Civil War, tutto il dolore per un’amicizia distrutta… e Spiderman

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Succede, spesso, che due persone abbiano un incomprensione. Si può litigare, urlare, allontanarsi e nei casi più estremi arrivare alle mani. I motivi per litigare possono essere molteplici: cause esterne alla coppia, cause interne, incomprensioni o fraintendimenti.  Se sei un supereroe con la capacità di distruggere tutto e litighi con un altro supereroe che ha la stessa capacità, beh forse non finirà proprio bene. Sicuramente, sia per quanto riguarda i supereroi che per quanto riguarda le persone normali, tornare ad essere “amici come prima” è dura. Una cosa è sicura: da un litigio si può o uscirne più forti o non uscirne mai.

Captain America: Civil War si presenta proprio così. Un grosso litigio, una grossa incomprensione che non si sa come andrà a finire. Il film, che dovrebbe rappresentare il terzo della saga di Captain America, risulta essere un sequel dei film degli Avengers. I protagonisti assoluti sono Captain America e Iron Man ma il team degli Avengers è quasi al completo. Questo perché non ci troviamo semplicemente all’ennesimo sequel, ma al primo film che inaugura ufficialmente la terza fase cinematografica del Marvel Cinematic Universe. Infatti gli studios, di proprietà della Disney, ci hanno abituato nel corso degli anni a seguire con ansia tutti i film in uscita in quanto tutti collegati tra loro. Una grande scelta di marketing.

Proprio a proposito del marketing di casa Marvel quello che ha preceduto il film parlava piuttosto chiaro: #teamcap o #teamironman, tu da che parte stai? L’intento è stato subito quello di far schierare il pubblico. Sì, proprio come se tu fossi l’amico di una coppia che sta per disfarsi e sei tenuto a scegliere da che parte stare. Questa idea è stata assolutamente vincente facendo scatenare sul web le due fazioni contro, come se si stesse veramente combattendo una guerra civile. Però, fra tutte le guerre, questo tipo di contesa è quella che lascia di più l’amaro in bocca. Siamo sempre stati abituati a vedere i film con i supereroi che combattono il male. Nella guerra civile il male è difficile da identificare, quasi non c’è. Quando vedi due amici che lottano fino alla morte quello che desideri con tutto il cuore è che smettano di lottare e che torni tutto come prima. Ma non torna mai tutto come prima. Ripeto: ottima scelta di marketing, Marvel. Ci troviamo, così, inermi davanti a questa lotta. Le fazioni si sfaldano. Chi tifava per Iron Man o chi tifava per Captain America non ha più importanza: ci importa che tutto finisca.

Non si rimane indifferenti ad un film del genere. Rimaniamo travolti da una trama che prende così una svolta inaspettata e grazie anche al consolidamento e all’introduzione di nuovi personaggi. Molto convincente Black Panther che nel corso della pellicola sembra essere l’ago della bilancia della situazione. Per non parlare dell’entrata in scena mozzafiato. Però c’è da dire che tutti gli occhi erano puntati sul nuovo Spider-Man. Tom Holland, che interpreta il “bimbo-ragno”, si è dimostrato perfetto per la parte. In tutte le scene in cui è presente riesce a strappare un sorriso. È divertentissimo. Bello (magari da approfondire nel film di Spiderman che uscirà nel 2017) il rapporto con Tony Stark che diventa per lui come una figura paterna. Il loro primo incontro ci dà da subito l’impressione che con loro due non ci annoieremo facilmente anche grazie al grande feeling che sembrano avere Tom Holland e Robert Downey Jr.

Per i fan Marvel questo film rappresenta una spaccatura non da poco. I film che seguiranno saranno sicuramente molto interessanti. Ancora una volta la Marvel è riuscita a darci un valido motivo per continuare a guardare i suoi prodotti. Questo rende MOLTO felici loro ma anche a noi non dispiace.

Nicola Ripepi

Vinyl: l’epoca d’oro del rock secondo Mick Jagger e Martin Scorsese

 

La New York degli astri nascenti del punk e del rock and roll, gli ultimi bagliori di Elvis e della Factory di Andy Warhol, la vita notturna a Greenwich Village con David Bowie e i Velvet Underground, i concerti elitari della esordiente musica disco afroamericana, innovativa e destinata a un ruolo di primo piano negli anni a venire: l’epoca felice in cui l’industria discografica e le major che controllavano il mercato musicale erano all’apice del loro ingranaggio e le vendite dei vinili schizzavano come i giri infuocati della puntina sul piatto del giradischi. La fine degli anni ’60 e il principio degli anni ’70 rappresentano un periodo cruciale nella storia della musica; il rock di maniera si avviava ad estinguersi riducendosi a comparire tuttalpiù sulle copertine imbolsite di alcuni dischi in occasione delle compilation natalizie, mentre band come i New York Dolls mandavano in estasi il pubblico e venivano trasmesse nelle radio fuori dai confini americani.

Tutto questo e molto altro raccontano – o vorrebbero raccontare – le 10 puntate che compongono la prima serie di Vinyl, trasmesse in Italia su SkyAtlantic. L’obiettivo è senza dubbio ambizioso e non privo di rischi. Del resto quando l’ideatore della serie è l’interprete più famoso di quella generazione, ovvero Mick Jagger, e i registi e produttori sono Martin Scorsese e Terence Winter, il progetto non può che accendere grandi aspettative. Se poi il personaggio protagonista di fantasia è uno degli addetti ai lavori che si muovono con maggiore disinvoltura tra le opportunità e le insidie di questo ambiente fatto di statistiche commerciali e passione genuina, le possibilità di offrire una narrazione esaustiva accattivante di quegli anni sono servite.

Richie Finestra (l’attore di origine italiana Bobby Cannavale) è il presidente dell’American Century Records. L’industria musicale e i contatti con gli artisti, la ricerca dei gruppi da immettere sul mercato e costruire in alcuni casi a tavolino seguendo un’estetica mirata, costituiscono gli obiettivi dell’etichetta. Il precipizio della crisi finanziaria che potrebbe portare al licenziamento coatto degli impiegati e persino alla chiusura dell’American Century Records costringe nel corso degli episodi Richie Finestra e i suoi più stretti collaboratori a manovre politiche azzardate che vanno dalla proposta di vendita a un colosso tedesco, la Polygram, al coinvolgimento di esponenti senza scrupoli della mafia locale. Fa da sfondo la vita privata “normale” delle persone che gravitano intorno agli uffici: quella di Devon (Olivia Wilde), musa e modella di Andy Warhol prima di diventare la moglie di Richie, e di Jamie C. Vine (Juno Temple), giovane segretaria dell’etichetta che nutre aspirazioni come talent scout e che riesce a scritturare i Nasty Bits. Gli elementi originali di Vinyl sono presentati attraverso un filtro che descrive l’ascesa e il declino dei miti e che fa intravedere la condizione personale di fragilità nascosta dietro i riflettori. Le incursioni curatissime nel mondo della musica dei primi anni ‘70, con una colonna sonora ricca di canzoni che spaziano dai Led Zeppelin agli Slade fino ai cantanti blues, e la cura scrupolosa per la scenografia, il vestiario e la fotografia, contrastano con alcuni difetti nella sceneggiatura, che risulta a volte calante e non in grado di tenere alta l’attenzione dello spettatore con una trama ben strutturata in tutti gli episodi. Ci aspettiamo che queste carenze vengano colmate a partire dalla prossima stagione. Nel frattempo l’attesa è comunque abbondantemente ripagata grazie a un tuffo nel passato che nelle sue note e nei suoi colori sgargianti ci riporta con nostalgia agli anni migliori dell’industria culturale.

Eulalia Cambria

 

 

American Crime Story- The People Vs OJ Simpson: quando la TV fa luce su aspetti taciuti

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E’ arrivata in Italia, da quasi un mese, una storia che in America ha letteralmente fatto andare “blew people’s minds” cioè fuori di testa le persone : stiamo parlando di American Crime Story “The People vs OJ Simpson”.
La serie rientra nel genere antologico criminale e racconta il caso di cronaca nera che vede protagonisti l’ex giocatore di football OJ Simpson , l’ex moglie Nicole Brown e un cameriere di nome Ronald Goldman. Gli ultimi due furono trovati morti nel giugno del 1994 all’ingresso della casa di Nicole Brown.
Per una serie di prove trovate dai poliziotti nei dintorni della casa del giocatore questo fu il primo indagato. Il fatto iniziò ad avere grande risonanza mediatica, sopratutto quando fu emesso il mandato di arresto contro OJ e il giocatore, insieme a un amico, scappò sulla sua Ford Bronco in un inseguimento che divenne famosissimo. Una nazione si fermò: la finale della NBA fu trasmessa in un quadratino rispetto alle riprese delle macchine che correvano sulla interstatale 405.
Fu un caso storico sia a livello mediatico che di tematiche, anche se il primo ebbe più influenza. OJ Simpson era un uomo conosciuto, sia per lo sport che per l’interpretazione in “Una pallottola spuntata”,  amato da tutti e di colore per cui, inutile da dire, che la carta del “razzismo” fu immediatamente utilizzata. In quegli anni a Los Angeles scoppiarono rivolte su rivolte, soprattutto per i comportamenti violenti della polizia nei confronti degli afroamericani e il caso Rodney King.
E’ una miniserie che ricostruisce minuziosamente i fatti, il circolo mediatico costruito attorno, ma soprattutto il profilo psicologico dei protagonisti: era questo che il cast stellare voleva trasmettere.
Sarah Paulson (American Horror Story, 12 anni schiavo, Carol) interpreta la procuratrice Marcia Clark “con empatia e nelle sue diverse sfumature” (parole della stessa donna) la quale fu denigrata dai media più per il suo aspetto fisico e per la sua vita privata che per il lavoro compiuto. Era invisa dalla giuria perché appariva schietta e sicura di sé quando stava semplicemente portando avanti la sua tesi cioè che OJ Simpson fosse colpevole e dovesse andare in prigione.
Courtney B. Vance (Law & Order CI , Space Cowboys) interpreta eccelsamente l’inarrestabile John Cochran avvocato di punta del dream team dei difensori di OJ, il quale tenne il caso soprattutto per la questione razziale.
Poi abbiamo Cuba Gooding Jr ( Jerry Maguire, Qualcosa è cambiato, The Butler) nel difficile ruolo di OJ Simpson il quale ha affermato di aver interpretato la parte alternando la convinzione di essere colpevole a quella di innocente, ed il risultato è ottimo.
John Travolta e Robert Schwimmer (Friends, Madagascar) interpretano rispettivamente l’avvocato Robert Shapiro (famoso avvocato delle star) e Robert Kardashian migliore amico di OJ Simpson il quale alla fine abbandonerà l’amico perché convinto fosse colpevole.
L’hanno definito il processo del secolo e questa miniserie potrebbe entrare nella storia ugualmente per la linearità della scrittura, la bravura del cast che riesce a coinvolgere lo spettatore analizzando la psicologia dei personaggi , persone le quali, nella maggioranza, sono ancora vive e vegete ed hanno trascorso quei 9 mesi di processo sotto la lente di ingrandimento dei media, trattati come carne da macello per vendere più copie dei tabloid. L’obiettivo è quello di ricordare che al centro del processo vi è la morte di due persone innocenti, omicidio che passò quasi in secondo piano.
L’esperimento è sicuramente riuscito, 40 minuti di intrigante televisione e buona recitazione. La Paulson e Vance sono incredibili , soprattutto se si tiene conto della notizia che la prima abbia girato contemporaneamente American Crime Story ed American Horror Story Hotel, facendo comprendere appieno il calibro di questa attrice.
Quando vediamo opere televisive come questa ci frulla in testa una domanda venata di amarezza : perché in Italia non riusciamo a girare serie tv di questo livello ?
Arianna De Arcangelis

Derek, Meredith e Grey’s Anatomy: perché metterlo in play

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Ci sono serie tv e serie tv: drammatiche, ironiche, comiche, sanguinolente; corte, lunghe, che durano dai 20 ai 120 minuti.

Ma una serie tv, per tenerti davvero incollato alla sedia e farti perdere il senso del tempo e dello spazio, deve avere una trama coinvolgente e sconvolgente, una trama che ti lasci sempre con il fiato sospeso, almeno quel tanto che basta per dirti: ’’ok, dormirò in un altro momento’’ e farti così rimettere play sul tuo sito di streaming.

Una di queste serie è Grey’s Anatomy. Al bando gli scettici che dicono che è solo un’enorme cavolata, più lunga di Beautiful e troppo distante dalla realtà: quando inizi a guardarla non puoi più farne a meno. Io, da fan numero uno, sono riuscita a convertire un sacco di persone e a farle diventare tossicodipendenti da Grey’s Anatomy.

Grey’s Anatomy è una serie televisiva statunitense trasmessa dal 2005. È un medical drama incentrato sulla vita della dottoressa Meredith Grey, una tirocinante di chirurgia nell’immaginario Seattle Grace Hospital di Seattle. Il titolo di Grey’s Anatomy gioca sull’omofonia fra il cognome della protagonista, Meredith Grey, e Henry Gray, autore del celebre manuale medico di anatomia Gray’s Anatomy (Anatomia del Gray). Seattle Grace (poi Seattle Grace Mercy West e, ulteriormente, Grey Sloan Memorial Hospital) è invece il nome dell’ospedale nel quale si svolge la serie. I titoli dei singoli episodi sono spesso presi da una o più canzoni.

Tra personaggi che vanno e vengono, che nascono e muoiono, Grey’s Anatomy riesce a lasciare veramente un segno. Durante la progressione della trama, che si svolge in 12 stagioni per un totale di 268 episodi, ognuno di noi può trovare una citazione, una situazione, un momento in cui riconoscersi. Ed io, da studentessa in Medicina, posso dire che (a parte qualche caso assolutamente irreale) è anche molto vicina alla realtà medica. I gesti, i protocolli, il lessico, infatti, sono assolutamente presi dal campo.

Tutti conosciamo Meredith e Derek, sappiamo la loro storia d’amore e chi come me è da 11 anni che sta appresso a loro e ci ha perso cuore, lacrime e vita, sa che non sono solo ‘’Meredith e Derek’’: sono due personaggi pieni di umanità, che fanno e dicono cose che tutti noi abbiamo fatto e detto, anche e soprattutto le peggiori. È questo il segno che contraddistingue tutti i personaggi della serie, dal più importante al meno: l’umanità. Sono esseri umani a 360°, con i difetti e i pregi, con l’egoismo, i sogni, la cattiveria, la gentilezza, la bontà, la forza e la debolezza, le paure e il coraggio.

Ed, a parte l’intramontabile ‘’prendi me, scegli me, ama me’’, il sesso e la tequila, ci vuole poco a capire che Shonda Rimes (l’autrice) voleva andare oltre a tutto questo e insegnare ad accettare argomenti che ancora sono, per la società, tabù.

È una serie tv che vuole insegnare la speranza, il rischio e la speranza che può derivare dal rischio. Che non tutto è come sembra, che una coppia perfetta può spesso scoppiare ma questo non esclude il fatto che si può andare realmente avanti, a qualsiasi età. Che puoi sempre conoscere una persona, che essa sia maschio o femmina.

Vuole abbattere i muri dell’omofobia. Tra i personaggi principali abbiamo una coppia lesbica costituita da una donna omosessuale ed una bisessuale, vuole far capire alle persone che non c’è niente di strano nella transizione, che i transgender sono persone come noi in corpi nei quali stanno troppo stretti.

Vuole insegnare che non esistono barriere di tipo religioso, che la scienza e la religione possono coesistere e convivere, che essere ateo non è sinonimo di essere vuoto. Insegna il perdono, l’amicizia, la lealtà, la sana competizione e quella che ti porta a impazzire perché parte da basi sbagliate.

Tra gli argomenti principali troviamo anche temi molto attuali quali l’adozione e l’inseminazione artificiale. Viene anche approfondito l’argomento ‘’psicoterapia’’, cercando di trasmettere il messaggio che prendere consapevolezza dei propri problemi e affrontarli con qualcuno che può realmente aiutarti non è una vergogna ma un segno di coraggio.

E che, a prescindere da tutto, negli ospedali si fa tanto sesso e ci sono davvero tantissimi fighi e fighe.

Elena Anna Andronico

Sons of Anarchy, un affresco della vita criminale

 

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Quando verrà il momento, dovrà dire ai miei figli chi sono realmente. Non sono una brava persona. Sono un criminale e un assassino. I miei figli devono crescere odiando la mia memoria.

– Jax Teller

Ricetta per una buona serie Tv: storia interessante, personaggi convincenti e che sia tecnicamente godibile. Di solito, nell’approcciarmi ad una nuova serie, questi sono gli elementi base che mi convincono ad iniziarla o meno. Ma una serie è anche di più. Per convincermi nel proseguire la visione ci sono altri fattori chiave come possono essere le tematiche trattate, l’evoluzione dei personaggi e della trama orizzontale. Questo fa sì che il prodotto che ne esce fuori sia un capolavoro, come un bel quadro. Ecco, partendo da questa semplice premessa, parliamo un po’ di Sons of Anarchy, serie che ho sempre visto (superficialmente) con molta diffidenza.

La storia è ambientata a Charming, una fittizia cittadina della California. Le vicende girano intorno ad un club di motociclisti, appunto il Sons of Anarchy Motorcycle Club, Redwood Original (SAMCRO). I personaggi principali sono il giovane protagonista (Jax) e il patrigno presidente del club (Klay). Le vicende della storia girano per lo più intorno a loro due e intorno a personaggi femminili come Gemma che è sia la moglie di Klay che la madre di Jax e come Tara che è la ragazza di Jax che ha un rapporto di amore e odio con la suocera. Insomma una famiglia piuttosto incasinata. Il club è immischiato nel commercio illegale di armi ed in altre attività criminali. Nel corso delle stagioni vedremo i SAMCRO scontrarsi con altri club rivali, con i vari fornitori d’armi, con la polizia, i federali e con alcune forze politiche che vogliono far progredire la cittadina di Charming.

Una volta iniziata la storia ci rendiamo conto che Sons of Anarchy è molto più complessa di così. I personaggi sono caratterizzati alla perfezione, la loro evoluzione non è mai lasciata al caso. I rapporti che si creano tra di loro sono unici e ben differenziati. La trama orizzontale è credibile e colma di cliffhanger. Il livello recitativo è alto così come l’aspetto tecnico (regia, fotografia, ecc…). Una mezione particolare va fatta alla colonna sonora che accompagna la serie per tutte e sette le stagioni. Guardando Sons of Anarchy si ha una sicurezza: ogni episodio avrà una canzone straordinaria che renderà il tutto più epico.

Sons of Anarchy così nel corso delle stagioni si è rivelata non solo una semplice serie a tinte crime o gangster ma una storia capace di affrontare tematiche quali il rapporto tra padre e figlio, il concetto di famiglia, la moralità delle azioni commesse viste dal punto di vista di un criminale (consapevole di esserlo). Ci saranno personaggi che amerete e personaggi che vorrete morti. Ci saranno momenti emotivamente intensi e che vi faranno riflettere. Ci saranno momenti in cui non vorrete credere ai vostri occhi per come si evolve la vicenda e momenti che rimarranno impressi nella vostra mente, come le frasi diventate ormai un cult.

C’è, a mio avviso, un invisibile filo che collega il primo episodio della prima stagione al finale della serie. Questo filo è rappresentato dal rapporto che c’è tra un padre e un figlio. È il tema più affrontato in tutta la serie. Questo avviene tra Jax e Klay, i loro scontri sono sempre memorabili. Tra Jax e John Teller (padre biologico di Jax morto quando lui era piccolo), attraverso le lettere lasciate da quest’ultimo. Infine tra Jax e i suoi figli, ai quali vuole lasciare un futuro migliore. Ed in fondo è questo quello che mi fa scegliere di vedere una serie Tv e che mi convince a continuarla. Questo invisibile filo, tessuto alla perfezione dagli autori, che alla fine comporrà un bellissimo quadro. Una volta finita la visione vi potrete lentamente allontanare da questo quadro e, ammirandolo nel suo insieme, potrete apprezzare al meglio quel gran capolavoro che è.

Nicola Ripepi

Mettiamo in play Orange Is The New Black

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Se dovessi definire in una sola parola Orange Is The New Black? Eccezionale. Caro lettore, sicuramente dopo questa dichiarazione potrai subito pensare "Elisia sei sicura di non aver appena fatto un affermazione azzardata?". Probabilmente si! Ma adesso ti spiegherò subito perché la penso così. (Orange Is The New Black  è una serie televisiva statunitense tratta dal libro autobiografico scritto da Piper Kerman, trasmessa in streaming su Netflix, ideata da Jenji Kohan e prodotta da Lionsgate Television). Tale serie il cui titolo viene abbreviato come " OITNB" è ambientato in un carcere federale femminile, fino ad ora consta di tre stagioni, la data d'uscita della quarta stagione è stata resa nota solo di recente ( 17 giugno 2016).
 
Il tempo e le storie all'interno di ogni episodio sono ben distribuite, non assistiamo a "buchi" nella trama, sbavature o inutili forzature, tutto viene ben spiegato e scorre facendo si che, quei minuti che prima ti sarebbero sembrati infiniti, volino. Tra le modalità con cui vengono narrate le storie è frequente l'uso dei flashback (spesso anche ad inizio puntata), che diventano quasi il punto forte della serie: tramite questi noi conosciamo la storia dei personaggi coinvolti, non solo delle detenute ma anche di chi nel penitenziario ci lavora.

Nel momento in cui "mettiamo in play" noi non vediamo delle storie, viviamo le storie. Riusciamo a giustificare il reato commesso da un personaggio perché è umano. Perché è come noi. Questo tipo di emozione scaturisce dalla forte elaborazione del carattere, complesso, dei personaggi e delle loro storie. Carattere in continua evoluzione. Nulla è statico. Noi cambiamo con loro. E se fin da subito eravamo impazienti di sapere come e perché certi personaggi fossero in prigione, una volta divenuti parte di noi questo non ha più importanza. Conta chi erano e come sono adesso e chi potrebbero essere.

Come nella vita fuori dal carcere, dentro questo, assistiamo alla presenza di gruppi culturali diversi che si comportano come "grandi-piccole famiglie" con i loro disguidi, principi e regole. Definirei quasi affascinanti le dinamiche di interazione tra questi gruppi che hanno  bagni separati,  posti precisi a mensa e zone-notte ghettizzate. Un tema d'impatto è quello dell'omosessualità che riesce  ad eclissare,  per la maggioranza, quello che in realtà è il fulcro della trama. Gli autori decidono di trattare questo argomento, perché  attuale nel contesto delle carceri, insieme a quello della sessualità in genere in modo molto forte ed esplicito.
 
Entriamo a Litchfield con Piper Chupman, per poi conoscere tutte le altre detenute con il giusto ruolo e spazio all'interno della serie che, evolvendosi in modo sempre nuovo e sorprendente, rende tutte protagoniste.
 
E se tutti questi motivi non dovessero bastare,  se per caso qualcuno dovesse chiedervi perché abbiate cominciato a vederlo, potreste sempre rispondere "perché me lo ha consigliato Elisia".
 
Elisia Lo Schiavo

Boris. La Fuori serie italiana

Dal 26 Febbraio è in onda su Netflix Boris (La fuoriserie Italiana). Boris è una meta-serie, che racconta le imprese sul set de “Gli Occhi del Cuore”, classica fiction italiana di basso livello e piena di sentimentalismi. Il giovane Alessandro, entusiasta del suo lavoro come stagista, presto capirà che il mondo della tv è ben diverso da quello che si aspettava. Ogni personaggio del set incarna uno stereotipo delle serie tv italiane: Renè Ferretti, regista disilluso che si adatta a un metodo “a cazzo di cane”, Stanis La Rochelle, attore mediocre convinto di essere degno del cinema americano, Corinna Negri, attrice priva di talento che recita solo grazie al suo bell’aspetto, e l’aiuto regia Arianna Dell’Arti, l’unico personaggio pienamente positivo, che cerca sempre di sistemare tutti i problemi presenti sul set. Attorno a loro ruotano anche le vicende di una serie di personaggi minori, ma altrettanto grotteschi: Biascica, lo scontroso ed ignorante capo elettricista, Duccio, direttore della fotografia ormai diventato cocainomane, e Lorenzo, l’altro stagista, definito “lo schiavo” per il suo carattere sottomesso e remissivo. Attraverso varie peripezie, situazioni rocambolesche e trattative con attori folli e dalle strane pretese, in Boris si dipinge il mondo della tv ormai pieno di compromessi, di accordi con i potenti e di scene pessime girate solo per portare minuti a casa (“Minutaggio, dobbiamo fare minutaggio”, ripetuto spesso da Renè durante la serie). A rendere i personaggi quasi delle “maschere” della commedia italiana contribuiscono le varie citazioni attribuitegli e ricorrenti nel corso delle stagioni: “Cagna maledetta” (rivolto a Corinna) e “a cazzo di cane” sono gli emblemi della regia di Renè Ferretti, “smarmella” e “apri tutto” rappresentano le uniche tecniche applicate da Duccio per sistemare la fotografia ed infine “questa scena è troppo italiana”, pronunciata da Stanis in riferimento a scene per lui di bassa qualità. A dispetto del mondo che descrive, Boris è, invece, proprio la dimostrazione che il talento in Italia non manca e che anche con semplici scene ed un budget non troppo alto si può creare un progetto innovativo. E’ una serie da vedere in compagnia, ottima nei momenti di pausa studio/lavoro, che ti prende inizialmente per le risate ma che arriva a farti affezionare ai personaggi ed alle loro sorprendenti storie. Boris è questo e molto altro ancora, è la capacità suscitare un riso amaro, che, mentre ti distrae, ti fa anche riflettere sui problemi che offuscano la televisione italiana senza mai abbandonare la sua tipica sottile ironia. Il tocco di classe in più è sicuramente la sigla affidata a “Elio e le storie tese”, che ben presto vi ritroverete a cantare senza nemmeno pensarci! Perciò, non vi resta che dare una possibilità a questa serie e prepararvi a guardare oltre la sua semplice comicità.

 

 Edvige Attivissimo