La strage del pane: la vigliaccheria della guerra attraverso la fame

Correva l’anno 1944, era il 19 ottobre e la Sicilia aveva fame. Palermo aveva fame. Le sue figlie e figli chiedevano pane e pasta per potersi sfamare.

La strage del pane: il coltello nella piaga dei popoli dilaniati

Palermo era stata violentata dai bombardamenti alleati, il centro storico era inagibile, migliaia di sfollati vivevano d’espedienti per sopravvivere al quotidiano. Il disagio era in ogni angolo. Le promesse di venti anni di fascismo si erano risolte in: miseria, morte, fame e distruzione.

Secondo la storia ufficiale, il 1943 fu l’anno della fine della guerra per gli italiani del sud Italia.

La narrazione portata avanti, la descrizione di violenze risparmiate al sud grazie all’armistizio, descrivendo le genti del sud come liberati e posti immediatamente sotto la tutela delle truppe fedeli al Re d’Italia, non corrisponde al vero. In realtà, il piombo, per i siciliani, non finì nel 1943. E a parlar col piombo ai siciliani fu lo stesso esercito regio italiano, che quei cittadini avrebbe dovuto scortare e proteggere.

Fonte: https://palermo.anpi.it/2015/10/20/la-strage-di-via-maqueda-19-ottobre-1944-19-ottobre-2015/

 

Antefatti della prima vergogna dell’Italia liberata

Il 19 ottobre 1944, a Palermo, una folla spontanea di circa tremila cittadini provenienti da tutte le classi sociali e dai settori lavorativi più disparati si radunò spontaneamente, per protestare contro il caro vita, che aveva reso impossibile vivere. La folla chiedeva a gran voce pane e pasta per potersi sfamare.

Le persone marciarono disarmate verso la prefettura, che aveva sede in via Maqueda.

Tuttavia non vennero ricevute, il prefetto non era neanche presente in sede.

La folla sfogò la propria disperazione e frustrazione facendo baccano, battendo con pietre e bastoni sulle saracinesche, come per esorcizzare una fame che non passava e non poteva passare.

Era il grido degli impotenti, il pianto dei disperati. Il suono del malessere era la triste colonna sonora della vergogna dell’umanità, ovvero quel fenomeno chiamato guerra.

Il fascismo non è solo un ideologia. Il fascimo è l’espressione politica del modus operandi dei militari

Il viceprefetto, che si trovava all’interno della struttura, allarmato dal baccano, chiamò l’esercito, temendo un assalto alla prefettura. I soldati del regio esercito italiano arrivarono e furono accolti con il lancio di alcuni sassi.

Il popolo aveva fame, e lo Stato rispondeva inviando uomini armati. La rabbia è un sentimento umano, e il popolo era arrabbiato.

La fame non è un capriccio, non è un vezzo, è una necessità e scongiurarla è il dovere di ogni governo. E quel 19 ottobre 1944, lo Stato (ex fascista) non rispose distribuendo sacchi di farina, ma regalando colpi di fucile e bombe a mano.

L’esercito italiano, arrivato davanti la prefettura di Palermo, aprì immediatamente il fuoco, provocando la morte di 24 civili, tra cui anche donne e bambini, e oltre 158 feriti.

La prima strage di Stato dell’Italia Liberata avvenì a Palermo, nel modo più vile. L’esercito italiano si macchiava d’infamia all’infuori della Repubblicà di Salò, e lo faceva sparando sui propri cittadini, disarmati, rei di domandare il pane.

Il fascismo era stato dichiarato decaduto nel Sud Italia, ma non era decaduto nel cuore di chi rappresentava lo Stato.

Questa vile pagina d’Italia verrà insabiata dalla storeografia ufficiale, e la prima targa e commemorazione ufficiale della strage del pane verrà posta a Palermo solo nel 1994.

Fonte: https://www.patriaindipendente.it/cittadinanza-attiva/palermo-la-strage-del-pane-e-un-silenzio-lungo-80-anni/

Da Palermo a Gaza

La vergogna e la vigliaccheria, insite nel braccio di chi veste una divisa e spara su civili innocenti che hanno solo fame, non è una pagina relegata al solo passato degli orrori della Seconda guerra mondiale, su cui scrivo oggi. Questa vigliaccheria sta avvenendo tutt’ora e quotidianamanete, in scala maggiore e ancora più subdolamente.

La strage del pane è avvenunta il 19 ottobre 1944  a Palermo. Ma a Gaza, oggi, nel 2025, l’esercito israeliano sta compiendo stragi del pane in maniera sistematica, causando centinaia di morti tra la gente affamata che si reca ai centri di distribuzione del cibo. Centri costruiti e designati dagli stessi israeliani con la complicità americana.

Dopo aver affamato due milioni di persone per venti mesi, imponendo il blocco totale di cibo e acqua su Gaza, l’esercito israeliano ha progettato dei centri di distribuzione di beni di prima necessità che, però, sotto l’indifferenza del mondo, si sono trasformati in poligoni di tiro dove soldati israeliani sparano senza rimorso su sagome umane.

Uno squid game reale.

Come detto dalle stesse autorità israeliane, i palestinesi sono ”animali umani’. Dunque, tutto è permesso.

I nostri governi sono complici. Complici del silenzio e dell’immobilismo. Si nascondono dietro banali dichiarazioni, mentre a livello istituzionale continuano a collaborare con uno Stato che si dichiara democratico mentre continua impunemente a commettere deliberate stragi del pane.

La storia ce ne chiederà conto, e a pagarlo saremo tutti noi.

 

Il primo maggio: festa di che?

Ogni primo maggio si conclude quella tripletta di giorni rossi nel calendario che, da Pasquetta passando per il 25 aprile fino al primo maggio stesso vede protagonista una maratona di: feste, festini, ponti, concerti e arrostite no stop. Dalle montagne alle spiagge l’Italia festeggia.
Ma cosa?

Il valore del profitto ha comprato tutti gli altri

Viviamo un’epoca che alcuni denunciano sia decadente. Una fase storica, dove valori e tradizioni sono andati persi.

Almeno, questa è la classica frase che possiamo ascoltare al bancone del bar mentre prendiamo un caffè. Magari proprio prima di recarci alla grigliata del primo maggio.

Ma quali sono le radici di tutto questo? Forse, una causa è proprio la mancanza di memoria, lo svuotamento del significato di ogni ricorrenza.

Se Pasquetta è svuotata del proprio significato religioso, normale conseguenza in un paese laico con una chiesa secolarizzata.

Diverso è una data come il 25 aprile. In occasione di quest’ultimo anniversario, durante le celebrazioni in Parlamento, e non solo in quella sede, alcuni elementi del partito di governo Forza Italia hanno arbitrariamente voluto rinominare il giorno della liberazione dal nazi-fascismo in un altro modo, ribattezzandolo da giorno della Liberazione a giorno delle libertà (giusto per non essere divisivi).

Accade anche che il primo maggio, scelto come giorno di protesta e festa dei lavoratori, si pieghi al dogma dell’apoliticità e del consumismo fine a se stesso.

Logiche di profitto che mascherano date fortemente simboliche, rendendole semplici date di ponte, effimere, come tante altre.

Festeggiare diviene sinonimo di consumare

Consuma e basta. Consuma, quando te lo dicono loro, senza chiederti perchè. Festeggia solo quando è rosso sul calendario, riempi le tasche degli organizzatori di eventi, che, nella socialità e aggregazione individuano solo un’opportunità. Il solo scopo è trarne profitto, è solo lavoro.

Tutto il resto che importanza ha?

Se, nel passato, il primo maggio era la festa dei lavoratori, dove tutti i lavoratori festeggiavano e godevano di un giorno di riposo all’infuori delle feste religiose, oggi sono migliaia quelli che, nonstante sia la festa dei lavoratori, dovranno lavorare per mantenere ben oliata la macchina del profitto di chi siede al vertice delle piramidi dell’impresa.

L’origine del primo maggio

Intorno alla metà del 1800, il mondo era nel pieno dalla Seconda Rivoluzione industriale.

Oltre al Regno Unito, i giovani Stati Uniti d’America portarono avanti la loro grande industrializzazione.

La Prima Rivoluzione industriale aveva visto protagoniste le industrie tessili. La seconda, ebbe come protagonista la costruzione dei primi binari ferroviari. Enormi creature d’acciaio macinavano chilometri, emettendo nubi di vapore che hanno affollato l’immaginario collettivo dell’epoca. Divennero l’icona di numerosi dipinti ad olio, furono descritte nei romanzi ambientati nel lontano West. Protagoniste dei primi effetti speciali nei cortometraggi di fine Ottocento.

Sebbene questa rivoluzione portasse con sè grandiose promesse di ricchezza, progresso e miglioramento della vita per tutti, la realtà fu ben diversa.

Paradossalmente, chi godeva dell’opulenza e del benessere derivati dai prodotti della rivoluzione industriale e i suoi nuovi stili di vita non era tutta la popolazione. Men che meno, compresi tra i beneficiari, vi era chi lavorava all’interno delle fabbriche.

Solo una nuova classe si andava arricchendo. Si affermò una nuova classe dominante. La borghesia, l’unica che veramente ottenne un vero beneficio.

Essa era detentrice dei nuovi mezzi di produzione. Se nel Medioevo, il feudatario era il possessore dei terreni e i contadini coltivavano la sua terra in cambio di una misera parte del raccolto. Durante la rivoluzione industriale erano cambiati i denominatori, ma il risultato era lo stesso.

Non vennero chiamati più Duca o Barone. Vennero ribattezzati. Erano i cosiddetti industriali, i padroni delle fabbriche.

Sedici ore di lavoro, la norma speculativa nel vuoto legislativo:

Le tutele e i diritti che oggi sembrano normali e scontati, all’epoca era impensabili.

Chi lavorava dentro una fabbrica svolgeva turni di sedici ore. Non erano previsti giorni liberi o ferie, né la pensione. Tantomeno un indennizzo in caso di infortunio sul lavoro. Il lavoro minorile era la prassi, quasi obbligatoria per i figli degli operai, che lavoravano insieme ai genitori proprio perchè le paghe che ricevevano non erano sufficienti neanche per sfamare e dare un tetto all’intera famiglia. La mortalità tra gli operai era altissima. Le disuguaglianze nell’era del progresso andavano aumentando al posto di diminuire. Questa è stata da sempre una delle contraddizioni più lampanti del sistema capitalista.

Manifestazione per il primo maggioFonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=http%3A%2F%2Fwww.digi.to.it%2F2021%2F04%2F30%2Ffesta-lavoratori-perche-il-1-maggio%2F&psig=AOvVaw2kXkWbaYmDWKKjuTKBYi3e&ust=1746126184523000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBQQjRxqFwoTCOiY1oq5gI0DFQAAAAAdAAAAABAE
Manifestazione per il primo maggio
Fonte: https://www.google.com/url?sa=i&url=http%3A%2F%2Fwww.digi.to.it%2F2021%2F04%2F30%2Ffesta-lavoratori-perche-il-1-maggio%2F&psig=AOvVaw2kXkWbaYmDWKKjuTKBYi3e&ust=1746126184523000&source=images&cd=vfe&opi=89978449&ved=0CBQQjRxqFwoTCOiY1oq5gI0DFQAAAAAdAAAAABAE

La prima grande conquista

Correva l’anno 1866 e nella città di Chicago, nello Stato federale nord americano dell’Illinois, in seguito a numerose battaglie e proteste guidate dall’associazione dei lavoratori Knights of Labor, venne approvata la prima legge al mondo che imponeva un tetto limite alle ore lavorative giornaliere che un operaio potesse svolgere. Tale tetto fu fissato a otto ore.

Una legge rivoluzionaria per l’epoca. Ebbe un eco straordinario. Tuttavia, quella legge entrò in vigore soltanto il primo maggio dell’anno successivo.

La legge delle otto ore andava a favore dei più deboli, gli ultimi, che al tempo stesso rappresentavano la classe produttiva, il motore dell’economia.

Divenne molto popolare in tutti gli Stati Uniti d’America. Diciannove anni dopo, però, l’Illinois restava ancora uno dei pochi Stati americani ad avere una legge che regolasse l’orario lavorativo. Otto ore restarono l’eccezione: nel resto degli Stati Uniti si continuava a lavorare sedici ore.

Così, a Chicago, a quasi un ventennio da quella grande conquista operaia, i lavoratori, mossi dalla solidarietà che li accumunava e gli dava forza d’azione, indissero un’enorme protesta.

Il primo maggio 1886, data simbolica, iniziarono uno sciopero generale, un metodo di lotta pacifica che era un’arma di pressione sui padroni. Una strategia di lotta politica ideata da pensatori anarchici come Pierre-Joseph Proudhon.

La manifestazione fu enorme. La partecipazione si stima fu di ottantamila persone.

Quel giorno non solo a Chicago, ma in tutti gli Stati Uniti, dodicimila fabbriche fermarono la produzione. Quattrocentomila operai incrociarono le braccia.

All’epoca protestare, non era un diritto come oggi. Scioperare era una cosa seria, e si poteva anche morire  per scioperare. Così accadde quel primo maggio del 1886. La polizia, a Chicago, aprì il fuoco sulla folla, uccidendo due manifestanti e ferendone molti altri.

La rivolta di Haymarket

In risposta, i collettivi di operai anarchici che all’epoca erano molto attivi, indissero un presidio in risposta alla brutalità della polizia, per il giorno dopo, nel mercato di Haymarket.  Gli avvenimenti videro il loro apice il 4 maggio.

Così il 4 maggio, da una traversa dell’Haymarket, qualcuno lanciò un piccolo ordigno verso la polizia, nel momento in cui la stessa marciava in formazione per disperdere la folla, con la forza.  L’esplosione uccise un poliziotto e ne ferì altri.

La forza pubblica, per rappresaglia, aprì immediatamente il fuoco sulla folla, indiscriminatamente. Nella confusione, morirono altri sette poliziotti colpiti da fuoco amico. In totale, i morti, tra civili e poliziotti, furono undici. Innumerevoli i feriti, i quali per la maggior parte non si recarono in ospedale, per paura di esser arrestati.

La repressione federale non si fece attendere. Otto esponenti anarchici furono arrestati e condannati a morte.

Di questi otto, solo due erano presenti all’Haymarket , rendendo gli altri sei anarchici un puro capro espiatorio. Il processo fu una farsa, non vi erano prove su chi effettivamente avesse lanciato l’ordigno. Furono comunque condannati, in quanto ritenuti responsabili.

La Corte sostenne che chi aveva lanciato la bomba lo avesse fatto sotto l’incitamento dei discorsi degli anarchici.

Degli otto anarchici accusati, solo quattro furono giustiziati, mentre uno si suicidò in carcere la sera prima, per non dare soddisfazione al boia di Stato.

La paura statunitense per il significato del primo maggio e per il sentimento socialista

La notizia delle condanne a morte rese gli anarchici di Chicago dei martiri.

All’epoca vi furono proteste in tutto il mondo in loro nome. In Italia, famosa fu la rivolta di Livorno. Al Congresso Internazionale dei Lavoratori di Parigi, che diede vita alla Seconda Internazionale nel 1889, si decise di scegliere come data commemorativa il primo maggio. In onore dei martiri di Chicago e e dei diritti dei lavoratori che, dalla conquista delle otto ore di lavoro rivendicate come tetto massimo, sulla scia di quel giorno, continuarono le loro lotte per conquistare la propria dignità e i diritti che spettavano loro.

Da allora, in tutto il mondo, si scelse e diffuse questa data. In quasi tutte le nazioni.

Se l’identità nazionale e religiosa ha diviso i popoli nei secoli, l’identità di classe produttiva ha unito i lavoratori di tutto il mondo. Pane, pace e lavoro erano i loro valori.

Negli Stati Uniti, però, come in Australia e nel Regno Unito, celebrano la giornata dei lavoratori in altre date. A determinare ciò fu il timore delle classi dominanti che il significato di quella giornata potesse rafforzare il sentimento socialista che andava montando nelle masse operaie e contadine di tutto il globo.

Tuttavia, i loro tentativi furono vani.

Il primo maggio durante il ventennio fascista italiano

Durante il ventennio della dittatura fascista, la festa dei lavoratori, che si celebrava in Italia dal primo maggio 1890, venne abolita. Si sostituì tale data con quella del 21 aprile, giorno in cui si celebrava il compleanno di Roma capitale, una festa fascista.

Il primo maggio si tornò a festeggiare nuovamente dal 1946. Sei giorni dopo il primo anniversario della liberazione dal fascismo, il 25 aprile.

1947 un primo maggio di sangue in Italia

Edizione straordinaria del quotidiano “La Voce della Sicilia”, pubblicata in occasione della strage di Portella della Ginestra <br> Fonte: https://www.ilpensieromediterraneo.it/wp-content/uploads/2021/04/Portella-della-Ginestrala-prima-Strage-di-Stato.jpg
Edizione straordinaria del quotidiano “La Voce della Sicilia”, pubblicata in occasione della strage di Portella della Ginestra
Fonte: https://www.ilpensieromediterraneo.it/wp-content/uploads/2021/04/Portella-della-Ginestrala-prima-Strage-di-Stato.jpg

Il primo maggio 1947, in Sicilia a Portella della Ginestra, avvenne la prima pagina scritta col sangue di quella vicenda che sarà chiamata strategia della tensione.

Il bandito Giuliano e la sua banda, in accordo con esponenti della democrazia cristiana e, probabilmente, i servizi segreti americani, si rese autore di una strage di contadini siciliani, che si erano radunati per festeggiare il primo maggio e l’ottimo risultato ottenuto dalle forze di sinistra alle elezioni locali, svolte il 20 aprile precedente.

Il bilancio fu di undici vittime.

Nei giorni successivi, la banda Giuliano attaccò a colpi di bombe a mano e mitra le camere del lavoro e varie sedi dei partiti di sinistra, in molti comuni della provincia di Palermo. Così, la mafia iniziava il suo servizio di manovalanza per le forze reazionarie e i nuovi padroni americani.

La strategia della tensione, nell’ambito della guerra fredda, gettava le sue basi pratiche e ideologiche prima ancora che fosse eretta la “cortina di ferro”.

Cosa resta di quelle lotte e conquiste raggiunte centocinquantanove anni fa?

Il bilancio, dopo oltre un secolo e mezzo di lotte dei lavoratori, è molto amaro. Qualcuno direbbe che la lotta di classe l’hanno vinta i padroni.

In Italia, nel 1970, a seguito di durissime lotte operaie, si ottenne lo Statuto dei Lavoratori. Anni di lotta avevano garantito l’articolo 18 e tante altre conquiste, che resero l’Italia un paese civile.
Bisogna lavorare per vivere e non vivere per lavorare.

Il motto dei primi sindacati operai, nel 1850, in Australia recitava:

Otto ore di lavoro – otto ore di svago – otto ore di riposo.

Cosa ne resta oggi? Chi può godersi, quasi due secoli dopo, quelle famose otto ore di svago e di riposo?

Paradossalmente, chi entra nel mercato del lavoro italiano si rende conto che, spesso e volentieri, in molti settori lavorativi, soprattutto quello turistico e della ristorazione, per otto ore di lavoro la retribuzione intesa dai datori di lavoro (o prenditori di lavoro?) corrisponde a quella prevista per i part-time. Otto ore nel mercato nero del lavoro italiano, che non rappresentano l’eccezione ma la norma, nel silenzio dei governi che si susseguono. Otto ore significano mezza giornata per i datori di lavoro italiani di molte realtà produttive.

Lo Statuto dei Lavoratori è stato smantellato, l’articolo 18 abolito. Dopo centocinquantanove anni, la giornata media del lavoratore manuale italiano è di dieci o dodici ore. Se consideriamo chi è costretto a fare il pendolare, si arriva anche a quattordici ore. Ovviamente, il viaggio casa-lavoro non è contemplato nella busta paga.

Il neoliberismo è la libertà di sfruttare

Se osserviamo con onestà intellettuale il liberalismo, esso non incarna quel significato semantico che la parola sembrerebbe suggerirci.

Liberalismo non è la libertà di tutti. È la libertà degli imprenditori di sfruttare il capitale umano.

La deregolamentazione e la flessibilità del mercato del lavoro vengono invocate nei salotti tv come un dogma. Ma non portano benessere e ricchezza. O meglio, lo portano, ma solo nelle tasche di pochi eletti. Chi paga gli effetti collaterali sono i milioni di lavoratori che si trovano senza sicurezza sul lavoro, senza dignità e senza la stabilità di poter pianificare una vita degna di questo nome.

Morire di lavoro nel terzo millennio

Nel 2024, i morti sul lavoro sono stati 1090. È il bilancio di una strage. Una strage che è in aumento, con quarantanove morti in più rispetto ai morti del 2023 (+4.7%). Tra loro ci sono anche studenti, che sono vittime dello sfruttamento reso legale da quella legge chiamata “alternanza scuola-lavoro”.

I lavoratori stranieri corrono un rischio di morte triplicato rispetto agli italiani.

Il settore con il maggiore tasso di mortalità resta quello delle costruzioni, che, nel 2024, ha raggiunto centocinquantasei morti bianche.

Gli infortuni sul lavoro toccano, invece, una quota che si avvicina ai numeri di una guerra. Nel 2024, gli infortuni sono stati cinquecentonavantamila, anche questi in crescita rispetto al 2023  (+0.8%).

Questi numeri parlano da soli. Trenta anni di deregolamentazioni presentano un bilancio disastroso.

Il momento di spostare il dibattito dalla flessibilità del mercato del lavoro verso quello della sicurezza è ora, ed è inderogabile. Bisogna esigere la tutela per chi, nel mercato del lavoro, ottiene un trattamento come se fosse merce egli stesso. I lavoratori sono esseri umani, non capitale umano, come qualche economista ha deciso di chiamarli.

Non è una questione ideologica. È una questione di civiltà in un paese che voglia dichiararsi democratico, civile e sviluppato.

 

Il primo maggio è noto anche per il suo concertone a Roma. Dunque, lascio ai lettori di Universome una canzone, con l’augurio che possa essere d’ispirazione per questa giornata.

Auguro un buon primo maggio a tutte e tutti.

 

Fonti:

https://www.collettiva.it/copertine/culture/primo-maggio-dove-nasce-la-festa-dei-lavoratori-f9cj4qp4

https://it.wikipedia.org/wiki/Rivolta_di_Haymarket

https://www.assoutenti.it/1-maggio-festa-dei-lavoratori-significato-storia/

https://www.vegaengineering.com/news/infortuni-sul-lavoro-1090-morti-in-italia-nel-2024-in-aumento-del-4-7-rispetto-al-2023/

https://www.raiplay.it/dirette/raistoria/Passato-e-Presente—Il-Primo-Maggio-nella-storia-unitaria—01052025-0138a8f1-f816-4ac9-b12b-42cb4b4b1cb1.html

 

 

 

La cultura della parola: Quasimodo e la poesia

Salvatore Quasimodo, vincitore del Premio Nobel per la poesia nel 1959, è stato uno dei massimi esponenti della letteratura italiana del Novecento. Le sue opere, tradotte in oltre quaranta lingue, vengono studiate in tutto il mondo.

Nato a Modica, in provincia di Ragusa, il 20 agosto 1901, incontrò fin da giovane numerose difficoltà nel coltivare la sua passione per la scrittura. La sua famiglia desiderava per lui una carriera da ingegnere, ma le sue inclinazioni erano ben diverse. Fu solo nel 1926, a Reggio Calabria – dove si trovava per lavoro – che ritrovò fiducia nelle sue capacità letterarie.

Alla poesia affidò il senso stesso dell’esistenza, certo che sarebbe sempre prevalsa su ogni altra cosa.

La sua prima fase creativa fu caratterizzata da un lirismo intimo, fatto di abbandono ed effusione, sebbene fortemente ancorato al quotidiano. La seconda fase, invece, fu segnata da una riflessione critica e da una crescente consapevolezza esistenziale.

Quasimodo comprese che la poesia non poteva limitarsi a un esercizio di compiacimento sentimentale, ma doveva rispondere alla storia degli uomini e confrontarsi con essa.

Nelle Liriche degli anni Quaranta emerge con chiarezza il suo disagio: la poesia non poteva più essere mero strumento di evasione, ma nemmeno piegarsi alla propaganda politica.
Alla poetica della parola sentì l’urgenza di sostituire una poetica dell’uomo.

Il simbolismo rimase tuttavia la sua principale forma di comunicazione, e l’Ermetismo continuò a rappresentare la solitudine dell’autore e dell’intera umanità, filtrata attraverso una continua e profonda ricerca linguistica.

Alla pietà per se stesso seguì quella per tutti gli uomini. La poesia divenne così un’espressione sociale, moderna, un faro nell’esistenza, pur rimanendo sempre in cerca di un equilibrio e di una dimensione che fosse autenticamente umana.

Il viaggio di Quasimodo – dalla Sicilia a Milano, dall’infanzia all’esilio, dal tempo mitico alla modernità – riflette le tappe di un percorso poetico che va dal monologo interiore al dialogo con il mondo.

Nella sua poesia sociale, realtà e simbolo convivono armoniosamente.

Quasimodo rimase sempre fedele a un’immagine di se stesso mai rinnegata, e ciò gli permise di illuminare l’“Isola” dell’umanità.

Fino all’ultima fase poetica degli anni Sessanta, cercò – attraverso l’anticonformismo – di affermare il valore autonomo della poesia, opponendosi a una letteratura che considerava conformista, favorita e protetta dalla politica.

Per Quasimodo, la poesia è destinata ad andare oltre la morte, risvegliando le coscienze e riconducendole alla verità.


Quasimodo e Messina

Quasimodo non fu l’unico scrittore siciliano a mantenere uno stretto legame con la propria terra d’origine: anche Elio Vittorini, Vitaliano Brancati e Giuseppe Tomasi di Lampedusa fecero altrettanto.

Fino al 1968, Quasimodo coltivò il suo rapporto con la Sicilia in modo discreto ma ostinato, seguendo percorsi sempre diversi, anche attraverso le traduzioni dal greco e da lingue moderne.

Fu particolarmente legato a Messina, città che vide per la prima volta subito dopo il devastante terremoto del 1908. Messina gli apparve come un cumulo di macerie, morte e distruzione. Ancora bambino, visse con il padre ferroviere su un vagone, nutrendosi soltanto di mele.

In seguito, la loro dimora divenne una baracca di legno, poi una piccola casa in cemento armato situata in via Croce Rossa n. 81, nel Quartiere Americano. Quel paesaggio – l’odore dei limoni, il cielo azzurro, il vento che veniva dal mare – rimase per sempre vivo nella memoria del poeta.

Dopo l’infanzia trascorsa a Roccalumera, Quasimodo conseguì il diploma nel 1919 all’Istituto Tecnico “Antonio Maria Jaci” di Messina, sezione fisico-matematica.

Furono anni intensi, caratterizzati da scambi culturali, circoli letterari, riviste e importanti letture: da Dante a Dostoevskij, da Baudelaire a Mallarmé e Verlaine.

La sua ricerca della verità lo portò a confrontarsi anche con i testi di Platone, Cartesio, Spinoza, Sant’Agostino e i Vangeli.

Tutta la sua prosa critica affonda le radici nella filosofia.

A Messina intrecciò rapporti duraturi con personalità di rilievo come Salvatore Pugliatti, futuro rettore dell’Università, e Giorgio La Pira, destinato a diventare sindaco di Firenze.
Con loro condivise un’intensa stagione culturale, culminata anche nella nascita di un nuovo giornale letterario, il cui secondo numero venne redatto nella baracca di legno dove allora abitava.

Non perse mai il desiderio di ritrovare gli amici. Ogni volta che tornava a Messina, si recava alla libreria dell’Ospe, in Piazza Cairoli, fondata da Antonio Saitta. Qui, nacque l’“Accademia della Scocca”, cui aderivano alcune tra le menti più brillanti della poesia e della letteratura.

Il primo nucleo poetico della raccolta Acque e terre nacque a Messina, con introduzione di Salvatore Pugliatti, mentre con La Pira mantenne uno scambio epistolare continuo.

Messina e la Sicilia furono sempre al centro della sua “topografia poetica”. La sua isola diventò così terra di miti, di memoria e di antica bellezza.


 La modernità di Quasimodo

La poesia di Quasimodo è ancora oggi straordinariamente attuale. Egli scelse un rapporto diretto con i lettori, privo di filtri o cesure, per affrontare a viso aperto le grandi problematiche sociali del suo tempo.

Per Quasimodo, il poeta deve saper raccontare il quotidiano e restituire dignità al presente, affinché l’uomo possa finalmente diventare artefice del proprio destino, libero da condizionamenti esterni.

Le sue parole parlano ancora oggi con forza: l’uomo è armonia e non può aspirare soltanto al dominio, alla conquista o alla guerra. Anela, invece, a un radicamento autentico nella società, in sintonia con il pensiero di Hannah Arendt, filosofa tedesca che denunciò i totalitarismi.

Ogni individuo, secondo questa visione, deve farsi portatore di pace, garante dei diritti dell’altro, condividendo con lui le strutture sociali in nome di un egualitarismo spirituale di matrice cristiana. 

 

 

Bibliografia

Salvatore Quasimodo, Poesie e Discorsi sulla poesia, Mondadori 1983.

– G.Finzi, Invito alla lettura di Quasimodo, Mursia 1983.

– Stefania Campo, Salvatore Quasimodo e la sua Sicilia, Il leone verde 2022

Sitografia

https://turismoecultura.cittàmetropolitana.me.it/cultura/archivio-quasimodo/la-biografia/

https://gazzettadelsud.it/articoli/cultura/2021/02/25/quasimodo-messina-citta-sommersa-nel-mio-cuore-0c44132e-d1c2-4ce1-bc39-c37d59a7df5f/

Il sincretismo. Quando le affinità uniscono popoli e religioni

Quando nel corso della storia si origina una collisione tra due realtà culturali diverse, sono due le possibilità che si presentano come ipotetico futuro: che una delle due collassi o che esse si fondano.

Il sincretismo è un concetto profondamente complesso dell’antropologia e della geografia antropica. Esso è il processo di assimilazione di ciò che è nuovo e inconsueto. L’appropriazione di ciò che è “tuo” e che, unito a ciò che è “mio”, diventa dunque “nostro”.  Usi, costumi, lingua.

Il sincretismo annienta la frammistione culturale, mandando in scena un’unica, meravigliosa, commedia fatta di diversità che nel corso dell’opera si fondono ed emergono come forme di vita ibride.

Il significato etimologico del termine è “unione dei Cretesi”.

La domanda sorge spontanea: che legame ha l’unione dei Cretesi con la fusione di tratti  conciliabili di due civiltà?

Presto detto nessuno, ma il significato del termine “sincretismo” nel corso della storia assunse questa accezione. Dapprima, fu utilizzato da Plutarco per indicare l’unificazione delle varie comunità dell’isola di Creta, nel Mediterraneo Orientale, per far fronte ai pericoli incombenti. Col tempo, questo termine indicò, in senso lato, due realtà che, condividendo elementi ideologici affini, si fondono.

Ecco alcuni esempi per comprendere meglio il fenomeno.

Quando nel II millennio a.C. Babilonia si espanse, diventando una potenza regionale sotto il comando del famosissimo Hammurabi, il re babilonese capì ben presto che la sua terra non si sarebbe stabilizzata solo con la promulgazione di leggi (il famoso codice di Hammurabi, ricordate?).

Egli decise di unire tutti i vari culti del proprio impero, ponendo a capo di questo nuovo pantheon il dio sovrano di Babilonia, Marduk. Una riunificazione politica, ma soprattutto religiosa.

Spostiamo le lancette di qualche anno più avanti.

Con l’avvento delle colonizzazioni e delle campagne di conquista di Alessandro Magno, la cultura ellenica si espanse per gran parte del Mar Mediterraneo e del mondo orientale, entrando in contatto con decine di culture diverse.

I greci che seguirono Alessandro nella marcia verso Oriente finirono per essere sedotti dal lusso e dalle meraviglie di quella terra così affascinante, ma al tempo stesso così diversa dalla madrepatria Grecia. La cultura greca fu così esportata nei regni orientali, originando nuove ed affascinanti realtà.

I regni ellenistici nati dalle ceneri dell’impero macedone presentavano caratteristiche sia della cultura greca sia del mondo orientale.

Si venerava il sovrano, proprio come nei regni orientali, ma si combatteva alla greca. Serrati in falange. Seppur con qualche piccola modifica, come gli elefanti seleucidi.

All’incirca sempre negli stessi luoghi, ma a distanza di quasi mille anni, l’intera produzione filosofica, artistica e letteraria occidentale e orientale confluì nella cultura islamica. Con l’espansione islamica che raggiunse il continente europeo e il subcontinente indiano, i seguaci di Maometto incontrarono realtà molto diverse dalla propria. Gli arabi si fecero portavoce delle teorie pitagoriche, della diffusione della carta, dell’astronomia medio-orientale e della filosofia indiana.

Tre sfumature diverse dello stesso concetto: sincretismo religioso, sincretismo sociopolitico, sincretismo culturale.

Questo fenomeno rappresenta un forza generatrice che rimescola le carte dell’umanità. Dà vita a nuove religioni, nuove correnti politiche, nuove culture.
Le sue intricate dinamiche ci permettono di comprendere l’unicità e, al tempo stesso, la dinamicità della nostra identità culturale. Perchè, spesso, le affinità sono ben più grandi delle differenze.

Fortunato Nunnari

 

 

Da Babilonia a Baghdad: sulle tracce di Hammurabi

Manca, ormai, poco più di un mese al termine dell’affascinante mostra tenuta presso il Museo dei Saperi e delle Mirabilia Siciliane di Catania. Curata dall’archeologo Nicola Laneri e dalla direttrice del museo Germana Barone, entrambi docenti dell’Università di Catania, l’esposizione offre ai visitatori un esaustivo scorcio della storia di Hammurabi, sovrano babilonese di origine amorrea che, nel XVIII secolo a.C., riuscì, tra guerre ed alleanze, a riunificare la Mesopotamia sotto il dominio babilonese e ad assumere il titolo di “Re delle quattro parti del mondo”, la più alta titolatura del mondo vicino-orientale antico.

Un viaggio alla scoperta di una delle personalità più brillanti della storia antica, il cui lascito, tutt’oggi, costituisce le fondamenta del nostro mondo.

Celebre per la sua raccolta di leggi, il famoso Codice di Hammurabi, egli diventa migliaia di anni dopo il protagonista di una mostra che propone reperti forniti da altre realtà culturali quali il British Museum di Londra, il Louvre di Parigi, il Pergamonmuseum di Berlino e il Museo reale di Torino.

 

La stele di diorite, alta 2,25 m, su cui è inciso il Codice di Hammurabi
Fonte: https://www.worldhistory.org/image/14341/code-of-hammurabi/

Con il sostegno di questi celebri musei, viene proposta ai visitatori una riproduzione accurata della stele, oltre ad una serie di reperti archeologici della prima dinastia babilonese ritrovati negli scavi del 1850 a Tell Muhammed e riproduzioni fotografiche delle varie campagne di scavo condotte nel sito iracheno.

L’esposizione, totalmente gratuita, sarà fruibile fino all’11 febbraio dal lunedì al giovedì alle ore 09:00-13:30, 14:30-17:30; venerdì ore 09:00-13:30.

L’iniziativa, di respiro internazionale, volta a finalizzare le ricerche archeologiche, che dal 2022 sono condotte da un gruppo di ricercatori universitari catanesi, il Baghdad Urban Archaeological Project, rappresenta certamente un percorso di formazione e arricchimento culturale imperdibile che dipana le ombre di un mondo, alla fine, non tanto lontano dal nostro.

 

Sulle orme del re

Nel pensar comune, un sovrano che si rispetti deve essere un dominatore di popoli, un temerario condottiero che sottomette con la forza regni vicini e lontani. Chi non conosce Hammurabi cade nella tentazione di ritenerlo, in quanto sovrano ricordato dalla tradizione (perciò importante), un militarista.

Le campagne militari di Hammurabi effettivamente riuscirono ad unificare un territorio discretamente ampio, rendendo città un tempo fiorenti capitali, come Eshnunna o Uruk, semplici capoluoghi provinciali. E se, da un lato, la conquista babilonese del Paese di Sumer, la zona meridionale della Mesopotamia, costituisce un interessante esempio di intraprendenza militare e abilità burocratiche, dall’altro, però, non costituisce un forte vincolo per la figura storica di Hammurabi. Le sue campagne militari si svolsero negli ultimi anni del suo regno, e non ne costituiscono la centralità.

L’azione del sovrano amorreo (amorrea è l’etnia della stirpe di Hammurabi, re di Babilonia) si condensò, oltre a iniziative sociali di cui la famosa stele ne è l’esempio più tangibile, anche in altre due diverse direzioni: potenziamento delle capacità produttive del regno e unificazione del patrimonio religioso locale.

La crisi agricola che colpì la Bassa Mesopotamia nel XIX secolo a.C. obbligò i sovrani a interessarsi personalmente al miglioramento dei sistemi di produzione. Hammurabi si impegnò a far defluire il flusso delle acque diretto verso sud, con una serie di ristrutturazioni dei canali, in modo da contrastare l’eccessiva salinizzazione del suolo che ne limitava la capacità produttiva.  Questi miglioramenti, insieme ad una colonizzazione diffusa (il re assegnava personalmente le terre ai veterani al termine delle campagne belliche), riuscirono a contenere le difficoltà economiche del regno.

Un particolare contributo, forse il più interessante, diede il sovrano babilonese all’introduzione, nel panorama religioso locale, del culto di Marduk, dio della città di Babilonia. La sua è una vera ristrutturazione del pantheon mesopotamico, per cui diverse divinità vengono equiparate, altre messe in secondo piano, tutte quante sotto la luce del dio Marduk.

Cos’altro vi è più potente della politica e del denaro per unire gli uomini, se non la religione? Collocare un dio locale a capo degli dèi mesopotamici, imponendone la devozione, è un processo complesso e rischioso che otterrà piena maturazione solo con il sovrano Nabucodonosor I, diversi secoli dopo.

Hammurabi di Babilonia fu uno dei più importanti regnanti della storia antica, una personalità a cui molti sovrani posteri si ispirarono per governare i loro regni. Il suo lignaggio, difficilmente emulato dai posteri, resta tutt’oggi oggetto di dibattito tra gli studiosi.

 

Bibliografia:
Mario Liverani, Antico Oriente: storia, società, economia. Laterza, 2009.
Federico Giusfredi, Il Vicino Oriente antico: breve storia dalle origini alla caduta di Babilonia. Carrocci, 2020.

 

Nietzsche è ancora vivo e probabilmente ascolta Jazz

Un gigante tra passato e presente

Sebbene sia ormai morto da quasi duecento anni, Friedrich Nietzsche ha scosso le fondamenta della Filosofia contemporanea, provocando grande divisione, nel corso degli anni, tra i suoi più accaniti sostenitori e coloro che non sopportano la brutale onestà con cui la sua oscura penna sputa sentenze sulla bianca carta dei libri.

Un solo aspetto del celebre filosofo nichilista riesce a mettere d’accordo tutti: egli rappresenta un punto di non ritorno nella storia della Filosofia. Il grande successo delle sue opere è sicuramente dovuto alla grande attualità dei temi affrontati: il modo che ha l’uomo di fronteggiare il dolore, la sottile linea che separa la fede cieca dall’illusione e il contrasto tra la morale imposta dalla società e la volontà del singolo individuo sono soltanto alcune delle tematiche che Nietzsche tratta nelle sue opere.

Possiamo dunque affermare che il pensiero di Nietzsche non va relegato al semplice studio accademico, bensì va considerato come un importante chiave di lettura per l’esistenza dell’essere umano in tutte le epoche.

L’apollineo contro il dionisiaco

Il concetto su cui si basa l’intera concezione che Nietzsche ha dell’universo che ci circonda è lo scontro tra l’apollineo e il dionisiaco.

Apollo era il dio greco delle arti e dei canoni, simbolo della razionalità umana. Dioniso era un dio introdotto dai greci nei loro culti a causa di influenze dei popoli asiatici con cui si sono rapportati nel corso del tempo.

Dioniso, a differenza di Apollo, non rispetta alcun canone. Non è razionale, bensì si abbatte sugli uomini come un vento impetuoso. Li spinge ad abbandonarsi ai loro istinti più primitivi, li fa sprofondare nella tentazione e li mette in contatto con la natura.

Inutile dire che la totale irrazionalità di Dioniso non può che divorare le fragili regole imposte da Apollo agli uomini.

Per Nietzsche, dunque, il mondo è stato, è e sarà sempre Dioniso e la sofferenza umana è dovuta dalla difficoltà che l’uomo ha ad accettare il disordine.

All’inizio del secolo scorso è nato un nuovo genere musicale che come tema centrale ebbe proprio il disordine: il Jazz.

Tra ordine e caos: il Jazz

Quando la popolarità di un nuovo genere musicale chiamato Jazz (si pensa il nome derivi da un vocabolo francese che richiama una sensazione di allegria e movimento) esplose a New Orleans, intorno al 1915, Friedrich Nietzsche era già morto da quindici anni.

Ci sono, però, incredibili somiglianze tra il messaggio contenuto nella filosofia di Nietzsche e la musica Jazz.

Questo nuovo genere musicale ha da subito colpito il pubblico per l’utilizzo di svariati virtuosismi e scale musicali alternative, capaci di suscitare nell’ascoltatore un grande senso di disordine e caos. Un richiamo verso gli istinti primordiali dell’uomo, un innato senso di movimento che getterebbe nella confusione anche la più razionale delle menti.

Il Jazz fa uso di un attento studio di scale musicali e virtuosismi per veicolare verso le orecchie dell’ascoltatore quella che è la natura umana: il disordine.

Proprio lo stesso senso di disordine e spaesamento si trova all’inizio del percorso che, secondo Nietzsche, deve portare l’uomo a diventare Übermensch, ovvero oltre-uomo.

La tappa iniziale di questo arduo cammino è segnata dalla morte di Dio, ovvero dalla morte di ogni certezza metafisica. Che essa sia una cieca fede in qualsivoglia religione o un’incrollabile fede nella scienza e nel progresso, ogni convinzione che serva a portare avanti il fragile ottimismo dell’uomo nei confronti della vita è destinata a crollare di fronte alla brutale verità. L’esistenza è sofferenza. L’uomo non può fare uso di alcun costrutto razionale per consolare sé stesso.

La musica come linguaggio universale

E coloro che furono visti danzare, vennero giudicati pazzi da quelli che non potevano sentire la musica.

Nietzsche F., La gaia scienza e idilli di Messina

Con questo aforisma della Gaia scienza, una delle sue più celebri raccolte di aforismi, Nietzsche evidenzia innanzitutto la centralità della musica come linguaggio nell’esistenza umana.

Come affermato da lui stesso ne La nascita della tragedia, una delle sue prime opere, la musica è uno dei pochi mezzi di cui l’uomo dispone per «andare in concerto di fronte alla propria anima», comprendere sé stesso in modo autentico e senza alcun filtro esterno, libero dai dettami morali di una società schiava delle illusioni.

In un mondo in cui gli uomini cercano disperatamente la consolazione, tramite mezzi razionali che non hanno alcuna efficacia, la musica è un’arte comunicativa, svincolata dalla parola umana, che necessita della conoscenza preliminare di una lingua per essere compresa. Ma arriva in modo diretto all’ascoltatore, suscitando immediatamente sensazioni forti e innate nell’anima umana.

Proprio partendo dall’evoluzione nella concezione greca delle opere teatrali, Nietzsche effettua un’approfondita disamina del cambiamento del rapporto tra l’uomo e il disordine.

Mentre, in un periodo iniziale della produzione di tragedie in Grecia, l’uomo si rapportava in modo diretto e spietato col dolore, come vorrebbe il Dioniso, in un secondo momento la tragedia greca è stata appesantita da artifici scenici ed elementi narrativi come il deus ex machina. Greci hanno dunque provato ad introdurre Apollo nella loro produzione tragica, allontanandosi dalla comprensione della vita come puro caos.

Il viaggio dell’uomo: dal dolore all’accettazione

Risulta quasi immediato il passaggio della centralità del caos, come base dell’esistenza e della sofferenza, nella filosofia di Nietzsche, alla centralità del disordine e dell’apparente insensatezza nei componimenti Jazz.

L’aggettivo apparente non è usato in modo superficiale: c’è un attento studio schematico dietro la musica Jazz, proprio come c’è una parvenza di ragione nel caos della filosofia di Nietzsche.

Senza anni di teoria musicale e senza lo studio delle complicate scale che ne costituiscono le fondamenta, sarebbe impossibile comporre un pezzo Jazz.

Allo stesso modo Nietzsche individua una via di fuga dalla ripetitività della sofferenza nell’esistenza umana. Una volta constatato il tramonto di tutte le certezze (la morte di Dio), l’unico modo che ha l’uomo per andare avanti è costruire i propri valori, obbedire unicamente alla propria morale, in modo tale da diventare oltre-uomo. Tutto ciò deve avvenire secondo una ragione interna all’uomo, che apre le porte al concetto di prospettivismo: non esiste qualcosa di oggettivamente giusto, ma i concetti di buono cattivo dipendono dalla prospettiva soggettiva da cui vengono osservati.

Filosofia e musica: la cura per l’anima

Gli anni della pandemia e del lock-down hanno gettato la società nel silenzio più totale. Non si sentiva alcun veicolo circolare in strada, niente serate nei locali, nessun evento sociale che coinvolgesse grandi gruppi di persone. Il silenzio assoluto.

Noi, in quanto esseri umani, abbiamo provato un grande sconforto nel vedere una società figlia del positivismo e della razionalità collassare su sé stessa.

Tutto ciò che la ragione aveva costruito stava crollando davanti ai nostri occhi e noi non potevamo accettarlo.

Ciò che venne teorizzato da Nietzsche nel XIX secolo non fa che ripetersi ciclicamente. Le convinzioni che l’uomo costruisce tramite la ragione crollano una dopo l’altra al presentarsi di nuovi problemi, causandoci sofferenza.

Negli anni del covid-19, è stata proprio la musica ad avere un ruolo centrale nella vita della maggior parte della popolazione globale.

Nietzsche continua a spronarci a trovare il nostro equilibrio personale nel caos, e il mezzo più potente che abbiamo per farlo è sicuramente la musica.

Possiamo, dunque, concludere, alla luce della grande attualità del suo pensiero, che Nietzsche è ancora vivo e probabilmente ascolta Jazz.

Bibliografia:
Nietzsche F., Così parlò Zarathustra, Firenze, Giunti, 2021
Nietzsche F., Genealogia della morale, Trento, Rusconi, 2023
Nietzsche F., La gaia scienza, Milano, Adelphi, 1977
Nietzsche F., La nascita della tragedia, Milano, Adelphi, 1977
Nietzsche F., Tutto sarà allora Dioniso, Firenze, Giunti, 2023
Storia del Jazz: https://www.elegancecafe.it/storia-del-jazz-le-origini/?srsltid=AfmBOoo1hBV-T2HUjr8EJEswe2wLtnOsIL_4HW0Vbvl00RPX0mvD558y

 

Berlinguer: la grande ambizione – L’uomo oltre il politico

Berlinguer: La Grande ambizione
Berlinguer: la grande ambizione racconta la storia di un partito e di un uomo in maniera oggettiva – Voto UVM 4/5

Berlinguer: la grande ambizione è un biopic di Andrea Segre con protagonista Elio Germano. Presentato in anteprima all’apertura della Festa del Cinema di Roma 2024, ha già superato i tre milioni di incassi al box office. Proprio al festival romano, Germano è riuscito a portarsi a casa il premio come miglior attore, a testimonianza dell’ottima interpretazione portata in scena.

La Grande Ambizione: non solo storia, ma anche società

Il film si ambienta fra il 1973 e il 1978, anni dove il Partito Comunista Italiano vive il suo miglior periodo in termini elettorali. Il protagonista è, come suggerisce il titolo, Enrico Berlinguer, segretario del PCI all’indomani del golpe in Cile contro Salvador Allende. In piena guerra fredda, neanche l’Italia vive tempi sereni: è infatti reduce dai movimenti del ‘68, dove studenti e operai si mobilitarono in massa. Ad aggravare la situazione di inizio degli anni ’70 sono le violenze di carattere politico perpetrate dalle organizzazioni terroristiche. Queste continueranno per tutto il decennio, che verrà ricordato come il decennio degli “anni di piombo”. In questa intricata tela sociale, Berlinguer deve anche riuscire a distaccarsi dell’Unione Sovietica, che vede nel suo modello di stato l’unica via per il socialismo.

Dopo i fatti in Cile, per timore di una deriva antidemocratica anche in Italia, Berlinguer teorizza la sua grande ambizione, il compromesso storico. Capisce che per arrivare al governo non bastano i consensi, ma è necessaria un’alleanza con gli altri partiti sorti dalla resistenza antifascista. Il quadro politico della prima repubblica è infatti influenzato dalla conventio ad excludendum, una legge non scritta che esclude a priori le forze di sinistra dagli accordi di governo. Berlinguer quindi ambisce all’apertura al fine di instaurare un dialogo con i democristiani, altra principale forza popolare, in carica dalla nascita della repubblica.

Berlinguer: La Grande Ambizione
“Un italiano su tre vota comunista!” – Fonte: esquire.com

Nonostante un attentato fallito da parte dei servizi segreti bulgari, con il quale il film si apre, continua comunque imperterrito per la sua strada. Riuscirà pian piano, come vedremo, a separarsi anche pubblicamente dal giogo di Mosca, affermando il partito come forza democratica. Seguendo il segretario nel suo tragitto, incontriamo altri maggiori esponenti del PCI: Pietro Ingrao, Ugo Pecchioli, Nilde Iotti e molti altri. Questi lo affiancano nelle sue visite alle fabbriche popolari o durante i grandi comizi, credendo in Berlinguer tanto quanto credono nel loro ideale politico comune.

Il film però non ci parla solamente del Berlinguer politico. Accanto alla vita politica, c’è quella privata composta dalle figure della moglie Letizia Laurenti e dei quattro figli Bianca, Maria Stella, Marco e Laura. Il ruolo di Enrico si fa quindi duplice: non solo funzionario maggiore di partito, ma anche padre di famiglia e fedele marito. Purtroppo le due vite sono difficilmente sovrapponibili, con la prima che toglie continuamente spazio all’altra con suo grande rammarico. Nei rapporti con la famiglia però la politica non manca affatto: vengono infatti continuamente dibattuti accadimenti e questioni dell’epoca.

La Grande Ambizione: l’altra Italia di Berlinguer

L’Italia raccontata in Berlinguer – La grande ambizione, quella della “prima repubblica”, è sì lo spaccato di una società diversa dalla nostra, ma che non è troppo distante. La differenza più evidente sta proprio nel coinvolgimento popolare nella politica. Questa è molto più partecipata e sentita rispetto ad oggi, a testimonianza del fatto che il tema dell’affluenza è oggi più centrale che mai. Impressionante è ad esempio la scena finale che mostra il funerale del segretario. Il corteo che si forma per rendergli onore è immenso e anche le emozioni viste in sala testimoniano quanto sia cambiata la situazione.

Berlinguer: La Grande Ambizione
Festa dell’Unità di Firenze, 1975 – Fonte: iodonna.it

Berlinguer, come mostrano le scene, si batte fino all’ultimo per un comunismo dal volto umano, volto a portare il volere dei lavoratori in alto. Quando Andreotti, in occasione della formazione del suo terzo governo spera di convincerlo, lui risponde “non è me che dovete convincere, ma i lavoratori”. Attraverso interviste e testimonianze, il film mostra anche un uomo riservato e profondamente etico, che riuscì a conquistare la fiducia di molti italiani. La pellicola invita a riflettere sulla politica di oggi, sull’assenza di figure di simile statura morale e sulla necessità di rinnovamento della società odierna.

Giuseppe Micari

Simòn Bolìvar, ”El Libertador” d’America

Simòn Bolìvar, proclamato ”El Libertador” del Sud America, è una delle personalità più affascinanti e complesse della storia dell’umanità. Il mito e la realtà si fondono nella storia della sua persona e delle sue gesta. La sua stessa vita venne definita esemplare da Santiago Key-Ayala, in un saggio a lui dedicato.

Simòn Bolìvar nacque nel 1783 nella città di Caracas, all’epoca parte del Vicereame della Nuova Granada (territori che oggi sono compresi dentro gli Stati odierni di Panama, Colombia, Ecuador, e Venezuela). Fu un sincero patriota sudamericano e si distinse non soltanto come generale, ma anche come scrittore, politico, statista e tribuno.

Segnato nel profondo fin dall’infanzia dalle vicissitudini della sua vita personale, vide sempre negatagli dalla vita gli affetti di cui ogni essere umano ha bisogno durante la propria esistenza. Bolìvar reagì con la ricerca di un obiettivo all’altezza di dare un senso alla sua vita. Scelse senza mai pentirsene di dedicare la sua esistenza alla causa della liberazione del Sud America dalla dominazione spagnola.

La figura del ”Libertador” sembrerebbe uscita dalla penna di Gabriel Garcìa Màrquez, il cui inchiostro ha dato vita al romanzo ”il generale nel suo labirinto” dove il protagonista è proprio Bolìvar.

La figura storica di Simòn Bolìvar fu talmente audace che la sue azioni sono al pari di una leggenda. Le pagine del romanzo di Màrquez rendono proprio l’idea del genere letterario di cui il premio nobel per la letteratura è uno dei massimi esponenti, ovvero il realismo magico.

Nella vita di Bolìvar, oltre che nel suo pensiero e nelle sue azioni, vi è tanto realismo quanto magia. La magia dei sogni, degli ideali, dei valori che hanno infiammato lo spirito sia di Bolìvar che lo spirito del  tempo.

 

Una vita in cui l’amore è morto

Figlio di genitori aristocratici creoli, appartenenti a due importanti casate fondatrici della città di Caracas (oggi capitale della Repubblica Bolivariana del Venezuela), Simòn Bolìvar venne privato dell’affetto fin da bambino. La vita lo rese orfano del padre al suo terzo anno di vita, e all’età di nove perse anche la madre.

Rimasto orfano, ereditò ampi possedimenti nell’allora Vicereame della Nuova Granada. Per via della giovane età venne affidato a suo nonno, da cui scappò a dodici anni per via del suo carattere ribelle. Andò a rifugiarsi dalla sorella María Antonia.

Successivamente, in seguito a una disputa legale su chi dovesse amministrare l’eredità del bambino, Bolìvar venne forzatamente trasferito nella casa di un insegnante, Simòn Rodrìguez. La figura di questo maestro sarà fondamentale per la formazione culturale e lo sviluppo della personalità di Bolìvar.

All’età dei suoi sedici anni, nel 1799, morì il nonno.

In seguito, venne imbarcato verso la Spagna per ricevere gli insegnamenti necessari per un giovane del suo rango, destinato a governare gli ampi possedimenti per conto della corona di Spagna.

Una volta giunto a Madrid, iniziò a studiare. Lingue straniere, danza, matematica, equitazione e storia.

 

Orfano e vedovo prematuramente

Durante il suo soggiorno a Madrid, conobbe e si innamorò perdutamente di  María Teresa Rodríguez del Toro, la quale sposò nel 1802.

Dopo le nozze decise di tornare a Caracas, ormai adulto, era giunto il momento di prendersi cura dei suoi possedimenti.

Pochi mesi dopo il suo ritorno nel nuovo mondo, però, la sua amata moglie fu colpita dalla febbre gialla, che la uccise.

Questa perdita devastò il cuore del Simòn Bolìvar. Fu forse questo avvenimento che assunse il ruolo di spartiacque tra quello che era stata la sua vita fino a quel momento e l’uomo che sarebbe divenuto.

Probabilmente, la storia di Simòn Bolìvar e di tutto il Sud America sarebbe stata completamente diversa se egli non avesse perso la sua giovane sposa.

 Bolìvar, devastato, giurò che non si sarebbe mai più sposato. Fu il suo primo e ultimo amore.

 

La ricerca di un senso degno per la propria vita 

Orfano, vedovo e svuotato di ogni scopo, Bolìvar si imbarcò nuovamente verso la Spagna.

Dopo poco tempo, tuttavia, decise di trasferirsi a Parigi, per scappare dai ricordi dell’amata scomparsa che lo seguivano in ogni angolo delle strade di Madrid.

Giunto a Parigi, si lasciò andare a una vita dissoluta, attingendo al suo patrimonio fino a che non fu raggiunto da una notizia. Il  suo caro ex maetro di Caracas, Simòn Rodrìguez, si trovava anch’egli a Parigi.

Bolìvar lo incontrò e Rodrìguez lo persuase dal buttar il tempo della sua vita nell’effimero, spingendolo a studiare i grandi pensatori del suo tempo, ovvero Montesquieu, Rousseau, Voltaire e gli enciclopedisti.

Fu forse anche lo studio di questi autori che contribuì a rendere Simòn Bolìvar la figura  scolpita nel granito della storia.

 

Il viaggio in Italia e il giuramento sull’Aventino

Rodrìguez, amico e maestro di Bolìvar, gli propose di intraprendere un viaggio insieme per l’Italia, convincendolo che lo avrebbe aiutato a superare la fragilità emotiva che lo attanagliava. Fu proprio in Italia che due eventi cambiarono le prospettive per il futuro del giovane Bolìvar.

Il primo di questi fu l’incontro ravvicinato a Milano con il suo ammirato eroe, Napoleone Bonaparte, all’epoca Re d’Italia. Presto, però, lo rinnegò e criticò aspramente, quando, nel 1804, fu incoronato Imperatore di Francia a Parigi, tradendo agli occhi di Bolìvar gli ideali rivoluzionari che animavano lo spirito del tempo ed avevano entusiasmato il giovane aristocratico ispano-americano.

Successivamente, proseguì il suo viaggio in Italia giungendo nella Città Eterna. Qui vi è il racconto, forse un po’ romanzato dallo stesso Rodrìguez, che diede inizio alla simbiosi tra realtà storica e leggenda.

Il maestro e l’allievo si recarono sul monte sacro dell’Aventino a Roma e proprio lì, secondo il maestro di Caracas, Simòn Bolìvar pronunciò un giuramento, un voto per  il quale spenderà tutta la sua vita e i suoi averi.

Lì, sul monte dell’Aventino,  pronunciò:

                                        Non darò riposo al mio braccio né alla mia spada fino al giorno in cui spezzeremo le catene del dominio spagnolo che ci opprime.

 

Monumento dedicato a Simòn Bolìvar, situato a piazzale Simòn Bolìvar, RomaFonte: https://www.sovraintendenzaroma.it/sites/default/files/Bolivar_1_1024x512.jpg
Monumento dedicato a Simòn Bolìvar, situato a piazzale Simòn Bolìvar, Roma
Fonte: https://www.sovraintendenzaroma.it/sites/default/files/Bolivar_1_1024x512.jpg

Il sottile filo della storia che collega passato e presente

Vi è un sottile filo conduttore, un filo storico-culturale dell’epoca di cui scrivo, che ha rilegato la storia dei popoli del mondo. Un filo conduttore che ci guida fino alle società in cui viviamo oggi.

Questo filo inizia con la Rivoluzione francese e la Guerra d’Indipendenza nordamericana, e si collega direttamente alle guerre d’Indipendenza sudamericane condotte da Simòn Bolìvar e gli altri protagonisti.

Questo filo non si è mai spezzato. Si è spostato in lungo e in largo nel mondo, tornando, ad esempio, in Italia, con le guerre d’indipendenza risorgimentali contro il dominio austriaco, e ha continuato fino alla storia moderna, con le guerre d’Indipendenza che hanno portato alla decolonizzazione europea dell’Africa e dell’Asia, tra le due guerre mondiali fino alla fine del XX secolo.

Un filo che continua a essere il filo che rilega le pagine dell’immenso libro della storia del mondo. Un filo che rilega al giorno d’oggi il capitolo della quasi secolare lotta per l’indipendenza della Palestina.

È il filo d’oro dell’autodeterminazione dei popoli.

L’inizio della liberazione Sud Americana

Mappa illustrativa del sistema coloniale europeo nel mondo conosciuto nel XVIII secolo all'alba delle guerre d'indipendenza americane
Mappa illustrativa del sistema coloniale delle potenze europee e del traffico di merci e schiavi da e per le colonie all’alba delle guerre d’indipendenza americane.
[Carta di Laura Canali] https://www.limesonline.com/carte/colonie-europee-traffici-rotte-14656194/

Nel 1806, il patriota venezuelano Francisco de Miranda diede avvio al primo tentativo di liberazione del Sud America. Miranda tentò di liberare la città di Coro, situata vicino la costa venezuelana, ma non ebbe successo. La sua iniziativa, però, fece divampare ancora di più la fiamma del sogno di Bolìvar, che decise di ritornare nella terra patria per dedicare la sua vita al giuramento fatto.

Le concomitanze geopolitiche dell’epoca giocarono a favore dei patrioti ispano-americani, in quanto, nel 1808, Napoleone pose la corona di Spagna sulla testa di suo fratello Giuseppe. Questo atto scatenò una guerra nella penisola iberica che sconvolgerà la Spagna fino al 1814.

La guerra indebolì il potere, l’influenza e la deterrenza spagnola nei territori d’oltre mare.

Le notizie della lotta per il trono spagnolo diedero ulteriore spinta agli ideali indipendentisti che andavano maturando in tutto il Sud America.

Nel 1810, a Caracas, nacque il movimento secessionista, l’anno successivo la città di Caracas dichiarò la sua indipendenza dalla corona di Spagna.

L’ascesa di Bolìvar in politica e nei campi di battaglia

Fu con la creazione della Repubblica di Caracas e la firma dell’atto d’Indipendenza che Bolìvar iniziò a farsi notare.

I suoi interventi fortemente indipendentisti e radicali non passarono inosservati. Inoltre, si unì all’esercito di Francisco de Miranda, con il ruolo di colonnello, per difendere la neonata Repubblica dalla reazione spagnola.

La prima esperienza repubblicana però non superò il biennio. L’esercito realista spagnolo, meglio armato e addestrato, sconfisse i repubblicani venezuelani.

Nella sconfitta pesò anche un errore commesso dall’inesperto Bolìvar, che perse la piazza di Puerto Cabello, dove i repubblicani conservavano la loro scorta di armi e munizioni.

Impossibilitati nella continuazione della guerra, il generale Miranda trattò la capitolazione con gli spagnoli e pose fine all’esperienza della Prima Repubblica Venezuelana.

 

L’assunzione della leadership indipendentista e la “Campagna ammirabile”

L’accettazione senza riserve di tutti i termini della capitolazione, imposti dagli spagnoli al generale Miranda, provocò la fine dell’ammirazione e fiducia da parte dei suoi sottoposti compreso lo stesso Bolìvar che vide in questa condotta una sorta di tradimento alla causa indipendentista. Miranda fu così deposto dalla guida rivoluzionaria e arrestato. Lo stesso Bolìvar partecipò al suo arresto, avvenuto il 31 luglio 1812. Miranda morirà nella prigione Spagnola di La Carraca a Cadice, nel 1816.

Simòn Bolìvar aveva fatto un giuramento e non si diede per vinto. Nel 1812, scappò a Curaçao e nello stesso anno si trasferì a Cartagena de Indias. Il suo progetto era liberare sia la Venezuela che la Nuova Granada.

Proprio a Cartagena, Bolìvar scrisse uno dei suoi più importanti testi politici, il “Manifesto di Cartagena“, nel quale propose la riconquista di Caracas come passo fondamentale per la liberazione dell’intero continente sudamericano, da cui sarebbe dovuto nascere un grande stato unitario chiamato Gran Colombia.

Sulla base ideologica del manifesto di Cartagena, radunò un esercito.

Il 14 maggio 1813, attraversò a cavallo le Ande, conseguendo una vittoria dopo l’altra. Una marcia, tra audacia e strategia, che ricordò quella di Annibale, questa impresa fu chiamata la ”campagna ammirabile”.

In appena tre mesi, entrò trionfalmente nella città di Caracas.

Bolìvar era il capitano generale degli eserciti della Nuova Granada e Venezuela e la città di Caracas gli conferì il titolo di ”Libertador”.

Ebbe così inizio la Seconda Repubblica di Venezuela.

 

Ande venezuelane
Ande Venezuelane
Fonte: https://lacgeo.com/sites/default/files/valle_de_mifaf%C3%AD_opt.jpg

 

Tra nemici interni ed esterni si spegne la Seconda Repubblica di Venezuela

Conclusasi l’ebrezza della vittoria, Bolìvar  si trovò ad affrontare i gravi problemi in cui versava la nuova Repubblica di Venezuela. Mancanza di organizzazione, anarchia, rivalità interne e sete di potere nel nuovo Stato crearono coalizioni di nemici interni, i quali si sommarono alla minaccia Spagnola che era ancora ben lontana dall’essere debellata.

Alla fine, la situazione per Bolìvar e i suoi fedeli fu insostenibile e fu costretto ad emigrare nell’Est del paese, seguito da quasi tutta la popolazione di Caracas.

Fu la fine della Seconda Repubblica di Venezuela.

I viaggi dalla Colombia alla Jamaica fino all’isola di Haiti e la lotta alla schiavitù

Bolìvar era stato sconfitto, ma in cuor suo aveva perso una battaglia, non la guerra.

Così, si spostò a Cartagena e poi a Bogotà.

Ormai, Bolìvar era ridotto in povertà, avendo speso tutte le sue fortune per la causa indipendentista.

Decise di imbarcarsi per la Jamaica e giunse alla città di Kingston. Era in cerca di appoggio finanziario e militare dalla corona inglese.

Nell’attesa della risposta inglese, decise di partire alla volta della giovane Repubblica di Haiti, che aveva ottenuto l’indipendenza dalla Francia nel 1804, divenendo il secondo Stato indipendente delle Americhe dopo gli Stati Uniti.

Haiti fu il primo Stato nato da una rivoluzione anti-schiavista, portata avanti proprio da un gruppo di schiavi liberati che si opposero al sistema schiavista francese e al suo sistema coloniale.

Fu proprio la missione di abolire la schiavitù in tutte le Americhe e liberarle dal gioco coloniale europeo che il Presidente haitiano, Alexandre Pétion, offrì rifugio a Bolìvar e appoggiò la sua causa indipendentista, fornendogli un generoso aiuto in uomini e mezzi.

L’aiuto venne concesso a patto che Bolìvar abolisse la schiavitù in tutto il Sud America.

Bolìvar divenne anch’egli un fervente rivoluzionario, non solo in chiave anti-coloniale ma anche anti-schiavista.

Bolìvar, forte dell’appoggio haitiano, salpò alla conquista dell’isola venezuelana di Margarita.

Il 16 giugno 1816 dichiarò l’abolizione della schiavitù in tutta la Venezuela e ottenne, di riflesso, l’appoggio della popolazione nera, che si arruolò nelle file repubblicane.

La battaglia di Vertières, tra haitiani e francesi
La battaglia di Vertières

La liberazione della Nuova Granada e  Venezuela e la creazione della Gran Colombia

Nel 1817, Bolìvar era riuscito a dare nuovamente slancio alla causa indipendentista.

Conquistò la regione venezuelana della Guayana, rendendola una roccaforte repubblicana inespugnabile. Lì, fondò il giornale ”Correo del Orinoco”, che fu pubblicato dal 1818 al 1821.

Stampato nella città di Angostura (oggi Ciudad Bolìvar), sarà il primo giornale sovrano di tutto il Sud America e le sue copie verranno diffuse anche in Europa.

Sempre nella città di Angostura, nel 1819, convocò un congresso dove pronunciò il più celebre dei suoi discorsi politici.

Organizzò un nuovo esercito indipendentista, forte di tremila uomini, e consacrò alla storia per una seconda volta la sua audacia.

Replicò la traversata del 1813 delle Ande, durante la stagione delle piogge. La sua strategia si rivelò vincente e colse alla sprovvista gli spagnoli, che furono sconfitti nella battaglia decisiva di Boyacá, il 7 agosto 1819.

Il 10 agosto Bolìvar entrò trionfalmente a Bogotà. La Nuova Granada era stata liberata.

Bolìvar tornò nella sua roccaforte di Angostura e riuscì a far approvare una nuova Costituzione, dando vita alla Repubblica di Colombia (o Gran Colombia).

La nuova repubblica accorpava i territori di quello che oggi sono la Venezuela e la Colombia odierna. Tuttavia la Venezuela rimaneva ancora sotto il dominio spagnolo.

Nel 1821, l’esercito indipendentista sconfisse gli spagnoli nella pianura di Carabobo, vicino Caracas, consacrando l’indipendenza venezuelana dalla Spagna per la terza volta.

Successivamente, fu indetto il congresso di Cúcuta, che elesse Bolìvar Presidente della Colombia e gli conferì ampi poteri esecutivi, ratificando il suo modello di Stato centralizzato che scongiurava gli estremi sia della monarchia sia dell’anarchia democratica.

 

La cacciata definitiva degli spagnoli dal Sud America

Le ambizioni di liberazione di Bolìvar non erano terminate.

Insieme ai suoi più fidati generali, liberò i territori dell’attuale Ecuador, Bolivia e Perù.

In concerto con un altro rivoluzionario e patriota sudamericano, l’argentino José de San Martín, che liberò il Cile e l’Argentina dal gioco spagnolo.

Alla fine del 1824, si concludevano le guerre d’indipendenza sudamericane, combattute contro gli spagnoli nell’arco di dodici anni.

Gli spagnoli non riconquisteranno mai più territori sudamericani continentali e, entro la fine del secolo, perderanno gli ultimi possedimenti insulari di Cuba e Puerto Rico.

 

La guerra contro il colonialismo era finita, ma quella per il potere interno era appena iniziata

Bolìvar vide il  sogno a cui aveva dedicato la vita realizzarsi nel concreto. Era all’apice della sua popolarità. Lui, il Libertador di tutto il continente sudamericano, era celebrato in tutte le città.

Ben presto, però, molti dei suoi amici divennero nemici. Iniziarono a formarsi fazioni contrapposte e intrighi.

La Gran Colombia, da lui presieduta, comprendeva la metà settentrionale del Sud America. Gli attuali stati di Venezuela, Colombia, Ecuador, Panama, Perù e Bolivia, liberati da lui e dal suo fidato generale Sucre. Bolìvar, però, andò ancora oltre.

Già presidente della Gran Colombia, sognava una “lega americana” che avrebbe unito le sue repubbliche con gli altri stati ispano-americani indipendenti (Messico, Cile e Argentina). Sognava una federazione che avrebbe avuto una propria presenza nella politica internazionale, capace di contare sullo scacchiere geopolitico e confrontarsi alla pari con le potenze europee, come iniziavano a fare i giovani Stati Uniti nordamericani.

 

La fine di un sogno e la frammentazione in piccoli stati sud americani

El Libertador fu accusato dai suoi rivali di aspirazioni imperiali. I suoi ex compagni d’armi rivendicavano per se stessi il potere nelle nuove repubbliche costituite.

I suoi rivali interni fecero franare il sogno di Bolìvar. Era esausto dei numerosi attentati alla sua persona e di una vita in lotta per un sogno che sì, era suo, ma anche del popolo sudamericano che tanto amava.

Decise così di arrendersi alle lotte intestine che stavano corrodendo la nuova società costituita. Frustrato dagli eventi, dichiarò di

”aver arato il mare”.

Nel gennaio del 1830, rassegnò le dimissioni definitive da Presidente della Gran Colombia e si ritirò dalla scena pubblica.

Nel giro di pochi mesi, la sua Gran Colombia si sciolse e sorsero dalle ceneri una serie di staterelli indipendenti governati da leader militari, tradizione sudamericana che continuò fino e per tutto il ‘900.

 

La fine di Simòn Bolìvar

Fedele a se stesso e alle sue parole, come uomo d’altri tempi quale è stato, Bolìvar dedicò la sua vita e il suo intero patrimonio a mantenere il giuramento prestato al suo maestro ai piedi dell’Aventino.

Morì a Santa Marta il 17 dicembre 1830, a quarantasette anni. In povertà, lontano dalla vita pubblica, calunniato dall’accusa di mire imperiali. Perseguitato in maniera accanita dai suoi nemici invidiosi della sua gloria.

L’ultimo desiderio, espresso nel suo testamento politico, rivela il suo valore e la figura storica eccezionale che è stato fino alla fine dei suoi giorni.

El Libertador nelle sue ultime parole scrisse:

Se la mia morte contribuirà alla cessazione delle fazioni e al consolidamento dell’unione, scenderò serenamente nella tomba. 

Così si concluse la storia di Simòn Bolìvar, l’eroe del nuovo mondo, El Libertador che per venti anni a cavallo ha percorso il Sud America per liberare quella terra che per secoli era stata sotto il dominio spagnolo.

Può essere considerato il primo anti-imperialista del continente sudamericano.

 Viva la memoria di  Simòn Bolìvar!

Antonino Giorgio Saffo.

 

Trailer del film The Liberator (2014), basato sulla vita di Simòn Bolìvar, di Édgar Ramírez

Fonti:

https://www.storicang.it/a/simon-bolivar-il-liberatore-dellamerica_16872

Vita esemplare di Simon Bolìvar, Santiago Key-Ayala, Oaks Editrice, 2021

https://it.wikipedia.org/wiki/Sim%C3%B3n_Bol%C3%ADvar

https://it.wikipedia.org/wiki/Jos%C3%A9_de_San_Mart%C3%ADn

https://it.wikipedia.org/wiki/Haiti

https://it.wikipedia.org/wiki/Francisco_de_Miranda

https://www.storicang.it/a/gabriel-garcia-marquez-il-maestro-realismo-magico_16634

 

 

L’umanità e il ciclo della guerra

L’Insegnamento del Dolore

 

Fonte: https://www.elconfidencial.com/cultura/2018-10-23/robert-capa-fotografia-segunda-guerra-mundial-frank-scherschel_1634364/

 

L’essere umano, sin dai suoi albori, ha vissuto l’atrocità della guerra come un marchio indelebile sulla propria storia. 

Le cronache antiche raccontano di battaglie sanguinose e conflitti che hanno segnato il destino di intere civiltà.
Da Omero, che nella “Iliade” descrive il dolore e la perdita di vite umane, a Tolstoj, il cui “Guerra e Pace” offre una riflessione profonda sulla condizione umana in tempo di conflitto. La letteratura ha sempre cercato di catturare l’essenza della sofferenza causata dalla guerra.

Eppure, la storia sembra ripetersi.
Le attuali guerre in Ucraina e Palestina riaccendono la discussione su quanto, realmente, abbiamo imparato dal nostro passato.

Il sangue versato nel corso dei secoli potrebbe suggerire che, in effetti, l’umanità tende a ripercorrere gli stessi sentieri di violenza. L’atroce ciclo della guerra sembra non avere fine, e ci si chiede: perché l’uomo continua a imporsi con violenza?

La risposta è complessa e affonda le radici nella nostra natura.

Come scrisse Erich Fromm, “l’uomo è un animale sociale, ma è anche un animale aggressivo”.

Questa dualità ci porta a esplorare le ragioni che spingono le nazioni e i popoli a risolvere le proprie divergenze attraverso l’uso della forza. L’umanità, anziché apprendere dalla sofferenza, sembra a volte rimanere intrappolata in un ciclo di vendetta e ritorsione.

Il conflitto in Ucraina e la situazione in Palestina evidenziano il dramma di popoli oppressi e combattenti, ognuno con le proprie ragioni, le proprie sofferenze, ma anche le proprie speranze. La questione è se, davanti a tanta desolazione, si possa davvero intraprendere un percorso di dialogo e comprensione reciproca.

Gandhi, con la sua filosofia di non violenza, ci ricorda che “la vera forza non consiste nel colpire, ma nel resistere alla tentazione di farlo”.

Eppure, la tentazione è spesso irresistibile.

Il dolore e la perdita che derivano dalla guerra hanno la capacità di risvegliare in noi una compassione profonda, ma il rischio è quello di trasformare questa empatia in una reazione di difesa e aggressività.

L’insegnamento del passato, quindi, non dovrebbe essere solo un monito, ma un’opportunità di riflessione.

Come scrisse Primo Levi, “se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”, perché solo attraverso la conoscenza possiamo sperare di spezzare il ciclo della violenza.

Fonte: https://glamourdaze.com/2018/05/heroic-hardass-women-of-ww11.html
Fonte: https://glamourdaze.com/2018/05/heroic-hardass-women-of-ww11.html

Abbiamo la responsabilità di guardare alla storia non solo come un catalogo di atrocità, ma come un insieme di lezioni da apprendere. Ogni conflitto, ogni guerra, dovrebbe insegnarci a cercare alternative alla violenza, a promuovere il dialogo e la pace.

La vera sfida è quella di trasformare il dolore in comprensione, di utilizzare la sofferenza come carburante per costruire ponti anziché muri.

In questo momento critico, in cui la guerra continua a mietere vittime, è fondamentale che l’umanità si fermi a riflettere.

Dobbiamo chiederci: cosa abbiamo imparato? Possiamo costruire un futuro in cui la guerra non sia più una risposta?

La risposta è nelle nostre mani. Solo attraverso il dialogo e la comprensione reciproca possiamo sperare di superare il passato e costruire un mondo in cui il sangue versato non sia stato vano, ma diventi il seme di una nuova era di pace e coesistenza.

 

Soldato in guerra Fonte: https://cherrieswriter.com/bdf1c94a093ab348eec161f2057bfd14/
Fonte: https://glamourdaze.com/2018/05/heroic-hardass-women-of-ww11.html

Nel cuore dell’Europa, dove la storia è costellata di cicatrici profonde, la nostra società si trova oggi di fronte a una sfida cruciale: la difesa dei diritti umani.

Gli eventi che hanno segnato il Novecento ci ricordano che il sangue versato per la libertà non deve essere dimenticato. Ogni passo indietro in termini di diritti civili è un passo verso l’oscurità, un’involuzione che nessuno di noi può permettersi.

In un momento in cui il mondo sembra essere lacerato da conflitti e divisioni, l’Italia deve essere un faro di speranza.

Dobbiamo rispondere all’odio con l’amore, alla paura con la compassione. Ogni persona merita di essere ascoltata, ogni storia merita di essere raccontata. Non possiamo lasciare che la narrazione sia dominata dalla disumanizzazione e dall’indifferenza.

Riflettiamo, dunque, sulle nostre scelte e sul futuro che vogliamo costruire.

L’umanità ha pagato un prezzo altissimo per i diritti che oggi diamo per scontati. Non dimentichiamo, non voltiamo le spalle. Lottiamo insieme per un’Italia che rappresenti davvero tutti, dove il rispetto e la dignità siano i pilastri su cui costruire la nostra società. La nostra voce è potente; usiamola per promuovere la pace e i diritti di ogni individuo.

The Apprentice: il lato di Trump che non vi voleva svelare

The Apprentice non si perde in chiacchiere ed è attuale. Voto UvM: 4/5

 

A poco meno di un mese dalle elezioni presidenziali negli USA, esce nelle sale un film incentrato proprio sulla figura di uno dei due candidati alla Casa Bianca: Donald J. Trump. “The Apprentice – Alle origini di Trump” è stato mostrato in anteprima al Festival di Cannes in quanto concorrente per la prestigiosa Palma d’Oro. L’ambientazione degli anni ’70 e ‘80 lo vede agli albori della sua lunga attività imprenditoriale, interessandosi all’apprendimento dei trucchi del mestiere. L’ex presidente è magistralmente interpretato da Sebastian Stan, conosciuto per l’interpretazione del Soldato d’Inverno nei film Marvel, affiancato da Jeremy Strong nei panni dello spietato Roy Cohn.

Da piccolo gestore immobiliare alla Trump Tower

La storia del film inizia con un Donald irriconoscibile che cerca di barcamenarsi nell’adrenalinica New York. All’ombra del padre, il rude Fred Trump, è poco considerato quando si tratta di chiudere affari. La sua fortuna risiede nell’azienda immobiliare di famiglia, anche se Fred pone poche speranze nel figlio. Il loro rapporto è di fatti per lo più composto da conflitti, soprattutto quando si parla del processo federale in cui la famiglia è coinvolta. In una delle serate dell’alta società newyorkese, fa la conoscenza di Roy Cohn, rinomato avvocato che viene visto come la soluzione ai problemi legali. Roy si presenta apparentemente senza un briciolo di umanità, non sapendo che ciò farà la fortuna di Trump.

Con un po’ di insistenza Donald riesce a diventare suo cliente: l’incontro gli cambierà la vita poiché l’avvocato gli trasmette i propri insegnamenti. Tre spietate regole per vincere nel mondo degli affari, dei processi e della vita che diventeranno un vero e proprio mantra per il costruttore. Il suo primo obiettivo è quello di farsi notare vincendo una grande scommessa: l’acquisizione del Commodore, un lussuoso hotel in rovina, al fine di rilanciare l’economia cittadina. Grazie all’aiuto di Cohn, che non si fa scrupoli di nessun genere, riesce a vincere il processo contro l’azienda. In seguito riesce anche ad ottenere la struttura del Commodore senza tassazione. Questo lo porta ad affermarsi nella scena pubblica come costruttore, come gli piace definirsi, in ascesa nella grande mela.

Il rapporto col mentore

Il suo avvocato gli insegna anche come curare la sua immagine, che presto imparerà a elevare sopra ogni cosa attorno a lui, tanto da affermare che l’utilizzo del suo nome per oggetti di lusso o grandi edifici “non ha niente a che vedere con l’ego, semplicemente vende”. La sua vera vocazione si palesa essere quella della figura di spicco più che del grande uomo d’affari che non sbaglia un colpo, anzi tutt’altro. Lo stesso Cohn, colui che l’ha costruito, inizia ad essere fatto da parte.

The Apprentice: Individualismo oltre ogni cosa

Dopo l’apertura della Trump Tower e l’espansione spropositata dei casinò ad Atlantic City iniziano a sorgere i problemi relativi ai mutui accumulati per queste grandi costruzioni. Anche la relazione con la sua prima moglie, Ivana, conosciuta durante una delle tante cene della New York per bene, inizia a scricchiolare. L’avanzamento dell’età e la fama portano Donald a compiere scelte ambigue ed egoistiche: la scarsa considerazione del fratello Fred Jr. porterà alla sua morte, perde interesse in Ivana, costretta a sottoporsi a una mastoplastica, e allontana definitivamente Roy Cohn. Nel film ci sono continui riferimenti ad avvenimenti futuri, come la creazione del motto “Make America Great Again”. Non mancano neanche domande riguardo una eventuale candidatura come presidente.

The Apprentice
Lo stile del maccartista.  Fonte: npcmagazine.it

La figura di Cohn come specchio della società

Per analizzare bene The Apprentice è necessario dare uno sguardo anche al mentore dell’imprenditore. L’avvocato Roy Cohn, seguace del maccartismo, è additato come il diavolo, anche se andrà a creare una creatura ben più spregevole. Come già accennato, il mantra di Donald sono state le determinate tre regole di Cohn: attaccare, attaccare, attaccare, senza dare tregua, negare la verità fino a crearsi la propria verità e infine mai confessare, al fine di risultare sempre vincitore. Tutto questo, unito a qualche trucchetto non propriamente legale, fanno di Roy l’avvocato e il maestro perfetto, ma solo all’apparenza. Dietro i suoi processi contro comunisti e omosessuali, si nasconde un uomo anch’esso omosessuale, che finirà per contrarre l’AIDS negli anni dell’epidemia. La rivelazione del suo lato umano, anche nei confronti del compagno, porterà Trump ad allontanarlo e a ripudiarlo per la sua malattia.

The Apprentice
Roy Cohn interpretato da Jeremy Strong. Fonte: bbc.com

Conclusioni su The Apprentice

La de-umanizzazione di Donald passa dalla liposuzione e dalla chirurgia estetica fino all’abuso della moglie. Questa scena in particolare ha creato problemi nella distribuzione del film stesso, che si pensava fosse ideato per celebrare ancora di più la figura del candidato presidente. Lo stesso Trump ha cercato di oscurarlo, minacciando azioni per vie legali, ma mai effettivamente attuandole. The Apprentice si conclude con il climax della scrittura dei primi libri del magnate, che ormai diventato un uomo copertina si prepara a prendersi il mondo intero con insaziabile ambizione.

 

Giuseppe Micari