L’Inquietudine dell’Essere e le Fragilità Umane

La vita è un mistero che si svela con il passare del tempo.

Ma ci sono domande che restano senza risposta, come ombre che ci seguono.

Perché è successo? è una di queste, una pietra miliare dell’esistenza umana, che ci costringe a riflettere sulla precarietà della vita e sulle scelte che compiamo.

Ogni giorno, ovunque nel mondo, si registrano atti estremi, gesti disperati che sembrano gridare il dolore di un’anima in tormento.

Cosa porta l’uomo moderno ad attentare alla propria vita? La risposta è complessa e sfumata.

In un’epoca dominata dalla tecnologia e dalla comunicazione globale, ci troviamo spesso isolati in mezzo a una folla di volti anonimi.

Come scriveva Virginia Woolf:

Non si può trovare pace in un mondo che non si ferma mai.

La pressione sociale che ci circonda, la competizione incessante per il successo e l’apparenza, possono condurre anche le menti più forti a un punto di rottura. La fragilità, in questo contesto, non è solo una condizione individuale, ma un riflesso di una società che tende a premiare l’apparenza piuttosto che la sostanza.

Le colpe della società moderna sono molteplici: il culto del successo, il consumismo sfrenato e la superficialità delle relazioni umane.

La poetessa Alda Merini, che ha vissuto sulla propria pelle il dolore della malattia mentale, scriveva:

La vita è una malattia mortale trasmessa per via sessuale.

Queste parole ci ricordano che, in un certo senso, la vita stessa può essere vista come un peso insopportabile per coloro che si sentono abbandonati o incompresi.

Ma chi, oggi, si può definire “fragile”?

La fragilità non è solo una questione di salute mentale, ma un concetto che abbraccia la condizione umana in tutta la sua complessità. I giovani, spesso schiacciati da aspettative irrealistiche, le persone anziane, che si sentono dimenticate, e chiunque si trovi ai margini della società, sono tutti esempi di quella vulnerabilità che ci unisce.

Come diceva Rainer Maria Rilke:

La vera patria dell’uomo è l’essere amato.

Eppure, in un mondo che sembra correre sempre più veloce, è proprio l’amore e il sostegno reciproco a mancare.

È interessante notare come i picchi di fragilità siano registrati in concomitanza delle festività. Questi momenti, che dovrebbero essere di gioia e condivisione, spesso evidenziano la solitudine di chi non ha un posto in quella cornice festosa. La pressione sociale, amplificata dai social media, crea un’illusione di felicità e successo che può risultare insopportabile per chi vive una realtà ben diversa.

In questo senso, le parole di Fëdor Dostoevskij risuonano come un monito:

La bellezza salverà il mondo.

Ma è una bellezza che deve essere inclusiva, capace di abbracciare le nostre fragilità.

Cosa potrebbe fare il mondo culturale, divenuto ormai globale, per aiutare i soggetti più fragili? La risposta risiede nella consapevolezza e nell’educazione.

La cultura deve tornare a essere un luogo di incontro, di dialogo e di sostegno. Le storie raccontate nei libri, nei film, nelle arti visive devono riflettere la diversità delle esperienze umane, abbattendo le barriere che isolano e dividono.

Come scriveva Paulo Coelho:

Non smettere di credere nei tuoi sogni. I sogni sono la nostra vera realtà.

Dobbiamo imparare a sognare insieme, a costruire una comunità in cui la fragilità non sia stigmatizzata, ma accolta e valorizzata.

La vita è un viaggio ricco di sfide e di domande senza risposta. La fragilità è parte integrante di questa esperienza e riconoscerla è il primo passo verso un mondo più umano e solidale. Dobbiamo imparare a guardare oltre le apparenze, a costruire relazioni autentiche e a sostenere chi, in questo cammino, si trova in difficoltà. Solo così potremo sperare di rispondere, almeno in parte, a quella domanda inquietante, Perché è successo?, e, nel contempo, rendere il nostro mondo un luogo più accogliente per tutti.

Il fragile “Universo” di Mara Sattei

Mara Sattei
Mara Sattei si rivela in “Universo”, viaggio all’interno dell’inconscio fatto di sogni, dubbi e speranze del passato, senza uscire però dalla sua zona comfort. – Voto UVM: 3/5

Mara Sattei si mette a nudo e, nel suo Universo, ci racconta la solitudine, quel senso di angoscia e di inadeguatezza che molto spesso accompagna le nostre vite. Ma ci parla anche dell’importanza della fede e di come conquistare questa consapevolezza sia il primo passo per riconciliarsi con le proprie fragilità.

“Bisogna prendersi dei momenti per sé stessi per capire chi siamo, da dove veniamo, cosa vogliamo dire e cosa vogliamo comunicare.” (Mara Sattei)

Il 9 aprile 2021 esce Scusa, il primo singolo ufficiale di Mara Sattei, prodotto dal fratello Tha Supreme. Un brano che rappresenta la forza gigantesca che una parola può avere, e con cui la cantante romana iniziò a dar vita al suo “mondo minimal”. Segue poi Ciò che non dici, pubblicato il 3 dicembre, e che vorrebbe essere un invito ad agire piuttosto che aspettare che accada qualcosa.

Finalmente il 14 gennaio arriva Universo, uno degli album più attesi dell’anno. Mara è una delle voci più originali del nuovo panorama musicale e questo disco ne è la dimostrazione. È come un viaggio, dentro l’anima di chi ha trovato nella musica “la strada per sentirsi libera”.

Copertina di Universo. Fonte: Columbia Records

Come dentro un teen drama

Non sempre è semplice attraversare i propri limiti e andare oltre le proprie paure. Ansia, solitudine e costante ricerca di libertà sono solo alcuni dei temi trattati all’interno dell’album. Non stupisce dunque il fatto che in alcuni momenti sembra quasi di ascoltare chiari riferimenti a storie adolescenziali. Ne sono un esempio Shot e Blu Intenso ft. Tedua, che sembra trovarsi particolarmente a suo agio all’interno del brano.

“Mi sono presa del tempo per capire su quale brano inserire dei featuring. E dovevano essere affini al mio mondo, altrimenti si rischiava troppo contrasto sulla scrittura del brano. Questa riflessione mi ha portato a scegliere anche artisti con cui non avevo mai collaborato, come Tedua.” (Mara Sattei in un’intervista su “Billboard”)

Si riconferma vincente la collaborazione con Flavio Pardini, in arte Gazzelle, con cui l’artista aveva già collaborato al singolo Tuttecose, una delle hit estive di quest’anno. Ad un primo ascolto Occhi Stelle sembrerebbe una classica canzone indie che non ha niente di nuovo da dire, ma nonostante tutto funziona piuttosto bene. Il ritornello risulta uno dei più orecchiabili dell’intero album e la firma di Gazzelle e del suo “sexy-pop” è più che evidente.

“Mentre in sottofondo passa il tuo ricordo
Perso, vagabondo, il mondo è capovolto
E sei tu come le stelle che non vanno giù
E io come le mutande che non togli più”

Miscela di dubbi e rimorsi

Inaspettato è invece il featuring con la cantante Giorgia, in Parentesi, che fa davvero da spartiacque all’interno dell’album, e in cui Mara finalmente ci dà una dimostrazione completa della sua intonazione precisa e della sua notevole estensione vocale. Per il resto il pezzo avrebbe tutte le carte in regola per partecipare ad un festival come Sanremo. Che sia davvero questo il brano scartato da Amadeus?

Insieme a quello di Giorgia, il featuring con Carl Brave, Tetris, sembrerebbe una delle canzoni più riflessive del disco. Che Mara fosse un’ottima liricista si era già intuito dai suoi precedenti lavori, soprattutto grazie a metriche serrate, neologismi e libertà di linguaggio, Sara Mattei (questo il suo vero nome) qui dà libero sfogo a dubbi e rimorsi del passato, facendosi sempre più piccola e vulnerabile e lasciando allo scoperto le proprie fragilità. Trova largo spazio anche il tema dell’amore, come in Cicatrici e in Sabbie Mobili, e infine il forte rapporto della cantante con la fede e con Dio:

“In Perle racconto proprio di quanto, a volte, ci si possa sentire avvolti da un contrasto; la conseguenza è la richiesta di aiuto. In questi momenti, io solitamente prego, nel brano lo dico esplicitamente. Nei periodi più bui ho sempre mantenuto un legame molto forte con la fede.”

 L’universo perfetto di Mara Sattei?

Ogni album ha i suoi alti e bassi e purtroppo, anche Mara alcune volte sembra non volersi proprio smuovere dalla sua comfort zone, costringendoci a dover skippare la canzone forse un po’ troppo “ritornellosa”. Purtroppo, all’interno di Universo questo accade e non si può non farci caso. Come in Antartide o in Tamigi, che pur essendo state “impacchettate” perfettamente dall’ormai noto fratello minore di Mara, tha Supreme, che si è occupato dell’intera produzione del disco, lasciano l’amaro in bocca, come se mancasse qualcosa.

In definitiva, l’album non è perfetto, ma funziona. Tutti noi possiamo ritrovarci in almeno una di queste canzoni perché ognuno ha i propri punti deboli, le proprie vulnerabilità. L’obiettivo di questo disco sembra proprio quello di buttarle fuori, come in un lungo flusso di coscienza, e trasformarle in punti di forza. Siamo esseri fragili, “facili alla rottura”, ma non per questo soli.

Domenico Leonello

L’insostenibile fragilità dell’essere

Se per alcuni #andràtuttobene, per altri è già andato tutto male. Il Sars-Cov-2 monopolizza l’attenzione di tutto il mondo, non si parla d’altro perché non si può parlare d’altro, non ci si riesce. E’ entrato nelle nostre vite partendo dall’essere un lontano focolaio in una città cinese all’essere il protagonista della pandemia del ventunesimo secolo. 

Giorgio De Chirico – Piazza d’Italia

Castelli di sabbia

Queste giornate di quarantena rivoluzionano i concetti di tempo, ora dilatato e fin troppo governabile, e di distanza, da un metro l’uno dall’altro al blocco aereo.

Un’evenienza simile non l’avevamo mai vissuta, e nemmeno i nostri genitori. L’esperienza più simile a questa possiamo averla letta al più in qualche libro di fantascienza, vista in un film post-apocalittico, giocata in un videogame.

L’idea di quel mondo,  l’unico che abbiamo potuto vivere fino all’inizio della pandemia, si sgretola come un castello di sabbia sotto i colpi della realtà. Lo avevamo costruito immaginandolo sotto controllo: non potevamo immaginarlo diversamente. 

Lo abbiamo posto sul binario dritto e ad unica direzione del progresso, proiettato al futuro, pieno di cuscinetti che avrebbero attutito le cadute, impedito le situazioni più esasperate. Certo, sapevamo delle guerre ancora in corso, della crisi economica, del riscaldamento globale, delle previsioni negative per il futuro: eravamo più o meno coscienti di queste realtà, lontane, non tangibili, ripetute; erano lì ed in qualche modo avremmo risolto. Ancora niente aveva fatto crollare il nostro castello.

Giorgio De Chirico – Il trovatore

Mani, cuore, polmoni

E’ stata la cosa paradossalmente più naturale a farci scoprire qual è il vero comune denominatore dell’uomo e delle strutture sociali che ha creato: la fragilità.

Il virus ci ricorda che abbiamo un corpo e che dipendiamo da quello. Ce ne dimentichiamo continuamente finché non ci ammaliamo: siamo fatti di carne, di ossa, di liquidi. Per respirare abbiamo bisogno di polmoni, ma non quei polmoni che vediamo nelle immagini, bensì quelli che puoi toccare, che possono riempirsi di ossigeno o toglierci il respiro. Siamo fatti di mani che si toccano, di una bocca ed un naso che possono contagiare mortalmente con un bacio. In un mondo in cui il silenzio è una patologia, sommersi da notizie, drogati di stimoli, diamo per scontato di essere vivi perché c’è un cuore che batte ed un respiro più o meno costante.

Lo senti il movimento dell’aria che entra nel torace? Senti come si muove? Abbiamo bisogno di questo, niente di astratto. Eppure, anche se non ci pensiamo, abbiamo un timer di circa due minuti di vita rimanente, ogni volta che respiriamo si resetta.

Fare i conti con la fragilità dell’essere al mondo non è facile. In realtà non ne facciamo esperienza vera finché non siamo interessati in prima persona. Si tratta, in questo momento, solo di un rapporto molto più vicino, un rapporto obbligato che dobbiamo saper instaurare per rispettare restrizioni da quarantena e saper bilanciare per non impazzire. Un rapporto con l’essere che, parafrasando il titolo del noto romanzo di Milan Kundera, può risultare insostenibile.

Miti da sfatare

Oltre la fragilità individuale stiamo osservando la fragilità collettiva, di tutto quel mondo che credevamo indistruttibile, monolitico; quel mondo che sarebbe cambiato solo per non far cambiare nulla. Eppure le borse crollano, le aziende chiudono, si prevede un periodo di recessione economica globale. Nel frattempo i Governi si muovono scoordinati, impacciati, in maniera asincrona, i contagi aumentano, le vittime pure.

L’Unione Europea non ha saputo mostrarsi compatta contro la pandemia, lusso che non poteva concedersi vista la crisi d’identità che l’attanaglia ormai da qualche anno. Qualora non dovesse riuscire ad essere il cemento tra i vari Paesi, metterebbe a rischio la sua esistenza e la tenuta della democrazia nei singoli Stati. Per quanto possa sembrare al lettore un pensiero già sentito e risentito, ora bisogna coglierne il rischio concreto.

Il Sistema Sanitario Nazionale italiano è l’unico castello di sabbia ad aver dimostrato di poter reagire efficacemente, ma lotta oltre il proprio limite. Da tempo eravamo a conoscenza dell’inadeguatezza delle strutture, della carenza del personale, dei fondi insufficienti; oggi gran parte dei pazienti muoiono senza essere mai entrati in terapia intensiva per mancanza di posti.

Credevamo, forse, che per quanto fosse fragile, questo castello avrebbe continuato a reggere? O forse lo avremmo piacevolmente buttato giù noi in favore di una privatizzazione della sanità?

La fragilità con cui oggi facciamo i conti è quindi sia individuale sia collettiva.

Giorgio De Chirico – Ettore e Andromaca

Be fragile, be strong

Per quanto riguarda la prima fragilità, quella individuale, il periodo di isolamento può essere sfruttato in modo terapeutico. La noia è neurologicamente salutare. Finora abbiamo vissuto sovrastimolati da una moltitudine non fisiologica di input esterni che inducono in noi una condizione nota come hyperarousal (iperveglia). Una quantità di stimoli tale da poterli vivere solo in modo passivo, ai quali non seguono output di rielaborazione, di idee, di creatività. Sapersi fermare è utile a saper camminare, sia in senso letterale sia in senso figurato.

Imparare a stare con se stessi, a sopportare i propri pensieri, le proprie contraddizioni, a rivalutare le proprie scelte: è questo che la solitudine ci offre. Saper stare soli è prerogativa fondamentale del saper stare insieme. Mi rendo conto di quanto questo possa suonare moralistico, ma chi lo scrive lo fa per convincere se stesso ad iniziare a farlo.

La seconda fragilità, quella collettiva, sarà la risultante dei vari lavori interiori che i suoi componenti riusciranno a compiere. Quando il mondo vincerà la pandemia – perché sì, vinceremo – niente sarà più lo stesso. Si tratterà di un vero e proprio dopo guerra: lo scenario economico è catastrofico, quello umano imprevedibile. In base a quanto ed al modo in cui lo Stato e le Organizzazioni Internazionali riusciranno a far fronte a questa crisi post-critica potremo vedere minacciata la tenuta dei Governi.

Con uno sguardo più ottimistico, però, possiamo ipotizzare una straordinaria sincronizzazione emotiva di massa, medicina all’individualismo improduttivo dei tempi moderni.

Potremo riscoprire progetti e sogni comuni. Una sanità che sia pubblica ed efficiente, un’attenzione cruciale all’ambiente, un’economia al passo con il mondo, una politica dai toni adeguati e dai contenuti rilevanti. La nostra fragilità è la chiave di lettura del momento per il futuro. Accettiamola.

Antonio Nuccio

 

La solitudine dei numeri primi

Ascolto consigliato: Everybody’s Talkin’ -Harry Nilsson

No, non si tratta di una recensione del noto libro di Paolo Giordano.

Credo che alcune frasi, alcune espressioni, abbiano un’eleganza intrinseca, che prescinde dall’interpretazione che ognuno di noi dà e che riesce ad affascinare pressocché chiunque. Ed è così che mi sento, colpito dalla semplicità di una frase che suona quasi come una sentenza, mentre cerco -a fatica- di scrivere il mio primo editoriale per UniVersoMe. Devo ammettere di non avere grandissima esperienza, ma al tempo stesso mi sento abbastanza confidente con questa forma di espressione, la scrittura, da essere entusiasta.

Mi sono arrovellato a lungo su quale importante tema trattare, quale opinione dare a riguardo: avrei potuto descrivere la disastrosa gestione italiana delle grandi opere (vedi MOSE a Venezia), il fenomeno delle sardine riunite in decine di piazze da nord a sud, i preoccupanti cambiamenti climatici e il Friday for future. Non che ognuno di questi argomenti non mi interessi, anzi. Ma in questo momento un po’ particolare della mia vita, ho preferito lasciare spazio alla parte meno razionale di me, a un flusso di coscienza che non volevo ignorare, che irrompe nei miei pensieri mentre mi appresto a scrivere questo articolo.

E mi sono venute in mente queste parole: la solitudine dei numeri primi.

Numeri primi da 0 a 1000. In matematica un numero primo è definito come un numero naturale maggiore di 1 che sia divisibile solamente per 1 e per sé stesso.

Mi sono sempre chiesto: chi sono i numeri primi?

Sono un insieme, un gruppo, una categoria di persone, una porzione della popolazione globale, che si sente particolarmente sola? Possiamo riconoscerli in qualche modo?

Nel mio microcosmo, i numeri primi sono i figli unici.

Banale”, direte voi.

D’accordo” sarebbe certamente la mia risposta.

Forse perché io stesso sono figlio unico, ma il binomio unico e solo mi appare quasi imprescindibile, magari anche per il mio carattere. Ho sempre visto la solitudine come qualcosa che un po’ si vuole, un po’ si cerca di scongiurare, un po’ ti viene e devi semplicemente accettarla. C’è persino chi pensa che essa sia indispensabile, come certi eremiti che fanno della meditazione solitaria una via privilegiata per l’illuminazione.

Tra i fautori di questa condizione troviamo sicuramente il filosofo Arthur Schopenhauer, che nei suoi Aforismi sulla saggezza del vivere scrive: “chi non ama la solitudine non ama la libertà, perché non si è liberi che essendo soli” o ancora “la solitudine offre all’uomo altolocato intellettualmente due vantaggi: il primo d’esser con sé, il secondo di non esser con gli altri”.

Ma voglio ampliare, come sempre, il mio microcosmo e riflettere più a lungo sulle parole che oggi ho preso in prestito. I numeri primi, paradossalmente, sono gli ultimiQuesta espressione nasconde un evidente e sconcertante controsenso. Da chi ha perso tutto a chi è nato senza avere niente, da chi è abbandonato dai propri cari a chi è abbandonato dal proprio Stato. Tantissimi sono gli “ultimi” che ogni giorno ci scorrono davanti agli occhi senza che nemmeno ce ne accorgiamo: strappati o isolati dalla propria comunità per i motivi più disparati (e talvolta per nessun motivo), si ritrovano ad affrontare la quotidianità solo con le proprie forze.

Scena del film Taxi Driver: Travis Bickle è un ventiseienne alienato, isolato, disadattato, ex marine reduce del Vietnam che soffre di insonnia cronica. La sua affezione lo porta a lavorare come tassista notturno. È certamente la prima pellicola alla quale associo la parola solitudine. [Fonte: La scimmia pensa, la scimmia fa]

Senzatetto, orfani, richiedenti asilo, chi vive in paesi dove anche procurarsi un pasto è difficile, dove la guerra dilaga incontrastata: sono solo alcuni esempi di persone che costantemente dimentichiamo, indaffarati nelle nostre questioni giornaliere.

Ma non “categorizziamo” la solitudine come se fosse appannaggio soltanto di alcuni gruppi di soggetti le cui condizioni rendono l’esistenza più fragile, maggiormente e necessariamente da tutelare rispetto agli altri. Rischieremmo così di fare un ragionamento troppo parziale, viziato da concetti sicuramente veri, ma non realistici.

D’altronde, questo articolo nasce da una riflessione su uno stato d’animo che può colpire chiunque in qualsiasi momento.

Ci si potrebbe aspettare che, concludendo, il redattore possa offrire una qualche “soluzione”, un suggerimento per affrontare la solitudine. In realtà, non sono in grado di dare tali risposte, anche perché potrebbero variare da soggetto a soggetto. Mi sento soltanto di dire che una condizione che accomuna più persone, di per sé suona come un invito a riunirle, in contrasto con il concetto stesso di solitudine.

E voi cosa ne pensate? La solitudine è più uno stato d’animo o una condizione sociale?

Come avrete capito, credo che siano vere un po’ entrambe le cose.

Di fatto, ho scelto di scrivere questo pezzo perché ritengo che tutti, almeno una volta, siamo stati un numero primo.

Emanuele Chiara