaggistico, artistico e culturale, hanno influenzato non poche menti.

Qui di seguito, è riportato un estratto della poesia Fra contemplazione e paradiso, dello scrittore Vincenzo Consolo, che ne è la perfetta rappresentazione.

Ora mi pare d’essere, ridotto qui tra Pace e Paradiso, come trapassato, in Contemplazione, statico e affisso a un’eterna luce, o vagante, privo di peso, memoria e intento, sopra cieli, lungo viali interminati e vani, scale, fra mezzo a chiese, palazzi di nuvole e di raggi. Mi pare ora che ho l’agio e il tempo di lasciarmi andare al vizio antico, antico quanto la mia vita, di distaccarmi dal reale vero e di sognare. Mi pare forse per questi bei nomi dei villaggi, per cui mi muovo tra la mia e la casa dei miei figli. Forse pel mio alzarmi presto, estate e inverno, sereno o brutto tempo, ancora notte, con le lune e le stelle, uscire, portarmi alla spiaggia, sedermi sopra un masso e aspettare l’alba, il sole che fuga infine l’ombre, i sogni, le illusioni, riscopre la verità del mondo, la terra, il mare, questo Stretto solcato d’ogni traghetto e nave, d’ogni barca e scafo, sfiorato d’ogni vento, uccello, fragoroso d’ogni rombo, sirena, urlo.

Valeria Vella

Fonti:

https://www.letteraemme.it/perche-i-luoghi-di-messina-si-chiamano-cosi-paradiso-contemplazione-e-pace/

https://www.messinamedica.it/2019/11/messina-nascosta-villa-pace/

https://www.wikiwand.com/it/Pace_(Messina)

https://www.wikiwand.com/it/Paradiso_(Messina)