Interstellar: un viaggio nello spazio tempo, tra fisica e fantascienza

L’amore per la fisica di Nolan ritorna con Interstellar. Ma avrà commesso errori scientifici anche questa volta?

Christopher Nolan, lo sappiamo, nella fisica ci sguazza. E con Interstellar è voluto andare oltre. Si, perché ha coinvolto addirittura Kip Thorne, premio Nobel per la fisica nel 2017 per la scoperta delle onde gravitazionali. Quindi sarà fisicamente perfetto, direte voi… Non esattamente, perché, in genere, dove comincia Hollywood si ferma la fisica.

Siamo sulla Terra, dove una calamità naturale ha stravolto l’ecosistema, tanto da permettere come unica coltivazione quella del mais, mettendo così a rischio la sopravvivenza del genere umano. La NASA ha riscontrato vicino all’orbita di Saturno un cunicolo spazio-temporale, il cosiddetto wormhole, che si pensa sia stato creato da esseri penta-dimensionali. Esso, teoricamente, conduce da tutt’altra parte dell’Universo, precisamente vicino ad un gigantesco buco nero, Gargantua, attorno a cui orbitano ben dodici pianeti, che si spera possano ospitare la vita. La NASA decide così di inviare, nella missione spaziale Lazarus, dodici scienziati, uno per pianeta, per riportare dati sulla loro abitabilità.

Il protagonista è Joseph Cooper (Matthew McConaughey), ingegnere ed ex pilota della NASA, ridottosi a gestire delle piantagioni di mais. Durante una tempesta di sabbia, Cooper nota sul pavimento della camera di sua figlia Murph delle strisce di sabbia ben definite. Egli intuisce subito che si tratta di un codice binario che cela delle coordinate geografiche. Seguendo queste indicazioni giunge, insieme alla figlia dodicenne, ad una base NASA, dove il professor Brand gli mostra i dati ricevuti dagli scienziati della missione Lazarus, iniziata più di dieci anni prima. Cooper, nonostante le resistenze di Murph, parte quindi in missione per verificare la vivibilità di tre dei dodici pianeti.

Tutto il film si basa sull’esistenza del wormhole. Ma che cos’è, in fisica, un wormhole?

Il wormhole Lorentziano, o ponte di Einstein-Rosen, è una scorciatoia, un cunicolo, che per l’appunto squarcia lo spazio-tempo e unisce due punti remoti dell’Universo. Il wormhole dovrebbe essere composto da un buco nero d’entrata, che assorbe tutta la materia a sé circostante, e un buco bianco d’uscita, che al contrario la emette. Interessante a leggersi, ma abbiamo prove certe della loro esistenza? Purtroppo no. Infatti, mentre i buchi neri si basano su solide teorie e riscontri sperimentali (per i quali Penrose, Genzel e Ghez hanno vinto il premio Nobel per la fisica nel 2020, ne parliamo qui), i buchi bianchi costituiscono ancora una mera speculazione.

I primi wormhole attraversabili, che rispettano la Relatività Generale, furono ipotizzati per la prima volta proprio da Kip Thorne, consulente scientifico del film, e da un suo studente, Mike Morris (essi infatti presero il nome di wormhole di Thorne-Morris). Questo tipo di wormhole, tuttavia, pur essendo ammissibile nella Relatività Generale, richiederebbe la presenza di un particolare tipo di materia esotica con densità negativa di energia. Si presume, inoltre, che alcuni paradossi circa i viaggi nel tempo, insiti nella relatività generale, comportino l’irrealizzabilità dei viaggi tramite wormhole.

Quindi, per il momento, più che di scienza stiamo parlando di fantascienza.

Ma Cooper e la sua navicella, l’Endurance, attraversano comunque il fantomatico wormhole e arrivano nei pressi di Gargantua. Il film offre a questo punto una rappresentazione molto realistica di un buco nero supermassiccio, tanto da valergli il premio Oscar per gli effetti speciali, oltre che uno straordinario sforzo da parte degli scienziati.

Arrivano quindi sul pianeta di Miller, uno dei dodici scienziati della missione Lazarus. Distruttivi moti ondosi imperversano sulla superficie del pianeta, ricoperta unicamente da acqua. Questi moti ondosi sono prodotti dalla forte attrazione gravitazionale di Gargantua. Talmente forte, però, che avrebbe dovuto attrarre a sé, inesorabilmente, la stessa Endurance. Inoltre, come se non bastasse, nel film viene sottolineato come un’ora passata sul pianeta di Miller corrisponda a sette anni passati sulla Terra. Questo è un errore: infatti, affinché ciò si realizzi, il pianeta dovrebbe essere così vicino al buco nero da venirne irrimediabilmente risucchiato e, di conseguenza, distrutto.

Ma un’altra domanda sorge spontanea: qual è la fonte di calore di questi pianeti? Non c’è nessuna stella attorno ad essi. Come la Terra viene riscaldata dai raggi del Sole, anche i pianeti che orbitano attorno a Gargantua dovrebbero godere del calore di una Stella per permettere la vita: così non è, risultando freddi e inospitali.

Dopo mille peripezie, comunque, Cooper decide di entrare dentro Gargantua. Ma nella realtà dei fatti, non è possibile. L’incredibile forza di gravità di un buco nero comporterebbe un fenomeno chiamato spaghettificazione che, come suggerisce il nome, fa sì che un corpo, superato l’orizzonte degli eventi, si disintegri, tanto da ridursi alle dimensioni di uno spaghetto. Anche se decidessimo di ignorare questo fenomeno, saremmo comunque soggetti ad una spaventosa e letale dose di radiazioni fortemente energetiche (raggi X e raggi gamma), che non ci lascerebbero scampo. Infine, una forza gravitazionale così intensa, in pratica, fermerebbe il tempo! Quindi Cooper, una volta entrato nel buco nero, morirebbe di vecchiaia senza raggiungerne mai il centro. Ma andiamo oltre e parliamo del tesseract, un evergreen dei film di fantascienza.

Cooper giunge in una struttura a cinque dimensioni, il tesseract. Si accorge molto presto, però, che questa è una proiezione penta-dimensionale della stanza di sua figlia Murph. Capisce così che può inviare dei dati nel passato, per convincere sé stesso prima della partenza a restare a casa. Invia infine i dati relativi al buco nero a Murph, che nel frattempo è diventata una brillante fisica, affinché possa utilizzarli per risolvere l’annoso problema della sopravvivenza sulla Terra. Che sia una cosa tecnicamente irrealizzabile è chiaro, ma le motivazioni fisiche di ciò sono radicate nella teoria, più precisamente nei paradossi insiti nella stessa.

Facciamo finta che io inventi la macchina del tempo. Torno indietro nel passato e uccido mio nonno prima che possa nascere mio padre. Come ho fatto a nascere, inventare la macchina del tempo e uccidere mio nonno? Intrigante, vero? Benvenuti nel magico mondo dei viaggi nel tempo.

Il film si conclude con la visione di una stazione spaziale che sfrutta la penta-dimensionalità, realizzata grazie agli studi di Murph basati sui dati di Cooper.

Nonostante gli errori scientifici, la simulazione del buco nero ha rappresentato una delle più veritiere rappresentazioni mai realizzate. Saremo in grado di viaggiare nello spazio e nel tempo? Riusciremo, un giorno, a sfruttare i wormhole per raggiungere i posti più remoti dell’Universo? Non possiamo ancora saperlo, la scienza è ancora troppo giovane. Ma sognare non costa nulla.

Giovanni Gallo

Giulia Accetta

Premio Nobel per la Fisica 2020: dalle galassie ai buchi neri

Stoccolma, 6 ottobre: il premio Nobel per la Fisica 2020 conferma ancora le teorie di Einstein.

Quest’anno la Reale Accademia di Svezia premia gli scienziati Roger Penrose, Reinhard Genzel e Andrea Ghez per i loro contributi al misterioso mondo dell’astrofisica. Tra galassie e buchi neri, curiosiamo un po’ più a fondo nei loro lavori.

Il contributo di Penrose

Pensatore libero, anticonvenzionale ed eclettico, Roger Penrose è un matematico e cosmologo inglese, vincitore del 50% del premio Nobel per la Fisica 2020 grazie ai suoi studi del 1965. Grazie a dei brillanti metodi matematici è riuscito a provare che la formazione dei buchi neri è una solida previsione della teoria della relatività generale. Egli ha dimostrato che, al centro dei buchi neri, la materia si addensa inesorabilmente a tal punto da divenire una singolarità puntiforme con densità infinita. Ha compreso anche che i buchi neri rotanti possono liberare enormi quantità di energia, sufficienti a spiegare l’emissione delle più potenti sorgenti di radiazione dell’universo, quali i quasar e i lampi di raggi gamma.

Prima fotografia di un buco nero.

Ma cos’è, in effetti, un buco nero?

Per provare a comprendere un concetto così complesso, esploriamo quanto teorizzato dal celebre Albert Einstein con la teoria della relatività generale del 1916. Essa si basa sul modello matematico dello spaziotempo elaborato da Minkowski, che ha introdotto la struttura quadridimensionale dell’universo: la posizione di ogni punto viene individuata non soltanto dalle tre coordinate dello spazio, ma anche dal tempo. In questo senso, ogni punto dello spaziotempo rappresenta un vero e proprio evento, verificatosi in un dato luogo ed in un preciso momento.

Abbandoniamo quindi le idee newtoniane di spazio e tempo assoluti e distinti e immaginiamo lo spaziotempo come una sorta di “tessuto universale”, in cui sono immersi tutti i corpi celesti esistenti. Questi, per definizione, possiedono una certa massa, proprietà fondamentale affinché si generi attrazione gravitazionale (e quindi un campo) sui corpi vicini. L’intuizione chiave di Einstein fu che un campo gravitazionale curvi lo spaziotempo. Più un corpo è massiccio, più è forte il suo campo gravitazionale, maggiori sono la deformazione che causa ed i condizionamenti che impone al moto dei corpi vicini.

Un buco nero è quindi una concentrazione di massa talmente imponente da far collassare lo spaziotempo su se stesso in un unico punto, chiamato singolarità. Attorno a questo si trova una porzione di spazio delimitata dal cosiddetto orizzonte degli eventi. Una volta oltrepassato tale confine, non c’è alcun modo né per la materia, né per le radiazioni, di sfuggire all’attrazione gravitazionale. Per scamparvi, infatti, dovrebbero raggiungere una velocità infinita.

Un po’ complicato? Per avere un’idea di ciò che accade, immaginiamo di lasciar scivolare una sfera su un telo elastico. Intuitivamente, esso cederà a delle deformazioni. Se adesso aggiungessimo un’altra sfera di massa minore, noteremmo che le curvature sarebbero trascurabili rispetto a quelle generate dal primo corpo. Il secondo, inoltre, essendo più leggero, tenderebbe a convergere sempre più velocemente verso il primo, il che è un po’ quello che accade ai corpi celesti che orbitano attorno al buco nero.

Deformazione dello spaziotempo a seconda della massa.

I lavori di Genzel e Ghez

I buchi neri sono fenomeni tra i più potenti e affascinanti dell’intero Universo. Viene da chiedersi dove sia il buco nero più vicino a noi, quanto sia esteso o quanto siamo distanti dal suo orizzonte degli eventi. I due scienziati Genzel e Ghez hanno risposto a queste domande.

Se dobbiamo a Penrose la dimostrazione teorica dell’esistenza dei buchi neri, è invece merito degli scienziati Genzel e Ghez il contributo sperimentale alla loro osservazione. Il tedesco Reinhard Genzel e la statunitense Andrea Ghez, vincitori del restante 50% del premio, hanno studiato per oltre due decadi il comportamento delle stelle situate in prossimità del centro della Via Lattea. In questa zona, nascosta alla vista da una densa nube di polveri interstellari, hanno visto come le stelle danzino attorno ad un buco nero supermassiccio, Sagittarius A*, un mostro di massa pari a 4 milioni di volte quella del Sole.

Ma c’è di più: la necessità di misure sempre più precise ha portato alla creazione di strumenti di tecnologia all’avanguardia, come il Very Large Telescope in Cile o l’interferometro infrarosso Gravity, grazie ai quali l’Europa detiene un ruolo da protagonista nel panorama della grande ricerca scientifica internazionale.

                             ESO’s Very Large Telescope (VLT) 

La scelta di assegnare il premio Nobel a questi lavori riconferma ancora oggi l’importanza e la validità della teoria della relatività di Einstein. Stuzzica l’immaginario collettivo sulla complessità ed il fascino del cosmo, fonte inesauribile di scoperte ed altrettanti interrogativi. Quindi naso all’insù ed occhi fissi alle stelle: i misteri del nostro Universo sono ancora tutti da scoprire.

Giulia Accetta

Giovanni Gallo

La Fisica di Star Wars #2: spade laser e Rotta di Kessel

Benvenuti in questo secondo episodio dedicato alla galassia lontana lontana, bando alle ciance andiamo a vedere le lightsabers e la rotta di Kessel.

Lightsabers

Le prime forme dell’arma erano conosciute come “protosabers” che richiedevano pacchi batteria, collegati all’elsa della lightsaber, attaccati a cinture indossate dai Jedi. Non erano l’ideale in quanto limitavano i movimenti dei Jedi durante il combattimento.

I componenti necessari per il funzionamento della lightsaber sono contenuti nell’elsa, il cuore dell’arma. Qui accade tutta la fisica, o forse la magia. Contiene le celle di potenza e vari altri componenti che puoi vedere nella foto sotto.

Descrizione di come l’energia delle cellule di potenza è diretta attraverso una serie di lenti di focalizzazione ed energizzatori che convertono l’energia in plasma. Fonte: Starwars Fandome

Si dice che le lightsabers siano composte da laser. Tuttavia, l’utilizzo dei laser solleva diversi problemi.

Qualcosa che rifletta la fine del raggio

Se avessi una spada laser, non esisterebbe un modo per “fermare” il raggio a una certa lunghezza. Andrebbe avanti e taglierebbe tutto lungo suo cammino. Sono in corso ricerche che sfruttano le leggi della meccanica quantistica e della relatività per fermare la luce per un breve periodo di tempo, ma non sarà ancora pratico in quanto si tratterebbe di un effetto temporaneo.

I laser non si scontrano

L’altro problema con i laser è che i fotoni non hanno massa. Se due fasci di luce si attraversassero, questi non si scontreranno, si incroceranno e continueranno a tagliare tutto.

Nella foto della cella di potenza nell’elsa ho menzionato il plasma. Il plasma è il quarto stato della materia, è un gas ionizzato superhot, il che significa che il gas diventa così caldo e/o così eccitato che gli elettroni perdono il legame con il loro atomo, rendendo il gas altamente conduttivo.

La spada laser al plasma ha diversi problemi legati a temperatura e incontrollabilità. Il plasma è altamente conduttivo, quindi grazie alle leggi dell’elettromagnetismo di Maxwell possiamo controllarne la forma con un campo elettromagnetico, degli scienziati in Francia stanno cercando di controllarlo tramite la fusione nucleare.

Quando due lame al plasma entrano in contatto diretto, quasi certamente si verifica una riconnessione magnetica, provocando un rilascio esplosivo del plasma delle spade.

Eulero e Heisenberg dimostrarono che, per intensità sufficientemente elevate, la luce può effettivamente interagire con se stessa (effetto dovuto alle fluttuazioni quantistiche del vuoto).

Fonte di alimentazione compatta e abbastanza potente

L’energia necessaria per alimentare qualcosa di così potente richiederebbe una grande batteria. Non qualcosa di portatile. Per renderla abbastanza potente avresti bisogno di 15 MWh di energia, quanto basta per alimentare una piccola città.

Utilizzando tecniche di laser ad altissima intensità, è stato dimostrato che è necessaria un’incredibile quantità di energia per alimentare una simile spada laser. Se la fonte di energia fosse la fusione nucleare, una simile spada laser richiederebbe 1011 kg di combustibile per funzionare per un minuto.

E’ possibile nel mondo naturale della scienza replicare questo pezzo di armamento?

Il fisico teorico Michio Kaku nel suo libro ‘La fisica dell’impossibile’ ne parla brevemente. Crede che in questo secolo saremo abbastanza avanzati con la nostra nanotecnologia per fare grandi progressi nel campo delle batterie. Suggerisce di usare come lama un’asta telescopica in ceramica resistente al calore. Ci consentirebbe di esercitare il potere del plasma e quindi realizzare una spada laser che non violerà nessuna legge della fisica.

Rotta di Kessel

Mai sentito il famoso vanto di Han Solo secondo cui il Millennium Falconha fatto la rotta di Kessel in meno di 12 parsec“? Pochi sanno che da una prospettiva astronomica non aveva senso. Un Parsec è un’unità di distanza, non di tempo.

Perché Solo dovrebbe usarlo per spiegare la velocità del Millenium Falcon?

Ci sono due teorie. La prima è che la frase detta da Solo contenesse un errore di terminologia. La seconda è molto più interessante: quando Obi-Wan si è seduto di fronte ad Han Solo in quella cantina angusta, avrebbe incontrato un viaggiatore del tempo.

Cos’è il parsec?

Coniato dall’astronomo britannico Herbert Hall Turner, il termine “parsec” viene da “parallasse” e “secondo“, 1 parsec di distanza equivale a 3,26 anni luce (3,08×1016 metri).

The Essential Atlas, la rotta di Kessel era un percorso di 18 parsec (59 anni luce), utilizzato dai contrabbandieri per aggirare i blocchi imperiali, il cui percorso viaggia attorno a “The Maw“, un ammasso di buchi neri.

Perché Solo dovrebbe descrivere la velocità con cui ha viaggiato usando la distanza?

Per ridurre la distanza percorsa, i piloti dovrebbero aggirare pericolosamente i bordi dei buchi neri, cercando di evitare la spaghettificazione. Se Solo era un pilota abbastanza abile da volare abbastanza vicino ai buchi neri, e tagliare quasi 20 anni luce, allora la sua nave era davvero veloce.

Immagine della Rotta di Kessel Fonte: Slashgear

Essendo in grado di ballare attorno alle singolarità (buchi neri), il Millennium Falcon si afferma come una nave veloce e il vantarsi di Solo ha senso. Ma questo solleva un problema più intrinseco: la rotta Kessel copriva quasi 40 anni luce di cosmo. Se Star Wars seguisse le leggi della fisica, prendere quella rotta cambierebbe la cronologia della vita di Han Solo.

In A New Hope, Solo stabilisce che il Millennium Falcon può andare “0,5 oltre la velocità della luce“, accendendo la speranza per un’argomentazione scientificamente accurata. La velocità della luce è il limite di velocità universale e niente può superarla.

Viaggio nel tempo

Poiché la rotta di Kessel accorciata copre 12 parsec (39,6 anni luce), una nave che viaggia quasi alla velocità della luce impiegherebbe poco più di 39,6 anni per arrivarci. Considerando la dilatazione del tempo, chiunque guardasse la rotta di Kessel avrebbe visto Solo accelerare per 40 anni, ma Solo stesso avrebbe vissuto solo poco più di mezza giornata. Nel tempo necessario a Han per completare solo una rotta di Kessel, nel resto della galassia passano 40 anni.

C’è la scappatoia dell’azionamento a curvatura. Se riesci a percorrere una distanza minore piegando lo spazio stesso, non c’è problema di dilatazione del tempo. Ma un dispositivo di azionamento a curvatura non è mai menzionato esplicitamente in Star Wars.

Come potrebbe funzionare una simile rotta di contrabbando? Chi ha la lungimiranza di contrabbandare qualcosa che l’altra parte non vedrà per 40 anni? E immagina come funzionerebbe per il contrabbandiere. Parte per una rotta Kessel, e 16 ore dopo torna per scoprire un mondo cambiato.

“May the Force be with You, Always!”

 

Gabriele Galletta