Il dono dello spettro autistico: Michelangelo Buonarroti, l’artista universale che liberava gli angeli

Cari lettori, in questo terzo appuntamento della serie Il dono dello spettro autistico, che si propone di mettere in luce le potenzialità dei neurodivergenti senza spettacolarizzarle, viaggeremo molto indietro nella storia della cultura con Michelangelo Buonarroti.

Pittore, scultore, architetto e poeta italiano che, sin dal Rinascimento, ci insegna che “diverso” non è mai “sbagliato”, bensì possibilità di essere infiniti.

Ritratto di Michelangelo Buonarroti, di Daniele da Volterra 
Ritratto di Michelangelo Buonarroti, di Daniele da Volterra 

Vita

Michelangelo Buonarroti, nato a Caprese nel 1475, è soprannominato Divin Artista” e definito Artista universale”.

Visse il Rinascimento italiano, e già in vita fu riconosciuto dai suoi contemporanei come uno dei più grandi artisti di tutti i tempi.

Michelangelo cresce in un ambiente toscano segnato dalla sua appartenenza a una famiglia di modesta estrazione. La sua infanzia è caratterizzata da difficoltà che lo portano ad avvicinarsi all’arte sin da piccolissimo.

A Firenze, all’età di tredici anni, entra nella bottega di Domenico Ghirlandaio, dove apprende la pittura e le tecniche rinascimentali. Ma l’aspirazione alla scultura emerge sin da subito come la sua vocazione predominante.

Nel 1496, a ventun’anni, si trasferisce a Roma, dove realizza la “Pietà”, scultura che segna l’inizio della sua fama.

Avvoltosi nella solitudine, a Roma, inoltre, Michelangelo entra in contatto con le più alte sfere artistiche e religiose, rimanendo sotto la protezione di cardinali e papi.

Nel 1501, torna a Firenze, dove realizza la celebre statua del “David”, un’opera che lo consacra come scultore di prim’ordine.

Sempre qui, poi, subisce anche il suo primo contatto con la politica locale e con i Medici. Gli commissionano vari lavori, ma il suo legame con loro sarà sempre turbolento e segnato da tensioni.

Nel 1505, Michelangelo torna a Roma e, durante il suo soggiorno, si distingue anche come pittore, decorando la “Cappella Sistina”, un’opera titanica che mostra il suo genio visionario, anche frutto di una lotta interiore per raggiungere la perfezione.

Morirà a Roma nel 1564, all’età di ottantotto anni, lasciando una lista di opere molto più lunga di quelle citate, e un’eredità di capolavori che non solo segnerà la storia dell’arte, ma anche quella della complessità umana, in cui si intrecciano visioni grandiose e tratti di inconsueto approccio alla società.

Buonarroti riusciva a percepire, scoprire e, infine, liberare dalla pietra l’anima di un oggetto apparentemente inanimato.

Lo stesso artista scrisse:

Ho visto un angelo nel marmo ed ho scolpito fino a liberarlo.

Ed è forse con questa citazione che si può esprimere la sua essenza di artista e persona, la cui unicità ha dato vita all’immenso dei suoi capolavori.

La Pietà di Michelangelo, Basilica di San Pietro, Roma
La Pietà di Michelangelo, Basilica di San Pietro, Roma

La Pietà

Michelangelo Buonarroti ha saputo scolpire, dipingere e plasmare la storia dell’arte come pochi.

La Pietà, realizzata tra il 1498 e il 1499, è una delle sue prime opere e mostra un controllo assoluto sul marmo.

La scultura è alta 174 cm, larga 195 cm e profonda 69 cm ed è oggi collocata nella Basilica di San Pietro.

La delicatezza con cui è rappresentato il corpo morente di Cristo, pur nella sofferenza, e la discrezione di Maria, che lo tiene in grembo, è una fusione di perfezione tecnica e carica emotiva.

La composizione spaziale è incredibilmente equilibrata: il corpo di Cristo, in diagonale rispetto a Maria, crea un gioco di linee che guida lo sguardo dell’osservatore, come se volesse catturare l’essenza del dolore cristiano.

La mano sinistra della Madonna è aperta e rivolta verso lo spettatore, a significare che tutto si è compiuto e nulla più è in suo potere.

Da notare la giovane età della donna, che stravolge quella che era stata l’iconografia raffigurata fino a quel momento, vicina a quella del Cristo morente, a rappresentare la purezza, la santità e l’incorruttibilità.

Il volto rassegnato della Vergine esprime il superamento delle fattezze terrene e il raggiungimento della bellezza ideale.

L’estrema levigatezza della superficie marmorea, nonostante la veste drappeggiante di Maria che contrasta il corpo nudo del figlio, conferisce un effetto mimetico straordinario, paragonato da Vasari a un miracolo.

La volta della Cappella Sistina e il Giudizio Universale 

Interno della Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano, Roma
Interno della Cappella Sistina, Musei Vaticani, Città del Vaticano, Roma

Il genio di Michelangelo si manifesta anche nella Cappella Sistina, che ha una larghezza di oltre 13 metri, una lunghezza di 40 metri e quasi 21 metri di altezza.

Un capolavoro che, tra il 1508 e il 1512, ha rivoluzionato il concetto di affresco.

Vista da fuori, la Cappella Sistina assomiglia a una fortezza, solida e austera, con finestre strette e nessun parato decorativo.

Tanto è semplice l’esterno quanto ricca e preziosa la decorazione interna. Con il lavoro di Michelangelo, la volta non è più solo una superficie decorativa, come in precedenza, ma un palcoscenico dove si svolge la tragedia umana e divina.

Buonarroti accetta l’incarico di eseguire nove scene tratte dalla Genesi, insieme alle figure di profeti, sibille e antenati di Cristo. Queste non sono più statiche, ma sembrano quasi vibrare di energia.

Dal punto di vista figurativo, tutta la volta è un inno al corpo umano, alla sua forza, bellezza, capacità espressiva. Ogni tipo di torsione viene sperimentato, ogni muscolo messo in evidenza. I colori sono accesi, brillanti e cangianti.

Tra i suoi affreschi, spiccano la Creazione di Adamo e la Separazione della luce dalle tenebre, che mostrano non solo una tecnica straordinaria, ma un’interpretazione radicale della Bibbia. Michelangelo riesce a mettere in scena non solo l’arte figurativa, bensì una filosofia visiva, dove ogni gesto, ogni linea, racconta una storia di lotta e redenzione.

Con il Giudizio Universale, dipinto venti anni più tardi, l’artista supera ogni limite.

Le figure, ora quasi deformate dall’intensità emotiva, sembrano spingersi fuori dal muro, come se volessero uscire dal contesto sacro per invadere il nostro mondo.

L’affresco di Michelangelo, realizzato tra il 1536 e il 1541, rappresenta un vortice azzurro che parte dal Cristo giudice al centro, con Maria accanto a lui come mediatrice. Intorno, i santi martiri con gli strumenti della loro morte, che diventano simboli di salvezza, e angeli che risvegliano i morti. A destra, i demoni trascinano i dannati verso l’Inferno, mentre nelle lunette gli angeli mostrano e conducono in gloria gli strumenti della Passione.

ll sacrificio di Cristo è necessario alla salvezza dell’uomo.    

Il David

David di Michelangelo, Galleria dell'Accademia, Firenze
David di Michelangelo, Galleria dell’Accademia, Firenze

Il David (1501-1504), scolpito nel marmo di Carrara, è l’emblema della perfezione fisica e morale dell’uomo rinascimentale.

Eppure dietro a quell’integrità c’è una tensione palpabile, un’energia che preannuncia l’azione.

Oggi, è ubicata nella Galleria dell’Accademia a Firenze.

Le dimensioni sono: altezza 5,17 m, basamento 1,07 m, statua 4,10 m.

La posizione del corpo nudo del protagonista, come da tradizione classica, è chiastica: il braccio sinistro è piegato verso la spalla, sulla quale il David poggia la fionda e corrisponde alla gamba destra in tensione, sorretta dal puntello. Su questa poggia l’intero peso del corpo. Il braccio destro è rilassato, nonostante la mano regga il sasso. La gamba sinistra, rilassata anch’essa, sporge leggermente verso l’esterno, poggiando il piede sul limite estremo del basamento; il tallone è sollevato ad indicare che si sta preparando al movimento.

L’eroe, infatti, non è scolpito nel momento del trionfo, ma nell’attimo prima della battaglia contro Golia. Il corpo non esprime solo forza fisica, quanto una forza interiore, che si traduce in un senso di controllo assoluto.

Michelangelo ha lavorato per mesi su questo blocco di marmo, estrapolando ogni muscolo, ogni vena, ogni fibra del corpo umano. Le proporzioni, studiate con precisione, non sono più solo anatomia: sono l’immagine di un uomo che affronta il destino con consapevolezza e determinazione. La scultura diventa così un messaggio di potenza, ma anche di introspezione.

Non finito 

 

I Prigioni di Michelangelo, Galleria dell'Accademia, Firenze 
I Prigioni di Michelangelo, Galleria dell’Accademia, Firenze 

In un’epoca in cui la perfezione estetica era il massimo ideale, Michelangelo ha saputo spingersi oltre anche nel concetto di non finito.

Le sue opere incompiute, come i Prigioni (1513-1516) o i Non Finito degli anni successivi, sono il risultato di qualcosa di irrisolto, di un progetto che non si conclude mai.

Qui, il blocco di marmo sembra resistere all’arte stessa, però è proprio questa resistenza a dare vita a una nuova poetica. La figura emergente dal marmo incompleto non è solo una “non finita”, ma una promessa di completezza che non verrà mai realizzata.

C’è un contrasto potente tra la materia grezza e ciò che prende forma: l’artista non la plasma, la lascia nascere, quasi in un dialogo continuo con la pietra.

Questa scelta non è solo estetica, ma una riflessione sul processo creativo, sull’incapacità dell’uomo di raggiungere la perfezione e sull’eterno conflitto tra la forma e il caos.

Michelangelo dimostra che, nel non finito, l’arte è viva, pulsante, mai definitiva.

Michelangelo e lo spettro autistico

Lettera di Michelangelo a Vasari, Palazzo Medici Riccardi, Firenze
Lettera di Michelangelo a Vasari, Palazzo Medici Riccardi, Firenze

Michelangelo Buonarroti è un personaggio misterioso della storia della nostra cultura.

Viveva in un mondo a parte, tutto suo.

Le sue opere, dalla maestosità della Cappella Sistina al monumentale David, sono il risultato di una visione unica, quasi ossessiva, dove ogni gesto e ogni forma sembrano esplodere da una realtà che solo lui riusciva a vedere.

Alcune testimonianze dicono che fosse difficile da avvicinare e che avesse un rapporto controverso con i propri committenti. Preferiva la solitudine alla compagnia, spesso concentrandosi per lunghi periodi di tempo solo al lavoro.

Inoltre, le lettere del pittore mostrano un certo distacco emotivo, così come un innegabile grado di irritabilità quando le sue opere venivano criticate o si trovava sotto pressione.

Dei tratti che oggi potremmo interpretare come neurodivergenti, ma che, ai suoi tempi, venivano giudicati come “decisamente strambi” dai suoi contemporanei.

Se Michelangelo fosse vissuto nel XXI secolo, probabilmente qualcuno avrebbe parlato di lui come una persona Asperger. Ma, chiaramente, non possiamo fare diagnosi retroattive.

Quel che è certo è che la sua genialità è figlia anche di quella diversità che lo rendeva lontano dai canoni. Perché, alla fine, è proprio essere “diversi” che spesso consente di lasciare il segno nel mondo.

Fonti:

https://www.studenti.it/cappella-sistina-storia-descrizione-analisi-affreschi-michelangelo.html

https://www.studenti.it/pieta-di-michelangelo-descrizione-analisi.html

https://www.studenti.it/david-di-michelangelo-descrizione-e-analisi.html

https://it.m.wikipedia.org/wiki/Michelangelo_Buonarroti

… l’opera di un messinese si trova nel centro di New York?

Ebbene sì, le abili mani di un messinese hanno dato forma al monumento che si trova in una delle principali piazze di New York: si tratta dell’opera dedicata a Cristoforo Colombo, al Columbus Circle. Di quest’ultima avrete sicuramente sentito parlare: in una posizione centrale nel distretto di Manhattan, ha forma circolare e fa da punto di intersezione tra alcune delle principali vie newyorkesi (la Broadway, la 59th Strada, 8th Avenue e Central Park West).

A pochi passi da Central Park e dalla Trump Tower, è davvero uno dei luoghi più noti nella metropoli statunitense, tant’è vero che proprio da qui vengono misurate tutte le distanze ufficiali da New York.

https://thebronxchronicle.com/2017/09/26/italian-american-orgs-ask-nyc-pols-for-stances-on-columbus-circle-monument/

La cosa che a noi qui più interessa è che questa piazza prende nome dal monumento a Cristoforo Colombo, posto in tal luogo nel 1892, e intorno al quale la piazza stessa è stata progettata nel 1905. L’iniziativa della costruzione del monumento, in occasione dei quattrocento anni dalla scoperta dell’America da parte di Colombo, fu presa dal giornale italo-americano Il Progresso. Il direttore e proprietario del giornale, cav. Carlo Barsotti, indisse una sorta di gara per individuare lo scultore che avrebbe dovuto realizzarlo, ammettendo però solo artisti di nascita italiana. La scelta alla fine ricadde su Gaetano Russo, messinese la cui fama era giunta oltreoceano. Nato nel 1847 sulla sponda sicula dello Stretto, poco più che ventenne ricevette un sussidio dal comune per continuare i suoi studi artistici a Roma. Ricevette numerose commesse sia nella capitale che a Messina, ma ciò per cui oggi viene ricordato è questa sua opera, realizzata a Roma e posta poi a campeggiare al centro di New York. Si tratta di una statua in marmo di Carrara, raffigurante il navigatore genovese in posizione fieramente eretta, la barra del timone stretta nella mano destra e lo sguardo orgoglioso e penetrante volto leggermente a sinistra. La statua poggia su un’altissima colonna (circa 21 metri) in granito rosso di Ravenna, sulla quale sono rappresentate le tre caravelle in bronzo. Ai piedi della colonna, un angelo (anch’esso in marmo di Carrara) che regge il globo. L’angelo e la colonna si ergono su un largo basamento rettangolare, ai cui lati troviamo due bassorilievi in bronzo che riproducono i momenti dello sbarco di Colombo e la sua flotta nelle Americhe. Sempre sul basamento, trova posto l’iscrizione:

 A
   Cristoforo Colombo
gli italiani residenti in America.
Irriso prima
minacciato durante il viaggio
incatenato dopo
sapendo esser generoso quanto oppresso
donava un mondo al mondo.

La gioia e la gloria
non ebbero mai piu solenne guido
di quello che risuono in vista
della prima isola americana
terra! terra!

Nel 12 ottobre 1892
quarto centenario
della scoperta d’america
a imperitura memoria.

 

Recentemente il monumento si è trovato al centro delle proteste del movimento “anti-Colombo”, il quale ritiene lo storico navigatore responsabile di aver dato il via, con la sua scoperta, al massacro degli Indios. Per questo, è stata chiesta la rimozione di vari monumenti e statue a lui dedicati, tra cui appunto anche quello di Columbus Circle. Alla fine, però, è stato raggiunto un compromesso: accanto all’opera di Russo sorgerà un monumento dedicato alle popolazioni indigene, cosicché, come ha dichiarato il sindaco di New York Bill De Blasio, «gli spazi pubblici riflettano la diversità e i valori della città».

Francesca Giofrè

Fiumara d’Arte, un percorso di bellezza e ostacoli tra storia e modernità

Labirinto di Arianna http://labirinti.altervista.org/italo-lanfredini-labirinto-arianna/?fbclid=IwAR2JCjxboAyoWKjWogVxJHaF1dChtUjt5-VXMpE5noZiGSAegs0wJwSpuwI

Nella parte settentrionale della Sicilia, a ridosso delle coste Tirreniche, si estende l’antica Valle dell’Halaesa, situata in quello che oggi è il Comune della città medievale di Tusa, in provincia di Messina. A fare gli “onori di casa” è Castel di Tusa, frazione marina della cittadina medievale che apre letteralmente le porte alla Valle, circondata dalle colline e attraversata dalla Fiumara di Tusa, in un paesaggio pieno di suggestioni artistiche, passate e presenti. Proprio in questo scenario, sospeso tra storia e modernità, natura e scultura, il torrente di Tusa – un tempo fiume che arrivava fino all’antica città di Halaesa – è diventato oggetto di un progetto artistico battezzato “Fiumara d’Arte”, iniziato nel 1982, ad opera di Antonio Presti, mecenate siciliano che decise di dedicare se stesso e il proprio patrimonio personale all’arte, celebrandola attraverso la creazione di una serie di imponenti sculture, commissionate di volta in volta a stuoli di artisti internazionali e dando vita a quello che, ad oggi, è il più grande museo all’aperto d’arte contemporanea d’Europa. Il progetto artistico nasce con l’intento del suo fautore di fare un regalo alla Sicilia, celebrando la bellezza attraverso la rappresentazione dell’impegno civile ed estetico dell’uomo, con la scelta, non casuale, di far nascere il progetto in terreno demaniale, proprio a far emergere lo spirito di condivisione di cui l’arte dovrebbe essere pervasa. Egli stesso spiega: ” Perché io non ho mai voluto possedere l’opera ma soltanto l’idea, in una società in cui tutto è al servizio del denaro ed è subordinato al possesso dei beni“, sottolineando la forte connotazione sociale ed etica di cui è pregna Fiumara d’Arte, pensata allo scopo di creare una coscienza legata alla cultura, attraverso un rapporto differente con la bellezza.

La materia poteva non esserci https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2015/05/Pietro-Consagra-La-materia-poteva-non-esserci.jpg

Il progetto si costituisce di una serie di sculture disseminate lungo il greto del fiume, che sfocia nel mare di Castel di Tusa, in un percorso esplorativo volto a creare una sorta di circuito d’arte, che attraversa le diverse città e i diversi comuni presenti nel territorio della Valle, da Castel di Tusa a Santo Stefano di Camastra.La storia dell’ Associazione Culturale Fiumara d’Arte inizia nel 1982, quando, a seguito della morte del padre, Presti commissiona a Pietro Consagra la creazione di una gigantesca scultura in cemento armato, alta 18 metri. L’opera, che dà il via al percorso d’arte, fu creata nel 1986 e intitolata ” La Materia Poteva non Esserci“. Nello stesso anno venne annunciata la creazione del museo a cielo aperto, su approvazione di tutti i sindaci dei comuni del comprensorio messinese. Di lì a poco il progetto Fiumara d’Arte si amplia, annoverando sempre nuove sculture al suo percorso.

Una curva gettata alle spalle del tempo https://www.artribune.com/wp-content/uploads/2015/05/Paolo-Schiavocampo-Una-curva-gettata-alle-spalle-del-tempo-1988-Fiumara-dArte.jpg

Lo stesso anno Presti contatta subito un altro scultore, Paolo Schiavocampo, al quale commissiona una scultura da porre al bivio tra la strada che porta a Castel di Lucio e una vecchia strada di campagna. L’opera, inaugurata il 30 gennaio 1988, dal nome suggestivo “Una curva gettata alle spalle del tempo” consiste in un monolite di cemento armato e ferro, collocato ai margini di una curva, che si avvolge su se stessa imitando il movimento di una vela battuta dal vento, situata tra la via antica e quella nuova, simboleggia un punto di unione tra passato e futuro. IL 24 giugno 1989 è la volta dell’opera di Tano Festa, inaugurata un anno dopo la morte dell’artista. L’opera “Monumento per un poeta morto“, dedicata al fratello di Festa, venne ribattezzata dai visitatori “Finestra sul mare” proprio per il suo impatto visivo. Situata sul lungo mare di Margi, una cornice alta 18 metri in cemento armato e ferro, che ricorda, appunto, una grande finestra che incornicia il mare. Colorata di un azzurro interrotto soltanto dalle nuvolette bianche, ricorrenti nei temi dell’artista, e un monolite nero che l’attraversa a ricordare la finitezza dell’essere umano.

Finestra sul mare https://www.flickr.com/photos/marcocrupivisualartist/31080793585?fbclid=IwAR0sHJwm_aA9ZptrIUO_ymaKYnsfy3qweMEA91ar8oc48h208m7KCKeQvso

Consecutivamente vengono inaugurate le opere: “Stanza di barca d’oro” dell’artista giapponese Hidetoshi Nagasawa sul torrente Romei; un vano ipogeo, introdotto da un corridoio sotterraneo di 35 metri rivestito di lastre metalliche, nel quale si evidenzia la sagoma di una barca capovolta rivestita di foglie d’oro, raccordata al suolo dal suo albero maestro in marmo rosa. “Energia mediterranea” di Antonio Di Palma, un manto azzurro che sale e poi scende dolcemente, che idealmente lega la montagna al mare, una grande onda di cemento blu, posizionata sulle montagne di Motta d’Affermo, e “Labirinto di Arianna” di Italo Lanfredini. Il labirinto, è un percorso fisico, ma anche interiore: attraverso un varco naturale si entra nel labirinto e si esce dal labirinto, a simboleggiare il percorso dell’uomo che, nel tempo, entra ed esce dalla scena. Lo scopo dell’opera è quello di far intraprendere al visitatore un percorso spirituale oltre che fisico, spingendolo a porsi delle domande esistenziali in un posto ed in una dimensione a-temporale, in cui è impossibile interrogarsi. Il percorso continua con “Arethusa“realizzata da Piero Dorazio e Graziano Marini, costituita da una coloratissima decorazione in ceramica della caserma dei carabinieri di Castel di Lucio. Una spiacevole vicenda giudiziaria però, intralcia il progetto artistico, costringendolo ad un’importante battuta d’arresto, proprio il giorno in cui viene battezzato. Le numerose opere di Fiumara d’Arte vengono poste sotto sequestro, con l’accusa di abusivismo edilizio, e vengono avviati una serie di procedimenti giudiziari che danno il via all’intricata storia processuale che ne blocca il completamento e che durerà ben 25 anni. Nel frattempo Presti inaugura, nel 1991, L’atelier sul mare, un albergo-museo d’arte contemporanea a Castel di Tusa, destinato a diventare il punto di partenza del percorso Fiumara d’Arte. Le camere dell’Art Hotel sono delle vere e proprie opere d’arte, realizzate da artisti internazionali, proseguendo l’utopia artistica pensata da Presti.

Stanza-opera d’arte http://www.isolaeisole.com/wp-content/uploads/2016/07/unser-art-zimmer.jpg

La fiumara venne difesa da una serie di movimenti da parte di moltissimi artisti e intellettuali. Nel 1991, il mecenate organizza una manifestazione “un chilometro di tela“, che si svolgera nel paese di Pettineo, e convoglierà duecento artisti che dipingeranno la tela, per poi tagliarla in pezzi e darli in dono agli abitanti, le cui case diventeranno “museo domestico”. Nel ’93 Presti invita quaranta artisti ceramisti provenienti da tutta Europa a realizzare un’opera collettiva sul muro di contenimento di una delle strade della Fiumara, che diventa così “Il muro della vita“. Una nuova ondata di mobilitazione generale parte da Roma, un gruppo di artisti e intellettuali sollecita l’intervento del ministro dei Beni Culturali Alberto Ronchey, mentre una petizione firmata da 60 nomi della cultura italiana esorta il governo regionale ad agire per evitare la demolizione. Il 23 febbraio del 1994 la Corte di Cassazione chiude la vicenda annullando l’ordine di demolizione, i provvedimenti della Corte d’Appello e le richieste della Procura di Messina. All’albergo-museo si festeggia con l’apertura di otto nuove stanze d’artista. Quando la situazione si ribalta ed è Presti a denunciare tutti i sindaci e la Regione Siciliana per incolumità civile, interviene all’appello il presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi e finalmente, il 6 gennaio del 2006, dopo 25 anni di battaglie, viene riconosciuto il Parco di Fiumara d’arte, aiutato dal Governo regionale che ha approvato l’istituzione del percorso turistico culturale di Fiumara d’Arte.

38° parallelo – piramide http://politano-national-geographic.blogautore.espresso.repubblica.it/files/2011/04/piramide480.jpg

Nel maggio del 2007 si assiste alla riapertura dell’opera “La finestra sul mare“, che due anni prima Presti aveva coperto con un tendone scrivendoci sopra “chiuso” in tutte le lingue, per opporre un rifiuto al rifiuto delle istituzioni. Così a distanza di 25 anni dall’inizio della storia travagliata di Fiumara d’Arte, per il progetto artistico comincia una nuova storia, quella “istituzionale”. Alle sculture viene finalmente riconosciuto il diritto di tutela. Nel 2010, Mauro Staccioli crea l’ultima opera destinata a completare la collezione, e così il percorso di Fiumara d’Arte. La scultura “38° parallelo – Piramide” sorge su una leggera altura del territorio di Motta d’Affermo, le cui coordinate geografiche centrano esattamente la consistenza matematica del trentottesimo parallelo. Nominando in tal modo l’opera, l’artista suggella l’intrinseco legame dell’opera alla geografia del luogo. Di forma piramidale cava realizzata in acciaio corten, parzialmente sprofondata nel territorio roccioso, cattura la luce solare attraverso la fessura, registrando nel proprio ventre geometrico i riverberi luminosi dallo zenit al tramonto.

 

Giusi Villa

 

Antonello Gagini: gentil scultore d’arte religiosa

Architettura. Scultura. Statuaria. Queste parole rimanderanno molti di voi al ricordo dei libri del liceo; altri immagineranno, invece, dei semplici agglomerati di marmo, argilla o pietra. Ma, vi è mai capitato di soffermarvi dinanzi ad un’opera – una qualsiasi opera – e chiedervi chi ne è l’autore e cosa lo ha portato a realizzarla? Oggi voglio parlarvi di Antonello Gagini: di chi era, di cosa faceva e di cosa ci ha lasciato.

In questo artista possiamo identificare il massimo esponente del rinascimento siciliano nell’ambito dell’architettura, della scultura e della statuaria.

Nasce a Palermo nel 1478, e già all’età di vent’anni si stabilisce a Messina avviando un’attività di commercio di marmo con la Toscana e la prima bottega di sculture in marmo.

La sua prima opera, l’Arco di Santa Cristina a Palermo, risale al 1477 per essere consegnata nel 1501, qualche anno prima della partenza per Roma. Sarà proprio nel 1505, infatti, che il Gagini compirà un viaggio nella capitale rimanendo impressionato dalle opere di Michelangelo Buonarroti, già maestro del padre Domenico.

Intorno al 1508, si ristabilisce nella città natale avviando un’organizzazione industriale che gli permetterà di fondare la Scuola gaginiana, alla quale aderiranno figli e nipoti, potendo così possedere due botteghe: una di queste utilizzata come cantiere di lavorazione, ed una seconda come punto di esposizione ed esportazione in tutta la Sicilia e la Calabria.

Nelle chiese Maria Maggiore e San Leoluca di Vibo Valentia possono essere, infatti, ammirate le tre rappresentazioni della Vergine Maria – la Madonna delle Grazie, la Madonna della Neve e la Madonna col bambino – e le figure di San Giovanni Evangelista e Santa Maria MaddalenaSan Luca Evangelista. Le sue opere di carattere religioso sono contraddistinte dal tentativo di rappresentare la bellezza della nascita di Gesù, il rapporto del bambino con la Vergine Madre, la presentazione al tempio, l’Annunciazione e i Santi Martiri.

In seguito ad alcune commissioni private e religiose nel territorio messinese, l’attività lavorativa dello scultore si stabilisce per via della forte presenza di scultori lombardi e toscani nella città di Palermo; fu proprio questa decisione a determinare il suo successo artistico e commerciale: a Gagini si deve essere impartito il merito di aver rinnovato, in chiave semplice ed elegante, le caratteristiche architettoniche del luogo ancora ispirate al periodo tardogotico.

Oltre che in molte località della provincia, come a Castroreale e Ficarra, alcune delle sue opere possono essere ammirate nel Museo Regionale di Messina, come la statua marmorea denominata “Santa Caterina d’Alessandria”; nella Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Bordonaro, ove è custodita la statua marmorea “Santa Maria delle Grazie”; e lungo la scalinata del Palazzo D’Alcontres, un altorilievo risalente al 1500. Originariamente commissionato sempre per Palazzo D’Alcontres è anche Lo Spinario, opera verosimilmente ispirata all’arte ellenistica, oggi collocata al Metropolitan Museum of art di New York.

 

 

Erika Santoddì

L’Immacolata di marmo e la antica festa della Vara: storie da una Messina scomparsa

Per chi conosce e vive la città di Messina, la zona del Duomo e dei suoi dintorni ha qualcosa di magico; è lì che si concentrano molte delle bellezze artistiche della città intera. Proprio alle spalle del grande Campanile, chiusa a nord dalla facciata del novecentesco Palazzo dello Zodiaco, capolavoro liberty del grande architetto Gino Coppedè, e a sud dalla facciata laterale della Cattedrale, si apre una piccola piazza alberata; al centro di essa si innalza, elegante e solenne, il monumento settecentesco della guglia dell’Immacolata, noto ai più come “Immacolata di Marmo”.

 

Opera del 1758 di Giuseppe Buceti, (membro di una famiglia di artisti messinesi di cui si ricorda anche il padre Ignazio, anch’egli scultore), la guglia dell’Immacolata rappresenta un esempio tanto pregevole quanto raro del barocco settecentesco messinese. Dalla cima di una ampia stele prismatica che si slancia verso l’alto, la bella statua della Madonna riprende la classica iconografia della “mulier amicta sole” secondo i canoni tipici dell’arte settecentesca: i panneggi dei vestiti, vezzosamente gonfiati e scompigliati dal vento, insieme alla posa delle mani, ricordano moltissimo una scultura coeva in legno e argento, custodita nella chiesa di San Francesco all’Immacolata, sul torrente Boccetta, poco lontano. Sotto la statua, che si appoggia su un globo terracqueo, quattro putti forse un po’ troppo paffuti, in pose differenti, decorano i quattro angoli del basamento.

Per comprendere la storia di questo importante monumento bisogna fare un salto indietro nel tempo alla scoperta di una delle più antiche ed importanti tradizioni religiose della città di Messina: la festa della Vara. Secondo una tradizione antichissima, che affonda le sue radici alla seconda metà del ‘500 (quando per la prima volta ne accennò, nel suo Sicanicarum Rerum Compendium, Francesco Maurolico) e che ogni anno continua a rinnovarsi, una enorme macchina votiva alta oltre 14 metri, detto appunto “la Vara”, viene trainata tramite un complesso sistema di corde che anticamente era gestito da marinai, in giro per la città, il 15 d’Agosto, giorno della festa dell’Assunta.

 La spettacolare struttura, organizzata su più piani, mette in scena una sorta di sacra rappresentazione mobile dell’assunzione di Maria: in basso, alla base del cippo, è posizionata una teca rappresentante la

 

dormitio Virginis (cioè la morte di Maria), mentre via via salendo, in un trionfo di nuvole e angioletti, si arriva al culmine, ove è rappresentata l’assunzione in cielo di Maria, con due figure che rappresentano la Madonna e Gesù Cristo. Oggi la Vara che si usa nella processione del 15 agosto è notevolmente ridotta rispetto ai secoli passati, ma anticamente le sue dimensioni erano parecchio maggiori, e, soprattutto, al posto delle statue in cartapesta, sopra la Vara si trovavano dei figuranti umani, in genere bambini figli di carcerati o orfani, e il ruolo della Madonna era interpretato da una fanciulla vergine.

Si può dunque facilmente immaginare quanto fossero esposti a incidenti i bambini che prendevano parte a questo spettacolo: e difatti le cronache passate ne riportano diversi. Fu proprio uno di questi a fornire il pretesto per la costruzione della Guglia dell’Immacolata: nel 1738, infatti, alcuni bambini caddero dalla Vara, restando fortunatamente illesi. La città gridò subito al miracolo, e proprio per rendere grazie alla Madonna fu fatta erigere dal Senato questa scultura, che fu inaugurata diversi anni dopo, nel 1757. Originariamente si trovava in piazza Pentidattilo, poi rinominata in Piazza Concezione, dinanzi alla chiesa gesuita di San Nicolò dei Gentiluomini, opera di Andrea Calamech, oggi interamente perduta; a seguito del terremoto del 1908 fu spostata nella piazza davanti allentrata nord del Duomo, che oggi prende appunto il nome di “Piazza Immacolata di Marmo”.

Gianpaolo Basile

Ph: Federica Cristiano

Un michelangiolesco a Messina: Giovanni Angelo Montorsoli

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Giovanni Angelo di Michele, detto il Montorsoli. Incisione dal frontespizio della sua biografia, contenuta nelle Vite di Giorgio Vasari.

Corre l’anno 1532 quando Michelangelo Buonarroti, il grande genio dell’arte e della scultura rinascimentale, attivo a Firenze in quel periodo, viene chiamato nuovamente a Roma per dirigere i lavori per la tomba di Giulio II: un lavoro fra i più travagliati del Maestro fiorentino, dato che il primo incarico per questo sepolcro gli era stato assegnato nei primi anni del secolo da Giulio II in persona, e ora quel Papa risoluto e guerriero è già morto da quasi vent’anni. Fra i collaboratori che l’ormai anziano Michelangelo chiama con se c’è un giovane di appena 25 anni, frate dell’Ordine dei Servi dell’Annunziata, che si era già fatto notare per il suo talento durante il soggiorno a Firenze. Si chiama Giovanni Angelo di Michele e viene da Montorsoli, un piccolo paesino dell’entroterra fiorentino.

Inizia così, con la benevolenza di un così importante mentore, l’avventura artistica del Montorsoli, una avventura che lo porterà dai fasti della Roma rinascimentale alla Liguria, per poi approdare sulle coste sicule, proprio a Messina, città in cui vivrà quello che i critici considerano il culmine indiscusso della sua arte.

Nella Città Eterna il Montorsoli può toccare con mano una delle più grandi fonti di ispirazione degli scultori di quel periodo, cioè l‘antichità classica ed ellenistica: e non è un caso se il primo lavoro che gli viene affidato a Roma, dietro suggerimento di Michelangelo, è il restauro delle celebri sculture dell‘Apollo del Belvedere e del Laocoonte, oggi ai Musei Vaticani. Di ritorno in Toscana, Montorsoli continua a lavorare con Michelangelo, poi si mette in proprio; qualche anno dopo è a Genova, dove si mette al servizio della potentissima famiglia dei Doria e lascia numerose opere pregevoli.

Quando rientra a Roma dopo i lavori fiorentini, il Montorsoli è già uno scultore affermato e di successo, come testimonia la biografia del Vasari, che lo cita fra i maggiori dei suoi tempi; è il 1547 e una serie di fortunati eventi portano il grande artista nella città dello Stretto. In quell’anno infatti il Senato di Messina, deciso a celebrare la conclusione dell’acquedotto del Camaro con l’edificazione di una sontuosa fontana davanti al Duomo, manda suoi uomini a Roma a cercare un artista di talento per dirigere i lavori. La prima scelta, racconta il Vasari, cade su Raffaello di Monte Lupo, anche lui della scuola di Michelangelo; ma lo scultore si ammala prima della partenza e il Montorsoli non si fa sfuggire l’occasione di sostituirlo.

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Fontana di Orione, 1553. Messina, Piazza Duomo. Ph: Giulia Greco

A Messina il Montorsoli stringe amicizia con uno dei più acclamati e influenti intellettuali cittadini, Francesco Maurolico: da questo sodalizio nascono quelli che sono considerati senza ombra di dubbio i suoi capolavori. Per le sue opere, Maurolico scrive versi in latino, escogita strutture ricche di complessi riferimenti mitologici e forse contribuisce anche alla progettazione degli elementi idraulici; dal canto suo, Montorsoli trasforma, col suo estro artistico e l’abilità del suo scalpello, in solido marmo le visioni del dotto messinese.

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Fontana del Nettuno, 1557. Messina, via Vittorio Emanuele II (Lungomare del Nettuno). Ph: Martina Galletta

Nel 1553 viene ultimato il primo lavoro messinese del Montorsoli: è la fontana di Orione, ancora oggi fiore all’occhiello del patrimonio artistico messinese e, volendo, nazionale, se pensiamo che lo storico dell’arte Bernard Berenson la definì “la più bella fontana del Rinascimento europeo”. Segue, nel 1555, il monumentale complesso dell’Apostolato che, oggi ricostruito, orna le due navate laterali del Duomo. Nel 1557 invece viene edificata l’altra, magnifica, fontana costruita stavolta per ornare la banchina del porto: è la fontana del Nettuno, solenne e poderosa, un Nettuno ieratico e olimpico come l’Apollo del Belvedere ed echi del Laocoonte, nelle pose contorte e nelle espressioni drammatiche di Scilla e Cariddi, muscolose come i Prigioni di Michelangelo.

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Dettaglio dal complesso dell’Apostolato, 1555, Duomo di Messina. Foto risalente al periodo pre-1908, scattata da Giorgio Sommer.

Oltre a queste, sono documentate numerose altre opere oggi perdute, fra cui il progetto della Chiesa di San Lorenzo, completamente distrutta dal terremoto del 1783; diverse opere minori custodite al Museo Regionale; gli è anche attribuita tradizionalmente, benchè oggi la sua paternità sia messa in dubbio dallo studio delle fonti storiche, la Torre della Lanterna detta una volta del Garofalo, situata sul Braccio di San Ranieri.

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Nettuno e Scilla, originali dalla Fontana del Nettuno, 1557. A destra: “La trinità”, bassorilievo, anni ’50 del ‘500. Messina, Museo Regionale. Ph: Giulia Greco

Tornato a Firenze, nel 1563, dopo che il rigore successivo al Concilio di Trento e alla Controriforma lo aveva costretto a porre fine alle sue peregrinazioni e a tornare alla vita in convento, Giovanni Angelo di Michele, detto il Montorsoli, muore. Toscano di nascita, forgiato nella culla del Rinascimento e del Manierismo, è a Messina, città dello Stretto nel pieno del suo periodo d’oro, che questo grande scultore lascia i suoi fiori più belli.

Gianpaolo Basile

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