Amore, morte e animazione. Il secondo volume della serie

In “Love, Death + Robots 2 “spicca la creatività dei disegnatori, un po’ meno l’originalità delle storie – Voto UVM: 3/5

Il secondo volume di Love Death + Robots ci presenta un’altra serie di corti d’animazione, legati tra loro solo dalla voglia di sperimentazione. Come nella prima parte, anche qui Netflix ha deciso di dare agli animatori l’unico compito di sfogare al meglio le proprie doti creative, proponendo agli abbonati un mix in molti casi interessante di tematiche e stili.

I corti spiccano più per la resa artistica che per un lavoro di caratterizzazione su personaggi, ambientazione o trama, che molto spesso risulta quasi essere nient’altro che un contorno ad un lavoro ben più ampio.

Ma andiamo a vedere nel dettaglio cosa la serie comunica allo spettatore…

I corti

Come già detto, dalla visione dei corti risulta subito evidente come l’arte al loro interno risulti l’elemento predominante: uno degli esempi migliori di ciò è il corto Giaccio dove vediamo un lavoro che mette in secondo piano il rispetto per le proporzioni e per una resa realistica e dove il risalto viene dato al dinamismo e all’azione. L’animazione viene qui sfruttata per proporre un’ambientazione lontana e quasi claustrofobica in cui la terra non è più il solo posto in cui vivere e in cui la razza umana è progredita attraverso vere e proprie modifiche genetiche che permettono agli abitanti del nuovo pianeta di affrontarne il clima rigido.

Un altro esempio di totale sfogo creativo è il corto Era la notte prima di Natale dove il citazionismo la fa da padrone e si riesce con pochissime mosse ad inquietare e a divertire con un uso intelligente delle tematiche e a  creare un contrasto che risulta sicuramente azzeccato: il natale non viene qui visto come siamo soliti vederlo.

Se questi sono però gli esempi migliori di lavoro artistico, abbiamo in molti altri casi un lavoro sulle ambientazioni che attinge a piene mani dalle grandi opere fantascientifiche e che potrebbe portare molti velocemente alla noia e al disinteresse, visto l’uso di situazioni già viste se non di scene pescate – senza troppa fantasia – a pie pari da opere come Star Wars: la scena iniziale del corto Snow nel deserto, pur essendo un tributo ad una scena iconica del primo storico film della saga, risulta esserne un’imitazione fin troppo vicina all’originale.

Michael B. Jordan in “La cabina di sopravvivenza”. Fonte: readysteadycut.com

C’è da dire che il budget altissimo di Netflix ha comunque portato ad una realizzazione tecnica dei volti e delle ambientazioni che sfiora il fotorealismo. Nel corto sopra citato o ne La cabina di sopravvivenza il lavoro tecnico aiuta senz’altro con l’espressività degli attori: Michael B. Jordan, che presta il volto al protagonista nel secondo corto, è riuscito ad esprimersi a pieno e l’impressione che ha lo spettatore non è quella di un semplice modello 3D animato con una sessione di motion capture, ma quella di una vera e propria performance attoriale in tutto e per tutto. Aiuta poi il focus totale sul protagonista ritratto molto da vicino nel tentativo di salvarsi dal pericolo.

Passando degli altri corti, Servizio clienti automatico e Pop squad raccontano entrambi, ma in maniera opposta, di un futuro distopico riuscendo solo in parte a narrare qualcosa di diverso da ciò a cui si ispirano . Il primo parla in maniera scherzosa di un futuro in cui l’uomo è completamente schiavo delle macchine e della pigrizia, macchine che però diventano pericolose nel momento in cui si ribellano. Anche qui una storia raccontata già da molti altri che cerca comunque con un po’ di comicità e con uno stile caricaturale, di risultare divertente per chi guarda. L’altro corto racconta invece di una società di immortali in cui viene considerato un crimine portare alla luce un figlio: i dubbi del protagonista, che si ritrova a dover far rispettare tale legge, portano avanti una trama con fortissime tinte noir.

L’ultimo corto si discosta parecchio dagli altri: parliamo de Il gigante affogato. Uno studioso universitario si ritrova a dover studiare il corpo di un essere umano colossale ritrovato spiaggiato come una creatura marina. Osserviamo da vicino entrambi i protagonisti mentre col passare dei giorni lo studioso entra sempre più in confidenza con l’oggetto dei suoi studi e descrive tutte le emozioni che gli suscita la sua analisi.

“Era la notte prima di Natale. “Fonte: Netflix

Mettendo tutto assieme…

Il secondo volume di questa antologia risulta alla fine essere un semplice utilizzo di un evidente talento artistico degli animatori a cui, forse per scelta, si è deciso di non affiancare uno studio attento sulla trama e sui personaggi. Qualcosa che forse serviva ma che evidentemente non è stata messa totalmente a fuoco dai suoi creatori.

Quello che di buono c’è, è comunque tanto e si può stare tranquilli che anche il volume 3, già annunciato da Netflix, ci assicurerà una grande varietà d’idee ed emozioni.

 

Matteo Mangano

Speciale di Natale: 5 film e serie TV (più un libro) per passare al meglio le festività

Una cosa è sicura: quest’anno sarà un Natale diverso dal solito. Ma come trovare il giusto spirito natalizio? Sicuramente un film, una serie TV o un libro potrebbero aiutare (sopratutto se a tema).

Ne abbiamo scelti alcuni per voi, tra quelli più nuovi e adatti a tutti i tipi di età.

Holidate

Questo film originale Netflix, uscito nel 2020, è una commedia romantica di John Whitesell con attori protagonisti Emma Roberts (Sloane) e Luke Bracey (Jackson). 

Fonte: netflix.com

Sloane è una ragazza single che viene assillata dai propri parenti affinché trovi un fidanzato ufficiale così da non essere sola per le feste; prenderà in esempio lo stratagemma usato dalla zia: il festa-amico, cioè uno sconosciuto che la accompagni alle feste in famiglia. Sloane incontra in un centro commerciale Jackson, anche lui alla ricerca di stratagemmi per non passare le feste da solo, come organizzare appuntamenti al buio. In fila per restituire dei regali di Natale si conosceranno e si racconteranno le proprie vicende disastrose, decideranno così di diventare festa-amici. Cosa accadrà?

Jingle Jangle – Un’avventura Natalizia

Jingle Jangle è un musical – fantasy con attori protagonisti Forest Whitaker (Jeronicus Jangle) e Madalen Mills (Journey), diretto da David E. Talbert e distribuito da Netflix.

Fonte: spettacolo.periodicodaily.com

E’ ambientato nella cittadina di Cobbleton, in cui vive Jeronicus Jangle con tutta la sua famiglia; è un famoso giocattolaio dalle magiche invenzioni che avrà dei problemi con il suo giovane apprendista. Infatti questo lo tradirà rubandogli la sua creazione più grande insieme al libro che custodiva i segreti delle sue creazioni. A salvare la situazione ci sarà la nipotina Journey, questa farà ritrovare la speranza al nonno e riuscirà a salvarlo dalla situazione grazie ad una vecchia invenzione da lui dimenticata. Ma niente sarà facile!

Krampus – Natale non è sempre Natale

Questo film dell’Universal Pictures, uscito nel 2015, è una commedia – horror che vede alcuni attori come Toni Collette (Sarah Engel) e Adam Scott (Tom Engel) e come regista Michael Dougherty.

Fonte: themacguffin.it

Mancano pochi giorni al Natale e tutta la famiglia si riunisce. Max, figlio di Sarah e Tom, crede in Babbo Natale e vorrebbe che in famiglia ci fosse lo spirito natalizio che invece manca. Durante una cena le cugine di Max leggono ad alta voce – e davanti a tutti – la lettera da lui scritta per Babbo Natale, provocando così uno scatto d’ira che lo porta ad urlare di odiare il Natale, strappando la lettera. Improvvisamente una bufera di neve causa un blackout; strani esseri iniziano ad invadere la casa attaccando i membri della famiglia, ma ancor peggio, arriverà il Krampus, un demone che punisce chi perde lo spirito del Natale. Riuscirà la famiglia a salvarsi da lui ed i suoi mostruosi scagnozzi?

Klaus – I segreti del Natale

Film d’animazione e avventura spagnolo di Sergio Pablos, distribuito da Netflix, uscito nel 2019 con un cast di voci (nella versione italiana) che comprende Francesco Pannofino (Klaus) e Marco Mengoni (Jesper).

Fonte: nerdevil.it

Jesper, figlio di un ricco padre esperto nel mercato postale, è incapace di compiere il lavoro da postino; così viene spedito dal padre nella piccola cittadina di Smeerensburg, un’isola deserta e ghiacciata, con il compito di consegnare 6000 lettere in un anno. Con gli abitanti divisi in due fazioni, da sempre in lotta tra loro, non è un’impresa facile. Nel corso della missione si imbatte in Klaus, un vecchio falegname con una casa isolata e piena di giocattoli (da lui creati) e in Alva, una maestra che vendendo pesce fa di tutto per risparmiare per andare via da lì. Klaus, vedendo un disegno fatto da un bambino triste, inizia insieme a Jesper la consegna di regali a tutti i bambini che attraverso le loro lettere chiedono la felicità. Cosa combineranno?

Nailed It / Sugar Rush 

Serie TV statunitensi trasmesse su Netflix dal 2018/19. Delle tanti edizioni e da numerosi Paesi troviamo anche le edizioni dedicate al Natale!

Fonte: news.newonnetflix.info 

Dei pasticceri, principianti e non, si sfideranno ai fornelli per aggiudicarsi il premio di 10’000$. A giudicare le loro preparazioni un team di giudici esperti. Ne combineranno delle belle!

La preghiera di un passero che vuol fare il nido sull’albero di Natale

Avete presente quando fuori fa molto freddo e le braci sono quasi spente? Ebbene, ecco un ciocco di legno per ravvivare il fuoco del caminetto!

 Fonte: fotografia di Rita Gaia Asti

La preghiera di un passero che vuol fare il nido sull’albero di Natale è una poesia di Gianni Rodari, edita da Einaudi Ragazzi e tratta da Il secondo libro delle filastrocche del 1985.
L’autore – insignito del premio Hans Christian Andersen per la narrativa per l’infanzia – racconta la storia di un passerotto infreddolito che scorge dal davanzale di una finestra una famiglia in procinto di fare l’albero di Natale. La invita quindi a lasciarlo entrare, perché possa non solo fare il nido sul loro abete e scaldarsi, ma anche dare gioia ai più piccoli di casa, che apprenderanno l’importanza di accogliere e proteggere anche la più piccola tra le creature viventi:

E per il vostro bambino
pensate domani che gioia

trovare tra i doni, dietro
una mezzaluna di latta,
fra la neve d’ovatta
e la rugiada di vetro.

Trovare un passero vero,
con un cuore vero nel petto

E’ una lettura adatta al periodo natalizio, accompagnata da illustrazioni gradevoli, capace di rasserenare l’animo e scaldare il cuore di grandi e piccini; particolarmente indicata per quei momenti di sconforto nei quali si avverte l’esigenza di alleviare le preoccupazioni.

                                                                                                                                                                                              Samuele Vita e Rita Gaia Asti

Luci e ombre de “La regina degli scacchi”: è davvero la serie rivelazione dell’anno?

Voto UVM: 3/5

Miniserie in 7 episodi uscita il 23 ottobre, scritta e diretta da Scott Frank e ispirata al romanzo “The Queen’s Gambit” di Walter Tevis, La regina degli scacchi è la produzione Netflix più chiacchierata ed esaltata da un mese a questa parte. Ma è davvero la rivelazione di cui tutti parlano?

La trama

Tra gli anni ’50 e ’60, Beth Harmon (Anya Taylor-Joy), rimasta orfana di entrambi i genitori, riuscirà a riscattarsi puntando tutto sulla passione per gli scacchi, hobby insolito per una donna dell’epoca. La serie ripercorre la sua storia partendo dalla infanzia tra luci e ombre nell’orfanotrofio: qui inizierà ad assumere tranquillanti, ma farà anche l’incontro decisivo della sua vita con il custode Shaibel (Bill Camp). Sarà lui a farle scoprire il “mondo racchiuso nelle 64 case” della scacchiera.

La piccola Beth assieme al custode Sheibel, figura centrale nella sua formazione. Fonte: AdHoc News Quotidiano.it

Il personaggio

Beth, bambina prodigio e poi affascinante regina degli scacchi, è un personaggio enigmatico e spigoloso, con cui lo spettatore fa fatica a simpatizzare: la sua è un’esistenza al di là del comune, sempre in bilico sugli estremi del successo e della tragedia, proprio come il bianco e il nero che si alternano sulla sua amata scacchiera. E poi c’è anche la personalità: determinata quasi sino alla presunzione, distaccata e composta, caparbia e restia ad accettare la sconfitta; Beth sembra crollare solo assieme alla torre nei rari casi in cui perde una partita e scomporsi poco invece di fronte agli altri drammi della vita.

Ma l’apparenza inganna: la rabbia che si porta dentro, come la avverte il suo mentore Shaibel, è invece tanta ed è proprio questa che la spinge ad avanzare verso la vittoria e a imporsi ai nostri occhi come un’icona di femminilità anche in un mondo prevalentemente maschile come quello degli scacchi.

Beth di fronte al campione internazionale Borgov (Marcin Dorociński). Fonte: telefilm-central.org

Da goffo anatroccolo bullizzato alla High School, Beth si trasforma in un elegante e seducente cigno. Questo tuttavia non porrà fine alla sua solitudine: la Harmon, come qualsiasi eroe, resta in un mondo a parte ed è per questo che immedesimarsi nel suo punto di vista è difficile. Desta forse più simpatia (per quanto personaggio meno centrale) la madre adottiva Alma, con la sue crisi quotidiane tra alcool e Chesterfield e la smania di vivere il qui e ora, in quanto è «l’unica cosa che conta».

Tuttavia la determinazione di Beth nel perseguire l’obiettivo di diventare Gran Maestro degli Scacchi può essere di grande esempio in un’epoca come la nostra, in cui gli stimoli più disparati distraggono facilmente i giovani dalle loro vocazioni più profonde. Insomma un invito a premere sull’acceleratore del nostro talento, rivolto a noi ragazze (e non solo).

Mosse vincenti

Ci sbagliamo però se vediamo nell’emancipazione femminile la chiave per cogliere l’originalità della serie.

Dal grande cinema alle fiction Rai, le sceneggiature abbondano da tempo di storie di riscatto che hanno per protagonista una donna. L’originalità di The queen’s gambit (questo il titolo originale della miniserie che è anche il nome di una celebre mossa scacchistica: il gambetto di donna ) sta però nel calare questo racconto verosimile di rivalsa femminile in un mondo sconosciuto ai più: gli scacchi, gioco spesso considerato noioso e d’élite e rare volte oggetto di romanzi, film e tantomeno serie di successo.

Il montaggio racconta gli scacchi come un gioco di magiche armonie: i pezzi si muovono guidati dalle mani di Beth come se danzassero e l’ombra della scacchiera appare alla piccola protagonista sul soffitto quasi come in un incantesimo. Ma la mossa sicuramente più riuscita e che sicuramente ha fatto più gola agli spettatori è l’ambientazione d’epoca: il meglio degli anni ’50 e ’60 rivive nella colonna sonora che vanta nomi del calibro di Peggy Lee, The Monkees, Donovan, nei colori pastello della scenografia, ma soprattutto nell’eleganza dei vestiti creati su misura dalla costumista Garbiele Binder.

Beth Harmon in look total white. L’outfit è un chiaro rifermento alla Regina Bianca degli scacchi. Fonte: vogue.it

Altra gioia per gli occhi: la fotografia. Soprattutto nel primo episodio i colori fanno da contraltare al vissuto della protagonista: gli ambienti dell’orfanotrofio sono opachi e freddi; fa eccezione la camera del custode illuminata da una più confortante luce calda: è lì che Beth sarà folgorata dalla scacchiera.

Forzature

Sapevate che il compianto Heath Ledger voleva girare un film basato su “The queen’s gambit”? Un vero peccato che il progetto non sia andato in porto: i tempi più concisi del cinema avrebbero permesso di concentrare una trama che, distribuita invece su 7 episodi, stenta a decollare, rivelandosi a tratti lenta e poco avvincente. Anche l’intreccio è piuttosto monotono: la vita di Beth prosegue tra una vittoria e l’altra mentre alcuni eventi più personali spesso rimangono solo sullo sfondo o vengono narrati con poco coinvolgimento. Altro scoglio che può scoraggiare lo spettatore sono i dialoghi che indugiano troppo sul lessico scacchistico e rischiano di annoiare i più profani del gioco.

Scacco matto

Anya Taylor-Joy (Beth Harmon) davanti alla scacchiera. Fonte: nospoiler.it

La vera rivelazione della serie è invece Anya Taylor Joy nei panni della protagonista: è lei a reggere il gioco comunicando con lo sguardo e la mimica per creare un personaggio intrigante, ma anche impenetrabile e sui generis. Ci auguriamo di rivederla presto anche sul grande schermo: la sua performance posata e allo stesso tempo decisa è perfetta per trame gangster e thriller di tutto rispetto.

 

Angelica Rocca

 

Consigli per Halloween: film e serie TV per sopravvivere alla notte delle streghe

La notte delle streghe è arrivata.

Questo 2020 fa molta paura già di suo, ma inevitabilmente anche quest’anno ci tocca affrontare la notte di Halloween.

Abbiamo scelto pertanto di non parlare dei più spaventosi film horror della storia, come li ha definiti uno studio pubblicato da poco. Andremo invece ad analizzare film e serie TV che rendono giustizia a questa festa anche se non suscitano vero e proprio terrore durante la visione.

Halloween – La notte delle streghe (1978) di John Carpenter

Un film che all’epoca in cui uscì scatenò una paura frenetica negli spettatori. Ad oggi difficilmente potrebbe terrorizzare qualcuno, tuttavia resta il capostipite assoluto dei cosiddetti slasher movies (genere di film in cui un uomo mascherato uccide solitamente un gruppo di adolescenti).

Il film è ambientato nella città di Haddonfield, divenuta una vera e propria icona di questa festa.

Laurie Strode (Jamie Lee Curtis) conduce una vita abbastanza tranquilla fino a quanto uno strano uomo mascherato non comincerà a perseguitarla. Si tratta proprio del crudele Michael Myers (Nick Castle); il criminale che, 15 anni prima, proprio nella notte di Halloween, aveva ucciso la sorella maggiore Judith.

Viene quindi arrestato e trasferito in un ospedale psichiatrico dove è sottoposto alle cure del dottor Sam Loomis (Donald Pleasence). Il medico tuttavia dopo qualche anno decide di non curare più il paziente in quanto ritiene che sia il male fatto persona.

Quest’anno però Michael è riuscito a scappare dal manicomio ed è pronto ad effettuare una carneficina.

Michael Myers leggermente arrabbiato – Fonte: noidegli8090.com

Il film con un budget di 300.000 dollari, in soli 20 giorni ne incassò 70 milioni.

Oltre la trama, ciò che rende questa pellicola un capolavoro dell’orrore è sicuramente la celebre ed inquietante colonna sonora ideata dallo stesso John Carpenter. Straordinarie anche le tecniche di ripresa messe in pratica dal regista, mediante le quali riesce ad alimentare una forte tensione (utilizzate ancora oggi nei più famosi film horror).

Halloween – La notte delle streghe conta la bellezza di 9 sequel e di un prequel, ha dato perciò origine ad una vera e propria saga.

Nightmare before Christmas (1993), Henry Selick

Film realizzato in stop-motion diretto da Henry Selick, ideato e prodotto da Tim Burton. Per i bambini, ma non solo, si tratta di una delle pellicole migliori da vedere nella notte di Halloween (volendo anche a Natale).

Il film narra la storia di Jack Skeletron: uno scheletro molto amato nel Paese di Halloween (il mondo cui vive) dove riveste il ruolo del re delle zucche.

Jack Skeletron in una scena del film – Fonte: ohmy.disney.com

Dopo i festeggiamenti del 31 Ottobre, questa volta Jack è infelice. Si ritrova immerso in uno stato di insoddisfazione personale e comincia a camminare nel bosco per meditare. Ad un certo punto si ritrova davanti ad una serie di alberi di cui ognuno ha disegnato rispettivamente il simbolo di una festa. Jack decide di aprire quella che lo catapulterà nel regno del Natale. Attratto dalle luci, dai regali e dalla figura di Babbo Nachele si innamora perdutamente di questa festa.

Tornato infatti nel suo regno natio è deciso a voler festeggiare il Natale, anche se in un modo del tutto suo, incontrando non poche avversità.

Il film (considerando il periodo in cui uscì) era molto all’avanguardia nell’utilizzo degli effetti speciali. Venne infatti candidato agli Oscar del 1994 nella rispettiva categoria; la scenografia e le musiche sono altri punti di forza.

Le gotiche e tenebrose ambientazioni creano una perfetta atmosfera burtoniana ed enfatizzano esponenzialmente lo stile orrido della pellicola; mentre le canzoni orecchiabili vengono adoperate perfettamente per narrare il racconto ed introdurre nuovi personaggi.

The Hauntig of Hill House/Bly Manor (2018, 2020), Mike Flanagan

La serie tv che vi consigliamo è in realtà un “doppio titolo”: dopo la prima stagione di successo, la serie antologica The Haunting fa il bis con l’attesissima seconda stagione. Pur avendo alcuni punti in comune, tra cast e il topos classico della casa, le due stagioni presentano trame completamente differenti.

Hill House è la casa infestata più famosa degli USA: i fratelli Steve, Shirley, Theo, Nell e Luke Crain si troveranno ad affrontare nuovamente i fantasmi del passato, dopo essere cresciuti nella villa fino a un tragico avvenimento che li ha fatti disperdere in giro per il paese. Di nuovo riuniti (e sempre in occasione di un evento grave) i ricordi d’infanzia si mescoleranno con il presente, in 10 puntate da guardare tutte d’un fiato.

Da sinistra a destra: Theo (Kate Siegel), Steve (Michiel Huisman). Nell (Victoria Pedretti), Luke (Oliver-Jackson Coen) e Shirley (Elizabeth Reasel) di fronte ad Hill House- Fonte: netflix.it

Nella seconda stagione, un lungo flashback dell’educatrice americana Dannielle “Dani” Clayton ci porta nell’Inghilterra di fine anni ’80: la giovane viene assunta da Lord Henry Wingrave per fare da istitutrice ai due nipoti, residenti a Bly Manor. I bambini hanno infatti vissuto una duplice esperienza traumatica, legata alla grande villa in campagna, che ha influito pesantemente sui delicati anni dell’infanzia. La strada per convivere con i bambini e con Bly Manor si rivelerà piena di ostacoli per Dani, che però non si arrenderà facilmente.

Da sinistra a destra: Flora Wingrave (Amelia Bea Smith), Dani (Victoria Pedretti), Miles Wingrave (Benjamin Evan Ainsworth) – Fonte: universalmovies.com

Pur suscitando paura in alcune scene, la vera forza di questa serie risiede nella trama, nei dialoghi e nella caratterizzazione dei personaggi, che avvolgono completamente lo spettatore nelle difficili vite dei protagonisti, facendoli sentire realmente parte dei fatti narrati. Tutte rarità nel panorama horror ordinario.

Non vi resta che mettervi comodi e seguire i nostri consigli per questa notte di Halloween: spesso è difficile trovare qualità nel genere horror, ma siamo certi che l’enorme mole di pellicole e serie tv prodotte saprà tenervi la giusta compagnia.

 

Vincenzo Barbera, Emanuele Chiara

 

Immagine in evidenza: casalenews.it

È messinese il protagonista della serie ZeroZeroZero. In esclusiva Giuseppe De Domenico

Quella di ZeroZeroZero è un’operazione ambiziosa pronta a stupire e sconvolgere. In onda da venerdì 14 febbraio su Sky Atlantic, la nuova serie sul mondo del narcotraffico è tratta dall’omonimo romanzo di Roberto Saviano e diretta da Stefano Sollima, il rinomato regista italiano già autore di serie di successo come Romanzo Criminale, Gomorra ed il film Suburra. Tre continenti, cinque paesi, sei lingue, diecimila comparse e una troupe da più di mille persone per realizzare otto episodi.

Unico protagonista italiano è il giovane talento messinese Giuseppe De Domenico, che nella serie interpreta l’ambizioso e scalpitante Stefano La Piana. L’ho incontrato nella nostra Messina, al suo ritorno dal Festival del Cinema di Venezia, dove sono stati presentati i primi due episodi in anteprima mondiale. Mi ha raccontato del suo percorso, delle difficoltà incontrate e superate. Abbiamo parlato per ore, davanti ad una buona granita.

©GettyImages , Giuseppe alla 76esima edizione del Festival del Cinema di Venezia – 2019

Il Festival di Venezia è stato per te il primo grande momento di rivelazione al pubblico. La serie è stata accolta molto positivamente e ci si aspetta un successo internazionale. Come hai vissuto quei giorni?

A Venezia sono stati tre giorni di emozioni del tutto nuove per me. Il 4 settembre, a cena, ho conosciuto Roberto Saviano, per me figura iconica del nostro Paese nel mondo. E’ stato strano perché mi ci sono avvicinato per presentarmi ma lui mi ha battuto sul tempo: “Ciao! Tu devi essere Giuseppe!”. Mi ha sorpreso. Ovviamente mi conosceva perché ha scritto anche lui il mio personaggio. In una situazione del genere, in quel mondo così nuovo per me, mi ha fatto sentire un po’ più a mio agio.

©GettyImages , Giuseppe alla 76esima edizione del Festival del Cinema di Venezia – 2019

Eppure hai iniziato a recitare in teatro. C’è stato qualcosa che ti ha fatto innamorare del mondo della recitazione?

A dire il vero no. Ho iniziato quando ero molto piccolo con mio padre, che scriveva dei piccoli sceneggiati amatoriali. La recitazione è entrata a far parte della mia vita con estrema naturalezza. Quando mi sono iscritto alla Facoltà di Ingegneria ho capito però che non avrei potuto fare entrambe le cose. Quella strada che avevo intrapreso mi chiedeva un distacco netto tra mente e passione. Sentivo l’esigenza di ricercare e coltivare la mia emotività. Così ho abbandonato gli studi per dedicarmi al teatro.

Insomma, una scommessa di vita! E’ stata una scelta difficile?

In realtà, una volta capito che non volevo continuare, mi sono detto “Basta, io vado a Roma”. Sono fatto così: nel bene e nel male, quando capisco che qualcosa non va bene per me, la mollo e mi butto a capofitto in altro. A Roma ho studiato presso una scuola privata. Dopo il primo anno da entusiasta, ho capito che quell’approccio, quel metodo di studio, non era giusto per me, avevo bisogno di altro. Quindi ho fatto la rinuncia agli studi e a Luglio ho lasciato Roma e sono tornato a casa. A Settembre ho partecipato alle selezioni per il Teatro Stabile di Genova, ed in questo caso non avrei avuto piani B. Credo di essere stato un po’ incosciente, ma sono stati due mesi di pura adrenalina.

©DaniloCurrò – Messina, Gennaio 2020

Qual è stato, poi, il tuo percorso all’interno del Teatro Stabile di Genova?

Sono andato a Genova convinto a proseguire nel teatro. Durante quel periodo però ho incontrato una persona incredibile, Anna Laura Messeri, una pedagoga. E’ stata lei a farmi fare uno switch nel mio percorso. In quei due anni e mezzo mi ha fatto capire qual era la mia naturale tendenza recitativa, che non si sposava più con il teatro, come credevo all’inizio.

Dal momento in cui hai deciso di cambiare, come sei riuscito ad entrare nel mondo del cinema?

Ho inviato il curriculum a circa 20 agenzie: 19 non mi hanno nemmeno risposto, una sola si è mostrata interessata. Dopo diversi colloqui ed esami mi hanno preso. La vita di un attore è così, un costante mettersi alla prova del giudizio altrui.

E poi come fai ad ottenere una parte in un film?

Fai provini su provini. Nel mio caso magari pensi che, avendo avuto questo ruolo io abbia alle spalle una carriera di successi. Questo, in realtà, è il secondo “SI” della mia carriera. Avrò fatto in totale 60 provini e ho ricevuto 58 no. Devi sempre fare i conti con il rifiuto: nel 97% dei casi prendi un “no” e quindi passi interi mesi completamente solo, senza un soldo. Ma ciò che è veramente difficile è che, in questa situazione di disagio emotivo e di insicurezza economica, devi rimanere lucido e pronto per un’ eventuale chiamata, pronto a convincere la produzione del caso che sei la persona giusta per quel ruolo.

©DaniloCurrò – Messina, Gennaio 2020

Dopo tutti questi rifiuti sarebbe davvero facile mollare. Mi chiedo, a questo punto, dove trovi la motivazione e la forza di andare avanti dopo tutti questi “NO”.

Quando ti arriva un “SI” e fai quell’esperienza lavorativa costruisci un ricordo che ti spinge ad andare avanti sempre. Fare della tua passione un mestiere ti infonde una sensazione di benessere che è totalizzante. Capisci di essere in possesso di qualcosa di raro, qualcosa che vuoi proteggere e vivere per sempre. Anche io però, in quanto artista, devo fare selezione tra le varie offerte che possono arrivare. La carriera si fonda anche su tutti i “no” che riesci a dire tu, oltre ai “no” che ti diranno gli altri. 

In che senso?

Se sei disponibile ad accettare tutto, il tuo percorso è quantitativo. Magari lavori tantissimo, hai soldi e sei famoso, ma non stai raccontando nulla. Se invece riesci ad essere anche tu selettivo nelle scelte che prendi, sai di stare aspettando l’occasione giusta per raccontare qualcosa e dare valore a ciò che fai.

©GettyImages , Giuseppe alla 76esima edizione del Festival del Cinema di Venezia – 2019

Andiamo ora su qualche domanda più classica. Come sei stato scelto per questo ruolo?

Prima del mio provino ho deciso di passare una settimana qua a Messina, per fare un carico di “meridionalità”. Ho anche fatto un giro con un amico in determinati quartieri periferici della città, per conoscere e parlare con le persone del posto. Ho fatto un carico di espressioni, mi hanno colpito gli sguardi, i tempi delle frasi, la diffidenza. Sono questi dettagli che poi riescono a fare la differenza.

Raccontami del provino allora…

Ho recitato di fronte a Laura Muccino, che mi ha fatto riprovare la stessa scena per 12 volte, ma sempre con dei piccoli accorgimenti. Non smetterò mai di ringraziarla perché ha visto in me il potenziale ed è riuscita a farlo emergere. Poi ho fatto il provino con il regista, Stefano Sollima, e la produzione, Cattleya.

Eri intimorito da questi nomi così importanti nel mondo cinematografico?

Ero molto concentrato. Non mi sono concesso la possibilità di pensare cosa stessi facendo. Loro erano più consapevoli di me della grandezza del progetto, per fortuna!

Frame tratto dal trailer della serie “ZeroZeroZero”

Beh, alla fine però li hai convinti!

Non subito. Si preoccupavano del fatto che io fossi troppo “giovane” perché non avevo mai avuto un ruolo da protagonista, temevano che non fossi ancora pronto. Così l’ultimo provino è stato una vera e propria prova di forza, fisica e psicologica.

Sono tutto orecchie…

Un giovedì sera, alle 21, mi hanno convocato per fare il provino decisivo l’indomani sera. Al telefono mi spiegavano che il regista e la produzione erano già in Messico, perché le riprese erano già iniziate, e avrebbero seguito il mio provino via Skype. Avevo 24 ore per preparare delle scene di cui due nuove, mai provate, che mi avrebbero inviato di lì a poco. “Ah dimenticavo” mi dissero prima di chiudere “qualora la connessione Skype non funzionasse, domani stesso prenderai un aereo per il Messico e farai il provino lì”. Ero sotto shock. Mi giocavo il tutto per tutto in quelle 24 ore. Le due scene nuove sono arrivate alle 2 di notte. Non ho né dormito né mangiato per un giorno intero, ho continuato a studiare e provare ininterrottamente. 

©SkyTG24 – Giuseppe De Domenico sul set

E tutto questo stress non ha influito sul provino?

Sono arrivato stremato. Ho fatto 2 ore e 40 di provino, senza sosta, con una telecamera fissa davanti a me e Laura Muccino in videochiamata col regista che filmava a 30 centimetri dal viso. Ogni volta che finivo una scena mi dicevano “rifalla”.

Nessun cedimento quindi. Probabilmente la maggior parte di noi si sarebbe arrabbiata e avrebbe mandato tutto all’aria, o forse si sarebbe semplicemente arresa.

Dovevo dare tutto me stesso. Non c’era spazio per la stanchezza, per il nervosismo, per il timore del giudizio. Lì mi sono tornate utili tutte le ore formative di teatro, che mi aveva abituato a rifare più volte la stessa scena. Una carriera solida deve passare necessariamente dalla formazione continua, in qualunque ambito.

Hai condiviso il set con attori hollywoodiani. Che effetto ti ha fatto lavorare al loro fianco?

Iniziare le riprese a New Orleans, “a casa loro”, è stato parecchio stressante. Sapevo che avrei dovuto dare molto di più rispetto a quello che ero abituato a dare. Ho studiato e ristudiato ogni sceneggiatura. Provavo in continuazione i toni, i movimenti, le smorfie. Non ero mai sicuro che fosse abbastanza.

Frame tratto dal trailer della serie “ZeroZeroZero”

Durante le riprese, c’è stata qualche scena che ti ha portato al limite? Una difficoltà che non immaginavi, qualcosa che ti ha fatto dire “non ce la faccio”?

Ci sono stati tanti momenti difficili. Ma forse quello più emblematico è stata una scena in Marocco. Era una scena molto importante che mi richiedeva un grande sforzo emotivo e fisico. L’abbiamo girata per 19 ore consecutive. Alla fine, quando ormai ero con il medico che mi faceva le punture miorilassanti per via dei crampi che avevo, mi chiedono di fare un primo piano dell’apice della scena, assieme a Dane DeHaan. Sentivo addosso la responsabilità di non poter deludere un attore hollywoodiano del suo calibro, ma ero stremato. Quindi faccio questo primo piano dando tutto quello che avevo, cerco di spremermi fino all’osso. Una volta finito, il regista mi dice “Non va bene, era troppo. La dobbiamo rifare”. 

Immagino lo sconforto, la stanchezza.

In quel momento sono scoppiato a piangere, ho avuto un crollo emotivo. Mi sono seduto e continuavo a dirmi “non ce la faccio”. Avevo attorno a me il regista, produzione, truccatori. “Proprio ora vuoi mollare?” continuavano a ripetermi, ma io non li sentivo nemmeno. 

Frame tratto dal trailer della serie “ZeroZeroZero”

Ad un tratto passa Dane, incrociamo lo sguardo per una frazione di secondo, ed il suo sguardo non trasmetteva affatto compassione, tutt’altro! Era quasi scocciato della perdita di tempo. In quel momento, preso un po’ dalla rabbia, un po’ dall’orgoglio, ho capito che non potevo mollare, non volevo buttare tutto all’aria per qualche lacrima. Così mi sono alzato, ho rigirato la scena ma in una condizione psico-emotiva che non avevo mai sperimentato fino ad allora, perché avevo appena superato il mio limite. E alla fine, quel nuovo stato emotivo, si è rivelato essere perfetto per quella scena. Molto spesso, le risposte che cerchi sono solo un centimetro più in là rispetto a quello che è il tuo limite.

Credimi, sono emozionato. Non vedo l’ora di vedere questa scena, e ricordarmi che parlavi proprio di quella!

Anche io sono curioso di guardarla e di sapere da te e da tutto il pubblico se ha funzionato come credo. Le emozioni vanno vissute per poterle trasmettere davvero.

Antonio Nuccio

 

Si ringrazia il fotografo messinese Danilo Currò per la concessione delle foto d’autore.

Caro BoJack Horseman, ti racconto

Voto UVM: 5/5

Nel 2014 andava in onda il primo episodio di BoJack Horseman, serie animata creata da Raphael Bob-Waksberg, composta da sei stagioni. Vincitrice di un Golden Globe e di tanti altri premi, senza dimenticare le numerose nomination, la serie è ambientata in una Hollywood popolata da umani e animali antropomorfi: a primo impatto può sembrare un show per passarsi una serata e magari per distogliere l’attenzione dalla realtà, ma la serie produce l’effetto contrario nello spettatore.

Il protagonista è BoJack un cavallo antropomorfo, star della serie tv Horsin’ Around, che ormai ha chiuso i battenti da un paio di anni. BoJack, stanco di non essere considerato una star come ai vecchi tempi, cerca di riaffermare la sua immagine, accompagnato dalla sua agente Princess Carolyn, una gatta, il suo strano – ma dal cuore tenero – coinquilino Todd e Mr. Peanutbutter un labrador, attore e sua nemesi. Infine, Diane, una ghostwriter, cercherà di riportare alla ribalta il nostro protagonista scrivendo la sua biografia.

 

Già dal primo episodio vediamo come il nostro protagonista abbia seri problemi con la società che lo circonda: difatti, si rifugia nell’alcool, nella droga e nelle feste per nascondere la sua depressione. Ed è proprio la depressione  il tema centrale di questa serie tanto strana ma allo stesso tempo veritiera, che ci mostra la discesa di un individuo verso l’autodistruzione.

E no, la serie non è caratterizzata solo da momenti tristi, al contrario offre al pubblico il classico umorismo, ma anche umorismo nero e satira. Il nostro cavallo davanti ai suoi amici e colleghi si mostra come un cinico narcisista, ma allo stesso tempo divertente. Nonostante le apparenze, nasconde dietro di sé una crisi esistenziale, caratterizzata dalla poca autostima e dalla continua paura di rimanere solo,tema particolarmente evidente nell’ultima stagione.

BoJack in analisi durante la disintossicazione (stagione 6)

BoJack allontana sempre tutti da lui, allontana chi gli vuole bene, ad eccezione di Sarah Lynn, che al contrario di BoJack non ha bisogno di riaffermare la sua immagine, essendo una delle star del momento, amata e voluta da tutti. Tuttavia,  la ragazza soffre di una crisi esistenziale, non si sente amata veramente e vede in lui sé stessa e si rifugia nel protagonista. BoJack con la ragazza avrà una strana relazione caratterizzata da un rapporto padre e figlia, come ai tempi della serie Horsin’ Around. Ed è proprio con lei che il nostro protagonista capisce che in lui c’è qualcosa di sbagliato, qualcosa di marcio. Sarah rappresenta la fragilità dell’immagine, un’immagine costruita solo per il mondo dello spettacolo. Dove a nessuno importa veramente chi sia lei come persona ma a tutti importa chi sia lei come star.

Sai non ho mai capito cosa fosse l’amore, ma in questo momento non ho bisogno di capire niente. Lo sto vivendo. (Sarah Lynn 3×11)

BoJack e Sarah Lynn

Tutti i personaggi della serie nascondono un velo di tristezza:  lo stesso Mr. Peanutbutter, che agli occhi di tutti appare come la felicità, rappresenta la totale indifferenza ad ogni avversità che gli si rappresenta.  Rispondendo sempre “sì ok, va tutto bene” davanti sia una situazione positiva e negativa, diventa un suddito della società stessa.
“L’universo è solo un vuoto crudele e indifferente, la chiave per la felicità non è trovare un significato, ma tenersi occupati con stronz*te varie fino a quando è il momento di tirare le cuoia.” (Mr. Peanutbutter 1×12)

La serie mostra anche il mondo “reale”, non solo quello hollywoodiano. L’esempio più lampante è Beatrice, madre di BoJack. Una cavalla fredda, narcisista e egoista come il figlio, che dovrebbe amare suo figlio ma non fa altro che ricordagli che tutti i mali che ha, sono per colpa sua . Beatrice rappresenta una vita fatta di malinconia e rimpianti, segnata da tanti episodi negativi. Una vita che l’ha costretta a cambiare e l’ha resa cinica e anaffettiva. Beatrice rappresenta la sfortuna.

 

Ma cosa rappresenta BoJack?

Rappresenta l’immagine del mondo attuale, una società che corre troppo veloce, senza soffermarsi sulla morale, in cui l’identità dell’individuo non è più prodotta dal suo essere ma dal mondo che sta intorno.

Ecco perché BoJack fa muovere in noi quei meccanismi umani, perché ci tocca e ci fa capire che corriamo senza pensare e capire chi siamo veramente o per cosa stiamo vivendo.

Come ha potuto questo semplice cartone toccarci così nel profondo?

Ci ha fatto capire che – alla fine – la causa di tutti i mali che abbiamo, come dice Todd a BoJack, sei tu”. BoJack si nutre dell’immagine che Hollywood ha prodotto di lui, non è il vero sé, è solo costruito.

Ma nell’ultima stagione vediamo il nostro protagonista con un velo di speranza: cercherà in tutti i modi di cercare di essere qualcuno per sé stesso, e non essere qualcuno per qualcun altro.

La seconda parte dell’ultima stagione della serie sarà distribuita sulla piattaforma Netflix il 31 Gennaio 2020: non so cosa aspettarmi, non so cosa capiterà al nostro vecchio BoJack; so solo che ci ha accompagnato per 6 intere stagioni con il suo pessimismo comico e non siamo pronti a dirgli addio.

Perché alla fine siamo tutti un po’ BoJack.

Alessia Orsa

Il ritorno di Gossip Girl: le sei stagioni in streaming

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Con l’arrivo del nuovo anno Netflix, la celebre piattaforma di streaming, offre la possibilità ai propri utenti di assaporare, dopo sei anni dalla puntata finale, le sei frizzanti stagioni riguardanti le vite scandalose delle élite di Manhattan.

La serie che ha fatto impazzire le teen-ager di mezzo mondo fa di nuovo parlare di sè: da quando Netflix ha annunciato il ritorno, sul web non si discute d’altro!

Si tratta di una serie televisiva statunitense, trasmessa dal 2007 al 2012. In Italia, è andata in onda sul canale Mya di Mediaset Premium e successivamente, dal gennaio 2009, è stata trasmessa su Italia 1.

La prima stagione si apre con il ritorno nell’Upper East Side di Serena Van Der Woodsen (Blake Lively), scomparsa per alcuni mesi senza dare spiegazioni a nessuno. Da qui si susseguiranno una serie di vicende, intrighi e complotti che vedranno coinvolta lei ed il suo gruppo di amici.

Gossip Girl, la voce narrante, si occupa di raccontare ciò che accade nelle vite dei ragazzi, senza perderli mai di vista, ma la sua identità rimane segreta fino all’ultima puntata della serie. “Ricchi ed eccessivamente attraenti studenti di una prestigiosa scuola si fanno cose orribili e scandalose a vicenda. Ripetutamente”: è questa la descrizione della serie sulla famosa piattaforma.

Ciò che sconvolge è che nonostante siano passati degli anni, la serie sembra essere ancora attuale. Ma la vera domanda è, riuscirà Gossip Girl ad accaparrarsi i consensi di queste ultime generazioni, o verrà seguita soltanto dai vecchi fan?

Elena Emanuele

You: un nuovo thriller firmato Netflix con Dan Humphrey

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You è una nuova serie Netflix che si sviluppa nell’arco di una sola stagione ed è composta da dieci episodi della durata di un’ora circa.

Quello che incuriosisce al primo sguardo è sicuramente il cast: abbiamo un Dan Humphrey protagonista (si, proprio quello di Gossip Girl!) e Shay Mitchell, una delle Pretty Little Liars.

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La serie tv è tratta dal romanzo omonimo di Caroline Kepnes e ha anche un sequel, Hidden Bodies.

Al di là dei volti conosciuti, si è rivelato un’ottima scelta per riempire due o tre pomeriggi di pioggia e noia: prima di tutto non è particolarmente impegnativa, quindi non c’è bisogno di stare con gli occhi incollati, cinque minuti di instagram ogni tanto sono concessi. E questo sia perché la trama non è molto intricata, sia perchè non succedono troppe cose tutte insieme.

Il protagonista, Joe Goldberg, è una persona semplice e di sani principi con la passione per i libri, l’avversione verso i social e pochi amici, insomma il ragazzo della porta accanto. Naturalmente ci sarà qualcuno ad attirare la sua attenzione e far battere il suo cuore al ritmo più bohémien che riuscite a immaginare. E’ qui che entra in scena Beck (Elizabeth Lail), una giovane donna sul sentiero verso la ricerca del self che ha un pessimo senso dell’orientamento e l’intuito di una pera cotta.

Ricapitoliamo: Beck è un’aspirante scrittrice e Joe ha in gestione una libreria molto vintage.

Tutto perfetto se non fosse che Joe è uno psicopatico: armato della profonda convinzione (e non soltanto quella) di sapere cos’è meglio per Beck. A poco a poco la allontana da tutto ciò che ritiene pericoloso per lei e per il suo sogno di diventare scrittrice.

Dopo i primi tre episodi le cose iniziano a essere più interessanti, Joe fa un pò di terra bruciata attorno alla donzella dai biondi capelli e diventa ai suoi occhi il ragazzo perfetto. C’è da dire che ci riesce anche perché Beck non ha un background di amici molto presenti e la sua migliore amica (Shay Mitchell) è da TSO immediato.  E poi va considerata la componente social media: grazie a facebook, twitter, instagram, Joe riesce sempre a sapere con chi si trova Beck, dove abita, cosa mangia, di cosa ha voglia ecc. Il paradosso di questa serie sta proprio nella discordanza tra il peso della narrazione, praticamente effimero, e il peso delle tematiche affrontate. Si parla di femminicidio, del ruolo preponderante che assumono i social media nel quotidiano e, grazie a questi, della velocità sconvolgente con la quale perfetti sconosciuti riescono a infilarsi nella vita di tutti i giorni di chiunque.

Concludendo si può dire che è una serie apparentemente banale, ma è proprio la leggerezza del copione a renderla piacevole e ideale per qualche pomeriggio di binge-watching.

https://www.youtube.com/watch?v=Eh02W0tNNPk

Giulia Garofalo

Hill House: la serie TV Netflix sul paranormale

La serie Netflix diretta da Mike Flanagan (regista de “Il gioco di Gerald”) è ispirata da “L’incubo di Hill House” di Shirley Jackson. L’autrice, nella sua opera, proponeva la storia di una casa infestata che catturò l’interesse di fanatici e scienziati, intenti a svelarne i misteri.

Flanagan, decide di sconvolgere la trama del romanzo, riprendendo alcuni personaggi e mantenendo il tema della casa infestata; questa volta ad Hill House arriva la famiglia Crain, composta da Hugh ed Olivia, due imprenditori che vogliono ristrutturare Hill House e rivenderla e dai loro cinque figli Steve, Shirl, Theo, Locke e Nell. La famiglia si traferisce nella casa inconsapevole di ciò che accadrà e del fatto che Hill House non è una casa come le altre.

La serie si muove su due linee temporali, quella terribile estate, dove tutto accadde ed il presente, quando ormai i fratelli hanno preso strade diverse. Le loro vite divenute indipendenti vengono nuovamente sconvolte da un’altra tragedia, la morte di uno dei fratelli che spinge i restanti ad indagare nel passato e a porsi domande che non si erano mai posti prima.

Hill House non è un horror che vuole mettere paura a chi lo guarda, la serie è sottile, fatta di introspezione, suspence, concentrata sul significato della famiglia, sul dolore e sulla consapevolezza che incutono più terrore di qualunque scena di sangue.

https://youtu.be/gTZyG1mpz4k

Sofia Campagna

The Man In the High Castle (l’uomo nell’alto castello)

The man in the high castle è una particolarissima serie Amazon che si articola sullo sfondo di un Novecento distopico che vede le potenze dell’Asse vincitrici della Seconda Guerra Mondiale. Detto cosi, può indubbiamente sembrare molto noioso, le serie a carattere storico di solito non sono proprio ‘leggere’.

Tutto si svolge negli anni ’70, gli Stati Uniti non esistono più, caduti per far posto da un lato all’Impero Giapponese e dall’altro al Reich tedesco. A separare le due potenze (territorialmente parlando) esiste una zona, la zona Grigia, all’interno della quale non vige alcuna giurisdizione e/o regola sociale.

Su questo scenario si muovono due principali gruppi di personaggi: chi è d’accordo con il Reich Tedesco e chi non lo è. ‘Essere d’accordo’ con il Reich, non significa soltanto prendere parte ai progetti espansionistici del Fuhrer, ma anche sposare lo stile di vita che ne delinea l’ideologia. Abbiamo Rufus Selwell, nei panni dell’Obergruppenführer, sicuramente il mio personaggio preferito, molto dinamico, poco scontato e dalla interpretazione impeccabile. Guardando tra le file giapponesi troviamo un altro bel personaggio, il ministro del commercio, molto simile a quello interpretato da Selwell e sicuramente degno di nota. Poi ci sarà un gruppetto di coraggiosi oppositori che tentano in tutti i modi di fermare i soprusi di questi due nuovi totalitarismi. A capo di questi gruppetti abbiamo Alexa Davalos, Juliana Crane, una giovane ragazza di San Francisco che insieme al compagno Frank Frink (Rupert Evans), si trova invischiata in problemi molto più grandi di lei. Un giorno la sorella di Juliana, Trudy torna a casa con una pellicola cinematografica (ai tempi non avevano youtube). All’ interno di questa pellicola ci sono immagini cosi preziose che alla fine quasi tutto si baserà sul recupero delle bobine.

A possedere un gran numero di film è proprio l’uomo nell alto castello, altra incognita perenne, che sembra muovere i fili della serie sin dall’inizio attraverso queste pellicole. Il primo contrasto di Juliana non è col Reich, ma con la Yakuza, la polizia dell’Impero Giapponese che in pratica calca le orme delle famose SS. Ed è proprio questo contrasto che da inizio alla serie di eventi (prevalentemente drammatici) tra i quali si articola la serie. Se la ‘zona grigia’ fosse un personaggio, sarebbe sicuramente Joe Blake (Luke Kleintank). Io la serie l’ho vista tutta, ma non ho ancora capito da che parte sta. Comincia come spia nazista ma poi perde la sua identità tra il susseguirsi delle vicende. La prima stagione in realtà è un pò povera di eventi, serve a introdurre la seconda, molto più movimentata. L’ideatore di ‘The man in the high castle’ è Frank Spotniz, che però non s’è inventato tutto di sana pianta. Infatti la serie è basata su un romanzo del 1962, ‘La Svastica sul Sole’ di Philip K. Dick. La trama è davvero molto intricata e non avendolo letto, non so quanto fedelmente segua il romanzo. C’è da dire a questo proposito, che è una di quelle serie da guardare quando si ha la mente un più sgombra. In alcuni passaggi è necessario fermarsi per capire bene cosa stia succedendo: ci sono molti riferimenti da una stagione all’altra, quindi l’altro consiglio (per quanto possibile) è guardarla tutta d’un fiato.

https://www.youtube.com/watch?v=BALksOPEOJQ

Giulia Garofalo