Disclosure: la storia della transessualità nei media

Un documentario appassionante che offre una prospettiva molto dettagliata sulla transessualità nei media. – Voto UVM: 5/5

 

Il mondo è cambiato parecchio negli ultimi decenni. Questioni come l’identità di genere, l’orientamento sessuale o i diritti delle minoranze sono entrate a viva forza nel dibattito collettivo.
In questo contesto, una manifestazione come il Pride Month rappresenta un’opportunità: non solo per celebrare i progressi in ambito civile acquisiti dalla comunità LGBTQ+ nel suo complesso, ma anche e soprattutto per diffondere consapevolezza su quelle minoranze poco conosciute o ancora fortemente stigmatizzate persino dallo stesso movimento LGBT+, in primis quella transgender.
Disclosure, un docufilm diretto da Sam Feder e distribuito da Netflix il 19 giugno 2020, si propone di fare proprio questo.

La locandina del documentario. Fonte: Netflix

Vecchi stereotipi duri a morire

La narrazione procede tramite l’alternanza tra spezzoni di film e serie tv e le considerazioni delle personalità transgender più eminenti del cinema e della serialità televisiva. I partecipanti vengono coinvolti in un dibattito sulla rappresentazione della transessualità nei mass-media, che si rivela problematica fin dagli esordi del cinema americano.

Nel 1914 il regista D.W.Griffith nel suo film Giuditta di Betulia (1914) – uno dei primi ad aver impiegato l’invenzione del taglio per far progredire la narrazione – inserì un personaggio trans o di genere non binario: l’eunuco evirato, infatti, in quanto figura “tagliata”, richiamava alla mente l’idea del taglio cinematografico.
Un espediente che, a causa del vestiario del personaggio, associato per stereotipo alla femminilità, diede origine alla percezione collettiva dei transessuali come uomini travestiti da donne che si prestavano al crossdressing solo per essere scherniti da un pubblico, piuttosto che come esseri umani con una specifica identità di genere. Ma questa, purtroppo, non è l’unica immagine ingannevole contro cui i trans hanno dovuto lottare. Psycho, pellicola cult di Alfred Hitchcock del 1960, diede vita ad un’altra narrativa fuorviante che associava la transessualità alla psicopatia; un’interpretazione ripresa ed ampiamente alimentata da altri film usciti nei decenni successivi.
Racconta la scrittrice ed attrice transgender Jen Richards in proposito:

Mancava poco alla mia transizione e avevo trovato il coraggio di dirlo a una collega. Lei mi guardò e mi chiese: – Come Buffalo Bill? –

Perché l’unica figura di riferimento trans presente nella mente dell’amica era Jame Gumb, l’antagonista principale de Il silenzio degli innocenti (1991), soprannominato Buffalo Bill: un serial killer psicopatico che uccideva le donne per scuoiarle ed indossare la loro pelle.

Buffalo Bill ne Il silenzio degli innocenti. Fonte: rollingstone.com

Come se non bastasse, un’altra convinzione perpetratasi fin oltre i primi anni duemila ha contribuito a far ritrarre i personaggi trans femminili come sole prostitute. E’ il caso di Sex and the City, andata in onda dal 1998 al 2004. Infatti, negli spezzoni di questa serie tv inseriti nel documentario, viene veicolato il messaggio che si prostituiscano per seguire una moda e divertirsi. Un immaginario ripreso anche da altri prodotti televisivi, senza che abbiano mai menzionato il vero drammatico motivo dietro questa realtà: le donne trans, discriminate in quanto tali, in media hanno una probabilità molto più bassa di trovare lavoro rispetto agli altri individui della società, quindi molte di loro si danno alla prostituzione per sopravvivere.

Primi significativi cambiamenti

Per fortuna, col passare del tempo, l’approccio alla rappresentazione delle persone transessuali sta lentamente cambiando.
Nella seconda decade degli anni duemila si assiste ai primi veri tentativi di normalizzare la loro presenza sugli schermi televisivi: succede in Sense8, uscita tra il 2015 ed il 2018, dove lo sviluppo del personaggio transgender Nomi Marks e la sua relazione romantica con Amanita Caplan prescindono dalla sua identità di genere. O, ancora, con Pose, ambientata nella New York tra gli anni ottanta e novanta ed uscita in America per FX dal 2018 al 2021.

“Pose” è diversa, perché racconta storie incentrate su donne trans nere su una rete televisiva commerciale
(Laverne Cox)

La presenza di questa serie tv, ideata da Ryan Murphy e scritta e diretta da persone trans, è fondamentale: non solo consente al pubblico transessuale di sentirsi, finalmente, preso sul serio e parte di una comunità unita; ma permette anche a chi non ne fa parte di comprendere meglio la Ballroom Culture, una subcultura statunitense che rappresenta un pezzo di storia molto significativo, sia per il movimento transgender che per il resto della comunità LGBTQ+.

La locandina della prima stagione di Pose. Fonte: silmarien.it (blog di Irene Podestà)

Perché guardarlo?

Durante tutto il percorso narrativo del documentario le emozioni di attori, produttori e sceneggiatori sono palpabili. Lo spettatore si immedesima nella loro frustrazione, nel dolore per aver subito anni ed anni di politiche discriminanti e narrative colpevolizzanti; le stesse che, con ogni probabilità, aveva interiorizzato anche Cloe Bianco, l’insegnante transgender morta suicida appena qualche giorno fa. Un fatto di cronaca che dimostra chiaramente la necessità di continuare a proporre storie con modelli di riferimento eterogenei e positivi. Una corretta rappresentazione, infatti, non è che uno strumento per raggiungere un fine più grande: migliorare le condizioni di vita di tutte quelle persone trans che conducono esistenze normali fuori dallo schermo ed assicurare loro il supporto di quanti le circondano.

Rita Gaia Asti

Fantasy: dalla carta al cinema e alla tv

Il fantasy è stato in grado nel corso degli anni, molto più di altri generi, di attrarre pubblico in sala. Film come Il mondo perduto o King Kong scioccarono le sale dell’epoca e così come nel pioneristico Fantasia della Disney (solo per citarne alcuni) furono portatori di grandi innovazioni tecniche nel Cinema. Anche Harry Potter fu di fatto un fenomeno generazionale, che ha coinvolto sia spettatori in sala che lettori per più di un decennio.

Ma quali sono, secondo noi, alcune tra le migliori trasposizioni fantasy da libro a pellicola?

L’unico anello: il fantasy per eccellenza

Quando si parla di fantasy al cinema il primo nome che viene subito alla mente è Il Signore degli Anelli (di cui abbiamo parlato in occasione del suo ultimo anniversario). Si tratta di un film che ha conquistato il pubblico, portando per la prima volta un fantasy epico al cinema come blockbuster. Si distacca dal romanzo di Tolkien avendo un ritmo ed un linguaggio per forza di cose più moderno e meno lirico.

Su carta i protagonisti vengono seguiti per ogni campo, per ogni valle ed ognuno di questi passaggi è descritto con estremo amore. C’è poi il viaggio dentro ai protagonisti: vediamo sempre la poca fiducia che il protagonista Frodo ha in sé stesso e nella sua capacità di portare a termine il suo compito.

È un racconto adatto a chiunque di ogni genere ed età, in grado di narrare qualcosa che parla all’animo di tutti noi.

Una classica casa nella contea degli hobbit (Original public domain image from Wikimedia Commons)

La magia dell’infanzia: La storia infinita e le Cronache di Narnia

L’opera sorella a questo primo racconto sono le Cronache di Narnia di C.S. Lewis, raccolta di sette libri da cui è stata tratta una sfortunata trilogia di film. Il leone, la strega e l’armadio (2005), primo dei tre film incantò molti con le sue atmosfere fiabesche e quella sua storia a tratti struggente; la trilogia è poi continuata con un secondo capitolo che cercava di avere una trama più adulta più spiccatamente dedita all’azione, senza rimanere fedele all’originale; il terzo film è poi tornato alle radici del primo senza però ottenere gli effetti sperati sul pubblico.

La maggior parte dei racconti è quindi rimasta solo dentro ai romanzi, compreso il suo finale. I sette libri narrano le avventure di vari protagonisti e dei loro viaggi dentro e fuori dalle terre di Narnia. Le storie sono raccontate per un pubblico di giovanissimi, dentro ad un mondo che ti trasporta al suo interno, narrando le imprese eroiche dei bambini protagonisti. Ciò che più risalta in questo libro è la sua capacità di inserire metafore all’interno del racconto, servendosi di immagini ed atmosfere.

Un racconto simile a quest’ultimo è la Storia Infinita di Michael Ende, dove i mondi immaginari la fanno da padrone e la fantasia stessa è la vera protagonista. Anche questo romanzo ha avuto una trasposizione in film negli anni ’80, con una pellicola che ha segnato molti della generazione millennial. Il film viene oggi ricordato soprattutto per il drago Falkor e per la scena con in groppa il protagonista Bastian. La storia, come nel libro, risulta evocativa e speciale, capace di parlare ad ogni appassionato divoratore di libri.

Il libro ed il film hanno quindi molto in comune, tranne il risvolto più maturo della trama nel primo: a metà romanzo, la storia prende infatti una piega diversa, con una grande metafora sulla crescita e sul rapporto tra il nostro mondo e quello fantastico.

I libri delle Cronache di Narnia

La rinascita in TV: Il trono di spade e The Witcher

La televisione ci ha poi regalato Il trono di spade, considerata ancora oggi la serie che ha fatto comprendere come in tv si possa davvero competere coi colossal al cinema in termini sia di pubblico che di qualità. Le prime stagioni hanno fatto rimanere incollati gli spettatori allo schermo  e aspettare con ansia le altre puntate. Un vero fenomeno globale che ha fatto appassionare un enorme pubblico di neofiti al genere fantasy, grazie alla suspense e ai colpi di scena.

La serie traspone però solo una minima parte della trama e non ha potuto inserire i dettagli presenti nei libri di George R.R. Martin ( continenti distanti, misteriose forze magiche all’opera). L’unico, vero, difetto dell’opera, in stand-by da ben undici anni, è però legato ai suoi misteri che rimarrannno perciò irrisolti: probabilmente il più grande “blocco dello scrittore” di sempre.

Il trend del fantasy è poi continuato in streaming con l’arrivo della saga dello Strigo Geralt di Rivia su Netflix con The Witcher. La serie, ispirata ai racconti di Andrzej Sapkowski, ha all’attivo due stagioni e, tra alti e bassi, è riuscita a convincere il pubblico riprendendo un fantasy fiabesco in un contesto però adulto e cruento. In questo mondo, un contadino costretto a lavorare il campo si ritrova attaccato dai mostri e Geralt, il protagonista, è chiamato a cacciarli utilizzando i suoi poteri da “strigo” (un umano modificato geneticamente attraverso la magia per cacciare mostri su  commisione), mentre sogna di trovarsi altrove. Si ritrova spesso, contro la sua volontà, in mezzo ad intrighi politici su cui pende il destino di interi popoli.

La serie ha reso ciò che di più intrigante per il grande pubblico era presente nei romanzi, tralasciando i racconti in cui il protagonista si contende con un altro uomo l’amore di una donna.

I romanzi, invece, hanno un intento diverso e spesso la risoluzione del racconto non è la sconfitta dal cattivo, ma la sua resa spirituale ed etica prima di essere passato a fil di spada!

Matteo Mangano

Da un estremo all’altro della follia. Cosa sta succedendo nel MCU?

Dopo ormai 14 anni di MCU, c’era bisogno di una nuova corrente creativa che portasse un po’ di innovazione nel genere supereroistico.

Figli di questa nuovo “filone” sono senza dubbio Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia e la serie basata sul personaggio di Moon Knight.

Filo comune tra i due prodotti è il diverso modo di raccontare e sviluppare l’elemento della follia.

Doctor Strange Nel Multiverso Della Follia

La pellicola diretta da Sam Raimi è indubbiamente il film più particolare mai prodotto e apparso all’interno di una cinematografia Marvel finora sempre fedele ai propri schemi.

Descrivere questo prodotto è tutt’altro che semplice, in quanto la trama risulta essere molto lineare e quasi elemento di secondo piano nell’insieme del film.

Il film riparte esattamente dalla fine di Spider-Man No Way Home, continuando a narrare anche gli eventi accaduti in Wanda/Vision.

                                                                                                                                     

Viene introdotto il personaggio di America Chavez (Xochitl Gomez), fulcro degli avvenimenti narrati in quanto ha il potere di aprire portali che conducono in altri universi. Ed è per merito/a causa di questo potere che si ritroverà nell’universo 616 (lo stesso numero utilizzato all’interno dei fumetti per descrivere l’universo principale) dove incontrerà Doctor Strange (Benedict Cumberbatch).

Il regista però è poco interessato agli eventi che deve narrare: lo è molto di più a ciò che deve far vedere allo spettatore e a come lo vuole far vedere.

Attraverso un ritmo incessante, Raimi riesce a realizzare sequenze che raccontano il suo cinema da tutti i punti di vista: quel gore alle volte così diretto da spiazzare lo spettatore, altre camuffato ma impattante al tempo stesso; transizioni così maestose ma anche folli e straordinariamente creative, e citazioni che galvanizzano come non mai i fan delle opere a fumetti (e non solo).

La nuova pellicola sullo stregone supremo risulta avere una trama un po’ soffocata dal ritmo frenetico datogli dal regista, che aggiunge pochi tasselli all’enorme puzzle narrativo del MCU. Ma dato l’estro e l’autorialità di Raimi che confeziona un prodotto eccellente, per una volta ( e ci auguriamo molte altre) va bene così.

Moon Knight

L’ultimo prodotto seriale confezionato in casa Marvel era uno di quelli più attesi dal pubblico, data l’enorme potenzialità del personaggio.

Steven Grant (Oscar Isaac) è un timido ed impacciato addetto ai souvenir nel British Museum, la cui vita verrà presto sconvolta quando il mercenario Marc Spector e la divinità egizia della luna Konshu irromperanno nella sua quotidianità cambiandola per sempre.

Per analizzare la serie possiamo concentrarci su due aspetti: trama e protagonista.

Parlando della prima, all’interno del MCU si sta cercando di dare una scossa agli ormai più che decennali schemi narrativi o di infrangere alcuni dogmi.

Moon Knight riesce parzialmente in ciò, in quanto all’epoca della sua presentazione fu descritta come la serie più dark e violenta vista finora sulla piattaforma Disney. Le aspettative sono state soddisfatte per quanto riguarda la violenza, ma in tutto ciò ancora una volta è la narrazione a risentirne.

 

                                                                                                                    

Si ha una premessa narrativa interessante nei primi due episodi, che però va pian piano scemando nel corso della serie per chiudere con un finale davvero molto debole e che non lascia nulla allo spettatore – che sia qualche emozione o la curiosità di sapere l’evoluzione futura del personaggio.

Ben altro discorso va fatto per la prova attoriale di Oscar Isaac, il quale riesce con una naturalezza disarmante ad interpretare le varie personalità del personaggio protagonista della serie. Una performance che lo eleva a migliore attore protagonista di un prodotto seriale Marvel. La follia connaturata in Moon Knight e nella sua controparte Steven Grant/Marc Spector riesce a trovare la sua massima espressione proprio grazie alla sua interpretazione.

Insomma, Moon Knight si rivela un’enorme occasione sprecata dal punto di vista narrativo ma che è riuscita a cristallizzare l’ormai affermato talento di Oscar Isaac.

La follia è l’elemento centrale attorno a cui ruotano queste due nuove produzioni. Da un lato abbiamo quella visiva esaltata da Raimi, dall’altro quella mentale perfettamente interpretata da Oscar Isaac. Entrambi riescono egregiamente nel trattare con due modi diversi – ma entrambi validi -un tema tanto difficile.                                                                                                                                                                                                                                                                                                                         

 Giuseppe Catanzaro

 

L’arte di narrare una storia: omaggio a Kobe Bryant

«Gli eroi vanno e vengono ma le leggende sono per sempre» si legge sulla locandina della nuova serie tv firmata Netflix, in uscita ad Agosto 2022, dal titolo The Black Mamba. Dopo il successo di The Last Dance, serie tv prodotta dalla piattaforma streaming per celebrare Michael Jordan nell’ultimo anno con i Chicago Bulls, Netflix si rituffa nel mondo del basket con un’altra leggenda dell’NBA: Kobe Bryant.

L’uscita – a due anni dalla scomparsa di Kobe e della figlia Gianna, insieme ad altre sette persone, in un tragico incidente avvenuto il 26 Gennaio 2020 – permetterà a tutti di immergersi nel mondo di un professionista del gioco.

Kobe Bryant e la figlia Gianna. Fonte: SportFair

La serie racconterà in un arco di dieci episodi i vent’anni di carriera di Bryant con la maglia dei Lakers, ripercorrerà tutti i successi del campione NBA, dai suoi esordi ai tre storici titoli consecutivi, al rapporto con la figlia Gianna, di cui era allenatore; un modo per riscoprire la carriera e le sfide di Black Mamba, attraverso i racconti degli ex compagni e dei suoi avversari.

Black Mamba, che darà il titolo alla serie è il soprannome che Kobe stesso scelse durante gli anni più bui della sua vita privata e della sua carriera. Un soprannome che lo aiutò a scindere il Kobe fuori dal campo di gioco dal Kobe professionista del basket alias Black Mamba appunto, un letale e rapido serpente, l’animale alle cui caratteristiche si ispirava per sviluppare il proprio stile di gioco, metafora di dedizione e talento per raccontare il suo approccio mentale alla pallacanestro.

Kobe Bryant. Fonte: The Indian Express.com

Moltissimi sono altri contenuti presenti in rete che ci permettono uno sguardo lucido su quei luminosi venti anni di carriera fino al ritiro nel 2016. Tra tutti, il libro autobiografico scritto da Kobe stesso è sicuramente una via privilegiata per guardare il mondo del basket dal punto di vista di un campione che padroneggiava perfettamente il gioco della pallacanestro.

The Mamba Mentality è il nome dato all’autobiografia edita Rizzoli e uscita in Italia nel Novembre 2018. Un resoconto minuzioso dell’approccio mentale di Kobe Bryant alla pratica sportiva, una riflessione sull’importanza di alimentare il talento con dedizione e  perseveranza. L’autobiografia vanta la presenza delle bellissime fotografie di Andrew D. Bernstein, da tempo fotografo ufficiale dei Los Angeles Lakers che seguì Kobe sin dall’inizio: la sua prima foto risale al 1996, quando il campione aveva 18 anni. Bernstein definì così il libro e la loro collaborazione durante un’intervista:

“Questo libro ,è una collaborazione davvero unica tra un atleta e un fotografo. Non credo ci sia mai stato un altro atleta in uno dei quattro maggiori sport professionistici americani che abbia speso 20 anni e tutta la sua intera carriera con la stessa squadra, fotografato attraverso l’occhio di uno stesso fotografo.”

L’opera è la dimostrazione di come l’amore per qualcosa – in questo caso uno sport – possano essere espressi con mezzi sempre diversi. Ma soprattutto racconta della strada percorsa da Kobe per raggiungere i suoi obiettivi: duri allenamenti, continuo studio del proprio modo di giocare e degli avversari attraverso filmati, cura e attenzione per ogni dettaglio.

“The Mamba Mentality”: copertina. Fonte: Rizzoli

Ossessione e dedizione costante al basket sono gli ingredienti di questo approccio alla pallacanestro, una mentalità che ha permesso a Bryant di conquistare cinque titoli, due medaglie d’oro olimpiche, due premi come miglior giocatore della lega nelle Finals, due premi consecutivi come miglior marcatore della stagione e il secondo numero massimo di punti mai segnato in un incontro NBA, fino all’ultima partita della sua carriera, dove segnò ben 60 punti.

Ma l’amore per il Basket ha portato Bryant a sperimentare nuovi modi per raccontare della pallacanestro. Lo stesso Kobe scriverà infatti:

“Questo sport mi ha dato ogni opportunità che avessi mai potuto desiderare, e lungo la strada ho imparato moltissimo. E non solo sul campo. Senza il basket non conoscerei la creatività né la scrittura […] questo sport in pratica mi ha insegnato l’arte di narrare una storia.”

La necessità di narrare lo ha condotto infatti nel 2015 ad annunciare il suo ritiro dal mondo della pallacanestro con un articolo pubblicato sulle pagine del The Player’s Tribune, dal titolo : Dear Basket, una vera e propria dichiarazione d’amore al basket, dall’infanzia al momento del ritiro. Dear Basket diventerà un cortometraggio con la voce di Kobe e le animazioni e la regia di Glen Keane.

Il corto, realizzato con un tratto a matita, ricorda i bozzetti Disney. Un’opera sicuramente dal taglio sentimentale che venne premiata nel 2018 con l’Oscar come miglior cortometraggio animato.

Dal cortometraggio “Dear Basket”. Fonte: lascimmiapensa.com

Per tutti questi motivi, la vicenda di Black Mamba ha effettivamente del leggendario per tutto il mondo del basket e a distanza di due anni dalla morte, la sua carriera e la sua presenza vengono restituite ai suoi tifosi sotto altre vesti, sotto forma di racconti, grazie alla necessità di narrare, grazie all’aiuto di quella complessa arte che è il tessere una storia.

                                                                                                                                                                    Martina Violante

Euphoria: ecco 5+1 motivi per guardarla (e subito)

Oltre ogni ragionevole dubbio, Euphoria è la serie di cui il mercato dei teen drama ha disperatamente bisogno. Non perché ecceda nella bellezza della trama o nella verve, ma per la sua sincera vocazione di regalare allo spettatore la sensazione di vivere in un trip allucinogeno lungo cinquanta minuti. E noi l’apprezziamo per questo.

Al momento, la seconda stagione di Euphoria va in onda ogni domenica su HBO. In Italia è disponibile su Sky Atlantic ogni lunedì alle 3 di notte e in streaming su Now.

Se non l’avete ancora iniziata, ecco a voi 5+1 motivi per guardare questa serie tv firmata HBO.

1)  La perfetta combinazione tra musica e fotografia

Sappiamo che sono passati cinque minuti e vi state già chiedendo cosa vi abbia spinto ad iniziare questa serie. Lo sappiamo, ma fidatevi di noi: è più un’esperienza sensoriale che altro. Non pretende di farsi capire, ma di essere vissuta. Ponendo la vostra attenzione sulla musica, gli effetti sonori, così come anche sulla fotografia, riuscirete forse ad addentrarvi nel pieno dell’esperienza.

Jules ( Hunter Schafer) in una scena della prima stagione

Dopotutto, siete nella testa della protagonista Rue (Zendaya), la teenager tossicodipendente narratrice dell’intera storia (ecco il perché di tante scelte stilistiche del regista Sam Levinson).

Famosissima, poi, la colonna sonora Still don’t know my name di Labirinth, che potreste già aver sentito sui social.

 

2)  I casting

Ovviamente questa è una di quelle serie tv che si segue per la trama – e la trama è Jacob Elordi (benché sullo schermo interpreti l’odioso Nate)! Ma andando oltre le mere apparenze, i casting director si sono davvero superati. Non solo per aver sottoposto gli attori a molti provini (come Barbie Ferreira per il ruolo di Kat, ed Hunter Schafer per quello di Jules), ma anche per essere riusciti ad assumere le perfette versioni in miniatura degli attori, per interpretare flashback legati all’infanzia dei personaggi.

A sinistra: Kyra Adler interpreta Cassie da bambina.  A destra: Sydney Sweeney nel ruolo di Cassie da teenager.

Alcuni dei personaggi sono stati cuciti a pennello sugli interpreti, come nel caso della già citata Rue, di Lexi (Maude Apatow), e Fezco (Angus Cloud). Tra l’altro, per alcuni di loro si tratta della prima esperienza attoriale. Niente male, dal momento che la recitazione non lascia a desiderare (tranne che in sporadici momenti).

Lexi e Fezco durante una scena della seconda stagione

Curiosità: Zendaya ha ricevuto un Emmy Award per la sua interpretazione nella serie, diventando la donna più giovane a vincere un Emmy per la miglior performance drammatica.

3)  Lo stile dei personaggi

Un “normale” giorno di scuola per Maddy e Cassie

«Ma non è possibile che degli adolescenti si vestano così a scuola». Certo, i modi di vestire abbastanza esuberanti non verrebbero mai accettati in un vero sobborgo americano della classe media. Ma Euphoria non ha la pretesa di essere realistica, anzi.

Lo stile dei personaggi rappresenta un diretto riflesso del loro stato d’animo: lo notiamo soprattutto nel trucco, spesso esagerato, portato fino allo stremo nel caso della vanitosa Maddy (Alexa Demie). La truccatrice ha confermato quest’ipotesi, affermando che le gemme e l’eyeliner vamp di Maddy nella prima stagione rappresentano il suo carattere forte e tenace; tuttavia, ha anche aggiunto che i makeup sono destinati a variare col tempo ed in base alle esperienze dei personaggi.

Alcuni dei makeup utilizzati durante le riprese

Oltremare, infatti, il trucco alla Euphoria è già diventato moda ed in tantissimi provano a ricrearlo: che questo trend sbarchi presto anche in Italia?

4)  Questa scena

Questa scena, tratta dal primo episodio della prima stagione, raffigura uno dei trip di Rue subito dopo aver assunto delle sostanze stupefacenti ad una festa.

Vi risulta già vista? Probabilmente sì. Infatti è un riferimento ad un’altrettanta rinomata scena tratta dal film Inception. Levinson ha fatto installare un set girevole per rendere realistico l’effetto no-gravity.

Tra l’altro, per tutto l’arco della prima stagione è possibile trovare riferimenti a molti altri film cult. Tenete gli occhi ben aperti per notarne altri!

5)  Ogni personaggio rappresenta una debolezza

Sebbene a primo impatto possa sembrare che sia Rue il personaggio più disastrato della serie, non lasciatevi ingannare. Tutti i personaggi rappresentano una debolezza diversa, che va dalla sindrome dell’abbandono all’incapacità di fuggire da un rapporto tossico fino alle difficoltà di farsi valere o di far valere la propria sessualità. Questo è forse l’aspetto che più avvicina lo spettacolo al genere “teen drama”, benché venga affrontato in modo molto crudo e spassionato.

Cassie in una scena della seconda stagione

Nulla sfugge dalla lente di cinica della nostra protagonista, il cui racconto ribalta l’archetipo classico del personaggio. Non siamo in presenza di personaggi con alcuni difetti che vengono fuori durante l’arco evolutivo, anzi, qui è addirittura difficile trovare dei pregi. Ciononostante, il lavoro degli attori è stato davvero magistrale, inducendo lo spettatore a trovare sempre e comunque qualcuno in cui rispecchiarsi o per cui provare simpatia… Anche se quel qualcuno dovesse essere uno spacciatore di droga.

5+1) Bonus: anche Leonardo DiCaprio ha ammesso di guardare la serie

E quale persona più autorevole dello stesso DiCaprio?

A dire il vero, i nuclei tematici di Euphoria non rappresentano qualcosa di fittizio, ma si calano bene nella realtà di oggi – una realtà che il pubblico adulto può e deve conoscere, al fine di fornire protezione ai giovani che ne hanno disperato bisogno. Tant’è che lo stesso cast ha raccomandato più volte di guardare la serie facendo molta attenzione al contenuto sensibile, affinché gli spettatori più fragili non ne rimangano negativamente segnati. Alla fine di ogni episodio, poi, viene trasmesso un messaggio che invita chiunque ne abbia bisogno a cercare aiuto.

Insomma, la cura sta nei dettagli.

Valeria Bonaccorso

Hawkeye: un graditissimo regalo per chiudere il 2021

 

      Un ottimo regalo firmato Marvel per le feste natalizie   – Voto UVM: 4/5

 

Arrivata al suo quarto prodotto seriale, Marvel offre agli spettatori un prodotto molto più leggero rispetto agli intricati Wanda Vision e Loki ed al più politico The Falcon and The Winter Soldier (uscite sempre nel 2021).

La serie Hawkeye, trasmessa dal 24 novembre al 22 dicembre scorso su Disney +, vede per la prima volta come protagonista – dopo oltre 10 anni di film del MCU – Clint Barton (Jeremy Renner) alias Occhio di Falco, affiancato da una freschissima new entry, Kate Bishop (Hailee Steinfeld).

Clint (Jeremy Renner) con il classico costume viola. Fonte: Disney +

Gli eventi hanno luogo – come di consueto nelle ultime produzioni Marvel – dopo Avengers Endgame (2019), e sono per la prima volta piuttosto semplici e tranquilli.

Clint si prepara a trascorrere un felice Natale con la sua famiglia fino a quando non vede in televisione un oscuro fantasma del suo passato. Qualcuno sta indossando il suo vecchio costume di Ronin, identità adottata da Clint dopo il “Blip” (conseguenza dello schiocco di dita di Thanos avvenuto in Avengers Infinity War), in cui l’arciere, divorato dalla perdita della sua famiglia, diviene un giustiziere di criminali assetato di sangue.

Clint scoprirà immediatamente che chi si cela dietro la maschera non sarà altro che Kate Bishop, e da lì la serie impennerà verso vette qualitative decisamente elevate. Descritta così la storia potrebbe sembrare caratterizzata da quei toni cupi da cui Hawkeye in realtà si distanzia subito.

Infatti, la sceneggiatrice Katrina Mathewson pesca a piene mani dalla storia migliore dello scanzonato arciere ossia l’Occhio di Falco di Matt Fraction e David Aja, da cui riprende interamente i “nemici”: la Tracksuit Mafia (Mafiosi in Tuta), versione tremendamente caricaturale di qualunque associazione criminale.

 

Clint e Kate in una scena della serie

Ma l’aspetto per cui Hawkeye brilla di più non è la trama (che resta comunque piacevole e ben congeniata) bensì il legame tra Clint e Kate.

Con il succedersi degli episodi il loro rapporto maestro-allieva progredisce sempre di più fino a diventare quasi quello che c’è tra un padre e una figlia. L’entusiasmo di una novizia Kate e la stanchezza di un Clint, ormai sovraccarico di tutte queste dinamiche, spiccano in un dualismo ben caratterizzato.

Ogni loro dialogo è impattante, sia che si soffermi sulle tematiche più profonde sia che tocchi quelle più leggere e divertite. Le prove attoriali dei due protagonisti, poi, rendono la serie la gemma che chiude un 2021 ricco di produzioni Marvel.

Da sottolineare anche le coreografie di combattimento totalmente inedite nel panorama MCU data la massiccia presenza di arco e frecce che rende i combattimenti mai ripetitivi.

La serie non è tuttavia esente da difetti, seppur divertente e spensierata. Non si percepisce mai un vero senso di pericolo che coinvolga i due protagonisti: la già citata Tracksuit Mafia è del tutto innocua e funge solo da esilarante “punching ball” ( valvola di sfogo), mentre l’introduzione di Echo (Alaqua Cox) risulta troppo frettolosa e volta esclusivamente a presentare al pubblico il personaggio per il suo futuro spin-off.

Infine un ritorno graditissimo potrebbe risultare quello di un personaggio reso magistralmente nelle sue precedenti apparizioni su Netflix, ma che qui viene decisamente “svilito”. Di chi si tratta non saremo noi a svelarvelo!

 

Da una copertina della serie di Fraction e Aja – Fonte: Marvel Comics

 

In conclusione, Hawkeye è una serie che scorre via piacevolmente chiudendo linee narrative senza lasciare buchi, ma che pecca un po’ di ingenuità nella costruzione della trama. Ciò nonostante, resta un ottimo regalo per le feste di Natale.

Giuseppe Catanzaro

Strappare lungo i bordi: un successo Netflix tutto italiano

Alla prima prova con l’animazione, Zero Calcare dimostra ancora la forza delle sue storie e del suo modo di esprimersi – Voto UVM: 4/5

Strappare lungo i bordi è la nuova serie Netflix di punta, scritta e diretta (nonché recitata in buona parte) da Michele Rech, in arte Zero Calcare, fumettista principale del panorama italiano con all’attivo più di un milione di copie vendute dei suoi libri (qui una nostra recensione di un’altra sua opera).

Zero è riuscito ad ottenere il suo attuale successo grazie ad una particolare ricetta: drammi di vita vissuta, continui richiami alla cultura pop e soprattutto una grande vicinanza a temi molto cari alla sua generazione nata negli anni ’80. Questi sono gli ingredienti che lo hanno reso famoso e fatto diventare iconico in Italia al pari di fumetti come Dylan Dog e Topolino. La sua arte viene infatti riconosciuta ormai da chiunque ed è diventata tanto rappresentativa da essere usata per opere come il murales di Rebibbia (quartiere dove vive il fumettista).

Ma come si traduce questa formula in serie tv?

E’ riuscito il fumettista a traslare il suo metodo narrativo sul nuovo media?

Uno stile di vita complessato

La serie racconta, alternandole, le vicende dello Zero bambino, adolescente e poi adulto creando una matassa di racconti che, come la vita del protagonista, andrà sbrogliata nel corso del tempo. Gli altri personaggi sono Secco, Sarah e Alice che passeranno la vita assieme tra progetti, corse e cadute.

Roma è il palcoscenico dell’intera vicenda, vissuta dall’interno col suo dialetto che qui assume quasi un ruolo da protagonista, con il suo parlato marcato e rude che riflette in qualche maniera anche la storia dei personaggi. L’uso del romanesco è utile proprio in tal senso: benché possa risultare in certe situazioni una parlata pesante e difficile da seguire, la vita di Zero va raccontata col suo linguaggio. Una lingua sporca per una storia sporca!

Anche Valerio Mastandrea nel ruolo dellArmadillo fa un ottimo lavoro ed accompagna bene il parlato degli altri personaggi.

Sarah e Zero. Fonte: Netflix

Il continuo flusso di coscienza del protagonista aiuta sicuramente in questo senso, permettendoci di cogliere le continue paturnie di un bambino che ancora non comprende per chi e per quale motivo fa le cose o di un adolescente timido ed in piena crisi ormonale. Crisi che se da un lato vede fermarsi le eruzioni cutanee continua anche in età adulta, quando le vere responsabilità bussano alla porta e magari ci si trova impreparati ad affrontarle: un continuo dilemma che il protagonista si ritrova a fronteggiare assieme ai suoi amici stretti.

Dal fumetto all’animazione 

Quello tecnico è poi un altro importante e cruciale aspetto di cui parlare: sebbene il tratto del fumettista Zero non sia mai stato utilizzato per questo tipo di produzione, è subito chiaro che il lavoro ravvicinato del regista con gli autori delle animazioni abbia aiutato in quel senso. Lo stile dei libri è stato traslato in maniera perfetta: il carattere frenetico ed abbozzato dei fumetti viene perfettamente tradotto in movimento.

Anche la colonna sonora si unisce bene al racconto, con brani tratti dalla discografia di vari artisti pop tra cui Tiziano Ferro, Manu Chao, Ron ed altri. Giancane si è poi occupato di un intero album realizzato unicamente per la serie in cui figura anche la sigla di apertura.

Zero, il protagonista della serie

 

Tirando le somme, Strappare lungo i bordi è un prodotto che parla a molti e molto intimamente, commuovendo ed emozionando con una grande dose d’ironia.

Lascia un retrogusto di malinconia e tristezza ma anche di serenità: perché alla fine, per quanto tutto possa essere difficile, non sempre dobbiamo portare tutto il peso sulle nostre spalle. Ci sarà sempre qualcuno con cui parlare, basta solo cogliere il momento.

Matteo Mangano

Spinning Out: ciò che nasconde un sorriso

  

Serie tv che valorizza l’importanza di certi aspetti e temi sottovalutati, legati alla salute mentale e allo sport. Lavoro eseguito egregiamente – Voto UVM: 4/5

 

Il termine inglese “spinning out” può assumere vari significati, uno dei quali è “impazzire”. Può significare anche “sfuggire (di mano)” o “andare fuori (controllo) ”. Titolo perfettamente rappresentativo, metaforicamente, dell’omonima serie tv.

La serie

Il 1° gennaio 2020, a deliziarci le giornate durante l’inizio di quella che era ancora un’epidemia, viene pubblicata su Netflix la serie televisiva Spinning out, ideata e diretta da Samantha Stratton.

Una serie interamente incentrata sulla vita di Kat Baker (Kaya Scodelario), una ragazza che insegue un sogno … Un sogno che viene interrotto: Kat pratica pattinaggio artistico sul ghiaccio ed è una grande atleta fino al momento dell’incidente sui suoi stessi pattini che la porta ad abbandonare la carriera individuale.

Ma la passione continua a chiamarla, il fuoco dentro di sé arde ancora forte, il suo sogno è lì, su una pista ghiacciata ad attenderla. Decide così di affrontare il suo incidente, le sue paure, e si rimette in carreggiata, ma stavolta non sarà sola. Per la prima volta entra nel mondo del pattinaggio in coppia, con Justin Davis (Evan Roderick), un ragazzo apparentemente pronto a distruggere chiunque pur di pattinare.

Kat Baker (Kaya Scodelario) e Justin Davis (Evan Roderick). Fonte: Netflix

La storia di Kat, però, è costantemente tormentata e instabile e ciò è dovuto al disturbo bipolare trasmesso geneticamente dalla madre, che la porta spesso ad allontanarsi o a far allontanare le persone che ama.

La protagonista non si arrende, continua a combattere, imperterrita, forte e coraggiosa, ma la sua malattia la ostacola in maniera irreversibile, causando problemi non solo alla sua vita sociale, ma influenzando negativamente la sua carriera agonistica e professionale.

Lo stop di Netflix

A distanza di solo un mese dalla premiere di Spinning Out sulla rete globale, la piattaforma streaming a cui appartengono i diritti, Netflix, decise di non rinnovarla per una seconda stagione. La motivazione sarebbe stata quella del mancato raggiungimento del minimo audience sperato durante il primo mese.

Ma Netflix ha tenuto in considerazione i risultati successivi a questo periodo Evidentemente no. Un mese dopo l’uscita, la serie ha iniziato a ingranare con gli ascolti, arrivando nelle case di milioni di persone e intasando i social di foto, video e recensioni positive, seppur contrarie a quelle dei critici.

Kaya Scodelario in un’immagine promozionale della serie tv

A mio modesto parere, questo “insuccesso” iniziale è dovuto al fatto che è stato creato un progetto totalmente diverso dal solito, dai prodotti tagliati su misura per il compiacimento del grande pubblico. Una serie con scarso potenziale commerciale quindi, seppur assolutamente meritevole di una seconda chance.

I fan, alla notizia, hanno reagito in tutta risposta creando petizioni e raccogliendo migliaia di firme, ad oggi purtroppo inutili.

Attori pattinatori o controfigure?

Volete sapere chi tra degli interpeti si è lanciato realmente nell’impresa del pattinaggio artistico?

  • Partendo dai protagonisti Kaya Scodelario ed Evan Roderick, diversi attori hanno fatto ricorso a controfigure per difficoltà quali salti e trottole;
  • C’è chi invece si è messo in gioco. Si parla della sorella di Kat, Serena Baker, interpertata dall’ormai conosciuta da tutti Willow Shields, nota per il suo ruolo di Primrose Everdeen in Hunger Games. Mesi prima delle riprese decise di iniziare ad allenarsi sul ghiaccio come una vera professionista;
  • Infine, tra le comparse, vi sono veri pattinatori e campioni olimpici, tra i quali Johnny Weir ( Gabriel Richardson nella serie, il più grande rivale di Justin).

Da guardare ?

A parer mio, il tema del bipolarismo viene affrontato magistralmente dagli attori e, naturalmente, dagli sceneggiatori, che escono dagli schemi delle solite tematiche trattate attualmente e quotidianamente nel mondo e rompono la monotonia per mettere in risalto un argomento oscuro e ignorato dalla maggior parte degli spettatori.

Tutto ciò raccontato attraverso uno sport anch’esso fuori dal comune, esteticamente incantevole, adatto a tener incollati alla tv milioni di persone. Sembra essere il pattinaggio la bocca della verità, ed è attraverso questa forma d’arte che lo spettatore viene indotto a concentrarsi sugli aspetti della sindrome bipolare: il cambio d’umore, e come questo influisce sulla vita di una persona indifferentemente dal tempo e dal luogo. Lavoro ben riuscito che ha coinvolto e colpito persone di ogni fascia d’età!

Scena tratta da “Spinning Out” (Justin Davis e Kat Baker)

Scene di dure realtà si alternano alla vita comune degli adolescenti: il loro rapporto con la famiglia, la loro continua lotta con l’esistenza e la resa dei conti con sé stessi.

È sicuramente una serie da guardare per prendere conoscenza di questa realtà, riflettere sull’importanza della salute fisica e mentale, su valori quali amore e amicizia, su aspetti talvolta dati per banali e scontati, su ipotetiche situazioni difficili da dover fronteggiare. E infine – ma non per importanza – per l’originalità dei creatori di portare sugli schermi uno sport artistico col quale comunicano e da cui traggono ispirazione.

Disturbo bipolare: di cosa si tratta?

Il bipolarismo, definito anche “disturbo bipolare”, è una patologia psichiatrica caratterizzata da instabilità dell’attività psichica. Si verifica una rottura di quello che è l’equilibrio timico, ovvero un’anomalia patologica del tono dell’umore.

Ne esistono diverse varianti, ma nella classica forma di disturbo bipolare tipo I ,si alternano due momenti (o fasi):

  • La fase depressiva, caratterizzata da tono dell’umore molto basso, tanto da portare il soggetto a non provare alcun tipo di piacere (anedonia) fino al ricorrente pensiero del suicidio. Può manifestarsi anche attraverso alterazioni del sonno e dell’appetito, riduzione della memoria e della capacità di concentrazione e sintomi psicosomatici;
  • La fase maniacale, caratterizzata invece da tono dell’umore particolarmente elevato, il cosiddetto eccitamento, che porta il soggetto a compiere atti impulsivi e azioni pericolose, perdendo totalmente la capacità di valutarne rischi e conseguenze. Può inoltre manifestarsi attraverso rabbia e aggressività.
Fonte: ohga.it

La terapia, di pertinenza psichiatrica, è molto complessa. Si basa sull’assunzione di farmaci stabilizzanti dell’umore, ma anche antidepressivi e antipsicotici, a seconda delle fasi prevalenti della malattia, sotto attenta e costante supervisione medico-specialistica.

Marco Abate

Maid: dall’annullamento alla riconquista di sé, un inno alla maternità firmato Netflix

Una serie veramente incredibile e ben fatta, che nulla dà per scontato e si rivela capace di emozionare – Voto UVM: 5/5

 

Tra le innumerevoli opzioni che il catalogo di Netflix ci offre, non troppo raramente capita d’incappare in vere e proprie perle d’autore: la miniserie drammatica del 2021 Maid (ideata da Molly Smith Metzler e prodotta da Margot Robbie!) è una di quelle. E vi diremo anche perché!

La serie, ispirata dal bestseller Maid: Hard Work, Low Pay and a Mother’s Will to Survive dell’autrice Stephanie Land, racconta la storia di Alex (un’incredibile Margaret Qualley, che forse ricorderete accanto a Brad Pitt in C’era Una Volta ad Hollywood), una ragazza madre nel pieno dei suoi vent’anni alle prese col duro lavoro di domestica e con tutti gli ostacoli che dovrà superare per riuscire a dare un’infanzia serena alla sua piccola Maddy (Rylea Nevaeh Whittet), avuta col compagno Sean Boyd (Nick Robinson).

Fin qui le premesse sono abbastanza generiche: ci saranno migliaia di opere che affrontano lo stesso tema, dunque cos’ha Maid di tanto speciale?

L’elemento particolare di questa produzione è l’estremo realismo con cui i tragici avvenimenti della protagonista vengono narrati. La commistione di più temi centrali, quali quello della povertà, quello degli abusi domestici ed, infine, quello della maternità viene realizzata nel quadro di una dura critica sociale alla borghesia medio-alta con un occhio aperto sulle difficoltà, per chi parte dal basso, di riscattarsi per ottenere una posizione sociale migliore.

Povertà

Alex Russell è, sostanzialmente, povera. Non che in precedenza fosse ricca (anche per via dell’eccentricismo della madre Paula, interpretata dalla vera madre della QualleyAndie MacDowell), ma una scelta che andrà a compiere la porterà – di fronte alla crudele realtà – a trovarsi sprovvista di ogni mezzo ed incapace di adattarsi velocemente alle esigenze del mercato del lavoro.

Alex intenta ad annotare alcuni pensieri durante un turno di lavoro

All’inizio della serie, la protagonista viene presentata come un personaggio privo di talenti, il cui unico obiettivo sembra essere quello della sopravvivenza. L’effetto – laddove non fosse voluto, ma lo dubitiamo – è di rendere lo spettatore leggermente disinteressato per i primi tre o quattro episodi.

Effettivamente in molti hanno avvertito lentezza nello svolgersi degli eventi nelle prime puntate, ma semplicemente perché il mondo interiore di Alex non ci era stato ancora mostrato. Esso si rivelerà lentamente, tramite la riscoperta della sua passione per la scrittura creativa.

Fondamentale in questo passaggio è il rapporto con la ricca ma infelice Regina (interpretata da Anika Noni Rose), di cui sarà domestica. Tra le due all’inizio vi sarà diffidenza reciproca, ma poi si instaurerà un’amicizia leale e duratura.

La povertà è il punto di partenza per la rinascita della protagonista, ma questa viene tenacemente osteggiata da un secondo ostacolo.

Abusi domestici

In Maid non aspettatevi di vedere una trattazione in bianco e nero di questo tema così delicato. Forse è questo l’elemento che ci ha catturato di più: la delicatezza con cui lo spettatore viene posto in ascolto delle vittime di violenza.

In particolare, quella subìta da Alex è violenza emotiva, una forma più subdola e meno evidente di abuso che tuttavia la vincola al compagno.

Alex (Margaret Qualley), Sean (Nick Robinson) e Maddy (Rylea Nevaeh Whittet) in una scena della serie

Sean Boyd, padre di Maddy, è un personaggio complesso (dicevamo prima che il tema non viene presentato in bianco e nero). Ebbene, anch’egli vittima durante l’infanzia di violenze da parte della madre, finirà per sfogare le proprie frustrazioni sulla compagna e nell’alcool. Benché, di base, la sua indole non sia cattiva, egli si renderà autore di numerosi abusi emotivi su Alex: tra questi, la priverà dei supporti economici esterni, accentrando la ricchezza del nucleo familiare nelle proprie mani.

Ecco perché la scelta di Alex di addentrarsi nel mondo senza neanche uno spicciolo in tasca, sarà il punto di partenza per la sua rinascita. Una scelta sofferta, certo, perché significa mettere a rischio anche ciò a cui tiene più al mondo: sua figlia.

Maternità

Prima ancora che una critica sociale, una serie targata Netflix o un bestseller, Maid è un inno alla maternità, allo sforzo ed ai sacrifici di una madre che compie la scelta di dedicare tutta sé stessa a sua figlia.

E fondamentale è il rapporto tra genitori e figli: di Alex con sua figlia, di Sean con sua figlia, di Sean con sua madre, ma soprattutto di Alex con la madre Paula: quest’ultima, afflitta da un disturbo di personalità borderline e profondamente segnata da esperienze passate, sarà il personaggio che più di tutti metterà alla prova la sua forza mentale.

Potremmo definirla come il punto debole della protagonista: Paula è estremamente complessa e fragile e, benché ami Alex, non riesce semplicemente a renderle le attenzioni che meriterebbe. Tuttavia, è anche in lei che la giovane troverà la forza di andare avanti nel suo percorso.

Paula (Andie MacDowell) in una scena della serie

 

In ultima analisi, Maid è una miniserie che ben si presta all’istruire su circostanze di vita delicate e lo fa senza troppe ambizioni – forse è proprio questo il suo punto di forza. Si mastica facilmente, ma va consumata con lentezza e parsimonia. In sostanza, va metabolizzata. Il lavoro del cast è stato incredibile sotto questo punto di vista e la chimica tra i personaggi è ben visibile.

Valeria Bonaccorso

The Handmaid’s Tale: l’essere donna contro ogni oppressione


Show prodotto con abilità, capace di mantenere l’attenzione dello spettatore e ricco di colpi di scena imprevedibili – Voto UVM: 4/5

 

Nel 1987, Belinda Carlisle cantava che «il Paradiso è un luogo in terra». Se non ce l’avessero detto, non saremmo mai arrivati a credere che la canzone sarebbe diventata la colonna portante di una serie tv degli anni 2010.

The Handmaid’s Tale, conosciuta anche col nome Il racconto dell’ancella, è uno show televisivo ideato da Bruce Miller nel 2017 ed adattato dal romanzo omonimo di Margaret Atwood del 1984.

In una realtà distopica, il mondo si ritrova ad affrontare una gravissima crisi ambientale che ha ripercussioni anche sul tasso di natalità della popolazione, riducendolo quasi pari a zero. Gli Stati Uniti vengono allo stesso tempo soggiogati da un movimento teocratico che, ben presto, occuperà la maggior parte del territorio, instaurando così un totalitarismo di natura religiosa ispirata all’Antico Testamento, ossia Gilead.

Classi sociali

La Repubblica di Gilead è divisa, a livello sociale, in classi nettamente distinte l’una dall’altra ed all’interno di una scala gerarchica: i Comandanti,i vertici della Repubblica; le Mogli, appunto, le mogli dei comandanti (il loro colore distintivo che usano nel modo di vestire è il blu-verdastro); le Marte, ovvero le domestiche.

Infine vi sono le Ancelle, adibite esclusivamente alla procreazione. Vengono schiavizzate per dare ai Comandanti di famiglie sterili dei figli. Il loro colore è il rosso e, dal momento che non hanno diritto a mostrare i capelli, indossano una cuffia bianca che è diventata un segno distintivo della serie. Una volta divenute ancelle perdono diritto al loro nome, assumendo il patronimico del Comandante cui vengono assegnate (es. Diglen, appartenente al Comandante Glen). A vigilare e punire le ancelle “disobbedienti” sono poste le Zie, donne dal comportamento austero e di grande crudeltà, dotate di… Un taser!

Abbigliamento tipico delle ancelle – Fonte: indiewire.com

I personaggi nell’universo di Gilead

La storia gravita attorno al personaggio di June Osborne (Difred) – interpretata da Elizabeth Moss -, ancella del Comandante Fred Waterford (Joseph Fiennes) e della moglie Serena Joy (Yvonne Strahovski, che forse conoscerete già per il suo ruolo nella serie televisiva Chuck).

Prima di giungere a casa Waterford, June era intenta a scappare verso il Canada assieme alla figlia Hannah ed al marito Luke, che però era già stato sposato. In una società a struttura patriarcale e fortemente teocratica come quella di Gilead, ciò che costituisce “peccato” comporta anche gli estremi del reato, ragion per cui June viene catturata e ridotta alla condizione di ancella per via del crimine di adulterio da lei commesso.

Ogni mese, nel periodo di ovulazione dell’ancella, quest’ultima viene sottoposta ad un rito – non solo legalizzato, ma obbligatorio – durante il quale viene costretta a copulare (dunque, viene stuprata) col Comandante al fine di dargli un figlio mentre viene tenuta ferma dalla moglie. Nella società di Gilead, inoltre, non è contemplata la possibilità che l’uomo sia sterile; l’infertilità viene dunque sempre imputata alle donne.

Come si può ben vedere, le donne di Gilead si trovano in uno stato di sottomissione aggravato dal divieto di leggere e scrivere.

Difred, la protagonista, si ritrova catapultata in una realtà che mette a rischio la sua vita. Col passare degli episodi notiamo un cambiamento travolgente nella sua personalità: da un atteggiamento inizialmente ubbidiente June riuscirà a divincolarsi dalle grinfie del regime, soprattutto dopo aver saputo dell’esistenza di un’organizzazione segreta chiamata “Mayday” che pianifica di distruggere Gilead dall’interno.

Ma non lasciatevi ingannare: il percorso, anzi, la corsa verso la libertà sarà dura e piena di ostacoli, oltre che eventi spiacevoli, che influenzeranno notevolmente sulla condizione psicologica di June.

June, Serena e Fred Waterford in una scena della serie. Si noti il contrasto di colori tra il verdastro, simbolo di purezza, ed il rosso, simbolo d’impurità dell’ancella. – Fonte: purewow.com

«Nolite te bastardes carborundorum», recita una frase incisa sul legno di uno stanzino da parte della “precedente Difred”, l’ancella che era stata lì prima di June. Sarà proprio da questa frase in latino maccheronico (letteralmente: “non farti abbattere dai bastardi”) che la protagonista troverà la forza di ribellarsi agli abusi fisici e psicologici di Gilead.

La particolarità della serie sta in buona parte nella perfetta interpretazione di Elizabeth Moss che, con le sue espressioni colme di tensione e rabbia, ci permette di addentrarci nel mondo interiore di June, facendoci percepire pienamente il lento degrado a cui il suo spirito andrà incontro. Ciò che conta, però, è che non sarà sola. Moltissime ancelle ed altrettante Marte si uniranno alla sua corsa verso la libertà col medesimo principio ispiratore: non lasciarsi abbattere dai bastardi.

Uno dei rinomati “sguardi alla June Osborne”, dritto nella telecamera e nell’animo degli spettatori. – Fonte: indiewire.com

In generale, lo show è curato nei minimi dettagli e sostenuto da un cast di notevole bravura. I costumi risaltano all’occhio del pubblico per via delle forti tonalità in contrasto all’ambiente asettico dello sfondo. Si pensi ad un dipinto pieno di grigi ma da cui risaltano piccole macchie colorate in movimento.

La serie, composta al momento da quattro stagioni (di cui l’ultima è in onda proprio adesso), è disponibile sulle piattaforme di streaming Hulu e TimVision. Nel corso degli anni si è accreditata una sfilza di Emmy Awards e ben due Golden Globes, nel 2018, per Miglior serie drammatica e Miglior attrice in una serie drammatica (Elizabeth Moss).

Valeria Bonaccorso