La Marionetta e il Burattinaio

Appesa a dei fili. Sospesa nel vuoto. Io, marionetta ferma nel buio, non posso divincolarmi.
La mia bocca è serrata, le palpebre strette han paura ad aprirsi. Vorrei tranquillizzarle, dire loro che non le schiuderò se non vorranno. Non posso farlo, sono appese a un filo. I gomiti premono sulle anche, le ginocchia contro il petto. Probabilmente mi sarò aggrovigliata
cadendo. Di nuovo. Adesso Lui si arrabbierà moltissimo. Vorrei che anche la mia mente fosse appesa a un filo, non proverei paura. Non proverei il vuoto, unico mio compagno nella solitudine. Mi conosce bene, lui. Io no. Qual è il mio aspetto, quello vero? Non importa, il buio non è poi così spaventoso. Fin quando c’è Buio, i mostri non posso vederli. I fili sembrano sentirmi, si irrigidiscono.

Appesa a dei fili. Sospesa nel vuoto. Io, marionetta ferma nel buio, non posso divincolarmi. La mia bocca si apre, vorrebbe urlare. Le palpebre si schiudono, han paura. Dita nodose guidano i fili tesi. Non sono più aggrovigliata. Sul muro dinnanzi a me, la Sua ombra mi osserva. Le mie ginocchia scricchiolano. A Lui non piace questo suono. Inizia a muovere i fili, il mio corpo cigola. Lui sbuffa, d’altronde non alza mai la voce. Osservo la mia ombra danzare sulla parete poco illuminata, sembra graziosa. La mia mente osserva la scena, non so più cosa stia facendo la mia bocca, le mie gambe, le mie ginocchia. Scopro di incuriosirmi, guarda che angoli appuntiti che ho! Esilaranti. L’ombra si ferma. Non danza più
sulla melodia dei miei cigolii. Non c’è, però, solo il rumore dei miei pensieri. C’è uno scoppiettio, lieve. Sarà un’altra melodia su cui danzare.

Sciocca.

La parete svanisce, insieme ad Ombra. Le dita nodose adesso guidano me. Si attorcigliano attorno ai fianchi. Una casetta in pietra ha preso il posto della parete. C’è molta luce al suo interno, ha un colore travolgente. La casetta si fa sempre più grande, lo scoppiettio più forte. Resto ipnotizzata dalla luce. Adesso è Lei a danzare. Le dita nodose si srotolano dal mio corpo, mi lasciano cadere. I fili non si irrigidiscono questa volta. Non sono più sospesa nel vuoto. La luce mi acceca, mi abbraccia. La sua danza mi avvolge. Mi sento leggera. Vorrei dirlo alle palpebre, alla bocca, alle ginocchia ma non riesco più a vederle. La luce si affievolisce. La mente non fa più così rumore. Improvvisamente, buio.

Non vedrò più i mostri adesso.

Silvia Bruno

Nostalgica Via

Cammino lungo la nostalgica via,
ascolto il rumore delle fronde
degli alberi ormai stanchi.
Odore di terra bagnata,
la pioggia l’ha accarezzata,
il vento quasi la bacia.
I colori sono cambiati,
il cielo diventa plumbeo,
la luce del sole si affievolisce.
Come muta la stagione,
mutano i sentimenti,
la frivolezza estiva
lascia spazio alla malinconia.
Continuo a passeggiare,
le foglie scricchiolano
quando i miei passi
le calpestano.
La nostalgica via
mi accompagna verso
una nuova stagione
e con lei nasceranno
nuovi orizzonti.

Alda Sgroi

Maschere

Se giungesse
una persona perfetta,
con fare bonario,
e ci tendesse la mano?
Quella stessa persona
s’insinua nel cuore,
con apparenza composta,
e ne fa il suo gioco.
Indossa una maschera
di bella manifattura
per riuscire ad ingannare
e turbare l’animo per sempre.
Dobbiamo avere coraggio,
nonostante le maschere,
per distruggere le apparenze.
La persona vera è quella che
una maschera non ce l’ha
e mostra sempre la verità
fatta di trasparenza e credibilità.

Alda Sgroi

Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Il Natale

Candida neve,
frettolosi passanti
corrono per strada.
Le luci delle vetrine,
quasi soffuse,
illuminano poco
la vecchia via.
Al centro s’innalza
un albero abbellito
con colori festosi.
Profumo di vischio,
di biscotti caldi
e di aria natalizia.
Il vagito di un bimbo,
il sorriso di un anziano,
il canto delle genti.
La cometa sfugge
all’occhio nudo
di chi non sa amare.
Atmosfera tanto attesa,
il Natale è alle porte.
Nel mondo
c’è chi soffre,
c’è chi lotta
e chi non si arrende,
ma il Natale cerca
di far ritrovare
i cuori della gente.
E potrà certo arrivare
solo una volta l’anno,
ma la magia
di questa festa
vive nel ricordo
di chi sa gioire.

Alda Sgroi

*Immagine in evidenza: illustrazione di ©Marco Castiglia*

Scolopendra

Dicembre
e illuminavi
i viali di
stinti ricordi
ognuno
del secondo precedente

Ho provato
a incollarli
con il biadesivo
a inalare
il liquido di sviluppo
a cercarti
nei più cremisi angoli
della camera oscura
Volevo leggere le pellicole
come foglie di tè
per far finta di conoscerti
per nome

Il passato
è una catena arrugginita
ancorata
alla mia carotide
e il tuo
è un tiro alla fune
unilaterale

Chiara Tringali

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Fantasmi

Nella mente
la malinconia,
a dover rimarginarsi
è rimasta la ferita.
Il nostro legame
l’ha portato via
il vento improvviso.
Hai colpito il mio cuore
e ne hai fatto polvere,
hai frantumato i ricordi
e li hai resi schegge.
Il lieto fine ormai
svanisce nell’oblio.
Non c’è più amore,
solo silenzio
e tanto rancore.
Siam due fantasmi
che hanno vissuto
un sentimento parallelo
che non s’incontra mai.

Alda Sgroi

immagine in evidenza: Illustrazione di Marco Castiglia

Mare


Mare

inizio e fine di tutte le cose.

Culla della civiltà.

Da te, leggenda narra,

nacque la Dea Afrodite,

dea della bellezza

e dell’amore,

a testimoniare

la tua magnificenza

e grandezza.

Sei al centro delle

storie più grandi.

I tuoi fondali

nascondono

i più antichi segreti.

In te nasciamo,

in te vogliamo morire.

Chiara Fedele

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Ode

Combattere il disgusto di un nuovo acquisto
Il magnetismo di un tozzo di pane
Nutrito dalla farina di un altro sacco
Uso le poche parole che so
Che ho
Per giustificare la mia prepotenza
Nel dargli voce
Non hanno stile o
Grazia o arguzia
Sono trite e ritrite
Dentro lo studio di un
Macellaio
Sono lo strazio
Tra le urla di un vitello
E il silenzio di una
Vita avariata

Chiara Tringali

Parigi degli intelletti

Due amanti. Lui e lei. Vuoti, corpi miseri intrecciati, incastro perfetto.

Era Parigi, in una delle stanze sui tetti. Un piccolo appartamento polveroso, disordinato, rifletteva la casualità di quell’incontro. Due singoli a cui piaceva vincere o sapere di avere ragione. E fu una lotta senza il desiderio di distruggere l’altro.

Non era la città degli amanti, del romanticismo, dell’amore puro. Era la Parigi degli intelletti, la festa mobile cantata da Hemingway. E loro amavano di un amore narciso, a tratti egoista. Amavano sapere di essere ammirati, ascoltati.

O forse non amavano affatto, ma trovavano un senso strano di appagamento nel riempire le loro menti di strani giochi, parole combinate che loro stessi afferravano a fatica.

Lei era smarrita, distratta, tratta lontano dal mondo e da se stessa, non più messa a fuoco. Si cercava nel posto sbagliato, usando gli altri come specchio per ritrovare il riflesso che più le faceva comodo. Giocava a fare finta di sapere la direzione, ma guardava la bussola sbagliata. In lui aveva trovato il riflesso di quello che sperava di essere, ma sapeva di non essere mai stata davvero.

Tra loro non c’era mai silenzio quando erano anime. Poi diventavano corpi, muti, che si rincorrevano nel ricordo dei discorsi infiniti.

Erano in una Parigi che è stata, che non è più, sulle tracce di amori proibiti e di relazioni profondamente effimere, radicate nell’alchimia tra le menti. Non vi era amore neanche tra i più grandi… era forse una profonda ammirazione o la brama di possedere l’altro e rubare ciò che di buono c’era.

Due individui, separati, girovaghi tra la polvere dei ricordi, tendando di rincorrere o provare ad afferrare qualcosa che fugge senza sosta. Il passato, le memorie, i ricordi: denti di leone che si sgretolano appena ci si avvicina con troppa foga.

Erano solo corpi che percepivano loro stessi e che si erano trovati per caso o per fortuna in una delle stanze sui tetti. Nessuna domanda, nessun significato. Solo la Parigi degli artisti e due corpi che si cercano nei vuoti dell’opposto.

Giulia Cavallaro

Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia

Il Conte di Vendramin

Il Conte di Vendramin era noto per la sua inestimabile bellezza e per il suo insulso desiderio di solitudine. Si diceva che un tempo il Conte avesse amato una donna che lo condusse alla rovina e che si fosse ritirato ormai da anni nella sua tenuta.

Un giorno, un bimbo di nome Malcom si inoltrò nella vasta proprietà di Vendramin, pensando di stare esplorando una selva sconosciuta. Al centro del territorio era situato un castello logoro e consumato, che agli occhi del bambino appariva imponente e spaventoso, con i rami degli arbusti che intrecciavano le due torri e i fiori appassiti che si rampicavano sulla porta, quasi a volerne impedire l’accesso.

Aleggiava, intorno alla fortezza, un clima tenebroso. Malcom, essendo stato ben educato, pensò di bussare prima di addentrarsi nel castello. Batté il pugno tre volte nell’unico spazio risparmiato dai fiori rampicanti.

Dopo qualche minuto di attesa, indugiando sulla soglia, Malcom pensò di non essere il benvenuto e credette di doversene andare senza poter raccontare a sua sorella nessuna straordinaria avventura. Improvvisamente i gigli appassiti si ritirarono dall’uscio, facendo scricchiolare la porta che lentamente s’apriva.

Il bimbo, con le labbra appena dischiuse per lo stupore, avanzò nel buio e le candele di un candelabro posto in alto al centro della sala, presero fuoco.

Il battito cardiaco di Malcom accelerò e la sua brama di avventura crebbe tanto da sovrastare il timore. “Quando ero solo un bambino, proprio come te, non avevo molti amici.” -disse una voce solenne dall’alto. Malcom alzò gli occhi per scoprire da chi provenisse ma sulle scale che portavano al piano superiore non vi era nessun signore, tantomeno un illustre Conte.

“La mia fedele compagna era la musica. Riusciva ad alleviare ogni mio dispiacere.” -proseguì la voce. “Qualche tempo più avanti, quando ero appena un giovane, ereditai la proprietà dei Vendramin, alla morte del mio anziano padre… ma perché non vi sedete giovanotto? Se siete giunto fin qui vorrete pur conoscere la disavventura di questo caro vecchio Conte.”

Il bambino obbedì e si sedette su una seggiola in legno anche se non si aspettava di dover raccontare a sua sorella un’impresa con un protagonista diverso da lui. La voce prese un respiro profondo e disse: “Ero un ragazzo solitario che godeva della vita a modo suo. Mi piaceva suonare il piano ma non avevo la pretesa che agli altri piacessero i miei componimenti , dunque non li riproponevo ai teatri, né chiedevo il consiglio dei grandi maestri; semplicemente conservavo in un cassetto il mio spartito per ogni volta che avrei sentito il bisogno di suonarlo.

In quel periodo venne a trovarmi la duchessa Lola di Ivanov per porgermi le sue condoglianze. Una donna caparbia, elegante e poco più grande di me. Si trattenne per la cena e durante il pasto mi rivelò il secondo motivo della sua visita: un matrimonio.

Pensava che se io l’avessi presa in moglie l’avrei salvata dal suo triste declino economico e che, così facendo, avrei onorato una promessa fatta al duca di Ivanov da mio padre.

Io risposi che non ero al corrente dell’accordo stipulato tra i nostri padri e che non era mio compito onorare alcuna promessa che non fosse mia. Lola cercò di convincermi ma la mia decisione fu irrevocabile: Non desidero avere alcuna compagna al mio fianco né per il momento, né per il futuro. In altre parole, non intendo sposarmi, né ora né mai duchessa.

Lola accolse il rifiuto come si accoglie una pugnalata alle spalle e mi avvertì: Il suo insulso desiderio di solitudine le costerà caro, giovane Conte.

“Ma signor Conte, perché mai le sarebbe costato caro non prendere una donna in moglie?”-lo interruppe Malcom. Vendramin non rispose e continuò il suo racconto.

“Passarono anni e il fascino della mia giovinezza s’andava dissolvendo. E ogni pomeriggio che sentivo cupo e desolato, mi sedevo al pianoforte con lo spartito sul leggio. Giorno dopo giorno le melodie mi risuonavano alle orecchie più come vibrazioni che come musica. Compresi, dopo qualche mese, che le mie orecchie stavano perdendo la percezione, non solo della musica ma di qualsiasi altro genere di suono.

Durante la vecchiaia mi resi conto che ero rimasto da solo e che nemmeno la musica mi avrebbe più tenuto compagnia. Lola di Ivanov, quando ero solo uno stolto giovanotto, voleva intendere che la solitudine non può che essere un desiderio assai sciocco per uno che nella vecchiaia l’avrebbe vissuta più come una punizione che come un’aspirazione.

E così anche la mia fedele compagna mi abbandonò, l’unica donna di cui mi fossi mai innamorato, l’unica che se avesse assunto le sembianze di un’umana, non avrei rifiutato a sposare.”

Malcom, incantato da una parte e dispiaciuto dall’altra per la disavventura di Vendramin, sentì il peso dell’impotenza poiché qualsiasi parola di conforto avesse pronunciato non sarebbe giunta alle sue orecchie e soprattutto non gli avrebbe restituito la sua amata devota. “Nessuno era più venuto a trovarmi in questi anni, se vi fa piacere, tornate pure. Conosco molte storie da potervi raccontare, sebbene io non possa più udirle.” Da quel giorno i gigli, che avevano ripreso un po’ di colore, lasciavano entrare Malcom ogni volta che si presentava alla porta battendo tre colpi su di essa e stando ben attento a bussare nello spazio non ricoperto dai fiori, naturalmente.

Alessandra Cutrupia

*Immagine in evidenza: illustrazione di Marco Castiglia.

*Il Conte di Vendramin è il primo di una serie di racconti.