Fisica Sociale: la nuova pianificazione delle società del futuro

“Tutto è numero”

Sono in molti a pensare che il traguardo più grande mai raggiunto dall’essere umano sia stato l’intuizione che la realtà, per essere compresa, vada ridotta a numero. Come ci insegna la storia della scienza, tutti i discorsi che prescindono dall’aspetto quantitativo vanno prima o poi inevitabilmente ad arenarsi sulle spiagge dell’ambiguità. Diventano pura speculazione, nascono e muoiono contorti su radici dogmatiche e incerte. Il numero fornisce ordine, solidità e rigore a tutte le discipline che invece ne fanno uso. Un pensiero comune è che alcune scienze, per loro stessa natura, non possano costruirsi su modelli di tipo quantitativo; si pensi alla psicologia e alla sociologia. In parte è vero, queste discipline alla loro nascita avevano un carattere puramente qualitativo. Nel tempo per affermarsi hanno dovuto comunque fare pace con i numeri, miscelandosi con metodi statistici e induttivi. Questi metodi, fra le tante limitazioni di carattere epistemologico, necessitano anche di una grande quantità di dati, non sempre facilmente reperibili.

I Big data

Tale scoglio diventa però facilmente superabile nel 2020. La rivoluzione digitale e la conseguente evoluzione dell’industria pubblicitaria hanno portato alla nascita del mercato dei Big data. Ora è possibile avere milioni di gigabyte di informazioni su abitudini, comportamenti e preferenze di una buona parte della popolazione mondiale accumulati nel corso di anni e anni. Uno dei primi a rendersi conto del potenziale di queste risorse è stato Alex Pentland. Padre della fisica sociale, è anche autore di pressoché tutti i libri e articoli a riguardo.

fonte: restart-project.eu

L’idea di Pentland è quella di adattare i modelli matematici predittivi, tipici della fisica, allo studio delle comunità umane. In realtà, però, il vero valore aggiunto della fisica sociale sta nell’intuizione secondo cui anche le più complesse dinamiche sociali possono essere predette ed eventualmente dirottate studiando i cosiddetti flussi di idee.

Come si propagano le buone idee

Pentland nel suo libro “Fisica Sociale: Come si propagano le buone idee” dà un assaggio di quanto “potente” sia questa disciplina. Facciamone un esempio. Con delle semplicissime accortezze è stato possibile, in un solo anno, far raddoppiare la produttività di un’azienda tedesca. La strategia di Pentland è stata quella di sincronizzare le pause caffè dei dipendenti chiave rintracciati dai suoi modelli. I dipendenti chiave sono individui particolarmente estroversi e carismatici, che all’interno di una determinata cerchia di conoscenti fungono da “spreader” di idee. Individuando questi elementi e facendoli comunicare fra loro, il flusso di idee fra i vari uffici è diventato molto più dinamico, favorendo innovazione e produttività. La fisica sociale propone di fatto un modello aziendale opposto a quelli convenzionali, in cui i vari settori di un unico meccanismo produttivo comunicano poco o nulla fra loro. Inoltre, sempre per via sperimentale ma con metodi simili, Pentland è riuscito a ridurre drasticamente la criminalità in alcuni quartieri periferici di Boston, aumentare l’efficienza dei trasporti pubblici di New York e decongestionare il traffico di Chicago.

fonte: www.cilentonotizie.it

Fisica Sociale, un alleato contro il raffreddore (se lo credi sostituisci pure “raffreddore” con “pandemie”)

Evidentemente la fisica sociale ambisce ad essere più che una semplice scienza descrittiva. Nel futuro prossimo potrebbe diventare una prerogativa per la progettazione di città, stati e politiche aziendali. Anche la gestione di emergenze di qualsiasi tipo potrebbe trarne beneficio. A tal proposito, già nel 2016, Pentland auspicava per i suoi modelli una parte centrale nella prevenzione di epidemie locali, ma anche di pandemie. Gli studi condotti fino a quel momento avevano portato a risultati grandiosi. L’inverno del 2015 fece registrare una buona percentuale di casi di influenza in meno fra gli studenti del MIT, dove Pentland aveva riorganizzato l’allocazione di aule, laboratori, dormitori e luoghi di aggregazione sociale secondo un modello sviluppato con lo scopo di ridurre al minimo la diffusione di agenti patogeni.

Perchè se ne parla così poco?

A questo punto la domanda sorge spontanea: perchè le nostre comunità non beneficiano ancora dei frutti di questa disciplina fantastica? Come accennavo prima, i modelli statistici, per far “accadere la magia”, hanno bisogno di enormi quantità di dati, spesso incredibilmente costosi o comunque inaccessibili per questioni di privacy. Anche nel caso in cui i dati fossero reperibili con facilità, rimarrebbe ancora aperta la questione, forse centrale, dell’intera faccenda. Chi avrà accesso a queste informazioni? Gli stati? I privati? Per garantire la massima trasparenza dovranno essere resi di dominio pubblico?

fonte: utopiarazionale.blogspot.com

Come spesso accade con gli strumenti scientifici che consegnano nelle mani dell’umanità un grande potere, questi vanno regolamentati, burocratizzati e passati al vaglio etico. Immaginate l’enorme catastrofe, degna dei più oscuri scenari orwelliani, se facoltà di questo tipo dovessero evadere dai confini del controllo di governi democratici. Forse una delle più grandi sfide morali dell’essere umano per i prossimi anni sarà quella di riuscire a imbottigliare e sfruttare a proprio vantaggio questa incredibile risorsa.

Gianluca Randò

Intervista a NessuNettuno: lo street artist messinese che ama il mare

Camminando per le strade delle nostre città spesso rimaniamo ipnotizzati dalla bellezza di opere d’arte a cielo aperto. Stiamo parlando dei capolavori della street art. A Messina la street art è legata ad un’artista dal nome abbastanza suggestivo: “NessuNettuno. Nicolò non ha bisogno di presentazioni prolisse: le sue opere parlano da sole. E lui stesso, oltre a saper usare la pittura per comunicare, pesa bene le parole, che gli vengono dal cuore.

Sono un siciliano a cui piace andare a mare. E che ama il mare, che ama la sua terra tantissimo. Per la Sicilia mi farei ammazzare.

Noi di UniVersoMe abbiamo avuto il piacere di incontralo davanti a un caffè e ad una birra e di intervistarlo.

©Fernando Corinto, Intervista a NessuNettuno – Messina 2020

 

Mario Antonio: Iniziamo con una domanda classica. Da dove è nata la tua passione per la street art?

È stata una cosa naturale. Ho iniziato nel 2015 con il progetto “Distrart”, grazie al quale abbiamo fatto le pensiline del tram. Da lì è nata la passione. E poi a me piace stare in strada, quindi comunque lo trovo naturale.

Corinne: Ci ha particolarmente colpiti un tuo progetto, denominato “Andiamo a mare?”, di cui fa parte una delle tue opere nella zona di Maregrosso. Da dove nasce questo progetto e che messaggio vuoi lanciare? In quali luoghi hai pittato (dipinto n.d.r.)?

“Andiamo a mare?” è un progetto che nasce per salvaguardare il mare. Il mare è l’elemento più significativo per noi messinesi; è sempre presente, perché in qualsiasi luogo di Messina ti trovi vedi sempre il mare. Il progetto vuole invogliare le persone a rispettare il nostro “liquido primordiale”. Perché dal mare nasce la vita, sin da tempi immemori. Di fronte al mare non c’è nessun Dio. L’uomo pensa di poter fare qualsiasi cosa con la natura, di farne una cosa propria, deturpandola, danneggiandola. In realtà non è così. È la natura che è padrona della vita. E allora di fronte al mare non si è nessuno. Il mio nome d’arte, NessuNettuno, deriva proprio da questo.

Una delle opere, appartenente al progetto “Andiamo a mare?”, situate nella zona di Maregrosso – Fonte: @nessunettuno (Instagram)

 

M: Quindi si può parlare di una funzione sociale della street art.

Sì. Inoltre il tuo lavoro deve essere soggetto all’approvazione delle persone del luogo. L’opera di Maregrosso, ad esempio, è nata dall’incontro con alcuni abitanti.

C: Un’altra opera che ci ha particolarmente affascinati è quella che si trova al reparto oncologico dell’ospedale Papardo. Da dove è nata l’idea di dipingere in questo luogo particolare? Cosa vuoi comunicare e trasmettere con questa tua opera?

Ho realizzato quest’opera insieme ad Andrea Spos.art, un mio amico artista di Milazzo, ed è stata commissionata dai dirigenti del reparto oncologico del Papardo. L’intento era allietare e dare un senso di leggerezza all’attesa dei pazienti che entrano a fare terapia. Il messaggio è stato accolto in maniera positiva.

L’opera nel raparto oncologico dell’ospedale Papardo – Fonte: @nessunettuno

 

M: Quindi a volte qualche ente ti commissiona un’opera.

Sì, è capitato. Fra le tante, quella che mi è piaciuta di più è stata commissionata per il carcere di Gazzi, dove insieme a cinque detenuti ho dipinto, per la prima volta, un murales all’interno dell’istituto. Abbiamo raccontato la storia di Giona, il profeta che viene mangiato dalla balena e che all’interno della pancia rielabora tutti gli sbagli e ciò che ha fatto nel corso della sua vita. Dopo averli rielaborati e dopo aver assunto consapevolezza di quello dell’uomo che è, di tutto il percorso che ha fatto, viene sputato fuori. È stata un’esperienza incredibile, perché il carcere è un ambiente al di fuori di qualsiasi contesto sociale.

La balena nel carcere di Gazzi – Fonte: @nessunettuno

 

M: Davvero molto bello. Procediamo con una domanda che un nostro redattore, non presente oggi, teneva molto a farti: l’atto di rovinare un’opera di street art può anche considerarsi esso stesso street art?

Certo! Perché comunque l’opera è alla mercé di tutti e di tutto. Quello che fai in strada non è destinato a un museo e quindi è soggetto all’usura del tempo e delle intemperie; un po’ come la vita, che a poco a poco ti consuma. Oggi c’è, domani no. È questa la bellezza della street art.

C: Quali sono i tuoi progetti artistici futuri, a parte quelli già in atto? Cosa pensi guardando al domani?

Penso di pittare per tantissimo tempo. Ora dovrei andare a Venezia a fare una mostra, dall’8 al 13 ottobre. Voglio continuare a lavorare e pittare soprattutto per il sociale, perché è quello che mi interessa di più.

L’opera “Cariddi”, situata ad Acquedolci (ME) – Fonte: @nessunettuno

 

M: Per concludere una domanda un po’ spinosa. Secondo te da cosa dovrebbe ripartire Messina?

Dal mare, o meglio dagli spazi limitrofi al mare. Messina è una città tutta costruita sul mare, quindi qualsiasi iniziativa si voglia far partire,  deve comunque essere legata alla riqualificazione del mare e delle spiagge. Inoltre bisognerebbe ripartire dall’insegnamento delle nostre tradizioni siciliane a scuola. Perché se conosci la tua cultura sei più propenso ad amarla e a rispettare anche le altre.

 

Corinne Marika Rianò, Mario Antonio Spiritosanto

 

 

Immagine in evidenza:

Una delle opere, appartenente al progetto “Andiamo a mare?”, situate a Maregrosso – Fonte: @nessunettuno. Oggi l’opera non è più visibile a causa dell’erosione che ha subito da parte degli agenti atmosferici, ma l’autore – come evidenziato nell’intervista – ha manifestato l’intenzione di non rimaneggiarla, considerando l’usura “naturale” come facente parte della street art.

Essere ricchi non farà la felicità, ma cambia il DNA

Un recentissimo studio della Northwestern University pone un’importante sfida per la medicina preventiva del futuro, indicando il meccanismo alla base delle differenze di salute tra popolazione ricca e popolazione povera.

Ricerche precedenti avevano già dimostrato che lo status socioeconomico è un potente fattore determinante per la salute e le malattie umane e che la disuguaglianza sociale è un fattore di stress onnipresente per le popolazioni a livello globale. La disuguaglianza sociale è associata a una predisposizione verso processi patologici che contribuiscono allo sviluppo di malattie, tra cui infiammazione cronica, insulino-resistenza e disregolazione del cortisolo. Un basso livello di istruzione e/o reddito comporta infatti un aumento del rischio di malattie cardiache, diabete, tumori e malattie infettive.

In questo studio, pubblicato il 4 Aprile sul American Journal of Physical Anthropology, i ricercatori hanno dimostrato che la povertà può essere “incorporata” in vaste aree del genoma, e tutto è governato da un finissimo equilibrio all’interno del nucleo delle nostre cellule: la metilazione. Questa rientra in una più ampia branca della medicina moderna: l’epigenetica, che studia i cambiamenti che influenzano il fenotipo, ovvero l’aspetto, della cellula e dei tessuti senza alterare il genotipo.

La metilazione del DNA è essenziale per il normale sviluppo: è associata infatti con l’imprinting genomico, l’inattivazione del cromosoma X e la carcinogenesi. La metilazione coinvolge quasi esclusivamente delle zone del DNA chiamate isole CpG (sequenze del DNA uguali e ripetute); quando questa avviene in prossimità di un promotore (che funge da interruttore) causa la repressione del gene cui è associato. Il processo è molto dinamico e può variare nel corso del tempo, accendendo e spegnendo diverse volte più e più geni.

Gli studiosi si sono rivolti ad uno studio di coorte già in corso nelle Filippine, il quale ha raccolto i dati economici delle famiglie di un gran numero di neonati a partire dal 1983, monitorandone l’andamento economico e sociale. A questi dati sono stati associati i vari profili di metilazione del DNA una volta che gli stessi neonati hanno compiuto circa 21 anni, età in cui lo sviluppo risulta essere completo.

Le analisi hanno identificato 2.546 siti su 1.537 geni in cui il DNA metilato differiva significativamente tra individuo benestante ed individuo povero. Si tratterebbe di una vera e propria firma della nostra condizione sociale all’interno delle nostre cellule.

Professor Thomas McDade

Thomas McDade, principale autore dello studio, nonché Professore di antropologia presso il Weinberg College of Arts and Sciences at Northwestern e direttore del Laboratory for Human Biology Research, ritiene che questo risultato sia significativo per due ragioni. In primo luogo perché, pur sapendo che la ricchezza è un potente fattore determinante della salute, precedentemente i meccanismi attraverso i quali il nostro organismo codifica le esperienze di povertà non erano noti; mentre oggi si.

“I nostri risultati suggeriscono che la metilazione del DNA può svolgere un ruolo importante, e l’ampia portata delle associazioni tra ricchezza e metilaione è coerente con l’ampia gamma di pattern biologici e performance di salute che sappiamo essere correlati alla ricchezza” ha affermato.

In secondo luogo, le esperienze nel corso dello sviluppo si sono incarnate nel genoma per modellarne letteralmente la struttura e la funzione. “Questo modello evidenzia un potenziale meccanismo attraverso il quale la povertà può avere un impatto duraturo su una vasta gamma di sistemi e processi fisiologici”.

Saranno infatti necessari studi di follow-up per determinare le conseguenze sulla salute della metilazione differenziale nei siti identificati dai ricercatori, ma si è già visto che molti dei geni interessati da questa variabilità sono gli stessi associati alle risposte immunitarie all’infezione e al cancro, allo sviluppo dell’apparato scheletrico e allo sviluppo del sistema nervoso.

Antonio Nuccio

 

Bibliografia: Thomas W. McDade, Calen P. Ryan, Meaghan J. Jones, Morgan K. Hoke, Judith Borja, Gregory E. Miller, Christopher W. Kuzawa, Michael S. Kobor. Genome‐wide analysis of DNA methylation in relation to socioeconomic status during development and early adulthood. American Journal of Physical Anthropology, 2019

Abbatti lo Stereotipo: la nuova rubrica di UniVersoMe

6gc3d1Il nostro ruolo non è quello di essere per o contro; è di girare la penna nella piaga.

 

Questa ve la devo raccontare.

Era una graziosa mattina di maggio quando mi sono trovata catapultata in una città nordica. Beh, in realtà ci sono andata per cambiare aria prima della reclusione da sessione estiva. Adoro il nord e l’Europa, sapete perché? Perché non vengo reputata una persona “strana”. Alternativa magari, o, semplicemente, una banana di niente, considerando che ognuno si fa i fatti suoi.

E quindi, durante questa graziosa mattina, ho mandato un messaggio vocale al mio amico vegetariano per raccontargli di come ero contenta di essere là e se lui stesse coccolando le sue carote. Perché, giustamente, essendo vegetariano, DEVE (nella mia, forse, mente perversa) coccolare le sue carote.

Così è cominciato tutto, così è nata l’idea di ‘’Abbatti lo Stereotipo’’. Due stereotipi viventi che si dicevano frasi stereotipate. Si è accesa la lampadina: siamo degli pseudo scrittori in un contesto un tantinello medioevale, quindi perché non cercare di abbattere tutti gli stereotipi dai quali siamo circondati? Cambiamo il mondo. Ok, magari non esattamente IL MONDO, ma mettiamo le cose in chiaro, strappiamo queste inutili etichette.

Via, bando alle ciance, cominciamo.

Il primo stereotipo che voglio abbattere con l’inaugurazione di questa rubrica è quello secondo cui il taglio di capelli esplica per forza chi sei o chi non sei nella vita. Il taglio di capelli, il colore o l’acconciatura possono dare un input sul mio stile, ma niente di più. I punkabbestia hanno i capelli alti e con il gel fino al soffitto, gli emo il ciuffo davanti, le barbie la paglia bruciata. Sono stili, mode, correnti che vogliono un determinato modo di vestire, di fare.

E quindi, ecco le 5 cose che i capelli NON vogliono dire:

1-    Se sono un uomo ed ho i dreadlock posso essere o non essere un raggea. Questo non implica per forza che io sia un drogato o che io non sia una persona capace di intendere e volere. Magari sono un drogato, ma potrei anche essere laureato per quanto vi riguarda. Stessa cosa per le donne: non sono per forza un’eroinomane. E non sono una persona sporca, giuro. I dreads si lavano, semplicemente si usano shampoo che non siano schiumogeni. Un ragazzo italiano in erasmus a Madrid, signori a MADRID, non è stato fatto entrare in discoteca perché reputato PERICOLOSO solo per i suoi dreads.

 

2-    Se sono uomo ed ho i capelli lunghi, lunghissimi, non sono per forza un barbone o un poveraccio. No, veramente. Un mio collega se li dovette tagliare perché il professore era convinto venisse dalla Caritas. Vi è mai passato per la mente che sono semplicemente un pigro di pupù o un tirchio che si secca spendere soldi dal barbiere? Allo stesso tempo non vuol dire che io sia un selvaggio alla tarzan, padre natura o un artista bohèmien: magari sono solo un morto di fig…

 

 

3-    Passiamo alle gradazioni di colore. Se sono bionda non sono per forza stupida e oca, non sono una prostituta. Se ho i capelli biondi e gli occhi azzurri non sono un angelo misericordioso. Se sono castana e occhialuta non sono scontatamente intelligente come Rita Levi di Montalcini. Se sono mora e porto il rossetto rosso non ho velleità da bocca di rosa. Se sono con la mia amica bionda non siamo rispettivamente lei il bene e io il male. Se sono rossa non sono un irascibile e inaffidabile diavolo assetato di sangue e vendetta.

 

4-    Parliamo delle donne con i capelli a spazzola. Allora, che io abbia i capelli a spazzola non implica per forza la parola CANCRO. Anni fa una modella, tale Stefania Ferrario (potete trovare il video su youtube), dovette smentire la malattia mortale di cui si diceva fosse affetta sui social. Semplicemente lavoro, campagne di sensibilizzazione, i suoi gran c***i, le hanno fatto decidere di tagliarseli a zero. Similmente, un uomo con i capelli a zero non ha il cancro, non è un militare. Magari è semplicemente calvo, o magari no, magari vuole recuperare 10 minuti la mattina per dormire un altro po’.

 

5-    Dulcis in fundo, la categoria a cui tengo di più: le ragazze con i capelli corti. Tutte noi con i capelli corti siamo lesbiche. Ma, dio santo, perché mai questa idea malsana? Partendo dal presupposto che ognuno di noi è liberissimo di fare, sotto le proprie lenzuola o nel sedile posteriore dalla propria macchina, il cavolo che gli pare con chi e con cosa gli pare… Esattamente, i capelli, con tutto questo, cosa c’entrano? Me lo dovete spiegare. Perché una ragazza omosessuale, che magari ha dei meravigliosi capelli neri, ricci e lunghissimi, dovrebbe andare a tagliarsi i capelli a maschio giusto per fare sapere, A VOI, che è omosessuale? O, al contrario, perché una ragazza eterosessuale non dovrebbe andare a tagliare i propri capelli, magari rovinati da anni di piastra e cloro, solo perché, sempre VOI SIMPATICONI, andate a pensare che sia omosessuale? Io, veramente, non comprendo. Considerando che non possiamo girare con un cartello al collo con scritto ‘’MI PIACE IL PENE’’ (e, probabilmente, pensereste che lo usiamo solo per coprire, a maggior ragione, il nostro orientamento sessuale), potreste, ad esempio, pensare di rivalutare un po’ tutta la vostra mentalità? Un abbraccio.

 

 

Elena Anna Andronico