Baustelle “El Galactico”: il viaggio del disincanto

El Galactico è un album lucidissimo e necessario, fotografia di una profondità esistenziale. I Baustelle raccontano la società moderna attraverso una serie di brani dall’alta caratura testuale e musicale. Voto UVM: 5/5

 

I Baustelle tornano con “El Galactico“, un album che non è semplicemente un disco, ma un teorema esistenziale.  Quest’opera, che si muove come una costellazione nello spazio della memoria collettiva e individuale, esplora l’inevitabile collisione tra passato e presente, tra illusioni e la cruda realtà del quotidiano, dei miti che ci siamo raccontati per sopravvivere.

Lo specchio della temporalità

Con un sound che richiama la psichedelia californiana degli anni ’60 e la tradizione cantautorale italiana, la band di Francesco Bianconi, Rachele Bastreghi e Claudio Brasini conferma ancora una volta la sua capacità di rinnovarsi senza perdere la propria identità.

El Galactico segue un dualismo quasi inconciliabile, un “viaggio senza meta” condotto su due binari diversi. Da un lato, la musica che si stratifica come la geologia di un pianeta abbandonato: troviamo tracce di glam rock, new wave, baroque pop, chansone francese e colonne sonore immaginarie. Dall’altro lato, grazie a una scrittura profondamente cinematografica, i Baustelle ci proiettano in un film esistenzialista, in cui i protagonisti si interrogano sulla natura del reale, del tempo che fugge e della memoria, vista non come mera riproduzione del passato, ma piuttosto nella sua reinvenzione.

In sostanza, il trio di Montepulciano intreccia la filosofia continentale al pop italiano, Godard alla nostalgia postmoderna, Pavese ai synth anni Ottanta, creando un tempo non lineare, ma circolare, o forse spezzato, dove ogni canzone sembra arrivare da un futuro che ha già fallito, una distopia malinconica in cui le macerie del vintage diventano materiale da costruzione per nuove utopie emotive.

   

Una poetica della disillusione…

C’è un istante, poco prima che parta la musica, in cui tutto è silenzio. È lì che comincia il viaggio. Non verso un luogo, ma verso una memoria che non abbiamo mai avuto eppure ci appartiene.

Il brano di apertura, Pesaro, riunisce in sé quell’atavico binomio eros-thanatos, che si mescola in un gioco di luci e ombre, alternando immagini potenti e contrastanti, e lo fanno con una liricità quasi pavesiana unita alla tragicità di Godard.

In Spogliami, il brano si carica di sensualità e disincanto, di echi elettronici e toni languidi che pongono il corpo al centro del brano, una discesa nei meandri della fragilità e della bellezza fisica. Il testo riflette sulla superficialità del desiderio in un mondo dove il corpo è diventato solo una merce di consumo, in cui spogliarsi diventa un atto simbolico di rivelazione e non di profonda intimità. La canzone si può leggere come una critica alla cultura postmoderna e al pensiero di Baudrillard sul simulacro: ci spogliamo degli strati esterni senza mai svelare il nostro vero io.

La Canzone verde, amore tossico è una riflessione politica mascherata da elegia postmoderna del disastro ambientale e morale. A tratti sembra di vedere un racconto di Pasolini, un paesaggio contaminato che perde la sua funzione poetica e diventa discarica del silenzio e dell’ipocrisia.

In Filosofia di Moana, la famosa pornodiva diventa musa e merce, corpo sacro e profanato, in una società che ha fatto dell’erotismo un atto automatico.

E non mi innamoro mai, Porno è la bellezza se lo sfascio va veloce

In questo testo viene evidenziata l’eleganza con cui Moana attraversa “l’Impero dell’Oscenità”, che può sostanzialmente paragonarsi alle figure della modernità di Benjamin, quali il flâneur, l’angelo della Storia o, come in questa in questa canzone, la pornodiva che osserva lo spettacolo del mondo che crolla, come un Ofelia postmoderna che affoga nel disprezzo altrui. La canzone è permeata da un’estetica tragica, simile a Diane Arbus, dove la bellezza è intrisa di malinconia e, il sesso, diventa un forma di linguaggio alienante.

Prosegue con Una Storia, titolo fortemente generico che dimostra la propria forza nel fatto che ognuno può facilmente identificarsi. Questo brano è il racconto di una violenza, ambigua e devastante, che si consuma nel silenzio, nella colpa, nella connivenza silenziosa dello sguardo pubblico. Il tema è attualissimo: la spettacolarizzazione del trauma e del dolore. La vittima involontaria diventa protagonista di una tragedia condivisa, ma al contempo banalizzata dal male mediatico, il circolo digitale che diventa mero contenuto social. In tutto questo c’è un’impotenza strutturale, una ballata di De André filtrata al contemporaneo, post-Instagram, post-TikTok.

                                 

…e dell’esistenza

L’imitazione dell’amore è una delle canzoni più sottili dell’album, forse la più politica in senso estetico. Qui, i Baustelle, smascherano l’industria culturale dell’amore, denunciando l’omologazione dei sentimenti.  L’amore non è più eroico, erotico, tragico o politico, ma banalmente un prodotto da consumare.

Con L’arte di lasciare andare si entra in una zona poetica classica, quasi montaliana. L’idea del viaggio, dell’irrequietezza , del girare a vuoto, evoca una condizione umana ancestrale: l’angoscia del tempo nell’uomo moderno che non trova pace nella lentezza. Sembra quasi che, in questo brano, venga svelato il vero problema moderno l’impossibilità di stare al mondo, ovunque, è questo sfiora il camusiano.

Una delle più emotive e immediate dell’album è Giulia come stai, che presenta una costruzione molto sofisticata e ricercata. Questa è una canzone d’amore universale per tutte quelle “Giulie” presenti nelle vite di ciascuno, quella persona importante da amare e proteggere. Sembra poco, ma è tutto. In un mondo in cui la parola è diventata rumore, la gentilezza diventa il vero atto rivoluzionario. Il testo non dice molto, ma ascolta, senza egoismo, diventando un abbraccio contro l’isolamento.

Infine Lanzarote, una Azzurro (di Celentano) disidratata, che è la rappresentazione dell’abbandono, ma senza il dramma conseguente. Il brano è esilio e spaesamento, il luogo lontano che si fa simbolo di mancanza, sia fisica che morale, in sostanza, la noia moraviana.

   

Fotografia del nostro tempo

Mi viene in mente un frammento di Borges: Il tempo è un fiume che mi trascina, ma io sono il fiume.

Ecco, ascoltando El Galactico, mi sembra di scivolare dentro quel fiume, di diventare quel tempo. Ogni ascolto svela nuovi strati di significato, come se le canzoni fossero specchi deformanti attraverso i quali osserviamo noi stessi. I Baustelle non offrono risposte facili, né cercano di rassicurare,  al contrario, ci mettono di fronte alle nostre contraddizioni e ai nostri desideri irrisolti.

In un’epoca in cui la musica è spesso ridotta a mero intrattenimento, “El Galactico” è un’opera necessaria, un viaggio in cui ogni canzone è una tappa di un pellegrinaggio interiore, alla ricerca di quel senso che forse non esiste, ma che continuiamo ostinatamente a cercare.

 

Gaetano Aspa

Il patriarcato nel codice penale: gli articoli del codice dimenticati

Nei drammi che caratterizzano l’esperienza umana sembra inscindibile la presenza di due ruoli dominanti che ne caratterizzano la trama, sia dei popoli che dei singoli individui. Trascorrono i millenni, ma è sempre chiara la persistente presenza di un oppresso e un oppressore. Un parallelo in simbiosi al dualismo archetipo tra bene e male.

Nella stessa umanità nel suo intero vi è una metà che da sempre è oppressa. Fisicamente, psicologicamente e moralmente. Quella metà sono le donne, da sempre prigioniere delle catene del patriarcato.

La realtà si fonda sui fatti non sulle opinioni

Negli ultimi anni, l’opinione pubblica si è spaccata sempre di più nella quasi patologica tradizione italiana che raffigura il suo popolo diviso, nella secolare lotta tra guelfi e ghibellini.

Il dibattito pubblico sul patriarcato ha affrontato e affronta una guerra d’informazione, di numeri, statistiche, testimonianze e opinioni. Con una sola costante, la realtà in cui viviamo è agghiacciante. I casi di Giulia Tramontano, Giulia Cecchettin, dello stupro di gruppo di una giovane ragazza a Palermo o lo stupro di due bambine a Caivano, vittime del branco, sono stati tra i casi più dibattuti che, tra il 2023 e il 2024, hanno infiammato l’arena mediatica della ”civilissima” Italia.

Oggi, chi nega il patriarcato vanta una tradizione cristiana e ancor di più l’ascendenza romana, che si esaltano come qualcosa di ”nobile”, di estremamente superiore alle altre culture.

Come fosse la civiltà cristiana, derivata a sua volta da quella romana, una civiltà estranea alle pratiche patriarcali con le quali oggi si accusano di ”inferiorità culturale e morale” i popoli non occidentali.

Gli stessi dimenticano che, tra i miti fondativi di Roma, vi sia proprio ” il ratto delle sabine”. 

 

La negazione della tradizione patriarcale e dei suoi valori.

Le figlie, le sorelle e le madri d’Italia chiedono aiuto. Pretendono la fine del patriarcato e di ogni sua conseguenza diretta o indiretta. Esauste dal subire violenza che si perpetua nel tempo, sia sul piano concreto che su quello morale e culturale.

Passano i decenni, il patriarcato cambia pelle, muta, si trasforma, ma, nella sua essenza, rimane saldamente presente nell’identità e nei caratteri comportamentali e sociali degli uomini Italiani.

Come una lotteria della sventura, il ”patriarcato ombra” premia con la morte chi ne è vittima.

Le varie associazioni e collettivi per la difesa e i diritti delle donne parlano di una cultura dello stupro radicata non solo nella società italiana, ma in tutte le società del mondo.

Possiamo affermare senza errori che non esiste una società nel mondo dove non vi sia una supremazia del sesso maschile su quello femminile.

Il patriarcato nelle sue infinite sfaccettature e sfumature resta persistente, palese o nascosto che sia alla nostra percezione. Eppure, nonostante le cronache della nostra quotidianità siano infestate da questi crimini di genere quasi con cadenza giornaliera, una parte della nostra società lo nega.

Suscitano angoscia gli indizi di malafede insiti nelle parole di negazione per l’evidenza manifesta dei fatti. La negazione del patriarcato come carattere distintivo della nostra società, ipocritamente mascherato in tutti i modi, cerca di rivolgere l’attenzione verso un capro espiatorio all’esterno della comunità maschile nazionale.

vignetta xenofoba come manifesto elettorale della Lega Nord
Progaganda xenofoba della Lega

Un cortocircuito logico: si accusa di visione ideologica, propagandando l’ideologia xenofoba

Si nega la violenza di genere, manifesta come malattia endemica nella nostra progredita civiltà occidentale. Si taccia di dogmatismo ideologico chi espone la classificazione dei femminicidi come conseguenza della cultura patriarcale. Tentano di confutare la realtà, che rimane forte dell’empiricità dei fatti, esponendo come contro tesi teorie xenofobe e islamofobe. Teorie che non si basano sui fatti, ma su una propaganda di partito chiaramente frutto di un’impostazione prettamente ideologica.

Così è accaduto che, nel giorno dell’inaugurazione dell’associazione ”Giulia Cecchettin”, a un anno dalla sua morte, durante la cerimonia tenutasi in sede istituzionale, si è assistito all’intervento surreale del Ministro dell’Istruzione. Un intervento che avrebbe dovuto mandare un messaggio agli studenti e alle studentesse, per sensibilizzare e far riflettere sulla piaga che affligge le nostre strade e le nostre case. Una presa di posizione dogmatica, trasformatasi in una negazione del problema nazionale, minimizzandolo e deviando la colpa di tali crimini sulle minoranze.

 Ancora una volta, si sono strumentalizzate le vittime per fini ideologici. 

Il ministro ha rivestito il ruolo di portavoce di una certa narrazione. Ha esposto le sue convinzioni ideologiche, tacciando allo stesso tempo di visione ideologica un fenomeno che è sotto gli occhi di tutti.

Sembra quasi irrilevante che i quattro casi tra violenze sessuali e femminicidi sopracitati siano stati commessi tutti da giovani maschi bianchi italiani.

Errori e orrori storici

In questo controverso audio-messaggio per l’inaugurazione dell’associazione ”Giulia Cecchetin”, si è chiusa la questione del patriarcato derubricandolo come un fenomeno anacronistico e non più esistente nella società e nell’ordinamento italiano.

Si è affermato che le torsioni patriarcali siano terminate con le modifiche del diritto di famiglia, nel 1975 .

È stata citata la Costituzione, rivolgendosi alle minoranze e ammonendole, e si è sottolineato che la nostra carta costituzionale non ammette disparità tra i sessi.

Eppure le disparità vigenti sono evidenti. Come ”il gap salariale”, giusto per citarne una platealmente evidente. Tuttavia, affermare che il patriarcato sia finito nel 1975 è un grave errore storico per un Ministro dell’Istruzione. 

Nel codice penale italiano, risalente al 1930 e frutto del regime fascista, tutt’ora vigente anche se con numerose modifiche, sono sopravvissute norme  che chiamarle patriarcali è riduttivo.

Sarebbe più corretto definirle norme barbariche, interpretate in processi degni dei tribunali della Santa Inquisizione.

Nel dibattito pubblico è assente il ricordo del “delitto d’onore” e del “matrimonio riparatore” oltre ad altre disparità di genere previste dal codice penale e civile rimaste in vigore ben oltre il 1975.

 

Il reato di stupro è stato un reato contro la morale e non contro la persona fino al 1996

Sembra quasi che venga omesso, per favorire la narrazione del patriarcato ormai abolito. Colti da amnesia collettiva, o forse da una malafede selettiva, si omette che lo stupro non è stato considerato reato contro la persona, ma solo contro la morale fino al 1996.

Sebbene nel sistema dell’Istruzione italiano, l’insegnamento della disciplina storica venga ridotto di legislatura in legislatura, è bene fare un piccolo focus su cosa è stata la società italiana per le donne fino al 1981

Comprendere le dinamiche storiche, sociali e culturali dell’Italia resta fondamentale per comprendere perché dopo quarantaquattro anni riemergano correnti di pensiero che negano la persistenza del problema.  

Vi sono forze politiche, oggi ”rivalutate” grazie al revisionismo storico, che strumentalizzano la questione femminile e issano bandiere morali, al fine di condurre battaglie ideologiche, dove si inneggia alla difesa della donna, per legittimare politiche razziste.

Non si può dimenticare che la conquista del diritto al divorzio e la norma che lo regolava fu votata dal parlamento nel 1970 e ha visto il voto a favore di tutti i partiti politici ad eccezione del partito democristiano (ormai sciolto) e del movimento sociale italiano, chiamato oggi Fratelli d’Italia e dal 2022 partito alla guida del governo.

 

manifesto per il referendum per abrogare la legge sul divorzio
Manifesto del movimento sociale italiano sul referendum del 1974 per abrogare il diritto al divorzio

 

Cosa è stato il delitto d’onore ?  

Codice Penale, art. 587
Chiunque cagiona la morte del coniuge, della figlia o della sorella, nell’atto in cui ne scopre la illegittima relazione carnale e nello stato d’ira determinato dall’offesa recata all’Onore suo o della famiglia, è punito con la reclusione da tre a sette anni. Alla stessa pena soggiace chi, nelle dette circostanze, cagiona la morte della persona che sia in illegittima relazione carnale col coniuge, con la figlia o con la sorella.  

 

Fino al 1981, lo Stato italiano prevedeva nel suo codice penale delle attenuanti per i femminicidi commessi da fratelli, da padri o mariti, nel caso in cui avessero visto l’onore della propria famiglia compromesso. Nello specifico, si trattava di un onore leso ”scoprendo” la propria figlia o sorella o moglie intente a consumare rapporti carnali illegittimi. Onore che sarebbe stato ripristinato con la morte della disonorata.

In Italia, il delitto d’onore prevedeva una pena di appena tre anni, con un massimo di sette anni.

A compromettere l’onore della famiglia erano solo le figlie

Iconica è la particolarità del delitto d’onore commesso dal padre nei confronti della figlia. Il delitto d’onore era classificato tale solo se a essere sorpresa a far sesso fuori dal matrimonio fosse la figlia. Il delitto d’onore non era tale, infatti, se a essere sorpreso in atti extraconiugali fosse stato il figlio.

A disonorare la famiglia con il sesso extraconiugale, per la legge, erano solo le donne.

Queste norme pongono una pietra tombale su ogni dubbio inerente all’intensità dell’oppressione maschile sulle donne. 

 

Il divorzio all’italiana

Paradossale ed estremamente tragica quanto reale fu l’impossibilità, fino al 1970, nell’ordinamento giuridico italiano, di divorziare. Tanto che, alle volte, alcuni uomini uccidevano la ”propria” moglie, rassicurati dalle le pene ridicole previste quando si fosse dimostrata l’infedeltà della donna.

Nell’impossibilità di divorziare, gli uomini, immersi in una società loro complice, alle volte ricorrevano a tali crimini. Iconico resta il celebre film del 1961 Divorzio all’italiana.

manifesto cinematografico film divorzio all'italiana 1961
Manifesto cinematografico del film Divorzio all’italiana, 1961

 

 Il reato di stupro e il matrimonio riparatore

Articolo 544 – “Matrimonio riparatore”
Per i delitti preveduti dal capo primo e dall’articolo 530, il matrimonio che l’autore del reato contragga con la persona offesa estingue il reato, anche riguardo a coloro che sono concorsi nel reato medesimo; e, se vi è stata condanna, ne cessano l’esecuzione e gli effetti penali. 

 

Spesso accadeva che le donne, sorprese in atti carnali extraconiugali, fossero vittime di stupro. Lo stupro non rendeva, però, la famiglia immune dallo stigma dell’onore violato.

La donna veniva considerata comunque colpevole.

La visione medievale della ”donna meretrice” era radicato nella società, fino alle sue più profonde radici. Inoltre, l’ordinamento giuridico offriva un condono per il carnefice. Se lo stupratore, una volta scoperto l’atto carnale compiuto, contraeva matrimonio con la sua vittima, il suo reato veniva estinto.

 

Il condono previsto dalla legge per gli stupratori

Possiamo affermare che i legislatori avevano previsto una sorta di ”incentivo” al matrimonio, proponendolo come salvacondotto per gli autori di reati sessuali.

Sconvolgente che nell’Italia cattolica, se lo stupro commesso era di gruppo e un membro del branco contraeva matrimonio con la vittima, automaticamente tutti gli autori dello stupro di gruppo erano assolti.

In questa storia degli orrori, che ha rappresentato la storia d’Italia fino al 1981, amaramente si constata che le vittime di stupro regolarmente accettavano questi matrimoni.

Ragazze, spesso anche bambine, sono state costrette ad accettare. Non era sufficiente la possibilità di venire ammazzate dai propri familiari, colpevoli di un atto che spesso gli veniva imposto contro la loro volontà.

Analizzando la società dell’epoca, si giunge alla conclusione che non avevano  scelta.

Opporsi al matrimonio riparatore, anche in caso di stupro, significava condannarsi allo stigma sociale.

Una società, quella italiana, che rifletteva secoli di cattolicesimo oscurantista, poi evolutasi nella società fascista del ventennio e, infine, tramutatasi nella Repubblica dominata dalla democrazia cristiana. Faceva sì che le famiglie italiane che componevano tale società le avrebbero diseredate, mandandole via di casa.

 

Vittime, sia del carnefice che della società. In ogni caso, la condanna era a vita

Non accettare il matrimonio riparatore comportava che non avrebbero trovato lavoro, che fossero diseredate dalle famiglie e spinte ai margini, con la consapevolezza che nessuno le avrebbe sposate, avendo loro colpevolmente perso la loro “verginità”.

Tale coercizione imposta dalla realtà sociale imponeva il ricatto. Se non avessero accettato il matrimonio col proprio carnefice per sopravvivere, non sarebbe rimasta che la via della prostituzione.

Le vittime, intrappolate dalla certezza del diritto dell’epoca, non erano vittime una volta sola: divenivano vittime a vita, condannate a sposarsi e a vivere col proprio violentatore per sempre.

Senza dimenticare la perenne minaccia di poter essere ammazzate, quasi impunemente, dal loro carnefice se mai si fossero innamorate di qualcuno nel corso della loro vita, cercando, per sfuggire all’incubo della loro vita, solo un po’ d’evasione nell’amore clandestino.

Queste leggi hanno reso possibili pratiche medievali, perché rendevano possibili i matrimoni forzosi. Non pochi furono i casi di uomini che costringevano le donne a sposarli. Era pratica comune: era sufficiente stuprarle e, poi, comunicarlo alla famiglia, e il gioco era fatto. Non vi era bisogno di corteggiarle.

Analizzare la storia della società italiana, della sua morale e delle sue leggi, ci mostra senza equivoci che non siamo culturalmente così lontani da paesi come l’Afganistan o il Pakistan, con il quale gli italiani di oggi si misurano per celebrare la superiorità morale della civiltà occidentale di tradizione cristiana.
 

 Il caso di Franca Viola

Molteplici sono i casi che, nel corso degli anni ’50, ’60 e ’70 i quali hanno scandalizzato la società piccolo borghese di discendenza fascista, quale è ed è stata l’Italia.

Casi che hanno smosso l’opinione pubblica, portando con grandi difficoltà alla conquista di diritti basilari che, sembra assurdo, fino al 1981 sono stati negati.

Il più importante, tra tutti, è stato il caso di Franca Viola, giovane ragazza siciliana che, rapita a stuprata dal branco, fu la prima a rifiutare il matrimonio riparatore.

Il suo rifiuto ha scandalizzato l’opinione pubblica. Denunciando i suoi carnefici, affrontando il processo e subendo la gogna pubblica, riuscì a mettere in dubbio le consuetudini patriarcali.

foto dell'articolo del giornale la stampa
“Mia figlia non sposerà mai l’uomo che l’ha rapita e disonorata”, La Stampa

Il documentario Rai: ”processo per stupro”

A far comprendere all’opinione pubblica italiana quanto fosse arretrato e patriarcale l’ordinamento giuridico, spogliandolo delle attenuanti e ponendo in risalto la necessità di riformarlo, fu fondamentale la messa in onda, nel 1979, di un documentario della Rai, girato in tribunale e intitolato “processo per stupro”.

Tuttavia solo nel 1981, questi due barbari articoli del codice penale italiano furono abrogati.

Estratto documentario Rai ”Processo per stupro”

Abrogare una norma giuridica non basta a cancellare una norma culturale

Purtroppo, si è abolito un articolo, non un costume. Non si è abolito il senso di superiorità del genere maschile sul genere femminile, né è stato eliminato quell’istinto animale di prevaricazione del più forte sul più debole.

Non basta abolire una norma per far sì che la consuetudine oppressiva, insita nella nostra società e di ascendenza millenaria, scompaia come se non fosse mai esistita. Né è sufficiente far finta che certe barbarie non siano mai esistite in Italia. Barbarie, ricordiamo, così diffuse e comuni tanto da essere state previste dal nostro codice penale.  

 

Il legame tra antifascismo e antisessismo

In Italia, assistiamo a esercizi di retorica, da parte di chi riveste ruoli istituzionali, in favore delle donne. Veri e propri sofismi sull’importanza della parità di genere, vuoti del significato dell’atto concreto di cambiare le cose.

Spesso, chi riveste tali ruoli non riesce, anzi, si rifiuta categoricamente di dichiararsi antifascista.

Il grado di civiltà e il carattere di determinate correnti politiche lo si misura dalle leggi che le stesse hanno proposto.

Tra le colpe ingiustificabili, imputabili alla canaglia fascista, non vi sono solo le leggi razziali, ma anche le leggi di genere, come le sopra citate. Leggi che prevedevano il dominio e il possesso della donna come un mero oggetto alla mercè del maschio italico.

Dichiararsi antifascisti significa dichiararsi automaticamente antipatriarcali, antisessisti e femministi. Non si può essere antisessisti e non essere antifascisti.

Non parliamo di errori in corso d’opera commessi dal fascismo: parliamo del suo codice penale. Un codice sapientemente studiato e programmato. Né dimentichiamo il codice civile fascista, divulgato nel 1942  anch’esso tuttora vigente nell’ordinamento giuridico italiano.

Non basta aver apportato modifiche e continuare ad apportarle, mantenendo il telaio repressivo che il nostro ordinamento prevede. L’Italia, per fare i conti col proprio passato, dovrebbe adottare un nuovo codice civile e penale. Proprio per ristabilire quell’onore nazionale, violato da quel regime che ha permesso e agevolato tali crimini contro le sue figlie.

 

Fonti:

https://www.normattiva.it/uri-res/N2Ls?urn:nir:stato:regio.decreto:1930-10-19;1398 

https://www.gazzettaufficiale.it/sommario/codici/codicePenale

 https://it.wikipedia.org/wiki/Codice_penale_(Italia)

https://it.wikipedia.org/wiki/Delitto_d’onore

https://www.thewom.it/culture/wompower/fondazione-giulia-cecchettin

https://www.robadadonne.it/225349/matrimonio-riparatore-storia-abolizione/

Webinar “L’altra Pandemia”: la testimonianza dell’Associazione Orione

“Ascoltare l’opinione degli esperti è importante, perché consente agli ascoltatori di entrare in contatto con notizie attendibili, conformi alla verità scientifica dei fatti, preservando in tal modo la collettività, e in particolare i giovani, dalle conseguenze negative della “cattiva informazione” e dal diffondersi incontrollato di interpretazioni errate e suggerimenti nocivi.”

Queste le parole di Roberta Mele, che riassumono il leitmotiv del webinar “L’altra pandemia”. L’iniziativa, svoltasi in diretta Facebook e sulla piattaforma online Teams, è stata organizzata, in collaborazione con l’Università di Messina, dall’Associazione studentesca Orione.

La sanità, il mondo del lavoro, e l’economia sono pesantemente segnati da difficoltà dettate da carenza di organico, scarsi investimenti e scarsa capacità di programmazione. Il Coronavirus, oltre a mettere in luce una situazione già precaria, sta lasciando cicatrici molto profonde su settori già pesantemente danneggiati ancor prima dell’emergenza sanitaria.

L’incontro è stato diviso in tre momenti di approfondimento, prendendo in considerazione tre temi principali:

  • Gli aspetti medico-sanitari, con riferimento alle difficoltà che il sistema sta incontrando nel garantire l’attività ordinaria, sono stati affrontati dal Prof. Navarra, ordinario di Chirurgia Generale dell’Ateneo di Messina e presidente della Società italiana di Ricerche in Chirurgia, e in seguito dal Prof. Melazzini, Amministratore Delegato di ICS – Istituti Clinici Scientifici Maugeri, componente del Consiglio di Amministrazione del CNR ed ex direttore generale AIFA.
  • La tematica relativa alla crisi del settore sociale, affrontata dal Prof. Perconti, ordinario d’Ateneo di Filosofia del Linguaggio e Direttore del Dipartimento COSPECS e dal Mons. Raspanti, vescovo di Acireale e vicepresidente della Conferenza episcopale italiana.
  • Gli effetti che la pandemia ha avuto sulla già precaria economia e sul mercato del lavoro, infine, affrontati con gli interventi: del Prof. Limosani, ordinario d’Ateneo e direttore del Dipartimento di Economia e del Prof. Nannicini, Senatore della Repubblica Italiana e ordinario di Economia Politica all’Università Bocconi.

É stata, inoltre, molto ampia la partecipazione degli studenti, a cui l’evento è stato rivolto con l’obiettivo di stimolare la riflessione sul tema.

“Gli interventi durante il webinar hanno contribuito a chiarire in noi studenti le prospettive future nei tre settori presi in esame. Il sistema sanitario può ripartire- afferma Luciana Siragusa – ma servirà incentivare i giovani e l’assistenza nel territorio. Il settore economico richiede importanti investimenti, ma c’è il rischio di sbagliare. L’obiettivo deve rimanere quello di supportare i settori lavorativi più in difficoltà. Infine, sarà anche necessario un adattamento sociale da parte di tutti: la pandemia inevitabilmente lascerà una profonda eredità nella nostra cultura.”

Come superare questo momento storico e come far fronte ai problemi sopracitati, sono quesiti che oltre noi giovani studenti, il mondo intero si sta ponendo, trovando misure e ipotesi diverse, perché mai nulla di simile era accaduto prima.

“A mio parere l’incontro ha permesso di definire un pensiero condiviso: la pandemia lascerà un’eredità diversa dal modello di società cui eravamo abituati- spiega Vincenzo Signoriello – la Sanità era già precedentemente in difficoltà a causa dell’inadeguatezza delle risorse, richiedendo agli operatori un impegno straordinario. Per quanto concerne l’economia la Covid ha inciso in senso depressivo determinando una riduzione del PIL e accentuando le povertà e le fragilità sociali già esistenti. Nell’ambito del lavoro si è verificata l’impossibilità nell’espletare alcune attività con il conseguente calo di produttività e di impiego. Ci sono stati però anche dei vantaggi: il fenomeno ha incentivato lo smart working, spingendo anche le pubbliche amministrazioni ad elaborare nuove forme di organizzazione del lavoro da remoto. Occorrerà molta resilienza e sarà necessario interrogarsi sulle cause e sul senso di tutto ciò. Come affermato da uno dei nostri ospiti, sarà necessario partire dal presupposto che quando parliamo di pandemia non parliamo di castighi divini o di sfortuna. Il senso di questa situazione è insito nel concetto stesso di realtà, che non è per forza ordinata e felice.”

Oggi la sfida è governare l’incertezza. Le informazioni critiche sulle caratteristiche del Covid-19 e i suoi impatti sull’attività economica italiana e globale sono difficili da valutare e possono cambiare rapidamente. Ma tutti noi dobbiamo strutturare risposte che siano in grado di gestire la nostra società ora, nelle settimane e nei mesi a venire.

Cristina Geraci

Allo SCIPOG seminario su “Globalizzazione, pluralismo culturale, post-democrazia”

Lunedì 29 Aprile 2019. Ore 9.00. Messina. Aula Buccisano – via Malpighi, 3. Il Dipartimento di Scienze politiche e giuridiche dell’Università di Messina, in collaborazione con l’Associazione italiana di Sociologia e l’associazione Alumnime ha organizzato un seminario di studi sul tema “Globalizzazione, pluralismo culturale, post-democrazia”.

Dopo i saluti istituzionali del professor Giovanni Moschella, pro-rettore vicario, e del professor Mario Calogero, direttore del Dipartimento promotore, si sono alternati gli interventi dei seguenti relatori: professoressa Lidia Lo Schiavo, Università degli studi di Messina; professor Roberto Serpieri, Università Federico II – Napoli; professoressa Vittoria Calabrò, Università degli studi di Messina; professor Daniele Fazio, Università di Messina e di Alleanza Cattolica; professor Dario Caroniti, Università degli studi di Messina; professor Salvo Torre, Università degli studi di Catania;

I temi principalmente trattati e sviluppati sono stati: la Globalizzazione, la società, le culture – come indicato dal titolo – e particolare enfasi è stata posta sull’analisi della post-democrazia. Con questo termine polemico si intende un’evoluzione in atto nel corso del XXI secolo che sta avvenendo in molte democrazie, dove vige un sistema politico che pur essendo regolato da istituzioni e dalle norme democratiche, viene di fatto governato e pilotato da grandi lobby, come ad esempio le multinazionali e i mass media. Secondo questa teoria politica, le democrazie tradizionali rischierebbero di perdere parte dei loro caratteri costituenti a favore di nuove forme di esercizio del potere, prevalentemente oligarchiche.

Si son toccate pure le corde dell’inclusione e dell’esclusione sociale e della globalizzazione culturale, vale a dire la diffusione mondiale di un certo tipo di cultura, prevalentemente quella degli U.S.A., e della conseguente “colonizzazione” a dispetto di quella dei paesi più poveri che non riescono ad imporsi. I colossi dell’economia mondiale, cioè i paesi più ricchi e sviluppati come Europa, U.S.A. e Giappone, acquistando quasi tutto il controllo delle telecomunicazioni, hanno privatizzato anche quelle statali. Questo processo permette loro di rafforzarsi e di inglobare nella propria struttura le reti di telecomunicazione di interi paesi. Si sta quindi formando un oligopolio a livello mondiale in cui le maggiori società competono nell’offrire servizi avanzati a una clientela qualificata. Lo scopo di queste società non è, però, quello di collegare ogni villaggio dell’Asia, Africa o America Latina, ma quello di trarre del profitto: quindi si rivolgono solo a quella minoranza di popolazione in grado di pagare i loro servizi. Infine, è stata sollevala la questione della globalizzazione nel magistero sociale della Chiesa Cattolica e delle forme di oppressione delle minoranze religiose.

I lavori dell’intero seminario sono stati moderati dal professor Giuseppe Bottaro dell’Università degli studi di Messina.

Gabriella Parasiliti Collazzo

Fabrizio De Andrè: Musica, Poesia e Società

Lunedì 1 aprile 2019. Ore 15:40. Auditorium del Dipartimento di Civiltà Antiche e Moderne dell’Università di Messina. L’associazione Must, ha dato vita ad un incontro intitolato “Fabrizio De Andrè: Musica, Poesia e Società”, in occasione dei 20 anni dalla scomparsa del famoso cantautore.

Durante l’incontro sono intervenuti il professore Giorgio Forni, ricercatore universitario, il professore di comunicazione e giornalismo Francesco Pira e il professore Marcello Mento, giornalista della Gazzetta del Sud. Ai partecipanti sono stati riconosciuti 0,25 CFU.

Nel corso del convegno sono state analizzate le canzoni di De André come vere e proprie poesie del Novecento italiano, un’indagine concentrata sull’umanità dell’autore e dei testi, sui temi e i sentimenti più forti: la necessità dell’amore, l’incombenza della morte, la ricerca di Dio.

La musica leggera italiana, dal principio sino ad ora, ha conosciuto trasformazioni perenni, metamorfosi, innovazioni del linguaggio, dei contenuti e dei destinatari. Come ogni arte è specchio di informazioni sull’uomo.

L’esordio di Fabrizio De André come cantante coincide con un periodo di palpabile fermento nel mondo della musica e nella società italiana. A questa fase di rinnovamento egli partecipa attivamente, muovendo la sua personale ricerca in direzione di nuovi contenuti e nuove forme. La finalità di De André e di altri cantautori è accompagnare alla musica una maggiore profondità testuale, una varietà di argomenti “alti” e “altri” rispetto alla tradizione canzonettistica del paese. Ne consegue la necessità di conformare alle nuove e più impegnate tematiche un linguaggio e una forma adatta a sostenerne lo slancio.
Nell’ascoltare le canzoni del cantante genovese ci si accorge immediatamente della cura che la scelta di ogni parola ha richiesto. Come nella poesia ogni termine occupa un suo posto specifico, per contenuti, musicalità, esigenze metriche o stilistiche, allo stesso modo, nelle canzoni di De André, la parola impiegata colma tutto lo spazio a sua disposizione e ha un’assolutezza che la fa apparire come insostituibile.

Fabrizio De André era maniacale, perfezionista e puntiglioso, capace di stare per giorni interi a cercare la parola giusta da incastrare in un verso, ma era anche un grande compositore musicale, oltre che attento ricercatore di musica antica e popolare. Spicca la perfetta fusione fra una melodia leggera anche se drammatica, e un testo che dietro alla poesia, volutamente ingenua. Uno degli stratagemmi musicali utilizzati dal compositore durante la prima parte della sua carriera era l’alternanza tra la tonalità di La minore e quella di Do minore. L’ascoltatore, nei testi di Faber – così soprannominato per la sua passione per le matite colorate –  si immerge completamente. Il cantautore spesso si appropria di stili, sonorità o addirittura di melodie, prese in prestito dalla sua memoria.

L’ultima grande fonte di influenza, una tra quelle che maggiormente hanno caratterizzato il suo stile musicale, è stata la musica etnica. Molteplici sono state le influenze folcloristiche nella musica del Maestro, partendo dalle influenze del bacino mediterraneo, ad esempio con l’utilizzo del classico giro armonico della tarantella napoletana o come il dialetto genovese  che riesce a fare da base ad una straordinaria serie di influenze musicali mediterranee, che vengono dalla Catalogna, attraverso la Sardegna e si spingono fino al medio oriente, per poi risalire in Grecia ed arrivare a lambire i Balcani.

Vent’anni fa, l’11 gennaio 1999, se ne andava Fabrizio De Andrè. Ci resta la sua buona novella, chissà se qualcosa l’abbiamo imparata interrogandoci su come avrebbe cantato questo nostro tempo.

Gabriella Parasiliti Collazzo

Ohana significa famiglia

Ohana significa famiglia e famiglia vuol dire che nessuno viene abbandonato o dimenticato.” 

La citazione, tratta dal cartone Disney “Lilo & Stitch”, rimanda all’idea di famiglia secondo la cultura hawaiana. Con il termine ohana si intende la famiglia non solo in senso lato (legame di sangue), ma anche come rapporto adottivo o intenzionale che unisce le persone amiche in funzione dell’affetto e dei valori di cooperazione, condivisione e rispetto. Significa prendersi cura gli uni degli altri scegliendosi e accettandosi reciprocamente così per come si è.

Questa concezione sta alla base della tradizione dei nativi hawaiani, ma in fondo la si potrebbe estendere anche ad altre culture, che ne condividono il valore. Ad esempio, spostandosi di continente, la famiglia è molto sentita e vissuta anche in Italia, e rappresenta un elemento fondante della cultura e della società. È emblematico e interessante pensare, ad esempio, che in una delle attività di formazione che l’associazione Intercultura (onlus che si occupa di scambi interculturali) organizza per i ragazzi in partenza all’estero, la maggior parte di questi ultimi, nel dover stilare la loro scala dei valori, tenda a posizionare tra i primi proprio quello della famiglia, attribuendovi importanza primaria.

Tornando al concetto di ohana: le parole del personaggio di Lilo potrebbero essere tornate in mente facilmente mentre la scorsa settimana ci si imbatteva negli aggiornamenti quotidiani dei tg in merito al XIII congresso mondiale delle famiglie (World Congress of Families) che si è svolto dal 29 al 31 marzo a Verona. Tra i relatori spiccano personalità più o meno note del panorama politico nazionale e internazionale. Cos’è la famiglia per una parte di Italia hanno tentato di spiegarcelo loro, argomentando delle tesi a supporto di teorie pro vita che contemplano l’esistenza di un solo modello di famiglia riconosciuto come unicamente valido poiché costituito dalle figure genitoriali di madre e padre. Ecco perché, leggendo e ascoltando queste parole, se ne possono pensare di altre diametralmente opposte, come quelle di Lilo, che se interpretate con un principio di inclusione, alludono a una realtà dove nessuna tipologia di famiglia, seppur non tradizionale, viene dimenticata o non celebrata. Una famiglia per essere definita tale deve rispondere a poche ma essenziali condizioni: il sentirsi a casa e l’amore disinteressato e incondizionato. Quali altri canoni dovrebbe rispettare una famiglia ideale? Quali criteri determinano un modello di famiglia migliore rispetto a un altro? Quali dovrebbero essere i tratti distintivi che costituiscono una famiglia cosiddetta “normale” e naturale? Le altre sono anormali? Altre forme d’amore e altri modi d’amare sono impensabili?

Laddove c’è amore, c’è famiglia: ed è proprio questo lo slogan proiettato nelle facciate di alcuni monumenti a Verona, in occasione di una manifestazione di protesta avanzata da All out, movimento globale che lotta a favore dei diritti LGBT+, a cui hanno aderito anche altri enti ed associazioni che sposano la stessa mission. L’intento era quello di trasmettere, attraverso l’azione non violenta, il seguente messaggio: “è l’amore che fa una famiglia e tutte le famiglie contano!”. Questa insurrezione non deve essere confusa e fraintesa con una pretesa di voler imporre a tutti i costi idee opposte a quelle portate avanti dal congresso, ma è dettata dal principio della libertà di espressione di posizioni diverse su alcuni temi. Così come al congresso delle famiglie si dibatteranno alcune opinioni, allo stesso modo si deve poter esercitare il diritto di controbattere, ribellandosi a una determinata corrente di pensiero.

Željka Markić, fondatrice e presidente di “Per conto della famiglia” (U ime obitelji) in Croazia, uno degli ospiti del congresso, ha dichiarato: “Preferirei dare mio figlio all’orfanotrofio, piuttosto che in adozione a una coppia dello stesso sesso.”Un pensiero del genere vorrebbe negare dunque a un bambino la felicità e l’armonia di cui avrebbe bisogno in assenza dei genitori biologici, in funzione di quella distorta idea secondo cui i bambini che crescono con genitori dello stesso sesso non abbiano come riferimento un modello educativo solido e stabile, ma deviato. Sempre secondo questa visione, altre conseguenze sarebbero lo stato di isolamento e di discriminazione che il bambino potrebbe subire, sottoposto ai giudizi di chi lo considererà diverso e lo additerà come “fuori dal comune”. È davvero con questi presupposti che ci si vuole rivolgere e approcciare alle nostre comunità? Le esigenze della società si sono evolute e le società stesse hanno imparato ad accettare tipi nuovi di relazioni, le cosiddette unioni civili. Anche la politica e le leggi dovrebbero adattarsi ai cambiamenti sociali, aggiornando il codice civile, introducendo e promulgando nuove leggi a favore dei diritti di tutti, che una volta approvate ed entrate in vigore, garantiscano più equità sociale. Sono stati già fatti molti passi avanti (la legge Cirinnà che dal 2016 riconosce le unioni civili), ma ancora tante altre proposte devono essere oggetto di confronto per nuovi disegni di legge.

©FernandoCorinto, Parco Don Blasco – Marzo 2019

Altro argomento controverso oggetto di pregiudizi e disinformazione è la questione dell’utero in affitto e della maternità surrogata. Agli occhi dei famigerati e fantomatici garanti della vita ospiti del congresso, questi metodi ridurrebbero la volontà di coppie dello stesso sesso di avere figli a un mercato e a una forma di business che mercificherebbe la donna in quanto oggetto utile alla procreazione, in cambio di denaro. Questa pratica effettivamente viene eseguita in alcune parti del mondo ed è una realtà da molti denunciata. Ma occorre ricordare che in Italia non è consentita, e che dopo aver constatato questo dato, è necessario avviare e supportare una corretta campagna informativa, specificando che non si tratta delle uniche opzioni per una coppia gay di avere figli. Esiste la possibilità di ricorrere a tecniche lecite e legali di procreazione assistita.

Sul fronte della tematica della donna, il congresso si è espresso in modo altrettanto retrogrado e maschilista: la donna viene ancora una volta relegata al ruolo di moglie e madre, come fosse una macchina deputata esclusivamente alla riproduzione, senza diritto di occupazione e ambizioni di carriera. È frustrante quanto vero dover riportare il seguente dato, che emerge da statistiche e da testimonianze che corrispondo al vero: è ormai risaputo che l’Italia rientra tra i paesi le cui prospettive professionali per una donna sono ridotte, con salari più bassi rispetto agli uomini, unitamente all’amarezza di una mentalità diffusa che vede le figure manageriali e di potere come prerogativa dell’uomo. Per non vanificare anni di lotte per l’emancipazione, bisogna intraprendere politiche a favore delle pari opportunità e investire su un tipo di formazione che dia una svolta a quell’approccio machista che ad esempio ha indotto Sergio Vessicchio, cronista calcistico attualmente sospeso dall’ordine dei giornalisti, a rivolgere in diretta da una web tv di Agropoli, commenti sessisti e offese nei confronti di una donna che arbitrava ad una partita. Ha cercato poi di difendersi goffamente, definendo i suoi commenti solo come “dei modi per evitare la promiscuità.” Ai suoi occhi, le donne devono arbitrare le donne, e gli uomini devono arbitrare gli uomini, ignorando il fatto che se si procederà sempre seguendo tali parametri di esclusione, si accentueranno i divari di genere e non si combatterà mai l’idea che le donne siano considerate inferiori, o peggio, non esperte tanto quanto gli uomini riguardo a uno sport in prevalenza maschile.

È evidente come ci sia un’emergenza seria che merita la priorità rispetto agli investimenti sulla maternità. Innanzitutto, se proprio si vuole agire efficacemente, si dovrebbero adottare e applicare politiche di investimento sugli asili nido, promesse puntualmente da ogni legislatura e mai realmente messe in atto. Ad oggi è un problema rilevante per tutte quelle famiglie e tutte quelle mamme che, trovandosi in difficoltà a causa della mancanza di sussidi e luoghi sufficienti in cui poter portare i figli durante la loro assenza, trovano inconciliabile maternità e lavoro. Perché inoltre non ci si concentra su politiche concrete mirate a creare posti di lavoro? Il lavoro nobilita l’uomo, e l’uomo, per creare un nucleo familiare sereno, deve prima poter essere messo nelle condizioni di avere una dignità economica per poterne assicurare il sostentamento. Una donna non ha voglia di essere madre se prima non le viene riconosciuto a pieno il suo status sociale di persona, con uguali diritti di un uomo, senza distinzioni di genere. Una donna per sentirsi appagata e realizzata non è costretta necessariamente a diventare madre, e deve poter avere la libertà di scegliere attraverso la contraccezione, che nonostante abbia diminuito il tasso di natalità da un lato, dall’altro ha limitato e prevenuto molte gravidanze indesiderate, e quindi aborti.

A tal proposito, veniamo al discorso sull’aborto, altro aspetto che il congresso delle famiglie lamenta e condanna. Sorge spontaneo chiedersi se, nei loro ragionamenti, i relatori tengano in considerazione tutte le ragioni che possono portare a un aborto. Per citarne qualcuno: i concepimenti frutto di stupri e violenze o di rapporti non consenzienti; i casi di gravidanza rischiosa per il feto e/o per la madre; l’impossibilità economica di mantenere il feto quando nascerà e diventerà bambino. Abortire non è mai una scelta semplice, per nessuno, ma c’è una legge che lo permette, e regredire non è proficuo. Inoltre, esiste già l’assistenza adeguata che non lascia soli chi desidera portare avanti la gravidanza fino al parto e poi far adottare il bambino. Questa soluzione alternativa all’aborto è il parto in anonimato. Credere di aver costituito un governo politico da appena un anno e poter illudersi di apportare riforme che esistono già è molto inutile, oltre che una pericolosa manipolazione all’insegna del pressappochismo e del buonismo che vorrebbe solo accaparrarsi il consenso della massa.

LGBT+, madri e padri single, e le donne sono le categorie coinvolte nei dibattiti del congresso tenutosi una settimana fa a Verona. Sono nel mirino perché considerate minoranze e gruppi deboli, e che per questo motivo secondo il punto di vista dei partecipanti all’evento, non dovrebbero essere tutelati e godere degli stessi diritti di tutti. Come in ogni fase della storia, in questo momento è toccato a loro diventare i capri espiatori, accusati di essere tra i colpevoli del depauperamento della popolazione. Questa convinzione infondata cela un motivo ben più profondo: rappresenta un comodo deterrente che servirebbe a non ammettere un susseguirsi di sbagli di strategie e logiche politiche, su cui ricadono le principali responsabilità di cali demografici e crisi economica.

Il motto del congresso nonché titolo del manuale di presentazione del programma è “Wind of Change”, cioè “Vento del cambiamento”. È inevitabile il paragone con la celebre canzone degli Scorpions, che cantavano sulle note di “Wind of Change” come simbolo di resistenza e speranza contro la guerra. Non sembra esserci comunanza di intenti nel messaggio che l’organizzazione internazionale delle famiglie (IOC), organizzatrice del congresso mondiale delle famiglie, intende trasmettere e di cui si fa portavoce. Sicuramente non incita esplicitamente alla guerra, ma diffonde idee che sottostanno a un pensiero intollerante e chiuso. E si sa che fenomeni come i totalitarismi, prima di diventare tali, sono partiti in origine da politiche apparentemente accettabili che poi sono sfociate in crimini contro l’umanità e nel secondo conflitto mondiale. Da un’ideologia all’istigazione all’odio il passo è breve. 

Perché Verona e non qualche altro luogo in cui ambientare il congresso? Nel sito ufficiale dell’evento si spiega che Verona è stata scelta “per onorare i suoi cittadini e i loro continui sforzi e azioni in difesa dei valori della vita e della famiglia a livello sociale e politico”. Verona è conosciuta nel mondo per la sua storia e per il suo patrimonio artistico e culturale. Romeo e Giulietta e l’Arena ad esempio sono solo due tra quei simboli che rimarranno sempre predominanti. Non sarà di certo il congresso a rendere la città più speciale. Torniamo a dare il giusto peso e senso alle cose. Per fortuna che c’è la bellezza della cultura e dell’arte a salvare il mondo.

Giusy Boccalatte

La società dell’odio

Analizzando la nostra società possiamo di sicuro sentirci fortunati. Anni di evoluzione scientifica e tecnologica stanno dando i loro frutti. Tutti noi abbiamo avuto possibilità che solo 50 anni fa erano destinate a pochi eletti e ogni giorno abbiamo un’infinità di risorse a portata di mano o, se vogliamo, a portata di click.

Eppure, anche una società così evoluta e sviluppata come la nostra non è perfetta. Viviamo in una società libera? Una società aperta e tollerante? Una società in cui amore e rispetto altrui sono valori alla base di ogni idea e comportamento? Certo che no. La nostra è al contrario una società fondata sull’odio, sulla lotta contro il diverso, una società che piuttosto che analizzare e cercare di capire le idee differenti dalle proprie preferisce attaccarle, magari senza nemmeno conoscerle. Ci si basa sulla convinzione che ciò che è diverso dal nostro pensiero deve necessariamente essere sbagliato.

L’ultimo caso di odio scellerato è quello di qualche giorno fa a Macerata. Accade tutto dopo l’orrendo ritrovamento del corpo di Pamela Mastropietro, probabilmente morta di overdose e fatta a pezzi dal ragazzo nigeriano che era con lei, forse lo stesso che le ha procurato la dose fatale. Luca Traini sente la storia alla radio, una, due, tre volte e decide di agire. Va a casa, prende la sua pistola, si mette alla guida e dà il via al suo raid razzista, una sorta di “caccia all’uomo nero”. Spara all’impazzata, seminando il panico  nella città di Macerata. Sei gli extracomunitari feriti, nessuno dei quali in pericolo di vita. È sicuramente la messa in pratica di uno degli odi più diffuso in Italia nei nostri giorni, quello verso lo straniero. Un razzismo promosso in primis da alcuni esponenti politici, che vi fondano addirittura le loro campagne elettorali, con la sicurezza che basti l’odio del diverso a fomentare gli elettori.  «Immigrato nigeriano, permesso di soggiorno scaduto, spacciatore di droga. È questa la “risorsa” fermata per l’omicidio di una povera ragazza di 18 anni, tagliata a pezzi e abbandonata per strada. Cosa ci faceva ancora in Italia questo verme? Non scappava dalla guerra, la guerra ce l’ha portata in Italia. La sinistra ha le mani sporche di sangue. Altra morte di Stato. Espulsioni, espulsioni, controlli e ancora espulsioni! ». Questo il pensiero di Matteo Salvini, esponente della Lega Nord, che aveva commentato l’omicidio prima della reazione furibonda del Traini e che è stato accusato dalla Presidente della Camera Laura Boldrini di essere il “maestro dell’odio”.

Ma questa non è che la punta dell’iceberg di un fenomeno ormai diffuso a qualsiasi livello. Viviamo in una società che il 27 Gennaio commemora le vittime dell’olocausto, che disapprova l’antisemitismo e l’odio promossi e messi in atto da Hitler e anche la stessa che sui social si scatena con frasi del tipo “Rimandiamoli a casa”, “L’Italia agli Italiani” e così via.

Il razzismo non è l’unica forma d’odio, né la più diffusa. “Omofobia”, “sessismo”, “mobbing”, “bullismo”, sono tutti termini che al giorno d’oggi leggiamo sempre più spesso sui quotidiani.

I social, ormai così importanti e presenti nella vita di tutti noi, sono l’emblema dell’odio. Vi sfido a scorrere nelle vostre bacheche e riuscire per più di 30 secondi a non trovare un post, una foto o un video i cui commenti non contengano litigi di ogni genere. Che sia per una squadra di calcio, per una fede religiosa o per un futilissimo motivo poco importa. Ciò che conta è criticare aspramente ed insultare tutto quello che non rispecchia il proprio pensiero.

Ci sono soluzioni a tutto questo? Viviamo in una società destinata all’oblio? Non possiamo rispondere con sicurezza a tutte queste domande. Certo è che dovremmo rivalutare l’importanza dell’educazione civica, dedicarle più ore di insegnamento nelle scuole, promuoverla tramite incontri dedicati anche ai meno giovani. Così facendo si potrebbe provare a scacciare questo sentimento d’odio tanto fortemente radicato in tutti noi.

Nelson Mandela affermava: «Nessuno nasce odiando qualcun altro per il colore della pelle, il suo ambiente sociale o la sua religione. Le persone odiano perché hanno imparato a odiare, e se possono imparare a odiare possono anche imparare ad amare, perché l’amore arriva in modo più naturale nel cuore umano che il suo opposto. » Ecco, prendiamo spunto dal suo pensiero, creiamo un nuovo indirizzo scolastico, diventiamone tutti insegnanti e diffondiamo la materia più importante di tutte: l’amore.

                                                                                                                                

Ivan Brancati

 

 

 

Vivere sportivi: la passione

“Lo sport come educazione di vita sociale” è la tipica frase che il grande dice al piccolo. Il piccolo cresce, apprende e applica. Ma cosa apprende? Cosa applica?

Nella nostra Italia è oggettivamente accertato che lo sport più applicato sia il calcio, vuoi per cultura o vuoi per interazioni mediatiche. Il gioco del calcio, bellissimo e interessantissimo se si approfondiscono studi tattici o schematici, trova dal canto suo molteplici interpretazioni che talvolta possono risultare in contrasto con l’esclamazione di cui sopra.
divertimento

 

 

 

 

Il mondo del “pallone” può essere suddiviso in tre branche: professionistico, dilettantistico e amatoriale. Ognuno di questi tre rami ha valenza nella vita di uno sportivo, ma con le relative attenzioni derivanti dagli interessi propri.

Cos’hanno in comune queste tre tipologie? La risposta è molto semplice. Sono infatti due i punti in comune: le regole del gioco e la passione.

Ecco la passione. La passione è, o quantomeno dovrebbe essere, il fulcro di ogni azione (sportiva e non), ma è chiaro che il mondo politicizzato e strumentalizzato in cui viviamo ha fatto venir meno quest’essenziale prerogativa. Fortunatamente, però, non dappertutto.

Ed è proprio qui che passiamo alle differenze tra questi tre “tipi di calcio”. C’è chi è deciso nell’affermare che il calcio dilettantistico è la porta del calcio professionistico e c’è poi chi, invece, quasi disdegna il calcio dei professionisti consegnando anima e corpo a quello dei dilettanti.

Lo sport mediatico ha oggi un’importanza non banale sulla cultura di massa, in particolare nel calcio, dove diritti televisivi e sponsor hanno preso il controllo del gioco e di conseguenza delle menti di quei piccoli, i quali, nel tentare di imitare i professionisti, spesso e volentieri perdono di vista il significato dello sport in senso stretto: passione e aggregazione (…come educazione di vita sociale!)

Discorso diverso va fatto per il calcio amatoriale: probabilmente il calcio più sano e amichevole che esista, non perché non vi è competizione, bensì perché l’unico reale obiettivo di questa tipologia è lo svago, che a sua volta si può interpretare come salutare attività motoria con fini socializzanti, incentivato per lo più anche da autofinanziamenti.

È chiaro che il calcio professionistico offre molto di più dal punto di vista tecnico-tattico e se è vero che anche l’occhio vuole la sua parte non si può che avallare tutto l’audience che genera su ogni formato di pubblico, senza diversità d’età o di genere. Paradossalmente però il calcio dilettantistico offre qualcosa di più profondo in valore assoluto: la competizione non manca e in più vi è quella voglia e quell’amore per lo sport necessaria per compensare i limiti tecnici. Limiti che da sempre e per sempre impediranno di fare dello sport la propria professione, ma che mai riusciranno a ostacolare ne frenare il sentimento del dilettante.Scuola calcio: Temporary e Iper

Pertanto, qualunque tipo di calcio si preferisca può fare da esempio o stile di vita, ma solo se accolto in modo soggettivo e sempre e comunque in tutela del sentimento per lo sport.

In conclusione, il problema non sta nelle differenze tra i vari tipi di calcio, perché sia in quello professionistico che in quello dilettantistico e amatoriale, il gioco è sempre lo stesso e con le stesse regole. Il problema consiste nell’interpretazione che ognuno di noi prova a dare a queste tre realtà sportive.

L’auspicio è dunque che il piccolo, mentre cresce, apprenda i molteplici valori dello sport tanto dal punto di vista dell’attività fisica quanto da quello della competizione e dell’aggregazione, indipendentemente dalla categoria in cui lo andrà a praticare. Così da diventare egli il grande di domani che trasmetterà al “nuovo” piccolo questi essenziali principi per non tralasciare e trascurare il senso dello sport (e della vita).

Essere sportivi significa vivere sportivi. Vivere sportivi significa vivere sani e competitivi.

 

Mirko Burrascano