È il fotografo che fa la fotografia o la fotografia che fa il fotografo?

il desiderio di scoprire, la voglia di emozionare, il gusto di catturare, tre concetti che riassumono l’arte della fotografia” – Helmut Newton

Spesso è difficile definire cosa sia effettivamente la fotografia. Tuttavia, si può cominciare con lo spiegare cosa la fotografia non è: non è un dipinto, una poesia, una sinfonia, una danza. È un’arte che cammina da sola, nata da sola spinta dal desiderio dell’uomo di riportare esattamente cosa vede con i propri occhi. Immortalare un momento e renderlo eterno. La pittura, la scrittura, la musica e la danza sono arti che fermano il tempo delle emozioni. Con una foto si crea l’eternità, aspirazione estrema del desiderio umano: vivere per sempre. L’attimo è la cosa più preziosa che possediamo, perché questo non si riproporrà.

La prima foto scattata nella storia risale al 1826, quando lo scienziato francese Joseph Nicéphore Niépce scattò la prima immagine permanente, intitolata Vista dalla finestra a Le Gras, nella casa di campagna della sua famiglia. Secoli di progressi nei campi della chimica e dell’ottica, costruirono la strada per la nascita della fotografia. Da quel giorno la scienza (in ambito fotografico) ha fatto passi da gigante evolvendosi sempre più velocemente, come nella prima foto a colori del 1861 scattata dal fisico scozzese James Clerk Maxwell, il quale si cimentò per tutta la vita con la teoria del colore. Maxwell fotografò tre volte un tartan scozzese utilizzando tre filtri diversi (rosso, blu e giallo) e infine unì le tre foto.

L’universo dello “scatto” si è evoluto nel XX secolo, dando la possibilità a tutti di poterne farne parte, creando tantissime sfaccettature, quante in realtà le ha la nostra Terra. La fotografia, come la conosciamo noi oggi, conta una vasta gamma di campi: street photography, foto-giornalismo, fashion photography, paesaggistica, subacquea, ritrattistica, multivisione, nudo artistico, di viaggio, etc.

Molti stili si sono sviluppati con l’avvento dei Social Network: Instagram (piattaforma che si concentra sulla fotografia) è stato il trapolino di lancio per un tipo di fotografia amatoriale accessibile a tutti. Chiunque, infatti, può mettere alla prova la sua vena artistica senza dover essere un professionista, e migliorarsi confrontandosi anche con altri utenti. C’è chi lo utilizza per svago, chi invece, grazie a questa applicazione ha ottenuto una visibilità tale da accaparrarsi il successo. Le fashion blogger, ad esempio, hanno trovato con questo social la loro pentola d’oro, perché diciamocelo, andare a controllare ogni giorno un blog non è la stessa cosa di trovarsi sulla timeline le foto del soggetto in questione. La fotografia, in questo caso, dice più di mille parole. Ma finisce lì. Diventa semplicemente una vetrina, come se stessimo passeggiando in Via Montenapoleone a Milano, o in via dei Condotti a Roma, e vedessimo i capi che sono esposti (con magari qualche infarto in meno dovuto ai prezzi, w i “poverih”). In sostanza una gara a chi appare migliore rispetto alla massa, e di conseguenza uniformandosi ad essa, perdendo di vista il concetto base: fare foto, arricchire e migliorare l’arte della fotografia.

La fotografia è diventato un mezzo, messo in secondo piano: tutti hanno la possibilità di fare foto, ormai le macchine fotografiche le abbiamo nei nostri smartphone e le multinazionali che li producono cercano di migliorarle tanto da sostituire le macchine fotografiche (reflex, bridges o compatte che siano). Il rullino ormai lo vediamo con il binocolo, ma dal momento che ci ritroviamo in un periodo nostalgico (“ma che ne sanno i 2000”, il ritorno de “Una mamma per amica”, Trump e Clinton alle presidenziali) si cerca di riempire questo vuoto con l’invenzione della Polaroid 2.0 affinché tutti possano sentirsi belli, fighi ed alternativi.

Le fotografie non si preparano, si aspettano. Si ricevano.” diceva Elliott Erwitt, ma sembra che questo concetto sia stato perso nel passaggio dallo scattare una fotografia e caricarla sul profilo senza badare alla composizione di essa, o ciò che potrebbe trasmettere. Un autoscatto (per gli amici “selfie”) non emoziona più di tanto. Tuttavia non basta avere una macchina fotografica per essere fotografi, quello che conta è la realtà che si presenta davanti e che l’occhio, che la interpreta, riesce a renderla arte, pura bellezza.

Giulia Greco

Abbatti lo Stereotipo: la nuova rubrica di UniVersoMe

6gc3d1Il nostro ruolo non è quello di essere per o contro; è di girare la penna nella piaga.

 

Questa ve la devo raccontare.

Era una graziosa mattina di maggio quando mi sono trovata catapultata in una città nordica. Beh, in realtà ci sono andata per cambiare aria prima della reclusione da sessione estiva. Adoro il nord e l’Europa, sapete perché? Perché non vengo reputata una persona “strana”. Alternativa magari, o, semplicemente, una banana di niente, considerando che ognuno si fa i fatti suoi.

E quindi, durante questa graziosa mattina, ho mandato un messaggio vocale al mio amico vegetariano per raccontargli di come ero contenta di essere là e se lui stesse coccolando le sue carote. Perché, giustamente, essendo vegetariano, DEVE (nella mia, forse, mente perversa) coccolare le sue carote.

Così è cominciato tutto, così è nata l’idea di ‘’Abbatti lo Stereotipo’’. Due stereotipi viventi che si dicevano frasi stereotipate. Si è accesa la lampadina: siamo degli pseudo scrittori in un contesto un tantinello medioevale, quindi perché non cercare di abbattere tutti gli stereotipi dai quali siamo circondati? Cambiamo il mondo. Ok, magari non esattamente IL MONDO, ma mettiamo le cose in chiaro, strappiamo queste inutili etichette.

Via, bando alle ciance, cominciamo.

Il primo stereotipo che voglio abbattere con l’inaugurazione di questa rubrica è quello secondo cui il taglio di capelli esplica per forza chi sei o chi non sei nella vita. Il taglio di capelli, il colore o l’acconciatura possono dare un input sul mio stile, ma niente di più. I punkabbestia hanno i capelli alti e con il gel fino al soffitto, gli emo il ciuffo davanti, le barbie la paglia bruciata. Sono stili, mode, correnti che vogliono un determinato modo di vestire, di fare.

E quindi, ecco le 5 cose che i capelli NON vogliono dire:

1-    Se sono un uomo ed ho i dreadlock posso essere o non essere un raggea. Questo non implica per forza che io sia un drogato o che io non sia una persona capace di intendere e volere. Magari sono un drogato, ma potrei anche essere laureato per quanto vi riguarda. Stessa cosa per le donne: non sono per forza un’eroinomane. E non sono una persona sporca, giuro. I dreads si lavano, semplicemente si usano shampoo che non siano schiumogeni. Un ragazzo italiano in erasmus a Madrid, signori a MADRID, non è stato fatto entrare in discoteca perché reputato PERICOLOSO solo per i suoi dreads.

 

2-    Se sono uomo ed ho i capelli lunghi, lunghissimi, non sono per forza un barbone o un poveraccio. No, veramente. Un mio collega se li dovette tagliare perché il professore era convinto venisse dalla Caritas. Vi è mai passato per la mente che sono semplicemente un pigro di pupù o un tirchio che si secca spendere soldi dal barbiere? Allo stesso tempo non vuol dire che io sia un selvaggio alla tarzan, padre natura o un artista bohèmien: magari sono solo un morto di fig…

 

 

3-    Passiamo alle gradazioni di colore. Se sono bionda non sono per forza stupida e oca, non sono una prostituta. Se ho i capelli biondi e gli occhi azzurri non sono un angelo misericordioso. Se sono castana e occhialuta non sono scontatamente intelligente come Rita Levi di Montalcini. Se sono mora e porto il rossetto rosso non ho velleità da bocca di rosa. Se sono con la mia amica bionda non siamo rispettivamente lei il bene e io il male. Se sono rossa non sono un irascibile e inaffidabile diavolo assetato di sangue e vendetta.

 

4-    Parliamo delle donne con i capelli a spazzola. Allora, che io abbia i capelli a spazzola non implica per forza la parola CANCRO. Anni fa una modella, tale Stefania Ferrario (potete trovare il video su youtube), dovette smentire la malattia mortale di cui si diceva fosse affetta sui social. Semplicemente lavoro, campagne di sensibilizzazione, i suoi gran c***i, le hanno fatto decidere di tagliarseli a zero. Similmente, un uomo con i capelli a zero non ha il cancro, non è un militare. Magari è semplicemente calvo, o magari no, magari vuole recuperare 10 minuti la mattina per dormire un altro po’.

 

5-    Dulcis in fundo, la categoria a cui tengo di più: le ragazze con i capelli corti. Tutte noi con i capelli corti siamo lesbiche. Ma, dio santo, perché mai questa idea malsana? Partendo dal presupposto che ognuno di noi è liberissimo di fare, sotto le proprie lenzuola o nel sedile posteriore dalla propria macchina, il cavolo che gli pare con chi e con cosa gli pare… Esattamente, i capelli, con tutto questo, cosa c’entrano? Me lo dovete spiegare. Perché una ragazza omosessuale, che magari ha dei meravigliosi capelli neri, ricci e lunghissimi, dovrebbe andare a tagliarsi i capelli a maschio giusto per fare sapere, A VOI, che è omosessuale? O, al contrario, perché una ragazza eterosessuale non dovrebbe andare a tagliare i propri capelli, magari rovinati da anni di piastra e cloro, solo perché, sempre VOI SIMPATICONI, andate a pensare che sia omosessuale? Io, veramente, non comprendo. Considerando che non possiamo girare con un cartello al collo con scritto ‘’MI PIACE IL PENE’’ (e, probabilmente, pensereste che lo usiamo solo per coprire, a maggior ragione, il nostro orientamento sessuale), potreste, ad esempio, pensare di rivalutare un po’ tutta la vostra mentalità? Un abbraccio.

 

 

Elena Anna Andronico

 

 

 

 

 

I giovani e i social: dall’Italia all’Europa

Si è tenuto martedì, presso il Dipartimento di Cività Antiche e Moderne, l’incontro organizzato dall’Associazione Universitaria Atreju che ha visto come protagonisti i giovani e i social.

Numerosi studenti hanno avuto modo di confrontarsi tra loro e con chi studia il fenomeno social da anni; sono stati presenti, infatti, la Prof.ssa Maria Grazia Sindoni e il Prof.Francesco Pira, entrambi docenti ell’Università di Messina ed esperti nell’ambito della comuniazione web 2.0.
Vari sono stati gli argomenti trattati dai due studiosi.

La Prof.ssa Sindoni ha fatto emergere la necessità dei nuovi utenti all’auto “sponsorizzazione”, cioè, dare una più realistica e buona impressione di sè. Basti pensare alle immagini profilo: chi mai metterebbe una foto in cui non si riconosce o in cui è venuto particolarmente male? Ma i canoni secondo cui avviene questo processo non sono dettati dal semplice gusto personale, è la società stessa, in modo indiretto, ad imporceli. Il nostro profilo diventa, così, la vetrina attraverso cui promuoviamo la nostra immagine. Questa vetrina, più oggi, che ai tempi di msn, pretende da noi la più completa trasparenza: impostiamo foto profilo che ci ritraggono, non ricorriamo ad avatar; usiamo il nostro nome, non più un nickname.

Trasparenza e fiducia ci permettono da un lato una maggiore sicurezza, ma dall’altro possono minare la nostra privacy; infatti, chiunque può accedere facilmente ai nostri dati personali.
“Il nostro problema non sono i social, ma la società che stiamo creando”, così il Prof. Pira risponde alla polemica secondo cui le nuove tecnologia stanno portanto alla caduta di valori e principi. Il docente parte dal presupposto secondo cui i social network non sono altro che il riflesso di noi stessi, siamo noi ad agire sul social. Il web 2.0 è una grande opportunità: dà largo spazio alla gente comune e permette strategie di marketing, politiche, comunicative che prima erano impensabili. Ma esiste il problema “ignoranza”: non sono molti coloro che lo sanno usare e, ancora meno, quelli che comprendono le responsabiltà che comporta il suo utilizzo.
Pira conclude dicendo: “Non facciamo dei social network un’arma di distruzione di massa, ma un’arma di costruzione di massa”.

Marta Picciotto