Le future serre su Marte e sulla Luna

Produrre cibo nello spazio sembra essere l’unica soluzione per permettere agli astronauti di effettuare dei viaggi nello spazio per una lunga durata. Il progetto consiste nella creazione di delle serre all’interno delle basi lunari e marziane. Gli esperti si sono riuniti nel convegno organizzato a Roma dall’Agenzia Spaziale Italiana e il nostro ministro dell’agricoltura, Francesco Lollobrigida, ritiene molto importante un ruolo attivo dell’Italia in questo progetto.

Le diverse idee per la produzione di ortaggi dello spazio

Molte aziende italiane sono già partite nella progettazione di soluzioni che siano sostenibili e adattabili alle diverse condizioni, come la Thales Alenia Spaced, che ha avviato delle sperimentazioni sulla coltivazione di micro-ortaggi e patate. L’obiettivo è quello di usare un sottile substrato di coltivazione stampato in 3D; la stampa 3D è un processo di produzione che consente la creazione di oggetti tridimensionali a partire da un modello digitale.

La Ferrari Farm, che è un’azienda agricola di Rieti, sta lavorando alla creazione di serre elettroniche in grado di gestire le coltivazioni tramite un computer in spazi ermetici e illuminati a led. In sviluppo anche una versione per coltivare verdure all’interno di un appartamento, il che permetterebbe di coltivare anche nelle città.

Microortaggi. Fonte: Defense Visual Information Distribution Service / Picryl.com

La startup genovese Space V sta lavorando allo studio di una serra che che sia in grado di modificare il proprio volume in base allo spazio richiesto dalle piante. L’utilizzo di un bioreattore per riutilizzare acqua e residui vegetali, facendoli digerire da microalghe in modo da trasformarli in substrato per la coltivazione.

Anche Enea, l’Agenzia nazionale per le nuove tecnologie, l’energia e lo sviluppo economico sostenibile, è impegnata nella sperimentazione di un orto ipertecnologico: la serra è automatizzata e dotata di un braccio robotico, si coltivano ravanello e cavolo rosso. Questa serra innovativa sarà destinata alle basi marziane nella missione Amadee-24 organizzata dall’Austrian Space Forum e l’Agenzia Spaziale Armena.

Ma cosa sono i micro-ortaggi?

I micro-ortaggi sono piantine giovani e tenere di ortaggi che vengono raccolti dopo 7-20 giorni dalla semina. Sono un’innovazione anche nel campo della salute, in quanto sono ricchi di minerali, vitamine, antiossidanti, acido folico, e altre sostanze bioattive, circa 10 volte più dei normali ortaggi. Sono uno strumento essenziale per la prevenzione della malnutrizione e di molti altri disturbi in quanto rinforzano il sistema immunitario; al contrario una dieta carente di queste sostanze bioattive aumenterà il rischio di sviluppare patologie o malattie di diverso tipo e gravità nell’individuo. Quindi, un consumo frequente di questi prodotti ci permette di sentirci più energici e di stare meglio, ci aiutano a ridurre le infiammazioni al fegato, ridurre l’accumulo di colesterolo cattivo nel sangue, aiutano i processi digestivi, disintossicano l’organismo, permettono un migliore funzionamento del sistema nervoso.                                                                                                                           Sono davvero tantissime le specie di ortaggi utilizzate in questa produzione: spinaci, bietola, sedano, carota, finocchio, radicchio, lattuga, cavolfiore, grano tenero e duro, avena, mais, orzo, riso e tante altre.

Nonostante siano già partite le diverse sperimentazioni, non si sa ancora quando sarà possibile l’avvio di questo progetto nelle basi lunari e marziane. Il prossimo viaggio sulla luna è previsto nel settembre 2025 e per questo sarebbero auspicabili dei risvolti interessanti sul progetto di coltivazione spaziale.

Marta Cloe Scuderi

Fonti: ansa, pubmed
https://www.ansa.it/amp/canale_scienza/notizie/spazio_astronomia/2024/03/21/micro-ortaggi-e-stampa-3d-per-le-future-serre-su-luna-e-marte_bcf6e87a-b93f-4a51-bc5e-1aa02c22db83.html

Artemis 1: il ritorno dell’uomo sulla Luna

19 dicembre 1972. Questa la data dell’ultima missione che ha portato l’uomo sulla Luna: l’Apollo 17. Fu un’operazione piena di record. Si tratta, infatti, del soggiorno più lungo sulla superficie del nostro satellite, caratterizzato dalla più alta quantità di campioni mai raccolti.
Dopo quasi mezzo secolo dall’evento, si realizza in questi giorni un nuovo progetto, finalizzato a riportare gli esseri umani sulla Luna entro il 2026.
Si apre, dunque, una nuova fase dell’esplorazione spaziale e l’interesse mondiale per il satellite aumenta.

INDICE

  1. Tre missioni, un obiettivo
  2. Artemis 1
  3. Una piattaforma di lancio storica
  4. Il razzo più potente mai utilizzato
  5. Un nome orbitante
  6. 2022: gli ospiti della Luna aumentano

Tre missioni, un obiettivo

Tra i vari progetti che interessano lo studio del nostro satellite, la missione Artemis pone le basi ad una nuova fase dell’esplorazione spaziale. Gli obiettivi sono di creare una base sulla Luna e realizzare l’hardware per i primi voli su Marte, programmati dopo il 2030.
La missione si compone di tre parti: la prima, Artemis 1, è pronta per prendere un volo automatico verso la Luna nei prossimi mesi. Nel 2024, invece, saranno tre gli astronauti pronti ad effettuare la missione Artermis 2. Verrà condotta attorno al satellite, senza tuttavia atterrarvi.  Nel 2026 si avrà, infine, il primo sbarco effettivo di Artemis e, l’anno successivo, la quarta missione permetterà di trasferire sul suolo lunare un cargo automatico.

Artemis 1

Questa missione sarà la prima di una serie di spedizioni sempre più complesse, per costruire, nei decenni successivi,  una presenza umana a lungo termine sulla Luna.
Non conosciamo con esattezza la data del primo lancio. È stato confermato dalla NASA che questo avverrà tra fine maggio e metà giugno. A tal riguardo Tom Whitmer, vicedirettore per lo sviluppo dei sistemi di esplorazione presso la NASA, ha comunicato:

Continuiamo a valutare la finestra di maggio, ma sappiamo che c’è molto lavoro da fare e potremmo slittare ancora.


In questa prima missione, a bordo del razzo, non vi saranno astronauti ma manichini.
Artemis 1 durerà 26 giorni e la navicella raggiungerà la distanza di 450.000 chilometri dalla Terra, ben oltre la Luna (che dista 384.000 chilometri). Volerà, dunque, più lontano di qualsiasi veicolo spaziale costruito dall’uomo fin ora.

https://www.google.com

Una piattaforma di lancio storica

Il decollo avverrà dal Kennedy Space Center della NASA, in Florida.
La piattaforma di lancio, il Launch Complex 39 B, ha una storia interessante.
Si tratta, infatti, della seconda rampa di lancio del Launch Complex 39, progettato per il decollo di quello che all’epoca era considerato il razzo più potente degli Stati Uniti (Saturn V). Il Launch Complex 39 B, in particolare, permise il lancio dell’Apollo 10, delle missioni Skylab, Apollo-Sojuz e di buona parte degli Space Shuttle.

https://commons.wikimedia.org

Il razzo più potente mai utilizzato

Il veicolo spaziale della missione Artemis I verrà lanciato con il razzo più potente del mondo, che circa una settimana fa ha raggiunto la piattaforma 39 B.
È in grado di portare in orbita terrestre bassa 75 tonnellate. Le future versioni, che verranno utilizzate nelle missioni seguenti potranno invece immettere in orbita fino a 150 tonnellate.
Orion, la navicella utilizzata durante la missione, passerà nello spazio più tempo di qualsiasi altra astronave e tornerà sulla Terra più rapidamente e con temperature mai raggiunte.
Il veicolo spaziale rimarrà in orbita con la Luna circa sei giorni, così da raccogliere dati e valutare le prestazioni dello stesso. Verrà poi eseguito un altro sorvolo ravvicinato, che porterà la navicella entro 100 km dalla superficie lunare. Sarà questa manovra a riportarla sulla traiettoria verso la Terra.
Quando rientrerà nell’atmosfera la sua velocità sarà pari a a 11 km/s, con una temperatura di circa 2760°C.
L’atterraggio della capsula dovrebbe avvenire al largo della costa della Bassa California, atteso dai subacquei della Marina degli Stati Uniti e dalle squadre operative della NASA Exploration Ground Systems.

https://bfcspace.com

Un nome orbitante

Caratteristica particolare di questa missione è l’inclusione del resto della popolazione mondiale nella stessa. È possibile registrarsi sul sito web della NASA e mandare il proprio nome intorno alla Luna cliccando qui. Nome e cognome saranno conservati su una memoria USB che volerà a bordo dell’Artemis 1 intorno al satellite terrestre. La procedura prevede l’inserimento dei propri dati e di un PIN personalizzato per generare la tua carta d’imbarco.
È, dunque, possibile divenire ospite virtuale della missione Artemis 1. In questo modo si riceveranno le ultime notizie ufficiali dalla NASA riguardo a questa missione nella casella di posta elettronica.

2022: gli ospiti della Luna aumentano

Il 2021 sarebbe dovuto essere uno degli anni più interessanti per quanto riguarda l’esplorazione lunare. Avrebbero dovuto aver luogo ben sei missioni verso il satellite. Nessuna di queste, tuttavia, è stata effettuata.
Sono state rimandate all’anno in corso, con l’aggiunta di quattro missioni già programmate.
Oltre Artemis 1, quest’anno verranno effettuate nove operazioni sul satellite (CAPSTONE, IM-1, IM-2, Luna-25, Chandrayaan, Mission One, KPLO, SLIM e Hakuto-R). Possiamo osservare come nuovi Paesi si stiano interessando negli ultimi anni alle esplorazioni spaziali. Oltre USA e Russia, che in quest’ambito vantano una storia ricca di spedizioni, Corea del Sud, Giappone e India manderanno in orbita quest’anno progetti da loro sperimentati, con tecnologie d’avanguardia.

L’interesse dell’uomo si rivolge ancora una volta alla Luna. La costruzione di una base stabile sul satellite pare essere un punto di partenza per esplorazioni spaziale più lontane all’interno del Sistema Solare.

Alessia Sturniolo

Bibliografia

 

Ai confini del mondo: dove finisce il pianeta Terra?

Il pianeta Terra, un luogo così ospitale e pullulante di vita, è stato fin dall’alba dei tempi una  piccola roccaforte per la specie umana, immersa nelle profondità dell’Universo oscuro. In effetti, ci sentiamo talmente protetti da dimenticare di star fluttuando all’interno di uno spazio cosmico di dimensioni inimmaginabili. Basterebbe semplicemente mettere il naso fuori dal guscio gassoso che ci protegge per finire polverizzati in pochi secondi.

Proprio qui nasce l’interrogativo: dove finisce la Terra, e dove inizia lo Spazio?
Una domanda apparentemente banale, che però non trova una risposta univoca.

  1. Com’è formato il pianeta Terra?
  2. Strati che compongono l’atmosfera
  3. Il confine tra Terra e Spazio

Com’è formato il pianeta Terra?

La Terra, terzo pianeta per distanza dal Sole, è il più grande tra i pianeti terrestri (pianeti composti prevalentemente da roccia e metalli).
Ha una massa pari a quasi 6000 trilioni di tonnellate, che aumenta ad un ritmo di 107 kg all’anno. Il nucleo centrale è costituito prevalentemente da ferro, con una temperatura massima che raggiunge i 5000 gradi Celsius. A causa di queste caratteristiche e non solo, la specie umana è in grado di sopravvivere solo in un piccolo strato, che prende il nome di Crosta terrestre.
Essa è avvolta dall’atmosfera, uno scudo dall’ambiente esterno, freddo e inospitale, lo Spazio. Ciò che ci consente di sopravvivere, respirare e proliferare è questo ammasso di azoto, ossigeno, anidride carbonica e gas nobili.

 

Fonte: https://it.freepik.com/

Strati che compongono l’atmosfera

Lo strato più interno che compone l’atmosfera e che si sviluppa per  8-12 km, a seconda che sia in prossimità dell’equatore o dei poli, è la troposfera. Qui avvengono i fenomeni metereologici e si formano le nuvole, fondamentali per il ciclo dell’acqua e indispensabili per la vita.
Più in alto è presente la stratosfera, estesa verticalmente per circa 35km. Lì è presente uno strato di ozono, che  scherma dalle radiazioni dei raggi UV emesse dal Sole.
A sovrastarla è presente la mesosfera, letteralmente lo ‘strato di mezzo’, in cui si disintegrano i detriti celesti che, infiammandosi, regalano lo straordinario spettacolo che noi chiamiamo pioggia di ‘stelle cadenti’.
E’ poi presente la termosfera, dove la temperatura arriva fino ai 1500 gradi Celsius. Qui troviamo la Stazione Spaziale Internazionale. Il guscio più esterno è invece composto dall’esosfera, dove l’aria è estremamente rarefatta, ed è per questo che risulta ostico stabilire dei veri e propri confini al nostro pianeta. L’aria infatti, man mano che ci si allontana dalla crosta terrestre, diviene sempre meno densa.

Il confine tra Terra e Spazio

Nonostante sia pressoché impossibile definire un limite netto tra la Terra e lo Spazio, la Federazione Aeronautica Internazionale (FAI) ha tracciato un confine immaginario sulla cosiddetta ‘’linea Kármán’’, posta ad un’altezza di 100 km sopra il livello del mare.

Fonte: https://tech.everyeye.it/

mentre la NASA stabilisce il confine a 122 km. Approssimativamente indica la quota di rientro atmosferico, ossia la quota al di sotto della quale gli shuttle possono passare dalla manovra di rientro a propulsori a quella alare.

In generale dunque non vi è una risposta unitaria ad una domanda così semplice. Infatti ciò che definiamo con una singola parola, esiste  come un insieme di strati dell’atmosfera che, all’aumentare dell’altezza, divengono sempre più rarefatti.

E’ davvero complesso capire fino in fondo quanto sottile sia l’equilibrio che ci tiene in vita. Solo la scienza può mostrarci la straordinarietà del nostro mondo, in cui ogni più piccola parte riveste un’importanza fondamentale per il perpetuarsi della vita.

Giulia Accetta

 

BIBLIOGRAFIA

https://universome.unime.it/2021/02/20/dentro-il-buco-nellozono-cose-e-perche-deve-preoccuparci/?fbclid=IwAR08HxKGD9aDY3cYT2dhMsbgWbVjyoUwYaVvRuvn-YyAioVOAQI9aOn60iU

L’intarsio tra cinema e Sicilia al Taormina Film Fest

Lo scorso sabato è calato il sipario sulla 67esima edizione del Taormina Film Fest con la cerimonia di premiazione. Il Cariddi d’Oro (premio al miglior film) è stato assegnato al film Next Door di e con Daniel Brühl, che ha conquistato inoltre la Maschera di Polifemo come migliore attore. La Maschera di Polifemo per la categoria femminile è stata assegnata a Matilda De Angelis, per la sua impeccabile interpretazione nel film Atlas di Niccolò Castelli. Il Cariddi d’Argento è andato a Roberto De Feo e Paolo Strippoli, giovani registi di A classic horror story. Inoltre sono stati assegnati tre Taormina Arte Arwards, rispettivamente a Francesca Michielin, Anna Ferzetti e Ferzan Ozpetek.

Matilda De Angelis, vincitrice della Maschera di Polifemo come miglior attrice – Fonte: ciakmagazine.it

Oltre ai film in concorso, il grande protagonista del Festival è stato senza dubbio l’intarsio tra il cinema e la Sicilia; numerosi, infatti, sono stati gli appuntamenti e le proiezioni che hanno messo al centro questo profondo legame. Ripercorriamo insieme le tappe principali del viaggio attraverso questo prezioso intreccio.

Space Beyond

Apre la serie di proiezioni di “Cinema e Sicilia” -in collaborazione con Sicilia Film Commission e Fondazione Taormina Arte– il film-documentario Space Beyond (2020), dedicato all’astronauta siciliano Luca Parmitano. Diretto da Francesco Cannavà, Space Beyond è il racconto biografico della missione “Beyond” dell’ESA (European Space Agency), effettuata da Parmitano nelle vesti di colonnello pilota sperimentatore dell’Aeronautica militare e primo comandante italiano della Stazione Spaziale Internazionale.

Sei mesi di missione sulla ISS racchiusi in 82 minuti di film, con immagini inedite ed esclusive degli esperimenti scientifici svolti e delle attività extraveicolari effettuati durante la permanenza a bordo. “Il limite lo scegli tu, lo scegliamo noi come umanità come scienziati ed esploratori. Nel momento in cui lo scegliamo abbiamo un obiettivo da superare, poi sta a noi metterci tutti i mezzi necessari per poterlo superare. Per me Beyond, il termine “oltre”, è un contenitore e in un certo senso ci mettiamo dentro sia il limite sia il mezzo per superare questo limite” ha dichiarato Luca Parmitano.

Luca Parmitano – Fonte: ciakmagazine.it

Sulle tracce di Goethe in Sicilia

L’appuntamento successivo si è incentrato sul documentario Sulle tracce di Goethe in Sicilia (2020), del regista tedesco Peter Stein, che ha ripercorso le tappe del poeta connazionale attraverso l’occhio della telecamera. Il tema principale che merge dal diario di viaggio di Goethe è soprattutto la contraddizione tra la bellezza dell’Isola e le condizioni di vita della popolazione. Stein ha preso ispirazione proprio della bellezza dei paesaggi siciliani immortalati su un libro di fotografie; ha sottolineato inoltre di aver un profondo legame con la nostra terra, che lo ha premiato varie volte.

Peter Stein (a destra) durante le riprese – Fonte: ciakmagazine.it

Salviamo gli elefanti

Tre “corti cinematografici” -che affrontano il tema dell’integrazione- sono stati posti al centro di uno degli appuntamenti: stiamo parlando di La bellezza imperfetta (2019) di Davide Vigore, Scharifa di Fabrizio Sergi e Salviamo gli elefanti (2021) di Giovanna Bragna Sonnino. Quest’ultimo in particolare è stato proiettato in anteprima al festival e acclamato con una moltitudine di applausi da parte del suo primo pubblico.

Il corto, nonostante la breve durata, è denso di significato e rappresenta aspetti significativi della società siciliana. I due protagonisti sono Agata, donna ignorante e con una mentalità molto chiusa, e Orlando, bambino di origini italiane nato a Nairobi. Orlando è in vacanza con la sua famiglia e nella confusione del mercato del pesce si perde. Sarà Agata a proteggerlo e a portarlo con sé; i due sono molto diversi e questo porta a una impossibilità di incomprensione tanto verbale quanto culturale. Orlando ama gli animali, è un bambino molto intelligente, vive in una famiglia normale. Agata vive in un substrato sociale completamente diverso: parla prevalentemente in dialetto, non riuscendo a parlare bene l’italiano, è molto diffidente nei confronti degli animali; lavora come donna delle pulizie. Nonostante i contrasti iniziali, alla fine i due riusciranno ad imparare l’uno dall’altro.

Salviamo gli elefanti porta una certa innovazione nel mondo dei cortometraggi: racconta le vicende di una Catania povera, di una donna che, come molte altre, è invisibile nella società. Qui il tema delle differenze socio-culturali porta all’integrazione, alla comprensione del diverso: l’essere umano è sempre portato a temere il diverso, ma è proprio da esso che si andrà ad imparare e ad ampliare le proprie vedute.

Locandina di “Salviamo gli elefanti” – Fonte: ciakmagazine.it

Lo schermo a tre punte

Conclude il ciclo di incontri di “Cinema e Sicilia” l’opera Lo schermo a tre punte, del regista bagherese Giuseppe Tornatore, che ha dialogato con uno degli organizzatori del Festival -tramite la piattaforma online “Zoom”- prima della proiezione del film. Con lo stesso metodo della scena conclusiva del suo masterpiece Nuovo Cinema Paradiso, il Maestro ha unito diversi frame, tratti da oltre un centinaio di film legati alla cultura siciliana.

Attraverso la suddivisone in capitoli, Tornatore si è focalizzato sugli elementi comuni più presenti nei numerosi film visionati; vi è, così, un capitolo dedicato ai gesti, ai codici e al linguaggio tipici della sicilianità, uno dedicato alla Storia, uno alle carte geografiche dell’Isola, uno alle donne siciliane, e così via.

L’opera, dunque, non è altro che un’enciclopedia della cultura cinematografica siciliana, in continua evoluzione; proprio a causa di questa espansione, il regista considera il suo lavoro incompleto e ha ammesso che se dovesse aggiungere un nuovo capitolo lo dedicherebbe alle nuove generazioni.

Nonostante il lungometraggio sia datato risulta ancora funzionale ed irripetibile, un’intuizione geniale che esalta una cultura peculiare, bastarda, ricca e affascinante come quella siciliana.

Giuseppe Tornatore al Taormina Film Fest – Fonte: ciakmagazine.it

 

Sofia Ruello, Mario Antonio Spiritosanto

 

Fonti:

https://www.ciakmagazine.it/ciak-taormina/

Immagine in evidenza:

Acquerello ispirato al viaggio di Goethe in Sicilia – Fonte: ciakmagazie.it

 

Il fenomeno della Superluna: di cosa si tratta?

La sera del 24 Giugno abbiamo assistito all’ultima Superluna del 2021, detta ‘’Superluna di fragola’’. Il nome deriva dalla raccolta di questi frutti che, negli Stati Uniti nordorientali e nel Canada orientale, avveniva nel mese di Giugno. Si è sentito spesso parlare di questi fenomeni negli scorsi mesi, ma cos’è esattamente una ‘‘Superluna”?

  1. Cos’è la Superluna
  2. Come si verifica il fenomeno
  3. Elementi che provocano la Superluna
  4. Il 14 Novembre 2016
  5. L’illusione della Luna

Cos’è una Superluna

Il termine ‘’Superluna’’ è stato coniato nel 1979 dall’astrologo americano Richard Nolle e riportato per la prima volta in un articolo per la rivista Dell Horoscope.
Venne definita come una Luna nuova o piena, visibile quando il nostro satellite si trova entro il 90% del suo avvicinamento alla Terra nella sua orbita. Non è chiaro perché R.N abbia scelto proprio questa percentuale. Inoltre sostenne che questo evento avrebbe causato catastrofi naturali. Tuttavia si rivelò una previsione infondata e fallimentare.

La quasi piena Superluna sorge sopra il fiume Syr Darya vicino al cosmodromo di Baikonur in Kazakistan il 13 Novembre 2016  Fonte: NASA/Bill Ingalls
La quasi piena Superluna sorge sopra il fiume Syr Darya vicino al cosmodromo di Baikonur in Kazakistan il 13 Novembre 2016  Fonte: NASA/Bill Ingalls

 

Come  si verifica il fenomeno

L’orbita della Luna ha una distanza media di 382.900 chilometri. Inoltre, l’attrazione gravitazionale del Sole e dei pianeti fa in modo che non abbia la forma di un cerchio perfetto.
A caratterizzare l’orbita lunare sono due punti: l’apogeo, che rappresenta il punto più lontano dalla Terra e il perigeo, il più vicino alla stessa.
Quando la Luna si trova in perigeo si parla di Superluna,  quando invece si trova in apogeo è chiamata Microluna. La sua distanza dalla Terra ha anche dei lievi effetti sulle maree.

Elementi che provocano la Superluna

Affinchè si possa verificare una Superluna sono necessari due elementi: il primo è che la Luna deve essere al perigeo nella sua orbita di 27 giorni, il secondo è che deve anche essere alla fase completa, che accade ogni 29,5 giorni, cioè quando il Sole la illumina nella sua totalità.
Tale fenomeno si verifica poche volte all’anno, poiché l’orbita del satellite cambia orientamento mentre la Terra compie la sua orbita intorno al Sole.
La Superluna appare più luminosa del 30% e più grande del 14% rispetto a una luna piena all’apogeo.

La Superluna è del 14% più grande e del 30% più luminosa della Microluna. – Fonte: timeanddate.com

Il 14 Novembre 2016

La fine del 2016 ha visto ben tre Superlune, ma la più affascinante è stata quella osservata nel Novembre 2016 e definita come ‘’la più grande e più brillante Superluna in 69 anni’’. Il suo perigeo si trovava a 356.508 chilometri di distanza dalla Terra.

Confronto della Luna nella notte della Superluna del 13-14 Novembre 2016. – Fonte: solarsystem.nasa.gov

L’immagine a sinistra è stata scattata successivamente al sorgere della Luna, circa alle 18:00, poco sopra l’orizzonte.
L’immagine a destra, invece, è stata scattata quando la luna si trovava in prossimità della sua massima altitudine, circa alle 00:30.
Le linee che uniscono le due immagini mostrano una differenza in termini di dimensioni. Questo è dovuto al fatto che la Luna che sorge è più piccola data la sua lontananza dal nostro Pianeta. In quel momento, il centro della Luna era circa alla stessa distanza dal centro della Terra e dall’osservatore.
Nella seconda immagine, la Terra aveva compiuto un quarto di giro e la Luna era più alta nel cielo, a circa 6400 chilometri vicino all’osservatore.
La rotazione della Terra ha variato la distanza dall’osservatore, in questo caso il suo centro era più lontano. La diminuzione della distanza tra la Luna e l’osservatore è dimostrata dalla coppia di fotografie.

L’illusione della Luna

La Superluna può sembrare particolarmente grande se è vicina all’orizzonte. Questo in realtà non ha niente a che fare con l’astronomia, piuttosto dipende dalla percezione che ne ha il cervello umano. Questo effetto prende il nome di “illusione della Luna’’.
Secondo gli scienziati, l’illusione avviene perché il cervelloconfronta la Luna con edifici o oggetti vicini. Un’altra spiegazione è che il nostro cervello percepisce gli oggetti all’orizzonte più grandi rispetto a quelli presenti nel cielo.

È tutta colpa della Luna, quando si avvicina troppo alla Terra fa impazzire tutti.”
Shakespeare

Serena Muscarà

Bibliografia

Da Galileo a Rømer: la storia della velocità della luce

La velocità della luce è una delle grandezze più importanti in fisica, ad esempio tramite essa è possibile convertire la massa in energia e viceversa. A lungo si è ritenuto che fosse infinita a causa dell’apparente istantaneità con la quale si propaga. Basti pensare alla luce del Sole che per raggiungere la Terra impiega circa 8 minuti, mentre ai nostri occhi il processo appare immediato. Ma com’è stato misurato il suo valore?

I primi raggi del sole esplodono sull’orizzonte terrestre durante un’alba orbitale mentre la Stazione Spaziale Internazionale orbita sopra l’Oceano Indiano a sud-ovest dell’Australia – Fonte: Nasa.gov

La questione se la luce richieda tempo per propagarsi è stata più volte affrontata. Sulla base di semplici esperienze, legate per lo più al senso comune, è prevalsa l’idea che la luce dovesse propagarsi istantaneamente. Questa convinzione è stata rafforzata da alcune considerazioni legate alla fisica aristotelica; poiché la propagazione della luce non rappresentava un moto materiale, non dovendo essa subire resistenza nel mezzo, doveva propagarsi in un istante. A questa concezione aderirono per secoli quasi tutti gli studiosi di ottica, tra i quali Keplero e Cartesio, con qualche eccezione costituita ad esempio da Alhazen e dai suoi sostenitori.

L’esperimento di Galileo Galilei

Il primo a cimentarsi nella misura della velocità della luce fu Galileo Galilei. Nel 1638, egli pubblicò il trattato Discorsi e dimostrazioni matematiche intorno a due nuove scienze attinenti alla meccanica e ai moti locali dove proponeva che la velocità della luce potesse essere misurata tramite delle lanterne.

Il suo esperimento prevedeva di porre due lanterne a circa 2 chilometri di distanza e di calcolare il tempo che la luce impiegava ad arrivare da un punto all’altro. Quando Galileo scopriva la sua lanterna, il suo assistente doveva scoprire la propria non appena vedeva la luce. Misurando il tempo necessario per vedere la luce proveniente dalla lanterna del suo assistente, Galileo avrebbe potuto ricavare la velocità della luce.

Esperimento di Galileo Galilei – Fonte: INFN Sezione di Ferrara

L’esperienza però non portò a nessun risultato. La luce per percorrere 2 chilometri impiega circa 0,000005 secondi, un valore impossibile da misurare con gli strumenti a disposizione di Galileo.

Ole Rømer e l’orbita di Io

Tuttavia, per distanze maggiori e possibile ricavare una stima della velocità anche con strumenti meno sofisticati. Nel 1676 l’astronomo danese Ole Rømer riuscì a determinare un valore veritiero osservando l’orbita di Io, il più interno dei quattro grandi satelliti di Giove, scoperti da Galileo nel 1610.

Il periodo orbitale di Io è ora noto per essere 1,769 giorni terrestri (42 ore). Il satellite è eclissato da Giove una volta ogni orbita, visto dalla Terra. Osservando queste eclissi per molti anni, Rømer notò qualcosa di particolare: l’intervallo di tempo tra le eclissi successive divenne costantemente più breve man mano che la Terra si avvicinava a Giove e divenne costantemente più lungo man mano che il nostro pianeta si allontanava.

Dai suoi dati, Rømer ha stimato che quando la Terra era più vicina a Giove, le eclissi di Io si sarebbero verificate circa undici minuti prima di quanto previsto sulla base del periodo orbitale medio. Mentre 6 mesi e mezzo dopo, quando la Terra era più lontana, le eclissi si sarebbero verificate circa undici minuti più tardi del previsto.

Rømer capì che il periodo orbitale di Io non aveva nulla a che fare con le posizioni relative della Terra e di Giove. In un’intuizione brillante, si rese conto che la differenza di tempo doveva essere dovuta alla velocità finita della luce.

L’Eclissi

L’ipotesi di Rømer lasciò perplesso il direttore dell’osservatorio, Gian Domenico Cassini. Allora per convincere quest’ultimo, annunciò che l’eclissi di Io, prevista per il 9 novembre 1676, sarebbe avvenuta 10 minuti prima dell’orario che tutti gli altri astronomi avevano dedotto dai precedenti transiti della luna.

La previsione si verificò e Cassini dovette ricredersi. Rømer spiegò che la velocità della luce era tale che aveva impiegato 22 minuti per percorrere il diametro dell’orbita terrestre. Purtroppo, avendo un valore impreciso del diametro dell’orbita terrestre, il valore ottenuto fu 210.800.000 m/s.

Rømer comunicò la sua scoperta alla Accademia delle Scienze e la notizia venne poi pubblicata il 7 dicembre 1676, data che oggi viene ricordata come quella della prima determinazione della velocità della luce.

Eclissi di Io – Fonte: Focus.it

Altri studi

Lo scienziato olandese Christiaan Huygens, nel 1790, riuscì a trovare un valore per la velocità della luce equivalente a 210.824.061,37 m/s. La differenza era dovuta agli errori nella stima di Rømer per il ritardo massimo (il valore corretto è 16,7, non 22 minuti), e anche ad una conoscenza imprecisa del diametro orbitale della Terra. Più importante della risposta esatta, tuttavia, era il fatto che i dati di Rømer fornivano la prima stima quantitativa per la velocità della luce.

In seguito, la velocità della luce è stata misurata dai fisici con precisione assoluta: un raggio luminoso viaggia nel vuoto a 299.792.458 m/s. In un secondo potrebbe compiere sette giri e mezzo della Terra seguendo la linea dell’equatore.

Serena Muscarà

 

Bibliografia

https://www.focus.it/scienza/scienze/velocita-della-luce-news

http://galileo.phys.virginia.edu/classes/109N/lectures/spedlite.html

https://www.amnh.org/learn-teach/curriculum-collections/cosmic-horizons-book/ole-roemer-speed-of-light#:~:text=The%20speed%20of%20light%20could,is%20186%2C000%20miles%20per%20second.

Perseverance: il rover è su Marte

Dopo 7 mesi di estenuante attesa e 470 milioni di chilometri di spazio percorsi, alle 21:55, ora italiana, il rover Perseverance della NASA ha toccato il suolo di Marte. Ma perché questa missione è così importante?

Gli ingegneri del Jet Propulsion Laboratory della NASA a Pasadena, USA, osservano il primo test di guida per Perseverance della NASA il 17 dicembre 2019.
Fonte: NASA/JPL-Caltech

Prima dell’ammartaggio: i ‘’sette minuti di terrore’’

Così viene definito il tempo necessario all’ammartaggio, in cui il centro di controllo non può correggere eventuali errori causati dai famosi sette minuti di ritardo tra la Terra e Marte. Tutto è quindi nelle mani dei sistemi di bordo a dir poco precisi del rover. Perseverance è entrato nell’atmosfera raggiungendo i 1300 C° ad una velocità di 1600 chilometri orari, protetto da uno scudo termico. Quando quest’ultimo si è sganciato, ha lasciato spazio all’apertura del paracadute di circa 21 metri che ha attutito la caduta, rallentando la discesa del rover a circa 400 chilometri orari. Da questo momento in poi sono entrati in gioco i retrorazzi, che hanno accompagnato il robot fino al suolo, facendolo scendere dolcemente tramite l’argano montato sulla sommità dei propulsori ed attaccato tramite cavi al corpo di Perseverance, per poi sganciarsi ed atterrare poco più distante.

Perseverance ha raggiunto sano e salvo il cratere Jezero, letto di un antico lago marziano, il 18 febbraio 2021. Il viaggio e l’esplorazione del pianeta rosso fanno parte della missione spaziale Mars 2020, iniziata proprio con il lancio della sonda lo scorso 30 luglio da Cape Canaveral in Florida.

Perseverance lanciato su un razzo Atlas V-541 dal Launch Complex 41 a Cape Canaveral Air Force Station, Florida.
Fonte: https://mars.nasa.gov/mars2020/timeline/launch/

Gli obiettivi della missione

Uno degli obiettivi di Perseverance è quello di cercare segni di antica vita microbica su Marte. Ciò permetterà alla NASA di studiare la passata abitabilità del pianeta. In particolare, gli scienziati sono interessati ai sedimenti trasportati dagli antichi fiumi nel cratere. Queste rocce sono molto importanti in quanto potrebbero tener traccia di sostanze organiche, segno della possibile vita passata di Marte. Il rover si impegna, inoltre, a raccogliere rocce vulcaniche, in modo tale da poter stabilire i cambiamenti geologici e ambientali nel corso del tempo.

Oltre a queste, innovative tecnologie verranno testate per aumentare i sistemi protettivi delle tute spaziali, in vista di possibili e future missioni umane sul pianeta rosso. Le missioni saranno supportate anche grazie allo studio dell’ossigeno estratto dall’atmosfera, volto a verificare con maggior chiarezza la possibilità di autosostentamento degli astronauti sul gemello della Terra.

Prima immagine di Marte da Perseverance.
Fonte: NASA/JPL-Caltech

Operazioni al suolo di Perseverance

Perseverance è dotato di sette strumenti, tra cui fotocamere, radar e sistemi laser per l’analisi del suolo e della sua composizione. Vi è anche un trapano rotante in grado di perforare il terreno di circa 5 centimetri. I frammenti ottenuti verranno raccolti e sigillati ermeticamente dentro tubi di titanio (il peso di ogni campione è di circa 15 grammi). Il rover trasporterà a bordo i campioni sigillati, fino a quando il team che si dedica alla missione deciderà di depositarli sulla superficie marziana.

Secondo il piano, Perseverance sistemerà le capsule in posizioni strategiche, in modo tale da poter essere raccolte da missioni future. A questo proposito, l’European Space Agency (ESA) prevede di usare il Sample Fetch Rover durante la missione Sample Retrieval Lander della NASA. Il rover dell’ESA raccoglierà i campioni che Perseverance ha depositato e li porterà al lander, dove saranno accuratamente conservati in un Mars Ascent Vehicle (MAV). Il MAV lancerà il container con i campioni dalla superficie marziana, mettendolo in orbita intorno a Marte.

Ingenuity

Insieme a Perseverance c’è Ingenuity, un drone di piccole dimensioni a forma di elicottero . Sarà utilizzato per testare l’effettiva possibilità di volare sul suolo marziano per potersi spostare con più facilità e a una velocità maggiore, in quanto il rover può percorrere pochi metri al giorno. Una serie di test di volo sarà eseguita su una finestra sperimentale di 30 giorni marziani che inizierà nella primavera del 2021. Per il primo volo, l’elicottero decollerà a pochi metri da terra, si aggirerà in aria per circa 20-30 secondi e atterrerà. Dopo di che, il team tenterà ulteriori voli sperimentali di crescente distanza e maggiore altitudine. Dopo che l’elicottero avrà completato la sua dimostrazione tecnologica, Perseverance continuerà la sua missione scientifica.

Rappresentazione artistica di Ingenuity sul suolo marziano.
Fonte: NASA/JPL-Caltech

Un barlume di speranza

Ieri il team della National Aeronautics and Space Administration ha raggiunto un grande obiettivo, dal momento che sul totale di missioni verso il suolo marziano, circa il 60% è risultato fallito. Perseverance rappresenta un barlume di speranza per avvicinarci ancora di più alla risposta alla domanda: siamo mai stati soli nell’Universo?

”Mi sono dato come legge di procedere sempre dal noto all’ignoto, e di non fare alcuna deduzione che non sgorghi direttamente dagli esperimenti e dall’osservazione.”

 

Serena Muscarà

 

Bibliografia
https://mars.nasa.gov/mars2020/mission/overview/

https://mars.nasa.gov/technology/helicopter/

https://mars.nasa.gov/mars2020/timeline/launch/

https://mars.nasa.gov/mars2020/timeline/surface-operations/

https://www.esa.int/ESA_Multimedia/Images/2020/04/Perseverance_rover

https://mars.nasa.gov/news/8865/touchdown-nasas-mars-perseverance-rover-safely-lands-on-red-planet/

 

In viaggio verso Proxima Centauri: il progetto Breakthrough Starshot

Nei film di fantascienza i viaggi interstellari avvengono in tempi molto brevi. Gli esempi più famosi sono il salto nell’iperspazio del Millennium Falcon in Star Wars oppure il wormhole di Interstellar. Con la tecnologia di oggi, invece, raggiungere un’altra stella richiederebbe un viaggio di migliaia di anni, anche per la più vicina. Per questo motivo nasce il progetto Breakthrough Starshot che potrebbe permettere di arrivare a Proxima Centauri in ‘’appena’’ 20 anni.

Immagine ottica di Alpha Centauri nella quale si vedono le coppia AB e Proxima Centauri.
Fonte: Eso/B. Tafreshi (twanight.org)/Digitized Sky Survey 2; Acknowledgement: Davide De Martin/Mahdi Zamani

La stella più vicina al Sole: Proxima Centauri

Proxima Centauri è una stella nana rossa che fa parte di Alpha Centauri, un sistema stellare triplo situato a 4,37 anni luce di distanza (circa 41 mila miliardi di chilometri) dalla Terra. Le altre due stelle che appartengono al sistema sono Alpha Cen A e Alpha Cen B, entrambe molto simili al nostro Sole. Proxima Centauri si trova a 0,21 anni luce (meno di 2 mila miliardi di chilometri) dalla coppia AB e dunque a 4,22 anni luce dalla Terra. Ciò le ha conferito il titolo di stella più vicina al nostro Sistema Solare.

La stella sicuramente rappresenta la candidata perfetta per inviare una sonda, ma a renderla ancora più interessante è l’esopianeta che orbita intorno ad essa: Proxima b.
Il pianeta è stato scoperto il 24 agosto 2016 dal team guidato dallo scienziato Guillem Anglada-Escudé della Queen Mary University di Londra. Proxima b orbita all’interno della zona abitabile della sua stella madre, ovvero quella regione dove è teoricamente possibile per un pianeta mantenere acqua liquida sulla sua superficie. Ciò renderebbe possibile la presenza di vita.

Il pianeta è stato rilevato misurando le variazioni della velocità radiale di Proxima Centauri tramite lo spettrografo HARPS, montato sul telescopio di 3,6 metri di diametro presso l’Osservatorio di La Silla dello European Southern Observatory (ESO). La scoperta è stata possibile grazie all’utilizzo del metodo delle velocità radiali, che consiste nel misurare le variazioni prodotte dall’effetto Doppler nello spettro della stella madre.

Funzionamento del metodo di rilevazione d’un pianeta basato sulla misura della variazione della velocità radiale.
Fonte: ESO

L’idea di raggiungere Proxima Centauri ha iniziato a farsi strada pochi mesi dopo la scoperta dell’esopianeta, dando vita al progetto Breakthrough Starshot.

Il progetto Breakthrough Starshot

Il 20 luglio 2015, l’imprenditore russo Yuri Milner e il fisico Stephen Hawking hanno annunciato le Breakthrough Initiatives. Il programma è dedicato alla ricerca di vita al di fuori del Sistema Solare. Tra le varie iniziative, il 12 aprile 2016 è stato annunciato il progetto Breakthrough Starshot. Il suo obiettivo è quello di inviare una sonda, o una flotta di sonde, che raggiunga Proxima Centauri in circa 20 anni.

La sonda più veloce in nostro possesso raggiungerebbe il nostro vicino stellare in 30 mila anni. Inoltre, non è possibile utilizzare i convenzionali razzi a propulsione chimica, in quanto non possono immagazzinare abbastanza energia sotto forma di carburante. Per questo motivo, Starshot si impegna a utilizzare un metodo di propulsione alternativo: le vele solari.

Le vele solari sono un mezzo di propulsione che sfrutta la pressione di radiazione della luce solare. I fotoni, ovvero le particelle che compongono la luce, nonostante non abbiano massa riescono a trasportare energia e quantità di moto. Quando questi colpiscono una superficie, esercitano una pressione. Nella vita di tutti i giorni non riusciamo ad avvertirla. Nello spazio, invece, dal momento che non vi è quasi attrito, se esercitata in modo continuo è possibile misurarla. Ad esempio, se trascurata nei calcoli, potrebbe deviare la rotta di una sonda di migliaia di chilometri.

Modello della sonda giapponese IKAROS, la prima ad usare le vele solari come propulsione, lanciata nel 2010.
Fonte: Di Pavel Hrdlička, Wikipedia, CC BY-SA 3.0, https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=11722452

La prima sonda ad avere utilizzato le vele solari come sistema di propulsione è stata IKAROS dell’Agenzia Spaziale Giapponese (JAXA), lanciata nel 2010 per raggiungere Venere.

Nonostante il successo della missione giapponese, la luce del Sole è troppo debole per accelerare una sonda verso Alpha Centauri. Ciò richiederebbe una vela molto ampia, leggera, estremamente sottile e molto riflettente. Mentre la sonda in sé dovrebbe avere le dimensioni di un microchip, in quanto il carico dev’essere molto leggero. Per questo motivo, gli scienziati hanno optato per ciò che ha proposto Philip Lubin in A Roadmap to Interstellar Flight, ovvero l’utilizzo dei laser.

Il viaggio verso Alpha Centauri

L’idea di Starshot è quella di costruire dei laser distribuiti su un’area di circa un chilometro quadrato, con una potenza complessiva pari a 100 GigaWatt. Questa potenza permetterebbe di accelerare una sonda di appena un centimetro trasportata da una vela circolare larga 4 metri, il tutto con un peso complessivo di un grammo.

Una volta in orbita, la vela verrebbe aperta e colpita dai laser. Per massimizzare la velocità e minimizzare i danni da parte dei laser, la vela dovrà riflettere quasi tutta la luce in arrivo. Esistono già materiali idonei che possono riflettere fino al 99,999% della luce in ingresso. I ricercatori avranno bisogno di studiare come questi risponderanno agli intensi livelli di luce richiesti, che potrebbero produrre effetti ottici imprevedibili. Nella fase di accelerazione, la vela dovrà mantenersi estremamente piatta ed essere in grado di compensare le imperfezioni dei laser, in modo tale da restare in rotta, poiché anche la più piccola deviazione potrebbe cambiare drasticamente la traiettoria. Un metodo per prevenire questo problema è fare in modo che la vela giri, poiché la forza centrifuga generata permetterebbe al materiale di non piegarsi.

I laser si spegneranno dopo diversi minuti, una volta che la sonda avrà raggiunto un quinto della velocità della luce e viaggiato per un paio di milioni di chilometri, circa cinque volte la distanza tra la Terra e la Luna. Inizierà così il suo viaggio verso Proxima Centauri. Quando la sonda arriverà a destinazione, non ci sarà modo di rallentarla e attraverserà il sistema stellare in circa due ore. Questo creerà sfide per la progettazione dei suoi strumenti di misura, in quanto nessuna foto è mai stata scattata da una macchina fotografica che si muove a un quinto della velocità della luce. Le telecamere del velivolo dovranno ruotare per mantenere il pianeta in vista e i computer terrestri dovranno correggere le immagini dalle distorsioni causate dagli effetti della relatività, dal cambiamento dell’angolo e dalla distanza della telecamera dal pianeta.

Rappresentazione artistica di Proxima b.
Fonte: ESO/M. Kornmesser

Lo studio continua

Rimangono da risolvere una serie di difficili sfide ingegneristiche prima che queste missioni possano diventare realtà. Tutti i dati possono essere scaricati sul sito del progetto, insieme ai nomi dei ricercatori impegnati nello studio.

”Il mio obiettivo è semplice. È una comprensione completa dell’universo, perché è così com’è e perché esiste.”

Serena Muscarà

 

Bibliografia
https://www.media.inaf.it/2018/06/07/alpha-cen-radiazioni/

https://www.media.inaf.it/2016/08/24/proxima-centauri-pianeta-vicino/

https://www.nature.com/news/what-it-would-take-to-reach-the-stars-1.21402?utm_source=TWT_NatureNews&sf176788623=1

https://breakthroughinitiatives.org/initiative/3

https://www.nature.com/news/billionaire-backs-plan-to-send-pint-sized-starships-beyond-the-solar-system-1.19750

https://www.osa-opn.org/home/articles/volume_28/may_2017/features/breakthrough_starshot/

 

Il fotovoltaico dell’ISS: cosa cambierà?

  1. Quando nasce l’ISS?
  2. La rivoluzione del fotovoltaico… nello spazio
  3. I pannelli dell’ISS tra passato e presente
  4. Più energia!
  5. Tante idee attorno al fotovoltaico

Dalla sua costruzione ad oggi l’International Space Station (ISS) ha rappresentato il punto di riferimento per molte missioni spaziali.

I comandanti Bill Shepherd e Soyuz Yuri Gidzenko e l’ingegnere di volo Sergei Krikalev sono stati i protagonisti della prima missione verso l’ISS. Da allora 293 sono stati gli astronauti che finora vi hanno fatto ingresso, ognuno dei quali ha svolto numerosi esperimenti, ognuno dei quali ha portato un pezzo di spazio qui sulla Terra, segnando la storia della stazione. Tra questi, Samantha Cristoforetti e Luca Parmitano.

Quando nasce l’ISS?

La storia dell’ISS e la sua stessa esistenza, oltre ad essere il riflesso di un grande traguardo scientifico, sono il simbolo di un momento storico in cui ogni tentativo di avvicinarsi sempre più allo spazio sembrava fallire.

Si tratta di progetti nati in seno alla guerra fredda e ogni idea in quegli anni era strettamente correlata alla politica.

Agli inizi degli anni Ottanta, la Nasa aveva già immaginato la costruzione della stazione spaziale chiamata Freedom, come  risposta alle stazioni russe Saljiut e Mir. Ma il progetto fallì e il bisogno di trovare un punto d’unione tra i Paesi coinvolti nell’esplorazione spaziale divenne sempre più forte.

Prende così vita l’idea di una stazione spaziale costruita coinvolgendo più parti.
Il governo statunitense strinse accordi con la Russia, con l’Europa, con il Giappone. Sulla base dei progetti delle stazioni Freedom e Mir2 e dei laboratori Columbus e Kibo,  nasce l’International Space Station.

Nel 1998 si lancia il primo modulo, Zarja, ma sono state necessarie 41 missioni per giungere al completamento della stazione. Missioni che si sono concluse nel 2011 con l’arrivo alla stazione del Multi-Purpose Logistics Module “Raffaello”, adibito a “deposito”.

 

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Breve riassunto della struttura dell’ISS.

La rivoluzione del fotovoltaico… nello spazio

Negli anni duemila uno di questi viaggi verso l’ISS ha portato all’installazione del primo set di pannelli solari della stazione. Ulteriori aggiunte sono state poi fatte nel 2006 e nel 2009, anno in cui si installa l’ultimo segmento della struttura energetica, per un totale di 16.400 celle fotovoltaiche.

Un tassello importante per tutto l’ambiente scientifico. Generare energia tramite fotovoltaico è stata una delle rivoluzioni del Novecento;  tra il 1954 e il 1980 si realizzano grandi imprese. Fra queste, il lancio del veicolo spaziale Vanguard I, il primo ad essere alimentato da celle fotovoltaiche, e del razzo Explorer 6, costituito da quattro pannelli solari.

Negli anni novanta il fotovoltaico diventa il simbolo di una nuova “era” di libertà energetica.

Spazio e produzione di energia solare sono strettamente legate.

I pannelli dell’ISS tra passato e presente

L’ISS è alimentato tramite pannelli solari fotovoltaici (SAW, Solar Array Wings), i quali assorbono le radiazioni del Sole convertendole in energia. Quei pannelli che immediatamente ci ricordano la famosa immagine della stazione.

I pannelli sono montati lungo l’Integrated Truss Structure e sono fatti ruotare da una struttura ad anelli (Beta Gimbal Assembly) che con il Solar Alpha Rotary Joint  fa sì che essi seguano la direzione del Sole.

Viene così garantita la massima energia.
I pannelli sono la principale fonte della stazione, sono il suo “sostentamento”.

Hanno funzionato e continuano a funzionare. Ma c’è pur sempre un limite alla loro resilienza. Così potenti e così preziosi da richiedere un continuo controllo, che ultimamente ha evidenziato segni di degradazione. Quindi, a inizio 2021 la NASA ha deciso di aggiungere nuovi pannelli solari, per riottenere una giusta fornitura di energia e un giusto funzionamento della stazione. E tutto ciò diventa ulteriormente importante in vista del programma Artemis che vede nell’ISS un “modello”  sulla quale affidarsi per eventuali dimostrazioni tecnologiche.

Più energia!

A fornire i pannelli sarà l’industria Boeing con la sussidiaria Spectrolab e la Deployable Space System e il risultato finale vedrà la combinazione dei pannelli originari con i nuovi, più piccoli ed efficienti.

I pannelli saranno del tipo ROSA (Roll Out Solar Array), una recente tipologia di pannelli solari fotovoltaici che ha già dimostrato la sua efficienza nel 2017, quando un loro prototipo è stato dispiegato sulla ISS.

I pannelli ROSA vengono trasportati in un cilindro per poi essere “srotolati” sulla stazione. Sono in grado di raggiungere grandi estensioni e quindi quantità di energia molto elevate. Seguiranno la “rotta” dei vecchi pannelli, il loro stesso sistema di tracciamento del Sole e di canalizzazione dell’energia.

I pannelli originari sono in grado di produrre fino a 160 kW di elettricità. Con i nuovi si raggiungeranno circa i 215 kW.
Una struttura innovativa, una delle tante piccole rivoluzioni dal mondo dello spazio.

Si prevedono tre missioni di rifornimento e il trasporto avverrà dentro la capsula cargo Dragon della SpaceX.
Il 2021 prevedibilmente sarà l’anno in cui avverrà la prima di queste missioni.

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Tante idee attorno al fotovoltaico

L’uso del fotovoltaico ha segnato un momento di rinnovo. Portarlo nello spazio ha segnato uno dei momenti in cui la scienza e la tecnologia sono cambiate.

In futuro, le idee sviluppate per lo spazio potrebbero diventare ancora più connesse con ciò che accade sulla Terra.

L’agenzia spaziale giapponese (JAXA) ha in mente di progettare un enorme impianto fotovoltaico che produrrà energia elettrica da trasferire al nostro pianeta. Un progetto gigantesco che dovrebbe realizzarsi entro il 2037 e che Focus ha definito “il più ambizioso programma sulle energie rinnovabili delle prossime due decadi”.

Si basa su idee nuove, ma anche su idee già pensate in passato. Per esempio, la realizzazione dei Solar Power Satellite, in grado di assorbire l’energia solare, è un’idea che la Nasa ebbe negli anni Settanta e quest’anno dovrebbe essere realizzata una loro nuova versione, dopo quella messa a punto nel 2018.  E il piano di volo per il trasporto dei vari elementi prenderà spunto dalle manovre di aggancio (docking) dell’ISS.

Il 2021 sarà un anno di ripartenza per il mondo dello spazio, un anno di avvio per le grandi novità del futuro.

Giada Gangemi

Bibliografia:

https://www.astronautinews.it/2021/01/nuovi-pannelli-solari-per-linternational-space-station/

https://www.focus.it/scienza/energia/impianto-fotovoltaico-spaziale-giapponese

Gravity: un’avventura nello spazio, tra fisica e fantascienza

Il film di Cuarón ha stregato la critica, un po’ meno gli scienziati.

Non solo Nolan, anche Alfonso Cuarón ha provato a giocare con la fisica a Hollywood. Col suo “Gravity”, uscito nella sale cinematografiche nel 2013, ha raccontato un’avventura spaziale molto avvincente. Ma quanto accaduto nel film è fisicamente possibile? Scopriamolo insieme.

Lo specialista di missione Ryan Stone (Sandra Bullock) e il tenente Matt Kowalsky (George Clooney), dotato di jet pack, stanno riparando un pannello posto all’esterno dello shuttle, a circa 600 km sopra la Terra.

I nostri protagonisti si vedono qui muoversi con una facilità disarmante, nonostante in realtà la tuta degli astronauti sia piuttosto ingombrante e delicata. Chi la indossa, infatti, non riesce a muoversi così velocemente come è stato visto nel film. Inoltre, ha un campo visivo molto ristretto e sicuramente non rischierebbe in nessun modo di urtare contro una parte della struttura, in quanto potrebbe danneggiarla facilmente. Infine, l’uso del jet pack è previsto solo in casi di emergenza, poiché, nella realtà, gli astronauti sono collegati tramite un cavo alla struttura. Infatti, nemmeno gli strumenti vengono lasciati fluttuare senza essere stati prima connessi alla base.

Ad un certo punto, Houston li avverte che i russi hanno lanciato un missile su un loro satellite: ormai frantumato in mille pezzi, la sua distruzione ha generato una tempesta di detriti. Questi, a loro volta, hanno danneggiato altri satelliti, causando a loro volta altri detriti, tutti diretti verso lo shuttle di Stone e Kowalsky.

Uno scenario catastrofico, se non fosse che i cosiddetti Tracking and Data Relay Satellite System (TDRSS), ovvero i satelliti utilizzati per le comunicazioni, si trovano ad una altitudine di 36000 km, e quindi non possono mai essere danneggiati da detriti provenienti da orbite più basse. Ed anche se fosse stato possibile, la formazione di ammassi di detriti richiederebbe settimane, se non mesi o anni per accumularsi. Ultimo appunto: nel film, Houston dice che i detriti hanno raggiunto la velocità di 45000 km/h. È praticamente impossibile vederli arrivare! Ciò che accade è invece che gli ammassi di detriti vengono costantemente monitorati e, qualora dovessero sopraggiungere nei pressi delle stazioni spaziali, basterebbe modificare di poco la rotta per evitarli e continuare indisturbati col proprio lavoro.

A questo punto, i detriti raggiungono e distruggono lo shuttle e Stone si ritrova a fluttuare nello spazio. Fortunatamente però Kowalsky, grazie al jet pack, ben presto la raggiunge ed insieme si dirigono verso la Stazione Spaziale Internazionale (ISS). Tuttavia, a causa di una serie di urti dovuti all’arrivo brusco Kowalsky, per salvare Stone, scollega il cavo di sicurezza e si lascia andare nello spazio. Stone, a questo punto, sale sull’ISS riuscendo, dopo svariate peripezie, a raggiugere il veicolo spaziale Sojuz che le permette di raggiungere la stazione cinese Tiangong 1.

Pensare che una stazione spaziale sia perfettamente nell’orbita di un astronauta è molto fantasioso, ma diamolo per buono. Le stazioni, però, non sono dotate di portelli con maniglie esterne. Prima di aprire un portello (apertura che avviene verso l’interno, e non verso l’esterno), bisogna anzitutto depressurizzare l’airlock (una camera di equilibrio) e solo dopo entrare dentro la stazione. Infatti, la differenza di pressione tra l’interno e l’esterno provocherebbe una forte spinta verso fuori che spazzerebbe praticamente via la nostra Sandra Bullock. Le navicelle Sojuz (che non sono pensate per fare passeggiate spaziali, come dice invece Kowalsky), inoltre, possono contenere al massimo tre persone. Visto che la ISS in genere è composta da 6 persone, se si trovasse abbandonata sarebbe di certo sprovvista dei Sojuz, che l’equipaggio avrebbe dovuto utilizzare per il ritorno sulla Terra.

Stone riesce infine ad usare la navetta di salvataggio cinese Shenzhou e a tornare, finalmente, sulla Terra. Qui, una volta atterrata, la vediamo prontamente alzarsi in piedi. Nella realtà non è così: gli astronauti devono affrontare un periodo di riabilitazione successivamente all’atterraggio per riacquisire il tono muscolare originale.

Oltre alle imprecisioni già elencate, ce ne sono diverse disseminate lungo tutto il film.

Per esempio, si vede più volte Stone mentre si toglie la tuta, apparendo in biancheria intima. Gli astronauti, in realtà, utilizzano biancheria più coprente e resistente, sotto una maglia speciale composta da decine di tubicini, contenenti acqua, che hanno la funzione di espellere all’esterno il calore corporeo. Di conseguenza, togliersi la tuta è un’operazione molto più lunga e delicata.

Anche l’utilizzo dell’estintore per spostarsi appare alquanto inverosimile: spostarsi con esso, nello spazio vuoto, senza calcolare prima con minuziosa attenzione e assoluta precisione posizionamento e orientamento, potrebbe comportare un effetto contrario a quanto voluto dalla nostra protagonista.

L’atteggiamento di Kowalsky, inoltre, appare piuttosto poco professionale e l’addestramento di sei mesi di Stone non sarebbe adeguato agli standard previsti per le missioni spaziali: Samantha Cristoforetti, la nostra amata astronauta tricolore, ha dovuto superare un addestramento di oltre due anni.

Potremmo continuare a lungo, descrivendo come le lacrime della Stone non dovrebbero staccarsi dal viso a causa della tensione superficiale o come i suoi capelli, in assenza di gravità, dovrebbero fluttuare sopra la sua testa.

Ma dopo molte critiche, è giusto spezzare anche qualche lancia in favore di Gravity, che presenta diversi aspetti veritieri. Infatti, le varie strutture (come la ISS e la navicella Sojuz) sono riprodotte fedelmente. La distruzione dei satelliti, con conseguente generazione di detriti, avviene anche nella realtà. Molto fedeli sono stati anche gli effetti della luce e la conservazione del momento angolare. Infine, la visuale della Terra dallo spazio è piuttosto verosimile.

Grazie ai suoi effetti speciali, Gravity è stato molto apprezzato dalla critica, vincendo numerosi premi e incassando svariati milioni di dollari al botteghino (a fronte di un budget di 100 milioni di dollari). Che dire, tutto sommato niente male!

 

Giovanni Gallo

Giulia Accetta