L’Universo dentro di noi: essere figli delle stelle

In un mondo in cui è sempre più facile sentirsi smarriti, uno spiraglio di luce racconta una realtà profonda e ancestrale: “siamo polvere di stelle che studia le stelle, il tentativo dell’universo di comprendere sé stesso”. Potrebbe risultare poetico, a tratti banale, ma le parole di Carl Sagan, noto astrofisico statunitense, nascondono una realtà scientifica che lascia poco spazio a interpretazioni. “L’azoto nel nostro DNA, il calcio nei nostri denti e il ferro nel nostro sangue” sono elementi chimici derivati dal ciclo di nascita e morte delle stelle, giunti fino a noi nel corso di miliardi di anni. Ma siamo davvero figli delle stelle, come cantava Alan Sorrenti?

  1. Come nascono le stelle
  2. Il ciclo vitale delle stelle
  3. Il ciclo cosmico
  4. Il corpo umano come testimone
  5. Il ruolo dell’ossigeno e del carbonio
  6. Figli delle stelle

Come nascono le stelle

Le stelle sono corpi celesti che producono energia, vere e proprie fucine cosmiche che generano gli elementi fondamentali per la vita, come carbonio, ossigeno, calcio e ferro. Hanno origine all’interno delle nebulose, grandi nubi interstellari di polveri sottili e gas freddi in movimento. Questi materiali, sotto l’effetto della gravità, interagiscono tra loro e si aggregano in zone ad alta intensità chiamate Globuli di Bok. Quando la contrazione prosegue, la temperatura aumenta e dal collasso dei materiali nasce una protostella; se la massa è sufficiente, un ulteriore incremento di pressione innesca la fusione nucleare dell’idrogeno in elio. Tale evento segna l’inizio della vita della stella e la sua fase più lunga, nota come sequenza principale.

Il ciclo vitale delle stelle

Le stelle possono brillare per milioni o miliardi di anni ma, terminato l’idrogeno, la loro esistenza dipende dalla massa iniziale:

  • Stelle di piccola massa non raggiungono temperature sufficienti a fondere l’elio e, dopo aver attraversato la fase di gigante rossa ed espulso gli strati più esterni, terminano la loro vita come nane bianche, destinate a raffreddarsi lentamente nel corso di miliardi di anni;
  • Se la massa è pari o leggermente superiore a quella del Sole, evolvono in giganti rosse, innescando reazioni termonucleari che trasformano l’elio in carbonio e ossigeno. Al termine del processo, la stella espelle gli strati più esterni, dando origine a una nebulosa planetaria;
  • Stelle di grande massa cominciano a fondere elementi progressivamente più pesanti, fino a quando il nucleo non si arricchisce di ferro. Raggiunta una massa critica, non potendo sostenere oltre la pressione gravitazionale, collassano e innescano un’esplosione di supernova, uno degli eventi più energetici dell’universo;
  • Il corpo celeste estremamente compatto che permane dopo l’esplosione della supernova, a seconda delle dimensioni della stella originaria, diventa una stella di neutroni o un buco nero;

    Nebulosa Planetaria Piccolo Manubrio. Fonte.

Il ciclo cosmico

Durante le reazioni di fusione nucleare, le stelle- in particolare le esplosioni di supernove, che producono elementi progressivamente più pesanti – generano carbonio, azoto, ossigeno, magnesio, zolfo, fosforo, calcio e ferro. Giunti al termine del ciclo vitale, i corpi celesti di dimensioni minori espellono lentamente gli strati esterni, mentre quelli di massa maggiore disperdono violentemente nello spazio i loro prodotti. Una parte di questi, uniti al gas interstellare in progressivo raffreddamento, contribuisce alla formazione di nuove stelle e pianeti. Il ciclo cosmico di nascita e morte, dunque, arricchisce l’universo proprio con quegli stessi elementi che portano alla formazione di nuovi sistemi planetari e in alcuni casi, come accaduto sulla Terra, rendono possibile la comparsa della vita.

Il corpo umano come testimone

Il corpo umano è un sistema complesso, il prodotto di un numero incredibile di atomi riuniti a formare molecole, cellule, tessuti, organi e apparati. Secondo i dati forniti dall’osservatorio della NASA Chandra X, la maggior parte degli atomi che compongono gli esseri umani proviene dall’esplosione di stelle massicce, una parte minore dalla fusione del Big Bang e una quantità ancor più ridotta dall’esplosione di nane bianche. Il corpo umano è costituito principalmente da quattro elementi chimici: ossigeno, carbonio, idrogeno e azoto. Ma come si trasformano in composti essenziali per la vita?

Il ruolo dell’ossigeno e del carbonio

Prendiamo in considerazione l’ossigeno e il carbonio. L’ossigeno è l’elemento più abbondante sulla Terra e rappresenta il carburante essenziale per il funzionamento del corpo umano. È indispensabile nella respirazione cellulare, il processo attraverso cui la cellula, mediante la demolizione di sostanze organiche, ottiene energia sotto forma di ATP. Viene trasportato nel corpo dai globuli rossi, legato all’emoglobina che lo distribuisce ai tessuti. Inoltre, il legame semplice tra un atomo di ossigeno e due atomi di idrogeno dà vita al principale costituente della materia vivente: l’acqua.

La vita nell’universo. Fonte.

La struttura del carbonio consente invece di formare legami covalenti molto forti, dando origine a molecole stabili e complesse. In particolare, le sue catene rappresentano la struttura portante dei composti biologici (carboidrati, lipidi, proteine, acidi nucleici). Combinandosi con atomi aventi proprietà diverse, come idrogeno, ossigeno, azoto e zolfo, forma i cosiddetti gruppi funzionali. Questi, inseriti sui vari scheletri carboniosi, consentono la formazione delle biomolecole. La vita che conosciamo non sarebbe possibile senza il carbonio. Lo ritroviamo nei carboidrati, fonte di energia, nei lipidi, fondamentali costituenti delle membrane cellulari, negli acidi nucleici, portatori dell’informazione genetica, o negli ormoni, come l’adrenalina.

Figli delle stelle

I nostri capelli, gli occhi, le labbra, persino i neuroni, sono formati da elementi che hanno percorso centinaia di migliaia di anni luce prima di giungere fino a noi. Pensare che il nostro codice genetico sia stato scritto dalle stelle sembra poesia, ma è pura scienza. Intere esistenze si consumano nella convinzione di essere piccole e insignificanti, eppure siamo parte integrante di un universo straordinario di cui noi stessi siamo testimonianza. Forse Alan Sorrenti non aveva tutti i torti: noi siamo figli delle stelle.

Federica Virecci Fana

Sitografia:

https://www.treccani.it/enciclopedia/stella/

https://www.focus.it/temi/evoluzione-stellare

https://www.saperescienza.it/rubriche/astronomia-e-spazio/perche-siamo-polvere-di-stelle-17-9-2021/

https://www.repubblica.it/scienze/2017/07/28/news/siamo_polvere_di_stelle_ma_di_altre_galassie_gli_astrofisici_riscrivono_le_origini-171801463/#:~:text=Le%20stelle%20sono%20dentro%20di,quale%20state%20leggendo%20questa%20storia.

https://www.ilmeteo.net/notizie/scienza/terra-carbonio-vita-combustibili-fossili.html#google_vignette

Basi del DNA nei meteoriti: siamo davvero figli delle stelle?

Le 5 basi azotate del DNA e dell’RNA, sono state ritrovate in frammenti di meteoriti. Gli scienziati, in passato, erano riusciti a trovare solo tre di esse (adenina, guanina e uracile). Tuttavia, qualche giorno fa, un team di ricercatori giapponesi affiancato dalla Nasa, è riuscito ad osservare anche le ultime due mancanti (citosina e timina), che probabilmente erano sfuggite alle precedenti analisi.

DNA e RNA

DNA e RNA sono gli acidi nucleici che costituiscono il materiale ereditario. Il primo è formato da quattro basi azotate: adenina, timina, citosina e guanina. Il seconda differisce invece per la presenza dell’uracile al posto della timina. Inoltre, il DNA presenta un doppio filamento e possiede come zucchero il desossiribosio, mentre l’RNA è a singolo filamento e vanta la presenza di ribosio. Entrambe le molecole sono costituite da basi azotate. Queste hanno un doppietto elettronico sull’atomo di azoto, ragion per cui manifestano delle proprietà basiche.

www.chimica-online.it

Le basi azotate

Le basi azotate sono parte costituente degli acidi nucleici insieme ad uno zucchero e al fosfato. Esse sono: adenina, timina, citosina, guanina e uracile. Si distinguono in purine (adenina e guanina) e pirimidine (timina, citosina e uracile) a seconda che si tratti di molecole a doppio o a singolo anello eterociclico azotato. Possiamo quindi considerarle come gli “ingredienti” alla base di qualsivoglia forma di vita sulla Terra.

La scoperta delle prime 3 basi azotate nei meteoriti

Circa 50 anni fa, dei ricercatori avevano già individuato la presenza di adenina, guanina e uracile in alcuni frammenti di meteoriti. La tecnica utilizzata prevedeva l’immersione dei frammenti in una soluzione contenente acido formico, un acido carbossilico con forte proprietà corrosiva e riducente, a temperature elevate. Citosina e timina devono essere “sfuggite” all’osservazione per via della loro natura facilmente degradabile.

www.meteorologiaenred.com

La scoperta delle basi mancanti

Recentemente, un gruppo di scienziati giapponesi dell’Università di Hokkaido, con a capo il geochimico Yasuhiro Oba ed in collaborazione con alcuni scienziati della Nasa, è riuscito ad elaborare una tecnica per estrarre le basi mancanti. Il gruppo di ricercatori, dopo una serie di tentativi, è riuscito ad individuare le due basi mancanti all’appello utilizzando una soluzione più fredda, così da evitare che timina e citosina si degradassero. Per l’esperimento, ha usato campioni di tre meteoriti diversi: Murray, caduto in Kentucky nel 1950, Murchison, rinvenuto in Australia nel 1969 e Tagish Lake, arrivato nella British Columbia nel 2000. I frammenti sono stati trattati utilizzando una tecnica di cromatografia liquida ad alta prestazione, accompagnata da una particolare spettrometria di massa, come si legge nello studio pubblicato su Nature.

Conclusioni

Insomma, col DNA ci abbiamo fatto di tutto. Siamo riusciti ad analizzarlo, estrarlo, clonarlo, eppure non siamo ancora riusciti a capire da dove derivi. Danny Glavin, co-autore dello studio presso la Nasa, afferma:

“Ora abbiamo le prove che il set completo delle basi azotate, componente della vita oggi, avrebbe potuto essere disponibile sulla Terra quando la vita è emersa.

Oggi non disponiamo delle tecnologie che provino con certezza da dove possa derivare la vita sulla Terra. Certo è però che questa scoperta rappresenta davvero una svolta: per citare Alan Sorrenti, magari siamo davvero figli delle stelle!

 Francesca Aramnejad

Per approfondire:

https://www.focus.it/scienza/scienze/vita-sulla-terra-fu-portata-dalle-meteoriti

https://www.ansa.it/canale_scienza_tecnica/notizie/spazio_astronomia/2022/04/28/nei-meteoriti-tutte-le-lettere-dellalfabeto-della-vita_895555ff-3c68-4154-aa5e-4c569828dbe8.html

https://www.nature.com/articles/s41467-022-29612-x#:~:text=In%20addition%20to%20previously%20detected,and%206%2Dmethyluracil%2C%20respectively.

Un viaggio di 13 miliardi di anni: rilevata la luce della stella più lontana di sempre

Il telescopio spaziale Hubble della NASA ha stabilito un nuovo straordinario record: rilevare la luce di una stella esistita nel primo miliardo di anni dopo la nascita dell’Universo nel big bang, la stella più lontana mai vista fino ad oggi. Hubble detiene anche il record per la galassia più distante mai osservata. La sua luce ha impiegato 13,4 miliardi di anni per raggiungere la Terra.

Indice:

Le caratteristiche

La scoperta è un enorme salto indietro nel tempo rispetto al precedente detentore del record, rilevato da Hubble nel 2018. Quella stella esisteva quando l’Universo aveva circa 4 miliardi di anni (il 30% della sua età attuale), in un momento chiamato “redshift 1,5“. Gli scienziati usano la parola “redshift” perché mentre l’Universo si espande, la luce proveniente da oggetti distanti viene “spostata” a lunghezze d’onda più lunghe e più rosse mentre viaggia verso di noi. Si pensi che la luce di Icaro, la super gigante blu che in passato aveva detenuto il record, ha impiegato 9 miliardi di anni per raggiungere la Terra.

Immagine esplicativa sul Redshift Cosmologico e su come contribuisce alle informazioni del passato dell’Universo. ©Jacopo Burgio

La stella appena rilevata è Earendel, ma non è da confondere con la più antica mai conosciuta, battezzata nel 2013 con il nome ‘’Matusalemme’’. Essa è  così lontana che la sua luce ha impiegato 12,9 miliardi di anni per raggiungere la Terra, apparendoci come quando l’Universo aveva solo il 7% della sua età attuale, con redshift di 6,2. Gli oggetti più piccoli visti in precedenza a una distanza così grande sono ammassi di stelle, incorporati all’interno delle prime galassie dell’universo.

La scoperta

All’inizio non ci credevamo quasi, era molto più lontano della precedente stella più distante e con redshift più alto“, ha detto l’astronomo Brian Welch della Johns Hopkins University di Baltimora, autore principale del documento che descrive la scoperta, pubblicata sulla rivista Nature del 30 marzo. La scoperta è stata fatta grazie ai dati raccolti durante il programma RELICS (Reionization Lensing Cluster Survey) di Hubble, guidato dal coautore Dan Coe presso lo Space Telescope Science Institute (STScI), sempre a Baltimora. Welch afferma: “Normalmente a queste distanze, intere galassie sembrano piccole macchie, con la luce di milioni di stelle che si fonde insieme […]  La galassia che ospita questa stella è stata ingrandita e distorta dalla lente gravitazionale in una lunga mezzaluna che abbiamo chiamato Sunrise Arc“.

Dopo aver studiato in dettaglio la galassia, Welch ha scoperto una stella estremamente ingrandita che ha chiamato Earendel che significa “stella del mattino“. Ciò promette di aprire un’era inesplorata di formazione stellare molto precoce.  Welch spiega: “Earendel esisteva così tanto tempo fa che potrebbe non avere avuto tutte le stesse materie prime delle stelle che ci circondano oggi […] Lo studio di Earendel sarà una finestra su un’era dell’Universo che non conosciamo, ma che ha portato a tutto ciò che sappiamo. È come se avessimo letto un libro davvero interessante, ma abbiamo iniziato con il secondo capitolo e ora avremo la possibilità di vedere come è iniziato tutto“.

Un caso fortuito

Il team di ricerca stima che Earendel sia almeno 50 volte la massa del nostro Sole e milioni di volte più luminoso, rivaleggiando con le stelle più massicce conosciute. Ma anche una stella così brillante e di massa molto elevata sarebbe impossibile da vedere a una distanza così grande senza l’aiuto dell’ingrandimento naturale di un enorme ammasso di galassie, WHL0137-08, che si trova tra noi ed Earendel. La massa dell’ammasso di galassie deforma il tessuto dello spazio, creando una potente lente d’ingrandimento naturale (effetto lente gravitazionale), che distorce e amplifica notevolmente la luce proveniente da oggetti distanti dietro di essa.

Questa vista dettagliata evidenzia la posizione della stella Earendel lungo un’increspatura nello spazio-tempo (linea tratteggiata) che la ingrandisce e rende possibile il rilevamento della stella su una distanza così grande, quasi 13 miliardi di anni luce. Viene anche indicato un ammasso di stelle che si specchia su entrambi i lati della linea di ingrandimento. La distorsione e l’ingrandimento sono creati dalla massa di un enorme ammasso di galassie situato tra Hubble ed Earendel. La massa dell’ammasso di galassie è così grande che deforma il tessuto dello spazio, e guardare attraverso quello spazio è come guardare attraverso una lente d’ingrandimento: lungo il bordo del vetro o della lente, l’aspetto delle cose sull’altro lato è deformato come oltre che ingrandito. Credits: Science: NASA, ESA, Brian Welch (JHU), Dan Coe (STScI); Image processing: NASA, ESA, Alyssa Pagan (STScI)

Uno zoom naturale

Grazie al raro allineamento con l’ammasso di galassie ingrandito, Earendel appare direttamente o estremamente vicina ad una increspatura nel tessuto dello spazio. Questa ondulazione, definita in ottica “caustica“, fornisce il massimo ingrandimento e schiarimento. L’effetto è analogo alla superficie increspata di una piscina che crea motivi di luce brillante sul suo fondo in una giornata di sole. Le increspature sulla superficie fungono da lenti, che concentrano la luce solare sulla massima luminosità sul fondo della piscina. La caustica fa emergere Earendel dal bagliore generale della sua galassia natale. La sua luminosità è ingrandita mille volte o più. Gli astronomi non sono ancora in grado di determinare se si tratta di una stella binaria, nonostante la maggior parte delle stelle massicce abbia almeno una stella compagna più piccola.

Conferma con il telescopio James Webb

Gli studiosi e i ricercatori si aspettano che Earendel rimarrà molto ingrandito per gli anni a venire. Sarà, inoltre, osservato dal telescopio spaziale James Webb della NASA. La sua elevata sensibilità alla luce infrarossa è necessaria per saperne di più. Infatti, la sua luce è allungata (spostata verso il rosso) a lunghezze d’onda infrarosse più lunghe a causa dell’espansione dell’Universo. “Con Webb ci aspettiamo di confermare che Earendel è davvero una stella, oltre a misurarne la luminosità e la temperatura”, ha affermato Coe. Questi dettagli ne restringeranno il tipo e lo stadio nel ciclo di vita stellare.Ci aspettiamo anche di scoprire che la galassia Sunrise Arc è priva di elementi pesanti che si formano nelle generazioni successive di stelle. Ciò suggerirebbe che Earendel è una stella rara e massiccia povera di metalli“.

Perché è così importante?

La composizione di Earendel sarà di grande interesse per gli astronomi, perché si è formata prima che l’Universo fosse riempito con gli elementi pesanti prodotti dalle successive generazioni di stelle massicce. Se studi di follow-up scoprissero che Earendel è composto solo da idrogeno ed elio primordiali, sarebbe la prima prova per le leggendarie stelle di Popolazione III. Esse si ipotiza che siano le primissime stelle nate dopo il big bang. Sebbene la probabilità sia piccola, Welch ammette che: “Con Webb, potremo vedere stelle anche più lontane di Earendel, il che sarebbe incredibilmente eccitante. Andremo il più indietro possibile. Mi piacerebbe vedere Webb battere il record di distanza di Earendel“.

Nonostante appaia surreale, uno dei modi migliori per studiare il futuro del nostro Universo è apprenderne il passato e, grazie a queste stelle, è possibile farlo.

Gabriele Galletta

 

Fonte: Nasa

Premio Nobel per la Fisica 2020: dalle galassie ai buchi neri

Stoccolma, 6 ottobre: il premio Nobel per la Fisica 2020 conferma ancora le teorie di Einstein.

Quest’anno la Reale Accademia di Svezia premia gli scienziati Roger Penrose, Reinhard Genzel e Andrea Ghez per i loro contributi al misterioso mondo dell’astrofisica. Tra galassie e buchi neri, curiosiamo un po’ più a fondo nei loro lavori.

Il contributo di Penrose

Pensatore libero, anticonvenzionale ed eclettico, Roger Penrose è un matematico e cosmologo inglese, vincitore del 50% del premio Nobel per la Fisica 2020 grazie ai suoi studi del 1965. Grazie a dei brillanti metodi matematici è riuscito a provare che la formazione dei buchi neri è una solida previsione della teoria della relatività generale. Egli ha dimostrato che, al centro dei buchi neri, la materia si addensa inesorabilmente a tal punto da divenire una singolarità puntiforme con densità infinita. Ha compreso anche che i buchi neri rotanti possono liberare enormi quantità di energia, sufficienti a spiegare l’emissione delle più potenti sorgenti di radiazione dell’universo, quali i quasar e i lampi di raggi gamma.

Prima fotografia di un buco nero.

Ma cos’è, in effetti, un buco nero?

Per provare a comprendere un concetto così complesso, esploriamo quanto teorizzato dal celebre Albert Einstein con la teoria della relatività generale del 1916. Essa si basa sul modello matematico dello spaziotempo elaborato da Minkowski, che ha introdotto la struttura quadridimensionale dell’universo: la posizione di ogni punto viene individuata non soltanto dalle tre coordinate dello spazio, ma anche dal tempo. In questo senso, ogni punto dello spaziotempo rappresenta un vero e proprio evento, verificatosi in un dato luogo ed in un preciso momento.

Abbandoniamo quindi le idee newtoniane di spazio e tempo assoluti e distinti e immaginiamo lo spaziotempo come una sorta di “tessuto universale”, in cui sono immersi tutti i corpi celesti esistenti. Questi, per definizione, possiedono una certa massa, proprietà fondamentale affinché si generi attrazione gravitazionale (e quindi un campo) sui corpi vicini. L’intuizione chiave di Einstein fu che un campo gravitazionale curvi lo spaziotempo. Più un corpo è massiccio, più è forte il suo campo gravitazionale, maggiori sono la deformazione che causa ed i condizionamenti che impone al moto dei corpi vicini.

Un buco nero è quindi una concentrazione di massa talmente imponente da far collassare lo spaziotempo su se stesso in un unico punto, chiamato singolarità. Attorno a questo si trova una porzione di spazio delimitata dal cosiddetto orizzonte degli eventi. Una volta oltrepassato tale confine, non c’è alcun modo né per la materia, né per le radiazioni, di sfuggire all’attrazione gravitazionale. Per scamparvi, infatti, dovrebbero raggiungere una velocità infinita.

Un po’ complicato? Per avere un’idea di ciò che accade, immaginiamo di lasciar scivolare una sfera su un telo elastico. Intuitivamente, esso cederà a delle deformazioni. Se adesso aggiungessimo un’altra sfera di massa minore, noteremmo che le curvature sarebbero trascurabili rispetto a quelle generate dal primo corpo. Il secondo, inoltre, essendo più leggero, tenderebbe a convergere sempre più velocemente verso il primo, il che è un po’ quello che accade ai corpi celesti che orbitano attorno al buco nero.

Deformazione dello spaziotempo a seconda della massa.

I lavori di Genzel e Ghez

I buchi neri sono fenomeni tra i più potenti e affascinanti dell’intero Universo. Viene da chiedersi dove sia il buco nero più vicino a noi, quanto sia esteso o quanto siamo distanti dal suo orizzonte degli eventi. I due scienziati Genzel e Ghez hanno risposto a queste domande.

Se dobbiamo a Penrose la dimostrazione teorica dell’esistenza dei buchi neri, è invece merito degli scienziati Genzel e Ghez il contributo sperimentale alla loro osservazione. Il tedesco Reinhard Genzel e la statunitense Andrea Ghez, vincitori del restante 50% del premio, hanno studiato per oltre due decadi il comportamento delle stelle situate in prossimità del centro della Via Lattea. In questa zona, nascosta alla vista da una densa nube di polveri interstellari, hanno visto come le stelle danzino attorno ad un buco nero supermassiccio, Sagittarius A*, un mostro di massa pari a 4 milioni di volte quella del Sole.

Ma c’è di più: la necessità di misure sempre più precise ha portato alla creazione di strumenti di tecnologia all’avanguardia, come il Very Large Telescope in Cile o l’interferometro infrarosso Gravity, grazie ai quali l’Europa detiene un ruolo da protagonista nel panorama della grande ricerca scientifica internazionale.

                             ESO’s Very Large Telescope (VLT) 

La scelta di assegnare il premio Nobel a questi lavori riconferma ancora oggi l’importanza e la validità della teoria della relatività di Einstein. Stuzzica l’immaginario collettivo sulla complessità ed il fascino del cosmo, fonte inesauribile di scoperte ed altrettanti interrogativi. Quindi naso all’insù ed occhi fissi alle stelle: i misteri del nostro Universo sono ancora tutti da scoprire.

Giulia Accetta

Giovanni Gallo

Perché il cielo di notte è buio nonostante le stelle siano infinite?

Il paradosso di Olbers, proposto dall’astronomo tedesco a cui deve il nome nel 1826, ci pone davanti a una delle, apparentemente banali, domande che tutti ci siamo fatti almeno una volta, magari in una calda notte di mezza estate passata a guardare le stelle. 

Di cosa parla questo paradosso?

Heinrich Wilhelm Olbers propose il paradosso nel XIX secolo sotto condizioni particolari di natura ipotetica. L’universo era considerato come infinito, esistente da tempo infinito, immutabile, omogeneo e isotropo (le stelle sono disposte in modo uniforme nello spazio).

Mettendo tutte queste condizioni insieme abbiamo che:

  • se l’universo fosse infinito, dovrebbero esistere un numero infinito di stelle;
  • se esistesse da tempo infinito, la luce di tutte le stelle esistenti dovrebbe essere visibile da tutti i punti dell’universo;
  • se fosse omogeneo e isotropo sarebbero distribuite uniformemente in ogni punto dello spazio.

Quindi, con queste condizioni di universo statico, noi dovremmo vedere nel cielo una luce continua in ogni direzione dell’universo, il cielo dovrebbe essere infinitamente luminoso in ogni direzione.

Animazione che raffigura il paradosso

E allora perché il cielo è buio?

Nonostante le affermazioni di prima, sull’impossibilità di stabilire perché il cielo sia buio, furono proposte tante soluzioni tutte molto valide. Tuttavia, l’unica vera risposta, per quanto ancora discussa, si trova nella teoria del Big Bang formulata da Alexander Friedmann nel 1929 e completata da George Gamow nel 1940. La teoria ci dice che l’universo non è infinito ed esiste da un tempo finito. Non esistono infinite stelle e nemmeno da tempo infinito. L’Universo esisterebbe da circa 13 miliardi di anni e, secondo le teoria, ha avuto inizio con un esplosione di una luminosità elevatissima che ha ricoperto tutto lo spazio esistente (tutto lo spazio esistente in quel momento era un singolo punto), fino a espandersi insieme all’universo stesso. Quindi la luce dovrebbe essere visibile in tutto l’universo, visto che si muove insieme all’espansione fin dall’inizio;

Allora perché non la vediamo?

In realtà è ben visibile solo che l’occhio umano non è in grado di di vederla, perché con l’espansione anche la luce si è ‘stirata’, passando dallo spettro visibile a quello delle microonde; questa traccia è chiamata radiazione cosmica di fondo e fu misurata per la prima volta nel 1965 da Arno Penzias e Robert Wilson, che nel 1978 vinsero il Nobel per la scoperta.

Immagine della radiazione cosmica di fondo

A oggi le migliori osservazioni sono dovute al progetto WMAP (Wilkinson Microwave Anisotropy Probe) della NASA conosciuto anche come sonda spaziale per l’anisotropia (proprietà per cui in una sostanza il valore di una grandezza fisica come la velocità di accrescimento, indice di rifrazione, conducibilità elettrica e termica ecc. dipende dalla direzione che si considera) delle microonde, Microwave Anisotropy Probe (MAP).

Questa era solo una delle tante teorie che prova a risolvere il paradosso, spero di avervi stimolato ad osservare il cielo notturno con occhi diversi!

Gabriele Galletta

Inquinamento luminoso – La scomparsa delle stelle dal centro città (e non solo …)

“Look at the stars,

look how they shine for you”

Coldplay – Yellow

La primavera sta arrivando a Messina. Guardiamo fuori dalla finestra e vediamo un cielo azzurro limpido, senza nuvole a coprirlo. Gente con il piumino, la sciarpa e il cappello cammina accanto a gente con il giubbotto di pelle e gli occhiali da sole, e le domeniche spalmati sul divano con il plaid hanno lasciato  il posto alle domeniche sul telo mare a guardare il tramonto a Torre Faro.

Ma non è tutto qui. La sera si riesce di nuovo a guardare il cielo. Eppure non vedo le stelle.

Nei paesini della periferia, in piena estate, si riesce quasi a riconoscere Marte ad occhio nudo, però dal centro città si riesce a malapena a trovare, per puro caso, la stella polare.

Uno dei pochi punti da cui è possibile farsi incantare dal meraviglioso spettacolo del cielo è la spiaggia.

Lo so bene perché mesi fa, prima che arrivasse l’estate, io e i miei colleghi della radio andammo proprio sulla spiaggia e Vincenzo Romeo, l’allora direttore della Unit Radio di UniVersoMe, ci fece guardare le stelle chiedendoci cosa fosse stato per noi il percorso UVM fino ad allora.

Qualcuno rispose. Molti restarono zitti, tra cui io.

Torre Faro, Messina 2018

Eppure, credo che qualche parolina a Cecio la devo.

Si arriva a un punto, nella vita, in cui si sente il bisogno di cambiar pelle. Crescere.  Io mi sentivo bloccata davanti a un fiume quando  tutti i miei amici stavano dall’altra sponda a giocare e ridere, mentre io restavo a guardarli con le scarpe in mano e il timore di essere trascinata via dalla corrente. Ciò che fece Cecio non fu allungare una mano e aiutarmi, ma mi spinse dicendomi: “Io devo andare al bagno, controlli tu la regia?”.

Più di un anno fa, lui e altri miei colleghi avevano cominciato a fare parte della Radio universitaria, tutti speaker, io andavo ogni settimana ad ascoltarli così mi proposi a Cecio non come speaker (troppo timida) ma come regista e così mi spiegò un po’ il mixer, un po’ il sistema al computer e via. Signore e signori, la “Regia di Serena Votano” è nata per un’incontinenza del direttore.

E da lì è nato tutto. Ho scoperto cos’è la lealtà, cos’è la fiducia, cosa vuol dire “lavorare in gruppo”, aiutarsi e sostenersi, riconoscere i punti di forza dell’altro, poter sperimentare e migliorare. Sbagliare, a volte.

Non sono la stessa persona del primo giorno all’università e questo lo devo a UniVersoMe, alla radio principalmente. Roba che i capelli verdi, al confronto, hanno fatto ben poco.

E poi è arrivata l’estate. Le mie stelle lì, pronte a farsi ammirare in quelle notti in cui non sai bene dove andare o cosa fare. «Più dell’80 per cento del pianeta si trova ormai sotto un cielo che non è più completamente scuro. In alcuni luoghi, come Singapore, gli abitanti non fanno praticamente mai esperienza di una notte davvero buia, al punto che i loro occhi non hanno mai modo di adattarsi alla visione notturna» rivela un articolo su Focus.it

Dal film “Il Piccolo Principe”

L’inquinamento luminoso è causato da quegli impianti di luci artificiali che non emettono la semplice luce necessaria alla visione notturna, ma la disperdono in altre direzioni.

Le lampade a LED si stanno diffondendo anche nell’illuminazione pubblica, queste lampade hanno bassi consumi (cosa buona e giusta) ma utilizzano una componente di luce bianco-blu che viene diffusa molto di più dalle molecole dell’atmosfera rispetto alla luce con una componente prevalente verso il giallo, come quella dei sistemi di illuminazione al sodio alta pressione. Questo fenomeno provoca un aumento di livello di inquinamento luminoso in prossimità dalle sorgenti, fino ad alcune decine di chilometri,  mentre lo riduce lontano poiché la luce blu si è già diffusa. Avete presente quella striscia rossa, di notte, ce si vede sopra la città? Ecco, l’inquinamento luminoso è proprio quello.

Un problema non solo per gli astronomi, ma anche per gli uomini (provocherebbe stress e malattie che non vi sto a spiegare), per gli animali, ma soprattutto per il mondo vegetale.

A distanza di un anno, RadioUniVersoMe vive il ricambio generazionale. Quelli che erano i miei colleghi, direi meglio famiglia, si sono laureati. Mentre io assisto alla loro laurea, stringo un altro bicchiere di spumante e brindo alla loro felicità! Loro se ne andranno. Io resterò qui a guardarli andare via.

Mi faccio piccola piccola e mi rifugio nel quartier generale di UniVersoMe. Qualcuno, forse, pensava che avrei mollato tutto, ma cosa avrei dovuto fare senza quell’appuntamento quotidiano con le cuffie, quell’atto di fede tra me e il mixer.

E da lì tutto è ritornato in moto. Pomeriggi chiusi in radio a registrare, parlare, scegliere canzoni, ancora parlare, ogni tanto anche io come speaker.

È toccato, anche a me, diventare la Direttrice Unit Radio. Sapevo tutte le difficoltà che implicava, le responsabilità, la fatica di un ruolo come il direttore in radio, non mi lasciavo convincere da nessuno. Nessuno meno uno.

“Cecio … ne vale la pena?”

“Avoglia”.

E allora buttiamoci. Roba che se mi avessero lasciata nel mio piccolo ruolo da regista, nella mia confort zone, sarei stata sicuramente più felice.

Però mi butto, dedico ancora più tempo al progetto che finisce per togliere altro tempo alla mia vita sociale (“Sere, non hai mai avuto una vita sociale” direbbe Mattia) e nel mio ruolo non sono certo da sola. La mia “compagna di viaggio” è stata prima Selina e dopo Cristina.

E così sono cresciuta ancor di più e ho conosciuto Persone: la signora Diplomazia, i signori Nervi, la signora Fortuna, il signor Maiunagioia, il signor Sacrificio, la signora Rabbia Repressa, la piccola Paura, la saggia Adrenalina, la signora Furbizia.

Whorkshop UVM – aprile 2018

Così, Cecio, volevo dirti che io le stelle dal centro città non le vedo. Però la Radio mi ha sempre fatta sentire come quando, finalmente, lontana dall’inquinamento del mondo, guardo le stelle. Senza fiato, un piccolo scricciolo, pronta a tutto.

Spegnate la luce e accendete la curiosità. Ne vale la pena? Avoglia.

Serena Votano